Figlio di un antifascista pugliese, aveva 86 anni.
Si è spento la sera del 21 dicembre a Parigi lo stilista Emanuel Ungaro. Aveva 86 anni ed era uno dei grandi della moda del XX Secolo. Nato in Francia, ad Aix en-Provence, il 13 febbraio 1933, Ungaro aveva chiare origini italiane. Il padre, pugliese di Francavilla Fontana, era un antifascista e fu costretto a emigrare in Provenza durante il Ventennio. Ungaro lascia la moglie Laura Bernabei e la figlia Cosima. I funerali sono in programma la mattina del 23 dicembre a Parigi.
GLI INIZI COL PADRE
Ungaro era stato avviato all’attività sartoriale proprio dal padre, che l’aveva preso come apprendista fin dalla più tenera età, a nove anni. Dalla Provenza si trasferì prima a Parigi e poi a Barcellona, dove cominciò a lavorare con Balenciaga. Con lui passò sei anni, prima di andare a lavorare per altri due con Courrèges. Una “gavetta” che l’avrebbe portato a creare la sua griffe nel 1965, arrivando a presentare la sua prima collezione a 32 anni.
TRA I GRANDI DELLA MODA PARIGINA
Tornato a Parigi, Ungaro aprì il suo negozio principale all’inizio dell’Avenue Montaigne, arrivando negli anni Ottanta a essere considerato uno dei cinque nomi più importanti dell’alta moda parigina. La sua azienda è stata acquistata dal gruppo italiano Ferragamo nel 1996. A 63 anni, Ungaro decise di ritirarsi dalle gestione del marchio, per poi allontanarsi definitivamente dalla moda il 26 maggio 2004, dopo un’attività personale durata 35 anni. Nel 2012 la produzione e distribuzione del marchio è ripresa sotto l’egida di un’altra azienda italiana, la Aeffe.
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Figlio di un antifascista pugliese, aveva 86 anni.
Si è spento la sera del 21 dicembre a Parigi lo stilista Emanuel Ungaro. Aveva 86 anni ed era uno dei grandi della moda del XX Secolo. Nato in Francia, ad Aix en-Provence, il 13 febbraio 1933, Ungaro aveva chiare origini italiane. Il padre, pugliese di Francavilla Fontana, era un antifascista e fu costretto a emigrare in Provenza durante il Ventennio. Ungaro lascia la moglie Laura Bernabei e la figlia Cosima. I funerali sono in programma la mattina del 23 dicembre a Parigi.
GLI INIZI COL PADRE
Ungaro era stato avviato all’attività sartoriale proprio dal padre, che l’aveva preso come apprendista fin dalla più tenera età, a nove anni. Dalla Provenza si trasferì prima a Parigi e poi a Barcellona, dove cominciò a lavorare con Balenciaga. Con lui passò sei anni, prima di andare a lavorare per altri due con Courrèges. Una “gavetta” che l’avrebbe portato a creare la sua griffe nel 1965, arrivando a presentare la sua prima collezione a 32 anni.
TRA I GRANDI DELLA MODA PARIGINA
Tornato a Parigi, Ungaro aprì il suo negozio principale all’inizio dell’Avenue Montaigne, arrivando negli anni Ottanta a essere considerato uno dei cinque nomi più importanti dell’alta moda parigina. La sua azienda è stata acquistata dal gruppo italiano Ferragamo nel 1996. A 63 anni, Ungaro decise di ritirarsi dalle gestione del marchio, per poi allontanarsi definitivamente dalla moda il 26 maggio 2004, dopo un’attività personale durata 35 anni. Nel 2012 la produzione e distribuzione del marchio è ripresa sotto l’egida di un’altra azienda italiana, la Aeffe.
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Il gender gap priva le giovani di modelli di riferimento sui testi scolastici. Così quelle che ce la fanno diventano dei simboli. Sarebbe bello che non fosse più così.
