Nuovo governo, vecchi problemi: la cura Kazimi salverà l’Iraq?

Dalle tensioni settarie all'eterno scontro Usa-Iran: l'esecutivo di Kazimi ha convinto il parlamento. Riuscirà a fare lo stesso con i manifestanti?

Ci sono voluti mesi per riuscire ad approdare a un nuovo esecutivo dalle ceneri del governo guidato da Abdul-Mahdi, 77enne e già vice-presidente e ministro del petrolio e delle finanze, travolto dall’ondata delle manifestazioni di protesta da un lato e dalla repressione stragista che ne è seguita. Si è trattato di un approdo sofferto costato il fallimento dei due tentativi portati avanti per formare un nuovo governo (Mohammad Tawfiq Allawi, ex ministro delle Telecomunicazioni, con cittadinanza britannica e sostenuto dai partiti vicini all’Iran, e poi Adnan Zurfi) . È stato il terzo, il capo dell’intelligence interna, Mustafa Kazimi a farcela dopo alcuni aggiustamenti dell’ultima ora e a ottenere il necessario voto favorevole del parlamento sulla nuova compagine governativa. Mancano ancora due ministri di peso, agli Esteri e al Petrolio, ma è opinione piuttosto condivisa che si sia finalmente cominciato a giocare la partita della governabilità.

LE LOGICHE SETTARIE E LA SPARTIZIONE DEL POTERE

Su quale base? Fondamentalmente su quella identificata con le parole muhahasa ta’fia che rispecchiano un sistema che noi chiameremmo di consociativismo, cioè di riparto del potere in tutte le articolazioni politico-istituzionali del Paese fra i rappresentanti etnico-settari – curdi, islamici sciiti e islamici sunniti – oppure, se si vuole, un sistema di censo virtuale costruito sulla divisione del lavoro secondo la valutazione della percentuale della popolazione afferente, rispettivamente, agli sciiti, ai sunniti e ai curdi. Intendiamoci, questo sistema non è un’esclusiva dell’Iraq in Medio Oriente e altrove; però è stato codificato nel lontano 1992 da una coalizione di gruppi politici in esilio anticipando di molto l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti e della sua occupazione dopo il 2003. E ciò avvenne nell’aspettativa che la regola del partito unico del regime baathista sarebbe più potuto tornare e che nessun altro gruppo etnico o settario sarebbe stato in condizione di prevalere sugli altri. Nobile intento ma pessima soluzione, considerata col senno di poi, anche perché avallata nel tempo sia dagli Usa che da Teheran come quella che meglio garantiva la politica di influenza cui entrambi puntavano invece di propiziare la creazione di condizioni suscettibili di promuovere il consenso in base alla cittadinanza.

Ogni governo succedutosi dopo la promulgazione della Costituzione del 2005 ha sventolato la bandiera dell’inclusività (leggasi consociativismo)

Ebbene, anche Kazimi ha dovuto piegarsi a questa logica per affermare il suo governo e il suo premierato in parlamento. Ed è legittimo temere che questa “servitù” non prometta nulla di veramente costruttivo in direzione degli obiettivi di riforma del sistema complessivo di potere annunciati al Paese nel momento in cui aveva accettato l’incarico del presidente della Repubblica. Del resto, ogni governo succedutosi dopo la promulgazione della Costituzione del 2005 ha sventolato la bandiera dell’inclusività (leggasi consociativismo) ma è rimasta forte nell’opinione pubblica la percezione che dietro a questa bandiera vi fosse in realtà marginalizzazione e discriminazione. Con i risultati visti verso la fine del 2019. Rimane la speranza che la scelta fatta sia da accreditare al quel pragmatismo e a quella duttilità che negli anni hanno fatto accrescere la stima verso Kazimi da parte di un po’ di tutti i gruppi. Lo vedremo; e soprattutto lo vedrà il diretto interessato che ha subito dovuto mettere in conto la ripresa delle massicce manifestazioni di protesta in tutto il Paese dopo i primi due mesi dallo scoppio del coronavirus: da Baghdad a Nassirya a Bassora, tutte all’insegna della rivendicazione di un completo mutamento del sistema politico, della fine della corruzione, di migliori condizioni di vita, etc.

LE SFIDE DELL’ANTI-TERRORISMO

Tutto ciò mentre il neo-premier decretava il rilascio dei dimostranti dei mesi precedenti ancora in prigione, compensazioni alle famiglie delle centinaia di vittime di allora, lo sblocco dell’erogazione delle pensioni e poneva il generale Wahab al Saadi, distintosi nella lotta all’Isis, alla testa dell’anti-terrorismo. La sua credibilità è alla prova anche sul fronte del Covid-19 e soprattutto del delicato problema delle ripercussioni del crollo del prezzo del petrolio, la risorsa decisiva del Paese sotto tutti i punti di vista, dall’economico al sociale. In questo contesto si colloca l’ulteriore sfida che si pone per Kazimi: come giostrarsi tra le confliggenti strategie di influenza dell’Iran da un lato e degli Usa dall’altro. Con la postilla tutt’altro che marginale delle radici piuttosto profonde piantate dal primo, oggi peraltro in difficili condizioni socio-economiche e sanitarie, e la volontà dei secondi di incrementare la presenza politico-militare in quel Paese cardine degli equilibri di potere nella regione, mentre una parte importante della popolazione guarda ormai con criticità la loro presenza.

IL BRACCIO DI FERRO USA-IRAN

L’Iran non sembra voler demordere dalla posizione acquisita in anni di promozione della propria immagine, da ultimo nella lotta all’Isis. Gli Usa dal canto loro stanno mettendo a punto un disegno strategico che dovrebbe scattare il prossimo giugno nel corso di un incontro bilaterale programmato da tempo anche sotto la pressione del parlamento che vede in loro una vera presenza ostile. Un primo importante gesto è venuto con la decisione di consentire all’Iraq di continuare a rifornirsi di elettricità e di gas dall’Iran per altri 120 giorni senza incorrere nelle cosiddette “sanzioni statunitensi di secondo grado”; concessione accompagnata dall’esplicito favore per le annunciate misure programmatiche di Kazimi, tra le quali la tenuta di elezioni, la sottoposizione al controllo statale di tutte le forze armate e le iniziative miranti a fronteggiare i gravi problemi della sanità e dell’economia del Paese. Iniziative per le quali lo stesso Donald Trump ha fatto sapere di voler assistere il Paese nel corso di una telefonata diretta proprio a Kazimi. L’evoluzione della situazione in Iraq ci riguarda da vicino, non solo per l’importanza oggettiva del Paese ma anche per la nostra presenza in loco nel contesto Nato e Comando Multinazionale che, quantunque ridimensionata a causa del coronavirus, è integra un importante baluardo contro lo stato islamico ancora carsicamente e pericolosamente presente sul territorio iracheno.

