Gli studenti sarebbero dovuti rientrare in classe il 13 maggio. Si temono nuovi focolai legati alla vita notturna nei locali di Itaewon, a Seul.
Non solo in Cina, anche in Corea del Sud torna la paura. Nel Paese si sono registrati 35 nuovi casi di coronavirus, il livello più alto dal 9 aprile, con le infezioni collegate alla vita notturna dei locali di Itaewon, a Seul, salite a 79.
«Alle 8:00 di questa mattina, sei ulteriori persone sono risultate positive al Covid-19, portando il totale dei pazienti legati a Itaewon a 79», ha affermato Yoon Tae-ho, funzionario del Central Disaster and Safety Countermeasures Headquarter, rimarcando i rischi di una ripresa dei focolai. I contagi accertati su scala nazionale sono saliti a 10.909.
Per questo Seul ha rinviato di una settimana la riapertura delle scuole inizialmente prevista per mercoledì 13 maggio.
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Suicidi, abusi, violenze. Lo showbiz sudcoreano è malato. E racconta molto di una società ipercompetitiva e piena di contraddizioni.
Cosa sta accadendo nel mondo luccicante e apparentemente leggero del Korean-pop o K-pop come lo conoscono e lo seguono, elettrizzati ed entusiasti, tantissimi adolescenti anche in Italia?
Sembra qualcosa di terribile a giudicare dall’inquietante record di suicidi che si riscontra in Corea del Sud tra le star del genere: quattro morti in due anni. L’ultimo a togliersi la vita, martedì, è stato Cha In Ha, membro del gruppo Surprise U, che è stato trovato senza vita nella sua abitazione di Seul.
Al momento sono ancora in corso le indagini per comprendere quali siano state esattamente le cause della morte. Nel frattempo la sua casa di produzione ha diffuso un comunicato nel quale ha confermato il decesso: «Siamo devastati», hanno scritto. Cha aveva solo 27 anni.
LA DRAMMATICA SCIA DI SUICIDI NEL K-POP
Il suo suicidio segue di poco quello della cantante Goo Hara, 28 anni, trovata morta nella sua casa di Seul solo sei mesi dopo essere sopravvissuta a un precedente tentativo di suicidio. E a sua volta la morte di Goo è arrivata sei settimane dopo che Sulli, un’altra star del K-pop e amica intima di Goo, si era tolta la vita a ottobre a 25 anni, dopo una lunga battaglia contro il bullismo online.
UN GENERE DIVENTATO FENOMENO GLOBALE
Ormai divenuto un fenomeno musicale globale, il K-pop, con l’aura di tragedia che sembra accompagnarlo, rischia di mettere a nudo i problemi ben più ampi di cui soffrono la gioventù e l’intera società sudcoreana. Il genere è diventato famoso a partire dal 1996 grazie alle boyband. Dopo una fase di recessione, nel 2003 è stato rilanciato a livello internazionale dai successi di gruppi come i TVXQ e i BoA. Negli ultimi due anni, soprattutto grazie ai social media, il K-Pop è riuscito a sfondare anche nelle classifiche degli Stati Uniti con i BTS, la prima band sudcorerana a vincere un Billboard Music Award.
LE GIOVANI STAR SONO SOTTOPOSTE A UNA INCREDIBILE PRESSIONE
L’ondata di suicidi del K-pop è iniziata quasi due anni fa quando Kim Jong-hyun, meglio noto come Jonghyun della band Shinee, si uccise nel dicembre del 2017, anche lui a soli 27 anni. Naturalmente i suicidi nel mondo della musica non sono una novità: il frontman dei Nirvana, Kurt Cobain, si suicidò nel 1994, e recentemente si sono tolte la vita due icone pop molto conosciute, con schiere di fan al loro seguito, Keith Flint dei Prodigy e Chester Bennington dei Linkin Park.
Ma ben quattro celebrità dello stesso settore, nello stesso Paese, che si tolgono la vita, giovanissime, in meno di due anni, indicano che probabilmente qualcosa è andato tragicamente storto nel K-pop. La pressione che il sistema esercita sulle sue stelle – in particolare le donne – è fortissima. Inizia nel momento in cui entrano nelle scuole di formazione da adolescenti: i telefoni cellulari vengono confiscati, sono tagliati fuori dalla famiglia e dagli amici ed è loro vietato di intrattenere normali relazioni giovanili. Le scuole proiettano un’immagine bizzarra e conflittuale, eternamente in bilico tra innocenza e disponibilità sessuale.