«Quando sono arrivata da Dior, nessuno si domandava se avessi talento o meno. Tutti però osservavano come fossi la prima donna nominata alla direzione creativa della maison». A dire il vero lo hanno anche scritto. In tanti. Una volta ce lo disse perfino il tassista che ci accompagnava alla sfilata, aggiungendovi una punta di derisione sciovinista: «Ah, chez Dior, on avait juste besoin d’une italienne, et une femme en plus». Non abbiamo di certo mai mancato di scrivere quel che pensassimo di ogni singola collezione di Maria Grazia Chiuri, che è una manager di grande successo nonostante talvolta ci sembri che vada un po’ troppo per le spicce sull’approfondimento del pensiero creativo, ma quella volta ci accapigliammo con l’autista.
UNA “DOPPIA OFFESA”
La doppia offesa – donna, italiana – era intollerabile a prescindere. Immaginiamo che cosa debbano essere stati quei primi mesi, e che cosa debba essere tuttora, a quasi quattro anni dalla nomina, la vita “chez Dior”, e questo nonostante la grandiosa risposta al suo lavoro in termini di vendita e di notorietà del marchio. Prima di lei, e a dispetto del genio assoluto di John Galliano, Dior era un marchio amato dalle signore, relativamente difficile da portare, complesso da intelligere. Adesso, sono le ragazzine a desiderare ogni singolo abito e accessorio, a sognare Dior per la festa del diciottesimo e per il dono del compleanno, e dunque non possiamo che rallegrarci con il lavoro di Chiuri e con la guida sapientissima della maison da parte di Pietro Beccari.
LA LEZIONE DI CHIURI
Invitata per la lecture di apertura del Master in Science of Fashion dell’Università La Sapienza, di fronte agli studenti internazionali, tantissimi ed entusiasti, che affollavano l’Aula Magna di Lettere, la mattina del 13 dicembre Maria Grazia Chiuri ha parlato a lungo della barriera culturale che, di certo non solo in Italia, prevede ancora che una donna sia giudicata innanzitutto in quanto tale, cioè come portatrice e simbolo di un genere prima che, di un talento o di una professione, portando ad esempio il suo concretissimo e volenteroso contributo a un processo di cambiamento che, siamo oneste, negli ultimi 40 anni non ha fatto grandi passi avanti.
MANCANO MODELLI SUI LIBRI DI SCUOLA
In queste righe abbiamo scritto a lungo, quasi ogni settimana, delle cause di queste difficoltà, additando via via le carenze di testi scolastici che, dalle scuole elementari in poi, portino all’attenzione delle bambine e delle pre-adolescenti esempi di ruolo e modelli ai quali ispirarsi e da cui trarre forza (davvero non è pensabile che, in un panorama foltissimo di intellettuali, le uniche poetesse cinquecentesche segnalate sui testi in adozione presso i licei siano Gaspara Stampa e Veronica Franco, e quest’ultima in particolare con una strizzatina d’occhio nei riguardi della sua posizione di cortigiana), ma anche le cause per così dire endogene. Autoindotte. Il semplice fatto che le donne si mostrino, che ci mostriamo tutte, acquiescenti nei confronti di chi sottolinea che siamo «le prime» a ottenere una certa carica, e grate per averla ottenuta, di solito a carissimo prezzo: direttori creativi di quel mondo molto maschile che è l’alta moda, direttori di quotidiani, amministratori delegati di multinazionali dell’acciaio, presidenti di istituzioni fondamentali per lo sviluppo (Francesca Bria, Fondo Innovazione) o della Corte Costituzionale.
UNA PRESSIONE IN PIÙ
Ci ha colpito molto la gaffe emotiva di una donna pure fortissima come Marta Cartabia che, al momento della nomina alla massima carica giuridica nazionale, ha dichiarato di aver «rotto il vetro di cristallo»: nel piccolo qui pro quo mostrava non solo di sentire il peso del proprio ruolo, ma anche il suo portato simbolico: non era solo «il nuovo presidente della Corte Costituzionale». Era «la prima donna» ad esserlo diventato. Che è risultato importante, importantissimo. Ma lo sarà ancora di più quando non dovremo usare il marker del genere per festeggiarlo.