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Il 2020 sarà un anno pieno di incognite per il Medio Oriente

Iran, Libia, Iraq, Yemen, Egitto: molti Paesi sono in fibrillazione e vedono il ritorno del protagonismo della piazza. Ma la situazione, anche se è gravida di criticità, può aprire orizzonti di positività.

Se è vero che «il buon giorno si vede dal mattino», come recita il detto, il 2020 si prospetta gravido di incognite, non necessariamente gravide di criticità e anzi suscettibili di aprire orizzonti di positività. Non è cominciato bene per l’Iran questo 2020: ha perso un uomo che era un simbolo ma anche uno strumento di penetrazione politico-militare in Medio Oriente sotto le bandiere della rivoluzione islamica iraniana, dal Libano alla Siria all’Iraq a Gaza allo Yemen e ovunque vi fossero comunità sciite in terre a maggioranza sunnita.

Mi riferisco ovviamente a Soleimani, ucciso dal fuoco di droni acceso dal presidente degli Stati Uniti – un omicidio mirato come vengono chiamati asetticamente questi atti di guerra asimmetrici e di dubbia legittimabilità – per una serie di ragioni : di politica interna (l’attacco all’ambasciata Usa a Baghdad, l’uccisione di un combattente americano, l’impeachment) e di politica regionale (il rischio di apparire incapace di reagire a una serie di operazioni aggressive imputabili a Teheran e a suoi proxies come l’abbattimento di un drone americano, i missili sui siti petroliferi sauditi, etc.) e l’opportunità offerta del suo arrivo a Baghdad nelle vesti di un agitatore armato in casa altrui.

Mi riferisco alla clamorosa bugia degli 80 morti provocati dalla rappresaglia ordinata per dare una prima risposta all’omicidio di Soleimani messa a nudo dai servizi di diversi Paesi, in testa gli Usa naturalmente ma anche l’Iraq; bugia che non ha certo giovato all’immagine di determinazione, tempestività e forza che il regime degli Ayatollah intendeva valorizzare nel contesto regionale e oltre. Mi riferisco alle bugie usate per negare qualsivoglia responsabilità nell’abbattimento dell’aereo ucraino – con pesante bilancio di 176 vittime innocenti – e al rifiuto di consegnare la scatola nera che lo stesso regime ha dovuto in qualche modo ammettere seppure col condimento di un rinnovato attacco agli Usa.

A FEBBRAIO TEHERAN VA ALLE ELEZIONI POLITICHE

Penso che queste circostanze, al netto delle responsabilità dell’Amministrazione Trump, e non sono poche, abbiano sporcato l’immagine di un regime cui l’Europa guarda forse con un garbo non del tutto giustificato dai pur rilevanti suoi interessi economici e di sicurezza e dal rispetto della grandiosa storia di questo Paese. Immagine certo appannata sul piano internazionale. Il tutto in un contesto di grandi difficoltà interne, frutto in larga misura dal nodo scorsoio delle sanzioni Usa, che hanno provocato anche forti reazioni popolari represse nel sangue; contesti che in questi giorni si sono arricchite di sonore manifestazioni contro lo stesso Khomeini. Mentre il regime sembra incerto sul da farsi e privilegi, al momento, la logica del contenimento nella sgradevole attesa degli effetti delle nuove sanzioni di Trump. A febbraio sono previste le elezioni: saranno il primo termometro della situazione.

IN IRAQ AUMENTANO LE PROTEST ANTI USA E ANTI IRAN

L’altra incognita riguarda l’Iraq, dove un governo dimissionario fa la voce grossa con gli Usa ma fino a un certo punto visto che nel Paese e soprattutto nell’area sciita cresce la volontà di scrollarsi da dosso le influenze straniere, compresa quella iraniana oltre a quella americana, naturalmente. Le ultime mosse di Teheran non hanno favorito la sua pressione anti-americana su Baghdad e si attendono le determinazioni del presidente Barham Salih che ha rifiutato la nomina di Asaad al-Idani perché troppo ossequiente nei riguardi dei desiderata iraniani. Anche qui il Paese manifesta una diffusa aspettativa di recupero di una “identità irachena” al di là e al di sopra delle distinzioni settarie.

Un governo più rappresentativo delle principali componenti di questo Stato (sciiti, sunniti e curdi) potrebbe rimettere sui binari più costruttivi il futuro di questo Paese

Anche qui con un impressionante bilancio di vittime fra i protestatari mentre Washington non intende farsi mettere alla porta in un momento in cui il governo vigente deve cedere il passo e la minaccia del terrorismo è tutt’altro che superata. Un governo più rappresentativo delle principali componenti di questo Stato (sciiti, sunniti e curdi) potrebbe rimettere sui binari più costruttivi il futuro di questo Paese di nevralgica importanza per gli equilibri della regione e non solo per la sua ricchezza energetica. Ma sarà realistico ipotizzarlo?

LIBIA IN SUBBUGLIO E IL LAVORO PER UNA PACICAZIONE DIFFICILE

Il 2020 è iniziato in Libia con la minaccia di Haftar di sfondare nella capitale e liberarla della presenza dei terroristi, con ciò intendendo la Fratellanza musulmana, fermata dall’annuncio/ordine dl cessate il fuoco venuto da Putin ed Erdogan. Era prevedibile che questi due leader, attestati su posizioni contrapposte – Putin con Haftar (Tobruk) e Erdogan con Serraj (Tripoli) -, arrivassero a una tale intesa, evitando il rischio di un confronto militare che in realtà nessuno dei due voleva correre. Prevedibile pure che Haftar accettasse il cessate il fuoco all’ultimo giorno utile (il 12 gennaio) nell’evidente intento di marcare tutto il terreno conquistabile per poterlo capitalizzare, anche politicamente. Altrettanto prevedibile che lo stesso Haftar abbia minacciato una dura rappresaglia in caso di violazione della tregua (le poche sono apparentemente a lui addebitabili) e che Serraj abbia chiesto l’impossibile e cioè il ritiro del suo avversario che ovviamente non ne ha tenuto minimamente conto.

