Un gruppo di senatori M5s ha chiesto di abolire il capo politico

Il documento verrà presentato all'assemblea congiunta degli eletti pentastellati. Si domanda anche di togliere il controllo della piattaforma Rousseau alla Casaleggio Associati.

Abolire la figura del capo politico, togliere alla Casaleggio Associati il controllo della piattaforma Rousseau e lasciare a Beppe Grillo soltanto il ruolo di presidente, non più quello di garante del M5s: sono le proposte che un gruppo di senatori pentastellati – capitanati da Primo Di Nicola, Emanuele Dessì e Mattia Crucioli – ha messo nero su bianco e intende presentare all’assemblea congiunta degli eletti in programma nella serata del 9 gennaio.

IL TESTO HA GIÀ RACCOLTO UNA DECINA DI FIRME

Come riferisce Il Fatto Quotidiano, che per primo ha dato la notizia, il testo è già stato sottoscritto da una decina di senatori. L’obiettivo è di raccogliere più firme possibili e far partire il dibattito interno. Nel frattempo anche i deputati Massimiliano De Toma e Rachele Silvestri hanno deciso di passare al gruppo Misto, facendo scendere a 211 il numero totale dei pentastellati che siedono a Montecitorio.

SI PUNTA SU UNA MAGGIORE «DEMOCRAZIA INTERNA»

Nel documento si chiede di ristrutturare profondamente la “governance” del M5s. Prevedendo una gestione collegiale della futura linea politica e diverse modalità di rendicontazione per la restituzione parziale degli stipendi. Su quest’ultimo punto, in particolare, si propone che in caso di scioglimento del Comitato rendicontazioni le giacenze non vengano più destinate all’Associazione Rousseau, bensì direttamente al Fondo per il Microcredito. Nessun attacco, tuttavia, alla tenuta del governo giallorosso presieduto da Giuseppe Conte, che anzi «non deve saltare». Il messaggio è dunque rivolto ai vertici del M5s e in primis a Luigi Di Maio, cui si domanda un cambiamento radicale in direzione di una «maggiore democrazia interna».

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Come l’Italia ha condannato il contrattacco dell’Iran

Il titolare della Farnesina Di Maio ha parlato di «atto grave» che «accresce la tensione». Mentre il ministro della Difesa Guerini ha chiesto «moderazione e prudenza» confermando che i militari italiani in Iraq stanno bene.

Alla fine la risposta dell’Iran all’uccisione di Soleimani è arrivata l’8 gennaio. Con il bombardamento delle basi americane in Iraq. Lì dove sono impegnati anche i militari italiani, che però non hanno subito dirette conseguenze. Come hanno preso la notizia i vertici politici del nostro Paese? Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha affidato il suo commento a Facebook: «Seguiamo con particolare preoccupazione gli ultimi sviluppi e condanniamo l’attacco da parte di Teheran. Si tratta di un atto grave che accresce la tensione in un contesto già critico e molto delicato».

«RISCHIO DI CELLULE TERRORISTICHE E MIGRAZIONI»

Il titolare della Farnesina nel suo post ha proseguito così: «Purtroppo è la storia che si ripete. Invitiamo entrambe le parti alla moderazione e alla responsabilità. La regione vive una instabilità da decenni, una nuova guerra spingerà la proliferazione di cellule terroristiche e di nuovi flussi migratori. Non è più accettabile tutto questo. Si apprenda dagli errori del passato e si torni al dialogo».

COALIZIONE INTERNAZIONALE DI CUI FA PARTE L’ITALIA

Poi ha espresso a nome del governo vicinanza ai nostri militari, ringraziandoli per il loro impegno: «È accaduto quello che temevamo. L’Iran ha risposto al raid Usa lanciando decine di missili contro le basi militari di Ayn al-Asad e di Erbil in Iraq. Entrambe ospitano personale della coalizione internazionale anti-Isis, di cui fa parte anche l’Italia».

La sicurezza dei nostri militari è la priorità assoluta, a loro va la più stretta vicinanza


Il ministro della Difesa Guerini

Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha ribadito che «la sicurezza dei nostri militari è la priorità assoluta, a loro va la più stretta vicinanza, da parte mia e di tutte le istituzioni», sottolineando poi che fin dall’inizio dell’attacco iraniano alle basi statunitensi in Iraq la Difesa sta seguendo «la situazione e le evoluzioni con la massima attenzione». Guerini nel corso della notte ha sentito il comandante del contingente italiano, il generale Fortezza, che lo ha rassicurato sulle condizioni dei nostri militari.

GUERINI CHIEDE «MODERAZIONE E PRUDENZA»

«In questo momento è indispensabile agire con moderazione e prudenza», ha detto Guerini in un colloquio telefonico con il collega iracheno Al Shammari. E infine: «Ogni possibile soluzione sarà affrontata insieme alla coalizione, con un approccio flessibile, anche per non vanificare gli sforzi fino a oggi profusi».