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Al tempo della civiltà dell'immagine ha deciso di sparire, lasciando la sua casa di moda. Ora un documentario dà voce al più concettuale degli stilisti. E a noi offre una lezione.
Mentre aspettavamo di conoscere i risultati economici del Black Friday europeo 2019, una giornata di saldi natalizi anticipati senza che si sia speso nemmeno un euro per il tacchino di Thanksgiving, abbiamo avuto modo di apprezzare il secondo documentario prodotto su Martin Margiela, «il Banksy della moda» come ormai viene chiamato, dopo l’affascinante short movie che Alison Charnick girò nel 2015 con il sostegno di Yoox, cioè di uno dei protagonisti assoluti della corsa agli acquisti ribassati.
DELL’UOMO CHE RIVOLUZIONÒ LO STILE CI RESTA SOLO LA VOCE
Se il filmato di quattro anni fa si intitolava The artist is absent, richiamo speculare alla celebre performance di Marina Abramovic, ed era affidato alle testimonianze dei giornalisti, dei critici e degli artisti che hanno collaborato a vario titolo con lo stilista che un’intera generazione di giovani conosce solo per nome, questo nuovo film diretto da Reiner Holzemer permette di ascoltare almeno la voce dell’uomo che, dopo aver rivoluzionato la moda al pari di Rei Kawakubo, nel 2009 ha lasciato la propria azienda nelle mani di Renzo Rosso ed è letteralmente sparito nel nulla.
Già lo si vedeva pochissimo prima e bisognava appostarsi fuori dai suoi uffici di Parigi per giornate intere per coglierne lo sguardo; dopo la cessione a OtB e, si dice, mesi di contrasto con mr Diesel, Margiela è diventato l’equivalente di J. Salinger, anzi peggio perché dell’autore del Giovane Holden almeno si conosceva l’indirizzo di casa, benché nessuno sia mai riuscito a varcarne il cancello. Martin Margiela in his own wordsè stato presentato pochi giorni fa al festival del documentario a New York (sì, insieme con Unposted, starring Chiara Ferragni, preferiremmo evitare i paragoni), e non si sa ancora se e quando farà la sua comparsa in Italia.
«L’ANONIMATO È MOLTO IMPORTANTE, MI DÀ EQUILIBRIO»
Due affermazioni del grande stilista belga, però, possono diventare oggetto di riflessione e spunti di conversazione interessanti in questi nostri tempi di social mania, di autoscatti reiterati e di caccia ai like, di questi nostri continui e festosi “Instagram al tramonto”, come da titolo del nuovo, interessantissimo saggio di Paolo Landi sull’ascesa del media più vanitoso ed esibizionista che sia mai stato inventato. Se uno degli uomini più interessanti della moda degli ultimi trent’anni dice che per lui «l’anonimato è molto importante» e che di «essere una celebrità gli è sempre importato zero», vale la pena di capire il perché. Lo spiega lui stesso, voce off di se stesso: «Mi aiuta, essere uguale a tutti gli altri, mi dà equilibrio. A me interessa che la gente ami quel che faccio, non la mia faccia».