Intendiamoci, la tregua è la premessa per un’ipotesi di stabilizzazione-soluzione politica che è ancora lontana. È una sorta di parentesi che occorre riempire, auspicabilmente con la politica. Una politica che archivi l’esclusione proclamata da Haftar nei riguardi di una parte libica in ossequio ai suoi sponsor tra i quali stanno l’Egitto, che ha fatto della lotta contro l’Islam politico della Fratellanza musulmana la sua crociata, gli Emirati Arabi, l’Arabia saudita, la Francia, etc. e solo in parte la Russia. Una politica che escluda anche l’invadenza politica ed economica di una Turchia “ottomana”, che tra l’altro non sarebbe ben accolta neppure dai libici. Tutto ciò sullo sfondo di una sistemazione delle tessere sociali di un Paese che, prive del collante gheddafiano, sciolto nell’acido della sua uccisione nel 2011, si sono pericolosamente dissociate in assenza di un nuovo fattore collante. Mosca e Ankara, ancorché forti, non sono i risolutori veri e non tanto perché non siano affidabili quanto perché vi sono altri attori che debbono entrare nella partita. All’interno e all’esterno.

L’ITALIA DEVE RECUPERE IL SUO RUOLO IN MEDIO ORIENTE

Su questo sfondo conforta solo in parte il recupero di ruolo che l’attuale governo italiano sta tentando e che a mio giudizio non dev’essere contrastato dal tradizionale ricorso a un’autoflagellazione che rischia solo di appesantire la posta in gioco, che è politica, economica e di sicurezza. La Germania, con il vertice dell’Unione europea, è nostra importante compagna di viaggio e con l’ombrello delle Nazioni Unite sta lavorando ad una Conferenza internazionale che paradossalmente trova la sua forza proprio nella sua scelta di campo a favore della “soluzione politica”. Ma si corre ancora sul filo del rasoio.

In Medio oriente è tornato il protagonismo della piazza, pesantemente contrastato dal potere locale, ma che merita attenzione perché rappresenta una luce che l’Occidente dovrebbe sostenere

Il 2020 è iniziato anche nel segno di un nuovo protagonismo della “piazza” come si usa dire, in diversi Paesi del Medio Oriente, dall’Iraq al Libano all’Algeria e, carsicamente, anche in Egitto. Sono piazze diverse ma anche almeno tre punti in comune: la scelta della non violenza, la lotta alla corruzione e al mal governo, il recupero di un’identità nazionale liberata dal settarismo. Si tratta di un protagonismo embrionale, forse, e pesantemente contrastato dal potere locale, che merita attenzione perché rappresenta una luce che l’Occidente dovrebbe sostenere sgombrando il campo da ambigui e controproducenti paternalismi. Il 2020 si apre inoltre nell’incerta dinamica yemenita, nell’attesa delle prossime elezioni in Israele, nell’incipiente crisi governativa in Tunisia. Sarà comunque lo si voglia vedere un anno impegnativo.

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Il nuovo presidente dell’Algeria Tebboune stretto tra militari e proteste

Ex primo ministro di Bouteflika e leale al capo delle Forze armate Salah, è stato eletto in una votazione boicottata dal popolo. Ora si trova tra l'incudine dell'esercito e il martello delle manifestazioni.

Dal febbraio del 2019 l’Algeria ha visto il susseguirsi settimanale di una lunga teoria di manifestazioni di protesta contro Abdelaziz Bouteflika, il suo “cerchio magico” diremmo noi, e l’intero sistema politico, militare, ed economico che è andato impossessandosi delle leve del potere del Paese dal 1962, ingabbiandolo in una camicia di forza che la crisi degli ultimi anni ha reso intollerabile. Crisi politica dunque ma anche economico-sociale, l’una e l’altra strettamente intrecciate in una soffocante corruzione e spartizione della rendita energetica.

LA PROFONDA CRISI SOCIO-ECONOMICA DELL’ALGERIA

Non si può non sottolineare come l’Algeria si collochi tra i primi 10 produttori mondiali di gas e terzo produttore africano di petrolio; che gli idrocarburi rappresentano ancora oggi il 95% delle entrate dell’export e il 65% del bilancio dello Stato e soffre chiaramente di una monocultura industriale, quasi esclusivamente votata allo sfruttamento energetico e di conseguenza dipendente dall’andamento del prezzo di quelle risorse nel mondo con ricadute di forte criticità sociali come in questi ultimi tempi. Non stupisce certo che in questa dinamica sia andato fermentando un diffuso scontento soprattutto nel segmento più giovane del Paese nel quale il 55% del totale ha meno di 30 anni.

LE DIMISSIONI DI BOUTEFLIKA

Serviva solo una scintilla perché si producesse l’incendio e l’entourage di Bouteflika lo ha offerto su un piatto d’argento con la presentazione della ri-candidatura di Bouteflika per un quinto mandato. Inesorabile l’onda delle proteste la cui parola d’ordine spiegava chiaramente quale fosse il bersaglio cui si puntava e se dunque era del tutto prevedibile che le dimissioni di Bouteflika rassegnate all’inizio di aprile non sarebbero bastate a fermare la protesta popolare, si doveva ad una robusta miopia del regime di cogliere la profondità strutturale della protesta (Hirak).

Proteste ad Algeri nel giorno delle elezioni, boicottate dalla maggior parte della popolazione (GettyImages).

Ancor meno di riuscire a “leggere” il suo carattere anomalo, mai scaduto in violenza neppure al momento in cui la data delle elezioni, rinviate ben due volte sotto la pressione del Hirak, sono state fissate al 12 dicembre. Pacifico dunque ma fortemente determinato a denunciarne l’inaccettabilità e dunque a promuoverne il boicottaggio contro una consultazione giudicata al servizio esclusivo del potere costituito.

IL POTERE NELLE MANI DEL CAPO DELL’ESERCITO

E ben poco ascolto è stato dato alle rassicurazioni del Comandante delle forze armate, il generale Ahmed Gaid Salah, considerato l’uomo forte del sistema assieme al Presidente ad interim Abdelkarem Bensalah, che poteva vantare a suo merito l’aver convinto/costretto Bouteflika alle dimissioni. Lo stesso Gaid Salah che aveva da ultimo smentito con forza la notizia che le forze armate stessero sponsorizzando uno dei candidati alla presidenza, bollandola come «propaganda» propalata per delegittimare le elezioni. Lo stesso Gaid Salah che aveva definito «giusta punizione inflitta a certi elementi della gang in sintonia con l’urgente e legittima attesa del popolo» la condanna a 15 anni di prigione inflitta a Said Bouteflika, il fratello del deposto presidente, e altri due alti ufficiali dello spionaggio algerino per complotto contro lo Stato. La ragione? Il diffuso convincimento che si trattasse di prese di posizione finalizzate a lucidare la propria immagine, renderla più accettabile e con ciò posizionarsi meglio anche all’interno del «sistema Bouteflika», e non di veri convincimenti riformistici.