IL CYBERBULLISMO CONTRO SULLI E GOO
Sulli e Goo, per esempio, si sono dovute sottoporre a un esame continuo e impietoso delle loro vite private ed entrambe hanno dovuto affrontare dure critiche, attacchi e offese online: Sulli è stata messa alla gogna sui social, poco prima della sua morte, per aver postato su Instagram foto di un festino alcolico a casa sua, mentre Goo era stata coinvolta in una brutta storia di revenge-porn: un suo ex aveva postato online un filmato in cui facevano sesso.
LE ACCUSE DI ABUSI E VIOLENZE
I doppi standard che si applicano in Corea del Sud, ma non solo, alle stelle del K-pop, a seconda se siano maschi o femmine, sono evidenti. Mentre Sulli e Goo venivano prese di mira dal bullismo online, chiamate senza mezzi termini «troie» ed esortate a «vergognarsi» per i loro comportamenti, gli stessi fan in un evidente eccesso di misoginia non facevano una piega, invece, di fronte ad atteggiamenti a dir poco terrificanti di altre star maschili come Jung Joon-young e Choi Jong-hoon. I due ragazzi si sentivano così intoccabili e al di sopra della legge da arrivare a gestire una chat room dove condividevano filmati in cui facevano sesso con donne che sembravano in stato di incoscienza, molto probabilmente drogate. Con commenti del tipo: «Aspetta. È svenuta. Voglio vederla viva». «L’hai violentata, bravo», accompagnato da una faccina che ride.
LE INCHIESTE DELLA MAGISTRATURA
Il primo tentativo di suicidio di Goo, a maggio, avrebbe dovuto rappresentare un serio campanello d’allarme per le case discografiche di K-pop. Invece nessuno nel settore sembra essersi reso conto della tragedia che si stava consumando.
Le autorità di Seul, invece, sembrano aver preso sul serio questa crisi nel K-pop: i pubblici ministeri hanno incriminato Jung con l’accusa di violenza sessuale che potrebbe portarlo in carcere per un minimo di sette anni, mentre la “Legge di Sulli” contro il cyberbullismo verrà presentata il mese prossimo all’Assemblea nazionale.
L’UNICA PRIORITÀ È FARE SOLDI
Forse non sapremo mai quale sostegno è stato offerto a Goo dopo il suo primo tentativo di suicidio a maggio, se qualcuno ha cercato di aiutarla. Di certo l’unica notizia che, negli ultimi sei mesi, i fan di K-pop nel mondo hanno avuto della giovanissima star è stata quella diffusa due settimane fa, quando il suo manager ha tentato di rilanciarne la carriera attraverso un mini-tour che comprendeva una sola data in Giappone. Nemmeno una parola sulle difficoltà e il disagio che stava attraversando la giovane stellina; il che suggerisce con ogni evidenza che la massima priorità era quella di riportarla sul palco e fare soldi, non certo risolvere i problemi che l’avevano spinta una prima volta a provare di togliersi la vita. Tentativo alla fine riuscito.
UNO SHOWBIZ MALATO
Considerando le voci che circolano da tempo sugli abusi sessuali subiti dalle giovani star dello showbiz locale, è sorprendente che il bilancio delle vittime non sia addirittura più alto. Nel 2009 l’attrice 29enne Jang Ja-yeon si è tolta la vita lasciando un biglietto in cui affermava di essere stata costretta a fare sesso con più di 30 uomini famosi. E nel 2013, il Ceo di Open World Entertainment, Jang Seok-woo, è stato processato e incarcerato per aver violentato 11 studentesse.
LE CONTRADDIZIONI DELLA SOCIETÀ SUDCOREANA
Si potrebbe anche sostenere che molti fan di K-pop hanno una parte di responsabilità in questa ondata di suicidi. Attraverso l’odio e gli attacchi rivolti ai loro beniamini sui social, infatti, hanno finito per minare il fragile equilibrio di questi protagonisti-bambini cresciuti troppo in fretta. Ma le tragiche morti di ragazzi e ragazze troppo giovani, troppo famosi e alla fine troppo insicuri e soli, fanno emergere tutte le contraddizioni di una società ipercompetitiva, dove un diploma universitario è considerato un prerequisito anche per trovare un lavoro comune. Una società che rischia di pagare un prezzo devastante non solo nel mondo luccicante dello spettacolo, ma in ogni settore per la mancanza delle politiche sociali necessarie a combattere il fenomeno dilagante della depressione, in un Paese che ha il più alto tasso di suicidi tra le nazioni ricche del Pianeta.