MICHELE, PRADA, ARMANI: I POCHI CHE DICONO NO ALL’APPARIRE
Se vi sembra poco, common knowledge, provate a pensare all’evoluzione che la moda e i suoi stilisti hanno subito negli ultimi centocinquant’anni, da Charles Frederick Worth a oggi, e agli altri due documentari presentati a New York fra i tanti realizzati in questi anni: Ferragni, appunto, e Ralph Lauren. Nessuno è sfuggito, anche post mortem come Yves Saint Laurent; qualcuno ha esagerato, autocelebrandosi prima del tempo e rimettendoci le penne professionali come Frida Giannini. Tutti trascorrono il tempo fra feste, eventi, presentazioni e selfie. Fra i pochi che mantengano il basso profilo, nonostante la ricchezza della moda che costruisce, c’è Alessandro Michele. Sul suo account Instagram, Lallo25, è davvero difficile trovare selfie, ed è noto che non ami rilasciare interviste. Idem Miuccia Prada, che da sempre esce al termine delle sue sfilate quasi a mezza figura: una gamba, un braccio, la testa e via. Giorgio Armani si concede con parsimonia, pur essendo garbato e disponibilissimo con gli sconosciuti che lo fermano per strada. Per quasi tutti gli altri, la presenza sui social, gestita da account manager, oppure agli eventi del brand, proprio o di appartenenza, è diventata una parte integrante della professione e dello speciale “culto dello stilista” che va costruendosi e sviluppandosi dal giorno in cui il baffuto inglese decise che le signore della buona società parigina avrebbero dovuto indossare quello che diceva lui, e a carissimo prezzo.
DAL PRIMO BOOM DEI NOVANTA ALL’ESAURIMENTO
Dalla metà degli Anni Ottanta fino al suo primo boom, nei Novanta, e ancora oggi, il belga Margiela, di cui tanti ignorano perfino la pronuncia corretta del cognome (volendo, su Youtube trovate un divertentissimo duo che si esercita), è amatissimo nel mondo della moda per il concettualismo delle sue creazioni, che si materializza in proporzioni oversize, decostruzione, riciclo e uso totalizzante dei tessuti (fu fra i primi a mettere le cimase a vista), linee e capi “piatti”, quasi bidimensionali, oltre che per i suoi iconici stivali tabi, ispirati all’estetica giapponese. Non è un caso, infatti, che in Giappone Margiela funzioni meglio che in Italia, dove la maggior parte delle donne ama ancora presentarsi scollata-strizzata-popputa, quasi fosse un marchio di origine doc della merce, e non è affatto per caso che, dopo la sua uscita dalla Maison eponima, Rosso abbia chiamato alla direzione creativa John Galliano, un altro visionario delle proporzioni. L’etichetta bianca, senza nome, dei suoi capi, un logo-no logo fermato da quattro punti in cotone bianco, è diventata un simbolo della moda colta, raffinata, intellettuale. Da cui, però, il suo stesso interprete ha preferito staccarsi: «Sentivo troppa pressione attorno a me, ero stanco del sistema, di dover creare così tante collezioni all’anno. Mi sono ammalato. Ho avuto bisogno di un anno solo per recuperare dallo stress», dice nel documentario. Per tornare a volersi occupare di moda ne ha messi altri nove. Anche questo lo lega a Galliano: l’esaurimento.
«Senti di aver detto tutto quello che hai da dire nella moda», gli chiede il regista. «No». «Non credo che tornerò mai come direttore creativo di una maison o di un marchio, ma credo che se una grande società volesse una linea firmata da me, ecco, questo potrebbe accadere». Potrebbe essere una bella notizia, ma resta da vedere che cosa questo mondo iper connesso possa ancora volere dall’uomo scomparso. Jean Paul Gaultier, il suo boss nei primi anni di carriera, dice che «la sua capacità di sottrarsi, di non apparire, è molto potente». Ma monsieur Gaultier è un quasi settantenne che, a dispetto del proprio spirito iconoclasta, ha inevitabilmente la mentalità di un signore nato poco dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma che cosa possono pensare, i ventenni, di un uomo che produce moda concretamente astratta, rifiutandosi di spiegarla? Giocare fra assenza e presenza è l’esercizio più difficile che attende l’essere umano o, meglio, l’animale sociale, dalla nascita fino alla morte, come emerge chiaramente anche dall’ultimo saggio di Lorenza Foschini attorno al carteggio fra Marcel Proust e il musicista Reynaldo Hahn, «Il vento attraversa le nostre anime», da cui capiamo quanto fosse difficile per un presenzialista per mestiere e per passione come l’autore della Recherche saper assecondare l’esigenza di intimità e gli spazi intimi dell’amico e, per qualche anno, amante (il libro, già di successo, verrà presentato il 3 dicembre alla Società Dante Alighieri di Roma, in caso vi trovaste in città non perdetelo). Saper scomparire nella civiltà dell’immagine è un’arte ancora più sottile. E l’anonimato assoluto un lusso davvero per pochi. Adesso Margiela vuole tornare. Ma non sa come farlo senza abbattere il proprio mito.