I CANDIDATI TUTTI LEGATI A BOUTEFLIKA

La lista dei cinque candidati alla presidenza, del resto, ne era specchio fedele dato che ben quattro di loro (Abdelmajid Tebboune, Ali Benflis, Azzedine Mihoubi e Abdelaziz Belaïd) erano già stati parte di governi del ventennio di presidenza di Bouteflika, il quinto, Abdelkader Bengrina, essendo un outsider di stampo islamista impegnato in particolare in una personale battaglia contro il celibato femminile.

LE ELEZIONI BOICOTTATE

Con queste premesse, non ha stupito la modesta affluenza alle urne al 41%, più bassa di dieci punti di quella del 2014 e comunque la più bassa di sempre.

Non ha stupito che la giornata fosse scandita da una dimostrazione di massa che chiedeva a gran voce di non andare a votare

Ancor meno ha stupito che la giornata fosse scandita da una dimostrazione di massa da parte del movimento protestatario che chiedeva a gran voce di non andare a votare e represso spesso in modo brutale dalla polizia che, a sua giustificazione ha potuto stigmatizzare alcuni tentativi di blocco dei seggi elettorali.

TEBBOUNE ELETTO PRESIDENTE

Da segnalare che nell’attesa dei risultati vi è stata una prima rivendicazione di vittoria da parte di Tebboune, già primo ministro di Bouteflika nel 2017, che come era facile ipotizzare ha fatto subito scattare la risposta di Hirak improntata al rifiuto dell’esito elettorale e alla promessa di un nuovo ciclo di manifestazioni di protesta settimanale. Si è trattato di una rivendicazione che aveva una solida base di riferimento visto che è proprio questo 74enne dirigente e politico algerino a risultare il nuovo presidente dell’Algeria con un consistente 58% dei voti. Nessuna necessità di ballottaggio dunque e una mera formalità l’attesa dei risultati che saranno comunicati dal Consiglio costituzionale entro una decina di giorni.

IL NUOVO CAPO DI STATO STRETTO TRA MILITARI E PROTESTE

Amicizie trasversali, nessuna tessera di partito, aveva iniziato la sua campagna affermando di essere stato un precursore del movimento Hirak in quanto convinto sostenitore della necessità di un processo di riforma del sistema e dalla lotta alla corruzione. Un figlio in carcere con l’accusa di traffico di stupefacenti. Si trova tra l’incudine del potentato militare che certo cercherà di salvaguardare il suo ruolo, sostanzialmente decisorio, e il martello di una diffusa sfiducia popolare di cui il vero Hirak è portabandiera e di cui si attendono le reazioni, ciò che lo pone in una posizione complicata e per di più appesantita dalla crisi economico-sociale che sta attraversando il Paese, nonché dall’incombente minaccia del terrorismo. I suoi primi giorni daranno il termometro della sua capacità di imprimere una rotta costruttiva al suo mandato. Intanto si è saputo che il primo personaggio che gli ha fatto visita è stato l’ambasciatore statunitense; un segnale tutt’altro che trascurabile a livello politico-economico.

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La presidenza del G20 può essere una svolta vera per l’Arabia saudita

Potrebbe essere un fondamentale trampolino per aprire il Paese al mondo, sia dal punto di vista democratico, sia per dare di sé l'immagine di una Potenza credibile.

Il primo dicembre scorso l’Arabia Saudita ha assunto la presidenza del G20, il gotha economico-finanziario del mondo, per i prossimi 12 mesi. La notizia che in sé non sarebbe né positiva né negativa essendo assegnata a turno a ciascun paese membro del Gruppo, ma trattandosi di un Paese per molti versi oggetto di giudizi contrastanti e prevalentemente critici, soprattutto nel mondo occidentale, pensavo che avrebbe offerto l’occasione per un qualche commento/approfondimento di merito.

Per la verità vi sono stati diversi richiami a questo Paese, ma per macabra ironia essi sono stati focalizzati su un’altra vicenda, l’orrenda uccisione del giornalista Jamal Khashoggi avvenuta giusto un anno addietro, il 2 dicembre del 2018, se le ricostruzioni fatte all’epoca saranno mai convalidate da prove, dato che il cadavere non è stato trovato, né intero né a pezzi.

Ma si sa che la cronaca, soprattutto se relativa ad un delitto efferato – tanto più se associato in qualche modo ad un potente rampollo di casa reale ed erede al trono di una monarchia assoluta– attrae ben più di evento di politica internazionale. Salvo, beninteso, che non riguardi un importante politico italiano, invitato a Riad a fine ottobre a una tavola rotonda sul tema What’s next in economic diplomacy and G20? nella cornice della Future Investment Initiative – la cosiddetta Davos del deserto – assieme al britannico David Cameron.

RIAD DEVE CONVINCERE IL MONDO DI ESSERE UNA POTENZA CREDIBILE

Intendiamoci, lungi da me cercare di dare dell’Arabia Saudita un’immagine edulcorata, ma la lista degli Stati che calpestano i più elementari diritti umani e con i quali abbiamo o vorremmo avere buoni rapporti bilateralmente e come membri dell’Unione europea è molto lunga. Da Mosca a Pechino passando da Caracas a Nuova Delhi, passando per Ankara che ha proprio in Recep Erdogan il grande accusatore della Casa reale saudita e del principe ereditario Mohammed bin Salman, in particolare. Lo facciamo in nome del supremo “interesse nazionale”.