E fino a quando l’industria del K-pop, in una Corea del Sud per molti versi ancora patriarcale e misogina, non smetterà di trattare le sue giovani star come oggetti di consumo per guadagnare denaro, continuerà ad avere le mani sporche del loro sangue.
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Suicidi, abusi, violenze. Lo showbiz sudcoreano è malato. E racconta molto di una società ipercompetitiva e piena di contraddizioni.
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Sembra qualcosa di terribile a giudicare dall’inquietante record di suicidi che si riscontra in Corea del Sud tra le star del genere: quattro morti in due anni. L’ultimo a togliersi la vita, martedì, è stato Cha In Ha, membro del gruppo Surprise U, che è stato trovato senza vita nella sua abitazione di Seul.
Al momento sono ancora in corso le indagini per comprendere quali siano state esattamente le cause della morte. Nel frattempo la sua casa di produzione ha diffuso un comunicato nel quale ha confermato il decesso: «Siamo devastati», hanno scritto. Cha aveva solo 27 anni.
LA DRAMMATICA SCIA DI SUICIDI NEL K-POP
Il suo suicidio segue di poco quello della cantante Goo Hara, 28 anni, trovata morta nella sua casa di Seul solo sei mesi dopo essere sopravvissuta a un precedente tentativo di suicidio. E a sua volta la morte di Goo è arrivata sei settimane dopo che Sulli, un’altra star del K-pop e amica intima di Goo, si era tolta la vita a ottobre a 25 anni, dopo una lunga battaglia contro il bullismo online.
UN GENERE DIVENTATO FENOMENO GLOBALE
Ormai divenuto un fenomeno musicale globale, il K-pop, con l’aura di tragedia che sembra accompagnarlo, rischia di mettere a nudo i problemi ben più ampi di cui soffrono la gioventù e l’intera società sudcoreana. Il genere è diventato famoso a partire dal 1996 grazie alle boyband. Dopo una fase di recessione, nel 2003 è stato rilanciato a livello internazionale dai successi di gruppi come i TVXQ e i BoA. Negli ultimi due anni, soprattutto grazie ai social media, il K-Pop è riuscito a sfondare anche nelle classifiche degli Stati Uniti con i BTS, la prima band sudcorerana a vincere un Billboard Music Award.
LE GIOVANI STAR SONO SOTTOPOSTE A UNA INCREDIBILE PRESSIONE
L’ondata di suicidi del K-pop è iniziata quasi due anni fa quando Kim Jong-hyun, meglio noto come Jonghyun della band Shinee, si uccise nel dicembre del 2017, anche lui a soli 27 anni. Naturalmente i suicidi nel mondo della musica non sono una novità: il frontman dei Nirvana, Kurt Cobain, si suicidò nel 1994, e recentemente si sono tolte la vita due icone pop molto conosciute, con schiere di fan al loro seguito, Keith Flint dei Prodigy e Chester Bennington dei Linkin Park.
Ma ben quattro celebrità dello stesso settore, nello stesso Paese, che si tolgono la vita, giovanissime, in meno di due anni, indicano che probabilmente qualcosa è andato tragicamente storto nel K-pop. La pressione che il sistema esercita sulle sue stelle – in particolare le donne – è fortissima. Inizia nel momento in cui entrano nelle scuole di formazione da adolescenti: i telefoni cellulari vengono confiscati, sono tagliati fuori dalla famiglia e dagli amici ed è loro vietato di intrattenere normali relazioni giovanili. Le scuole proiettano un’immagine bizzarra e conflittuale, eternamente in bilico tra innocenza e disponibilità sessuale.
IL CYBERBULLISMO CONTRO SULLI E GOO
Sulli e Goo, per esempio, si sono dovute sottoporre a un esame continuo e impietoso delle loro vite private ed entrambe hanno dovuto affrontare dure critiche, attacchi e offese online: Sulli è stata messa alla gogna sui social, poco prima della sua morte, per aver postato su Instagram foto di un festino alcolico a casa sua, mentre Goo era stata coinvolta in una brutta storia di revenge-porn: un suo ex aveva postato online un filmato in cui facevano sesso.