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Il patron del lusso ha acquistato strapagandolo il marchio reso celebre dal romanzo di Capote e dal film. Ma che negli anni ha perso il suo fascino presso i millenial riducendosi a rivenditore di oggetti per la casa e gadget d’argento per signori di mezza età.
Dopo otto anni di tentativi Bernard Arnault ha comprato Tiffany, strapagandolo, e siamo in attesa di capire che straordinaria immissione di denaro dovrà fare per recuperarne l’immagine e il posizionamento, perché dubitiamo che voglia mantenerlo nel novero del produttore di oggetti per la casa e gadget d’argento per signori di mezza età in cui è scivolato negli ultimi decenni, l’ultimo in particolare e in particolare in Europa.
UNA LEGGENDA APPANNATA
Anni di sonaglini per neonati, di medagliette a 160 euro e di tagliasigari per nostalgici hanno polverizzato lo straordinario capitale di marca dato da quel titolo letterario e geniale 50 anni fa. E i volenterosi tentativi di Daniella Vitale per rivitalizzare la marca nel Vecchio Continente fino a oggi non sono stati coronati da clamorosi successi (la chief brand officer, prima signora ai vertici di Tiffany dalla fondazione nel 1837, è arrivata nel 2017 in Fifth Avenue dalla Madison, e per la precisione da Barneys, il grande magazzino fallito, diciamo non proprio un biglietto da visita eccezionale).
UNA COLAZIONE CHE HA PERSO APPEAL
Cartier, come rilevava l’analista indiana Rhada Chahda qualche anno fa, è sinonimo di lusso nel gioiello soprattutto in Asia. Altrove, le reazioni sono “mixed”. E poi ci sono i giovani, anzi, ci sono innanzitutto loro.
Chiedete a un 20enne se abbia mai letto Colazione da Tiffany e 99 volte su 100 vi dirà di no. Di solito ignora perfino che all’origine del film vi sia un racconto. Truman Capote, il White Ball, i cigni: chi sono, anzi, chi sono stati. Anche sul celeberrimo film, che pure del racconto ha poco e niente e sembra fatto solo per soddisfare la pruderie americana degli Anni 60, le nozioni sono vaghe e confuse (il tema di fondo è quello di Peccato che sia una sgualdrina, commedia elisabettiana di John Ford, ma sfidiamo chiunque a capire dalla sceneggiatura come Audrey Hepburn si paghi gli abiti di alta sartoria).
I MILLENNIAL NON CONOSCONO LA STORIA DEL MARCHIO NÉ IL ROMANZO
Per tutto il resto, cioè per le pietre, i gioielli, i nomi di riferimento a livello mondiale sono altri. Marilyn Monroe non lo citerebbe più prima di «Cartier» e di Harry Winston «tell me all about it».
La mappa del posizionamento mondiale della gioielleria è profondamente cambiato dai tempo dei diamanti che sono i migliori amici delle ragazze, e ai vertici di questa piramide si trovano Van Cleef&Arpels, ancora Cartier oppure, Bulgari, che in questa ultima acquisizione di Arnault entra certamente più di quanto si creda, visto che l’amministratore delegato Alessandro Bogliolo è un ex-Bulgari e due anni fa venne chiamato in Tiffany da Francesco Trapani, nipote di Paolo e Nicola Bulgari, che per molti anni guidò l’azienda di famiglia prima di cederla ad Arnault.