Il G20 offre a Riad un’occasione per imprimere una svolta alla sua stagione di riforme previste nella vasta e ambiziosa Vision 2030

Lasciamo dunque da parte questa schizofrenia moralistica e soffermiamoci sull’evento del G20 che ha una duplice valenza: da una parte perché offre a Riad un’occasione per imprimere una svolta alla sua stagione di riforme previste nella vasta e ambiziosa Vision 2030 che finora è stata fatta calare dall’alto del potere assoluto della Casa reale, la quale non ha avuto e non ha remore nel corredarle di atti repressivi a tutto campo a danno di quanti lottano per introdurre semi produttivi di democrazia. Dall’altra perché nei 12 mesi che seguono sarà chiamata a convincere il mondo, o almeno le altre 19 potenze del pianeta, di essere una credibile forza globale, e non solo economicamente, nella privilegiata situazione di trovarsi al crocevia di Asia, Africa ed Europa.

IL PROCESSO DI TRASFORMAZIONE DEL PAESE VOLUTO DAI SAUDITI

Tre sono in quest’ottica gli sbocchi perseguiti da Riad:

  • Dare più potere alla popolazione, con particolare riferimento alle donne e ai giovani;
  • Salvaguardare il pianeta;
  • Tracciare nuove frontiere specialmente sul terreno dell’innovazione e della tecnologia.

Si tratta di tre mete assai impegnative, molto di più dei risultati raggiunti finora nell’apertura del Paese al mondo che la Casa reale riassume, tra l’altro e in estrema sintesi, nella scomparsa dalle strade della polizia religiosa, dalla cancellazione del bando della musica, della danza e del divertimento, dell’accoglienza dei turisti, dalla autorizzazione data alle donne di guidare un’auto al viaggiare senza il permesso del “guardiano” maschio, di svolgere attività lavorative in continua espansione, etc.. Tutte cose vere e di fatto quasi rivoluzionarie in quel Paese, ma ben lontane dagli standard occidentali.

Il 2020 ANNO DELLA VERITÀ PER L’ARABIA SAUDITA

Il 2020 sarà dunque un anno della verità per questo Paese che ha già annunciato di aver invitato, oltre alle principali organizzazioni internazionali – dalle Nazioni Unite al Fondo monetario internazionale dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico al Gruppo della Banca mondiale, dall’Organizzazione mondiale della sanità all’Organizzazione mondiale del commercio.

Da destra, il ministro degli Esteri giapponese Toshimitsu Motegi e quello dell’Arabia Saudita, il principe Faisal bin Farhan al-Faisal, durante il G20 di Nagoya.

Dalla Fao al Consiglio per la stabilità finanziaria all’Organizzazione internazionale del lavoro – una serie di organizzazioni regionali quali il Fondo monetario arabo (Amf), la Banca islamica per lo sviluppo, la Repubblica socialista del Vietnam in qualità di presidente dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (Asean), la Repubblica del Sudafrica, in qualità di presidente dell’Unione africana (Ua), gli Emirati Arabi Uniti, in qualità di presidente del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), e la Repubblica del Senegal in qualità di presidente del Nuovo partenariato per lo sviluppo dell’Africa (Nepad). Saranno poi organizzati un centinaio di eventi e conferenze, tra cui riunioni a livello ministeriale e riunioni di funzionari e rappresentanti della società civile.

LA VOLONTÀ DI EMANCIPARSI DAL PETROLIO

Insomma, la presidenza del G20 si prospetta come un fondamentale trampolino per aprire il Regno saudita al mondo, cominciando dall’inaugurazione della prima stagione turistica aperta ai visitatori asiatici e occidentali non musulmani, e proseguendo in un’onda lunga di investimenti, tanti investimenti, per uscire dal ghetto, ancorchè dorato, del petrolio. La quotazione dell’Aramco in Borsa non è stata una travolgente vittoria, ma ha fatto toccare con mano i termini del realismo per un Paese che dal petrolio si vuole emancipare. Una bella sfida il cui esito è tutt’altro che scontato. Lo vedremo e nell’attesa accontentiamoci di un duplice evento sportivo in chiave nostrana ed europea: la finale di Supercoppa italiana il 22 dicembre a Riad e la partenza da Gedda, il 5 gennaio, della prima Parigi-Dakar nei deserti arabici.

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La crisi libica si complica, l’Italia batta un colpo

Mentre il conflitto continua e le ingerenze di Russia e Usa si fanno più concrete, sarebbe indispensabile che il nostro Paese si ponesse in prima fila in un’azione politico-diplomatica. Di Maio ne sarà capace?

La Libia torna vistosamente alla ribalta internazionale: per l’abbattimento di due droni, uno statunitense e uno italiano, per il faro che vi hanno acceso gli incontri Usa con Khalifa Haftar e Fayez al Serraj, per le accuse di destabilizzazione rivolte alla Russia, per le attese riposte nella Conferenza alla quale stanno lavorando i tedeschi.

Non invece per gli sbarchi sulle nostre coste dei migranti provenienti dalla Libia che hanno dominato il dibattito politico nostrano, lasciando che rimanesse preda delle nebbie di una vaga laconicità osservata dalla Difesa in merito alla scomparsa del nostro drone: «Nella giornata odierna è stato perso il contatto con un velivolo a pilotaggio remoto dell’Aeronautica MilitareMQ9 Reaper (Predator B) – successivamente precipitato sul territorio libico. Il velivolo, che svolgeva una missione a supporto dell’operazione Mare Sicuro, seguiva un piano di volo preventivamente comunicato alle autorità libiche (Tripoli). Sono in corso approfondimenti per accertare le cause dell’evento».

Da allora il silenzio; anche in risposta alla dura reprimenda del portavoce dell’Esercito nazionale libico Ahmed al-Mesmari che nello stesso giorno bollava il volo (area di Tarhuna, roccaforte del generale Haftar a una 70ina di chilometri da Tripoli) come «una violazione dello spazio aereo e della sovranità della Libia». Si è probabilmente voluto evitare di incorrere in ritorsioni suscettibili di mettere a repentaglio il nostro contingente a Misurata anche se altrettanto verosimilmente è stato letto come un segnale di debolezza di cui tenere conto,

CAMBIA IL RAPPORTO DEGLI USA CON HAFTAR

Conforta comunque sapere che il nostro governo si occupa della Libia, e lo fa non solo in relazione al fenomeno migratorio, che pure è un problema per noi importante, ma anche alla sfibrante conflittualità che la attraversa e alle minacce che ne stanno derivando sul terreno della sicurezza di fronte a un riaffiorante terrorismo – dell’Isis ma anche di Ansar al Sharia – che sta investendo un po’ tutta l’area saheliana. Si tratta di una conflittualità che sta inducendo anche gli Usa ha riposizionare il proprio faro su questo Paese anche in termini pubblici. E ciò sia con una robusta sollecitazione al generale Haftar venuta dal Dipartimento di Stato a cessare le operazioni su Tripoli sia con un monito alla Russia di «non sfruttare il conflitto» contro la volontà del popolo libico.