LE ACCUSE DI ABUSI E VIOLENZE
I doppi standard che si applicano in Corea del Sud, ma non solo, alle stelle del K-pop, a seconda se siano maschi o femmine, sono evidenti. Mentre Sulli e Goo venivano prese di mira dal bullismo online, chiamate senza mezzi termini «troie» ed esortate a «vergognarsi» per i loro comportamenti, gli stessi fan in un evidente eccesso di misoginia non facevano una piega, invece, di fronte ad atteggiamenti a dir poco terrificanti di altre star maschili come Jung Joon-young e Choi Jong-hoon. I due ragazzi si sentivano così intoccabili e al di sopra della legge da arrivare a gestire una chat room dove condividevano filmati in cui facevano sesso con donne che sembravano in stato di incoscienza, molto probabilmente drogate. Con commenti del tipo: «Aspetta. È svenuta. Voglio vederla viva». «L’hai violentata, bravo», accompagnato da una faccina che ride.
LE INCHIESTE DELLA MAGISTRATURA
Il primo tentativo di suicidio di Goo, a maggio, avrebbe dovuto rappresentare un serio campanello d’allarme per le case discografiche di K-pop. Invece nessuno nel settore sembra essersi reso conto della tragedia che si stava consumando.
Le autorità di Seul, invece, sembrano aver preso sul serio questa crisi nel K-pop: i pubblici ministeri hanno incriminato Jung con l’accusa di violenza sessuale che potrebbe portarlo in carcere per un minimo di sette anni, mentre la “Legge di Sulli” contro il cyberbullismo verrà presentata il mese prossimo all’Assemblea nazionale.
L’UNICA PRIORITÀ È FARE SOLDI
Forse non sapremo mai quale sostegno è stato offerto a Goo dopo il suo primo tentativo di suicidio a maggio, se qualcuno ha cercato di aiutarla. Di certo l’unica notizia che, negli ultimi sei mesi, i fan di K-pop nel mondo hanno avuto della giovanissima star è stata quella diffusa due settimane fa, quando il suo manager ha tentato di rilanciarne la carriera attraverso un mini-tour che comprendeva una sola data in Giappone. Nemmeno una parola sulle difficoltà e il disagio che stava attraversando la giovane stellina; il che suggerisce con ogni evidenza che la massima priorità era quella di riportarla sul palco e fare soldi, non certo risolvere i problemi che l’avevano spinta una prima volta a provare di togliersi la vita. Tentativo alla fine riuscito.
UNO SHOWBIZ MALATO
Considerando le voci che circolano da tempo sugli abusi sessuali subiti dalle giovani star dello showbiz locale, è sorprendente che il bilancio delle vittime non sia addirittura più alto. Nel 2009 l’attrice 29enne Jang Ja-yeon si è tolta la vita lasciando un biglietto in cui affermava di essere stata costretta a fare sesso con più di 30 uomini famosi. E nel 2013, il Ceo di Open World Entertainment, Jang Seok-woo, è stato processato e incarcerato per aver violentato 11 studentesse.
LE CONTRADDIZIONI DELLA SOCIETÀ SUDCOREANA
Si potrebbe anche sostenere che molti fan di K-pop hanno una parte di responsabilità in questa ondata di suicidi. Attraverso l’odio e gli attacchi rivolti ai loro beniamini sui social, infatti, hanno finito per minare il fragile equilibrio di questi protagonisti-bambini cresciuti troppo in fretta. Ma le tragiche morti di ragazzi e ragazze troppo giovani, troppo famosi e alla fine troppo insicuri e soli, fanno emergere tutte le contraddizioni di una società ipercompetitiva, dove un diploma universitario è considerato un prerequisito anche per trovare un lavoro comune. Una società che rischia di pagare un prezzo devastante non solo nel mondo luccicante dello spettacolo, ma in ogni settore per la mancanza delle politiche sociali necessarie a combattere il fenomeno dilagante della depressione, in un Paese che ha il più alto tasso di suicidi tra le nazioni ricche del Pianeta.
E fino a quando l’industria del K-pop, in una Corea del Sud per molti versi ancora patriarcale e misogina, non smetterà di trattare le sue giovani star come oggetti di consumo per guadagnare denaro, continuerà ad avere le mani sporche del loro sangue.
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