LA SCELTA STRATEGICA DI LVMH
Il duo Bogliolo-Trapani ha certamente favorito il deal, benché il prezzo di 135 dollari per azione pagato dal patron di Lvmh Bernard Arnault, con un premio di maggioranza di 9,5 dollari rispetto al valore di chiusura del titolo di venerdì scorso a 125,5 dollari (li pagherà cash per una transazione totale di 16,2 miliardi di dollari che verrà completata entro i primi mesi del 2020), rappresentano un prezzo amateur. Da collezionista. Per Lmvh si tratta della maggiore acquisizione mai effettuata, superiore anche all’acquisto dell’ultima quota di Christian Dior nel 2017. Addirittura superiore di tre volte rispetto a quanto pagato per rilevare Bulgari nel 2011 (4,3 miliardi di euro), quando l’approccio fu simile anche nelle tempistiche “da week end”.
TIFFANY, RICAVI IN DISCESA
«L’acquisizione di Tiffany», si legge nella nota diffusa, «rafforzerà la posizione di Lvmh nella gioielleria e aumenterà ulteriormente la sua impronta negli Stati Uniti. L’aggiunta di Tiffany trasformerà la divisione Watches & Jewelry di Lvmh e va a completare le 75 distinguished houses del gruppo», che nel settore specifico comprendono per l’appunto Bulgari, ma anche Tag Heuer, Zenith, Fred, Hublot, Chaumet. Una scelta, dunque, strategica, effettuata sia per accorciare le distanze dal gruppo Richemont (appunto Cartier e Van Cleef) sia per rafforzarsi nel segmento, fra i più profittevoli del 2018, con una crescita del 7%. Nello stesso periodo, Tiffany è andata in controtendenza; nei primi sei mesi del 2019 ha perso il 3% dei ricavi, scesi a 2,1 miliardi di dollari.
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Il brand di lusso si è scusato dopo che un capo della capsule collection William De Morgan è stato paragonato alle uniformi dei campi di concentramento. E ha ritirato il completo dalle vendite.
Probabilmente le intenzioni erano delle migliori, ma lo scivolone di cattivo gusto non è passato inosservato. Una casa di moda di lusso si è scusata dopo essere stata criticata per aver venduto un completo da donna piuttosto simile alle uniformi dei campi di concentramento dell’Olocausto. Il brand è Loewe, un marchio di lusso con sede in Spagna, che ha venduto l’abito come parte della sua capsule collection William De Morgan, disponibile dal 14 novembre, che si ispira al ceramista britannico del XIX secolo. Molti che hanno criticato l’outfit – incluso Diet Prada, account di watchdog dell’industria della moda su Instagram – hanno citato le somiglianze con le uniformi dei campi di concentramento indossate dalle vittime dell’Olocausto, che consistevano anche in camicie abbottonate a righe verticali e pantaloni abbinati. Loewe ha presentato le scuse tramite l’account Instagram del marchio (che conta quasi due milioni di follower) e da allora ha rimosso i prodotti dal suo sito Web. «È stato portato alla nostra attenzione che uno dei nostri look poteva essere frainteso come riferito a uno dei momenti più odiosi della storia dell’umanità», si legge nella nota dell’azienda.
«Non è mai stata nostra intenzione e ci scusiamo con
chiunque abbia pensato che siamo stati insensibili al tema. I prodotti
presentati sono stati rimossi dalla nostra offerta commerciale». Non è
la prima volta che i marchi vengono presi di mira per la vendita di
abiti che ricordano l’Olocausto. Anche Zara, brand spagnolo proprio come Loewe, si era scusata nel 2014 per aver venduto una maglietta a strisce con una stella gialla,
che ricordava sempre le uniformi indossate dai detenuti dei campi di
concentramento ebraici. La compagnia aveva affermato che la maglietta
era in realtà ispirata alle ‘star dello sceriffo dei film western
classici’, ma travolta dalle polemiche ha comunque ritirato il capo poche ore dopo che era stato messo in vendita.
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