Una serie di indicazioni che stanno facendo emergere un accresciuto supporto militare russo, con attrezzature e mercenari, a fianco di Haftar

Un linguaggio, quello rivolto ad Haftar, ben diverso dal “riconoscimento” della Casa Bianca rivolto da Donald Trump al generale nell’aprile del 2019 per il suo ruolo nella lotta al terrorismo con la cosiddetta operazione Dignità che aveva indotto più di un osservatore a leggere in quel giudizio una sorta di sganciamento da Serraj, il capo del governo riconosciuto internazionalmente, a favore dell’uomo forte della Cirenaica.

Da sinistra, Giuseppe Conte e Haftar.

Un linguaggio che ha segnalato e sta segnalando una rinnovata preoccupazione Oltreoceano per una serie di indicazioni che stanno facendo emergere un accresciuto supporto militare russo, con attrezzature e mercenari, a fianco di Haftar. E forse non è un caso se più o meno in contemporanea un giudice del Tribunale di Stato della Virginia ha emesso un mandato d’arresto contro Khalifa Haftar – che ha anche la cittadinanza americana – per crimini di guerra.

IL RUOLO DELLA RUSSIA PER SOSTENERE IL GENERALE

Su questo sfondo ha colto di sorpresa l’annuncio di Mesmari, portavoce del generale, dell’imposizione di una no fly zone «sopra e intorno all’area delle operazioni militari dentro e intorno a Tripoli». Intanto perché solo Serraj (Tripoli) avrebbe una legittimazione a decretare una misura del genere; poi perché non risulta che quest’ultimo disponga dei mezzi necessari per garantirne il rispetto e infine perché dalla no fly zone sarebbe escluso l’aeroporto di Mitiga, l’unico funzionante nella zona anche se provvisoriamente chiuso per le vicende belliche vi si stanno sviluppando.

L’accusa mossa alla Russia da David Shenker è di aver dispiegato in Libia regolari forze militari in numero significativo per sostenere l’attacco a Tripoli di Haftar

Si tratta di un annuncio che prelude a un’avanzata sulla capitale o semplicemente un segnale di vitalità del contingente armato? Vi ha fatto seguito un incontro svoltosi tra lo stesso Haftar e una delegazione americana di alto livello (vice consigliere per la sicurezza in Medio Oriente e rappresentanti dello stesso Dipartimento di Stato, dell’Energia e delle forze armate) per «discutere i passi necessari per giungere ad una sospensione delle ostilità e una soluzione politica al conflitto libico», sottolineando il pieno supporto degli Stati Uniti a favore della sovranità e integrità territoriale della Libia e la loro preoccupazione per l’azione della Russia.

Vladimir Putin.

Azione che a stretto giro di posta è stata seguita dall’accusa mossa sempre alla Russia da David Shenker, l’Assistant Secretary del Dipartimento di Stato per il vicino oriente, di aver dispiegato in Libia regolari forze militari in numero significativo per sostenere l’attacco a Tripoli del generale Haftar, sottolineandone l’effetto altamente destabilizzante anche perché destinato a provocare un gran numero di vittime civili.

LA CONFERENZA SULLA LIBIA E GLI INTERESSI DELL’ITALIA

Intanto prosegue il lavoro di preparazione della Conferenza sulla Libia da parte tedesca. Con determinazione, ma anche con una punta di scetticismo per l’ostentata negatività che si manifesta da parte dei più stretti collaboratori di Haftar che continuano a dichiarare che non c’è possibilità di alcuna soluzione politica, essendo quella militare ormai l’unica praticabile.

Sarebbe davvero indispensabile che l’Italia, bilateralmente e in seno all’Ue finalmente rinnovata nei sui vertici, si ponesse in prima fila in un’azione politico-diplomatica

Sarà proprio così? Difficile dire, stante le obiettive difficoltà in cui versano entrambi gli schieramenti e il peso della delusione/frustrazione degli sponsor di Haftar per una guerra che doveva portare in un lampo alla conquista di Tripoli e che dopo sette mesi versa al contrario in uno stallo dal quale nessuna vittoria militare di uno dei due contendenti sull’altro sembra a portata di mano. A meno che, beninteso, non intervenga la classica “mossa del cavallo”, cioè un deciso intervento esterno che nelle condizioni date avrebbe un esito dirompente.

Luigi Di Maio.

Stando così le cose, sarebbe davvero indispensabile che l’Italia, bilateralmente e in seno all’Unione europea finalmente rinnovata nei sui vertici, si ponesse in prima fila in un’azione politico-diplomatica bilaterale e multilaterale volta a far prevalere le ragioni del negoziato per la stabilizzazione della Libia che stanno alla base della Conferenza in preparazione ad opera della Germania. Non dimentichiamoci mai che in Libia abbiamo anche forti interessi energetici. Ma è lecito chiedersi se il nostro ministro degli Esteri saprà/vorrà muoversi con la necessaria tempestività in tale direzione.

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La pace in Yemen non è più un miraggio

A un anno dal cessate il fuoco tra i ribelli Houthi e le forze militari del governo yemenita, qualcosa sta cominciando a cambiare nel Paese mediorientale. Anche grazie una differente strategia dell'Arabia saudita, che sta favorendo il processo di de-escalation del conflitto.

All’incirca un anno fa la comunità internazionale fu attraversata da un moto di speranza per le confortanti notizie che stavano giungendo da Stoccolma dove si stava perfezionando un accordo di cessate il fuoco tra i ribelli Houthi e le forze militari del governo yemenita sostenute dalla coalizione araba a guida saudita.

Si parlò allora di un primo significativo passo in direzione della fine di una guerra che aveva già provocato decine di migliaia di morti, oltre 2 milioni di sfollati e un disastro umanitario di spaventose dimensioni.

Punti nevralgici dell’accordo erano stati, allora, la liberazione dei porti sul mar Rosso di Salif, Ras Issa e soprattutto di Hodeida, un vero e proprio polmone di sopravvivenza per gli yemeniti dall’occupazione delle milizie degli Houthi e una serie di misure di confidence building tra cui lo scambio di migliaia di prigionieri.

Ci sono voluti mesi e mesi – di fatto il vero ritiro dai porti è iniziato solo nel maggio del 2019 – prima che l’accordo facesse emergere risultati significativi. E ciò per la complicità di un contesto di grande complessità sul quale ha influito anche il riaccendersi del terrorismo – sia di Al Qaeda che dell’Isis – che continuava e continua a trovarvi utile concime per le sue radici stragiste. Contesto che d’altra parte si è reso anche più problematico per il progressivo sfilarsi dalla coalizione anti-Houthi di parte dei suoi componenti e che ha segnato un serio vuoto con l’abbandono del campo da parte dei sudanesi (circa 10 mila uomini) con la svolta rivoluzionaria che ha portato alla destituzione del presidente Omar al Bashir e, soprattutto, con lo scontro che ha visto contrapposte le forze militari del presidente Abd Rabu Mansur Hadi con quelle dei separatisti del Sud (Stc); le prime sostenute dall’Arabia Saudita e le ultime dagli Emirati, a loro volta preziose alleate di Riad contro gli Houthi. e la conseguente occupazione di Aden da parte dello Stc.

L’IMPORTANTE INTESA DEL 5 NOVEMBRE

Un bel pasticcio anche perché dilatatosi ad altre tribù e ad altri gruppi regionali. C’erano sufficienti ragioni insomma per indurre Riad a ricalibrare l’impegno a sostenere in via esclusiva (ed escludente) il presidente Hadi, rifugiato in Arabia Saudita, e a mantenere la forza dell’unione con gli Emirati. E in tale contesto a orientarsi rapidamente verso un orizzonte strategico disegnato dall’assoluta necessità di sgomberare il campo da quella che rischiava di essere una “guerra civile minore all’interno della guerra civile maggiore”. Non è stato affatto agevole ma in qualche modo l’obiettivo è stato raggiunto con un’intesa – il cosiddetto accordo di Riad – siglata il 5 novembre dopo la ripresa del controllo di Aden. Un’intesa molto significativa perché ha previsto l’inclusione del movimento separatista nel governo yemenita e quello delle milizie del Sud sotto l’autorità dei ministri dell’Interno e della Difesa.

L’IMPENNATA DELLO SCONTRO

Non è stato agevole perché ha di fatto sanzionato una sorta di supremazia dell’Arabia Saudita che potrebbe essere messa in discussione se non si realizza anche l’altra parte della guerra civile. E non lo è stato perché è maturato in concomitanza – e forse anche grazie – all’impennata dello scontro con gli Houthi. Mi riferisco a quella serie di “incidenti” occorsi a danno di petroliere saudite e soprattutto al pesante attacco di settembre, con droni e missili ai due siti petroliferi sauditi dell’Aramco, rivendicato proprio dagli Houthi ma difficilmente dissociabile da una responsabilità iraniana.

L’Arabia Saudita ha dato l’impressione di essere propensa a cambiare logica e ad accettare che i nodi della guerra siano anche legati a fattori come l’eccesso di autoritarismo di Hadi

Al di là dell’intenso dibattito sull’effettiva responsabilità di questi atti, è pur vero che Riad ha condannato questo «vero e proprio atto di guerra» assumendo anche toni minacciosi, ma è altrettanto vero che tutto si è fermato a livello verbale, quasi a dimostrazione della sua impotenza di fronte alla dura constatazione della sua vulnerabilità. E dunque del rischio di esporsi, contrattaccando, a una spirale conflittuale dagli esiti perniciosi visti i limiti del loro ombrello protettivo. In quel clima ha avuto la funzione di un suggerimento da non lasciar cadere la dichiarata disponibilità degli Houthi a interrompere gli attacchi sul territorio saudita – una sorta di tregua insomma – se anche Riad si fosse impegnata a fare altrettanto su quello yemenita. E, di conseguenza di ridare ossigeno al processo di de-escalation del conflitto, ormai auspicabile anche da parte degli Houthi dopo tanti anni di guerra impantanata, di stallo militare superabile solo con la politica e con i crediti acquisiti con l’accordo di Stoccolma e i segnali derivanti dall’accordo di Riad.

IL NODO DELLA CONDIVISIONE DEL POTERE

L’Arabia Saudita ha dato cioè l’impressione – anzi, più che l’impressione – di essere propensa a cambiare logica, approccio e ad accettare che i nodi della guerra siano anche legati ad altri fattori come l’eccesso di autoritarismo di Hadi, come del suo predecessore, alla diffusa corruzione e al ruolo denegato agli Houthi di una reale partecipazione alla gestione del governo del Paese e, forse, anche a fattori precedenti la spinta conflittuale iraniana. Questa sua propensione era implicita nell’intesa con le forze separatiste del Sud che aveva in qualche modo indicato la rotta da seguire nel senso di una condivisione di questo potere di governo su cui portare anche Hadi, chiamato a riprendere posto ad Aden. Tutto ciò con l’implicito corollario di una sorta di garanzia tutelare esercitata dalla Casa reale saudita per la quale lo Yemen resta più che mai un tassello di fondamentale importanza per la sua sicurezza e stabilità. Superfluo sottolineare come questo processo negoziale con gli Houthi molto sottotraccia, ora in Oman, sia soltanto all’inizio e possa deragliare, ma la prospettiva di una correzione degli errori del passato rappresenta un segno incoraggiante.

L’EMBLEMATICO DISCORSO DEL RE SALMAN

Intanto il primo ministro sta rientrando in Yemen (Aden, capitale provvisoria) con i colleghi delle Finanze, dell’Educazione, delle Telecomunicazioni in adempimento dell’accordo siglato con i separatisti del Sud in vista di un ritorno istituzionale del Paese ad una relativa normalità. Martin Griffiths, l’Inviato speciale delle Nazioni Unite, non ha mancato di manifestare espressioni di incoraggiamento e l’auspicio che la fine del conflitto possa maturare nei primi mesi del 2020. Ed è significativo che nel discorso annuale di fronte al parlamento saudita (Shoura Council) lo stesso re Salman abbia fatto esplicito riferimento ai colloqui di pace in corso e abbia nel contempo sollecitato l’Iran, alle prese con i drammatici sviluppi delle manifestazioni di protesta che lo stanno attraversando, ad abbandonare l’ideologia espansionistica che ha fatto tanto male, ha sottolineato, al suo stesso popolo.

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Caro Israele, gli omicidi mirati non sono da Stato democratico

È davvero arduo accettare il principio di una sorta di licenza di uccidere qualcuno, in casa propria o al di fuori dei propri confini, rivendicato da Tel Aviv, che ha sempre fatto una bandiera della sua democraticità.

Il cessate il fuoco concordato tra la Jihad islamica e Tel Aviv con la mediazione dell’Egitto e dell’inviato delle Nazioni Unite deve essere accolto positivamente anche se nessuno può davvero sperare che da quest’intesa possa innescarsi un processo di strutturale de-escalation e quindi di stabilizzazione.

Del resto, si attende ancora la conferma dell’intesa proprio da parte israeliana che peraltro penso non mancherà seppure con qualche distinguo che, c’è da augurarsi, non riguardi la parte relativa all’impegno che sarebbe stato preso da Tel Aviv di non ricorrere più agli omicidi mirati.

Questi, che altri chiamano azioni di killeraggio, non sono a mio avviso accettabili; non lo sono rispetto all’esigenza proclamata della prevenzione di atti di terrorismo, soprattuto se se pianificati da mesi come nel caso in esame. Non lo sono neppure se autorizzati all’unanimità dal governo in ragione della «bomba ad orologeria» che sarebbe stata pianifica dalla Jihadh islamica né se collocati nel perimetro scivoloso della cosiddetta «guerra asimmetrica» che la Jihad islamica sta conducendo.

ISRAELE SI SENTE LIBERO DI UCCIDERE E SI VANTA DELLA SUA DEMOCRAZIA

È davvero arduo infatti accettare il principio di una sorta di licenza di uccidere qualcuno, in casa propria o al di fuori dei propri confini, rivendicato da uno Stato che si definisce – e viene riconosciuto come tale – democratico. E soprattutto da uno Stato come Israele che fa una bandiera della sua democraticità anche per marcare la differenza esistente, proprio su questo terreno, con i Paesi vicini. Intendiamoci, da questo giudizio non discende neppure la più tenue legittimazione dei lanci delle decine, decine e decine di missili effettuati per ritorsione da parte da parte delle Brigate al-Quds, il braccio armato della Jihad Islamica.

Bibi Netanyahu, nella logica protesa a rendere problematica l’opera di formazione del governo da parte del rivale Benny Gantz, aveva nominato a sorpresa, a ministro della Difesa il cofondatore de La Nuova Destra Natali Bennett

Una ritorsione del tutto prevedibile da parte di un’organizzazione terroristica che si serve anche dei morti, oltre 30, caduti sotto il fuoco israeliano a fronte delle decine di feriti provocati dai suoi missili in terra israeliana. Prevedibile e certamente messa in conto anche da parte israeliana che evidentemente riteneva di poterne pagare un prezzo sopportabile. Da Bibi Netanyahu in primis che, nella logica protesa a rendere problematica l’opera di formazione del governo da parte del rivale Benny Gantz – al quale resta solo una settimana per raggiungere il traguardo – aveva nominato a sorpresa, poche ore prima, a ministro della Difesa il cofondatore de La Nuova DestraNatali Bennett, affrettatosi ad annunciare misure speciali di sicurezza.

Il cratere formato da un missile.

Poi ha deciso l’intervento missilistico nel convincimento che avrebbe ottenuto il placet del presidente e l’allineamento al suo fianco dello stesso Benny Gantz che non ha esitato ad affermare che il suo partito porrà sempre la sicurezza dei cittadini prima di qualunque cosa. Non sfugge infatti che con queste operazioni – che Netanyahu ha inteso saldare con un dichiarato, complementare intervento da terra, aria e mare – ha voluto dare un significativo segnale politico al Paese; segnale irrobustito dal messaggio che il bersaglio di Tel Aviv era solo la Jihadh e non Hamas che ha in quest’ultimo un concorrente temibile e che sembra mostrare sensibilità ai contatti propiziati anche dal Cairo per ottenere concessioni da Israele e, complessivamente, un abbassamento della conflittualità.

LA TREGUA RIMANE FRAGILISSIMA

Nello stesso tempo Netanyahu ha inteso inviare un inequivoco segnale anche a Teheran, sponsor della Jiadh islamica sia nella striscia di Gaza sia in Siria con l’altro attentato nel quale si è peraltro mancato il bersaglio principale, in un momento in cui l’Iran incontra difficoltà a sostenere i suoi proxies nella regione ma con i quali non intende allentare la presa. E proprio da Teheran che per bocca di Abbas Mousavi, il portavoce del ministero degli Esteri, è venuta la reazione più forte, non solo con la condanna degli attacchi missilistici, bollati come veri e propri crimini di guerra, ma anche con il vigoroso appello alla necessità che Tel Aviv sia perseguita e punita nei tribunali internazionali e con una dura critica «al silenzio e all’inazione» delle organizzazioni e della comunità internazionale contro l’aggressione e gli atti terroristici del regime sionista. Il tutto assortito dell’elogio dell’eroica resistenza del popolo palestinese contro gli «usurpatori».

Il raid israeliano un crimine contro il nostro popolo a Gaza

Abu Mazen, presidente della Palestina

Scontata a questo riguardo la reazione del presidente palestinese Abu Mazen che da Ramallah, in Cisgiordania, ha definito il raid israeliano «un crimine contro il nostro popolo a Gaza», così come la denuncia turca dell’aggressione israeliana. E per contro il sostegno bipartisan espresso nei riguardi Tel Aviv da parte americana (segnatamente da Mike Pence e da Joe Biden) mentre la Ue si è limitata a invitare le parti al contenimento mentre, curiosamente, si pubblicizzava la decisione di imporre la pertinente etichetta sui prodotti provenienti dai territori occupati; decisione avversata da Tel Aviv e naturalmente salutata con favore da parte palestinese (e non solo) come un passo importante nella direzione giusta.

Truppe israeliane.

La tregua raggiunta nelle ultime 24 ore è fragile e non solo perchè il suo annuncio è stato accompagnato da una serie di violazioni da una parte e dall’altra ma anche perché la Jihadh islamica è etero-diretta e non è detto che Teheran voglia favorire un percorso suscettibile di favorire la politica di contrasto israeliano ai proxies iraniani nel quadrante regionale che va da Gaza, per l’appunto, al Libano e alla Siria. Così come non è scontato che Netanyahu non abbia nei suoi calcoli altre azioni di forza. Penso che in ogni caso il bilancio dell’operazione – che è costata 34 morti, e solo da parte palestinese, mentre da parte israeliana si lamentano solo 63 feriti – non rappresenti un incoraggiamento alla pace.

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