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Vertice a sorpresa tra Di Maio e Zingaretti

Incontro di 45 minuti a Palazzo Chigi. Sul tavolo i prossimi obiettivi di governo. Mentre Conte ammette: «C'è preoccupazione per i nostri soldati in Medio Oriente».

Incontro di 45 minuti a Palazzo Chigi tra il leader del Movimento 5 stelle Luigi Di Maio e il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Stando a quanto si legge in una nota congiunta degli staff dei due leader, nel corso del colloquio si è parlato della situazione politica generale e si è fatto un primo confronto sul percorso da avviare per definire i prossimi obiettivi di governo. Il clima è stato definito come molto positivo e costruttivo.

UN GENNAIO DI FUOCO PER IL GOVERNO

Per il governo, il mese di gennaio si annuncia pieno di insidie e sfide delicate, in un contesto appesantito dalle tensioni interne al Movimento 5 stelle. Il 20 gennaio è previsto il voto della Giunta per l’Immunità del Senato sull’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini nell’ambito del caso Gregoretti; voto da cui la maggioranza potrebbe uscire non così compatta, specie alla luce delle riserve di Italia viva. Sei giorni più tardi, sono in agenda le elezioni regionali in Calabria e soprattutto in Emilia-Romagna, dove un risultato negativo del Pd potrebbe avere effetti pesanti sul governo. Da non sottovalutare anche il dibattito sulla prescrizione, con le tensioni tra M5s e Italia viva.

I DOSSIER INTERNAZIONALI, DALLA LIBIA ALL’IRAN

C’è poi la delicata situazione internazionale, con le tensioni in Libia e quelle tra Usa e Iran. Sul primo fronte, la Farnesina ha fatto sapere che Di Maio sarà al Cairo l’8 gennaio per incontrare il collega egiziano Same Shoukry. Sul secondo fronte, dopo l’uccisione da parte degli Stati Uniti del generale iraniano Qassem Soleimani, preoccupa la sicurezza dei soldati italiani impegnati in Medio Oriente, come ammesso dal premier Giuseppe Conte, che ha fatto appello «alla moderazione, al dialogo, al senso di responsabilità delle parti».

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Il caso Paragone spacca un M5s in agonia

Il senatore espulso è pronto a dare battaglia pure in Tribunale. E Di Battista lo appoggia. Potrebbe essere l'ultimo atto della dissoluzione di un partito che ha perso per strada 17 parlamentari dall'inizio della legislatura, in crisi di identità e nei consensi.

Il senatore Gianluigi Paragone, espulso dal «nulla» che secondo lui è diventato il Movimento 5 stelle, è pronto a dare battaglia anche in Tribunale. E il Movimento stesso, ormai in agonia per la crisi di identità e nei consensi, stavolta rischia davvero l’implosione. Prima le dimissioni natalizie del ministro Lorenzo Fioramonti, passato al gruppo Misto; poi le polemiche sui mancati rimborsi di molti parlamentari; infine la “cacciata” di Paragone, reo di aver votato contro la manovra e di predicare un ritorno alle origini che ha subito incassato il sostegno di Alessandro Di Battista.

Nel mirino ci sono i vertici, a partire da Luigi Di Maio. «Farò ricorso e se mi gira, mi rivolgerò anche alla giustizia ordinaria per far capire l’arbitrarietà delle regole», ha detto Paragone in un video postato su Facebook a meno di 24 ore dalla decisione del Collegio dei Probiviri. Il M5s, per l’ennesima volta, si è spaccato. Di Battista non solo ha difeso Paragone, ma lo ha incorona «infinitamente più grillino di tanti altri».

Al fianco del senatore espulso anche l’altra ‘dissidente’ ed ex ministra Barbara Lezzi, che apprezza l’autonomia di pensiero del collega e attacca il Movimento che «espelle gli anticorpi». Poco dopo il suo post viene condiviso dal senatore Mario Giarrusso, che ha già attaccato frontalmente Di Maio sul tema dei rimborsi, sostenendo di non averli pagati perché ha dovuto provvedere alle «spese legali legate alla sua attività politica» e invitando il capo politico a dimettersi.

Ma non mancano nemmeno quanti si sono posizionati contro Paragone, non perdonando all’ex conduttore tv il giudizio tranchant sul «nulla» che sarebbe diventato il ‘sogno’ di Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo. Di Maio stesso gli ha risposto su Facebook, pur se indirettamente: «In appena 20 mesi abbiamo già approvato 40 provvedimenti. Niente male per un Movimento per la prima volta al governo, no?». Di fatto, però, con l’ultima ‘cacciata’ sono 17 i parlamentari che il M5s ha perso per strada dall’inizio della legislatura, ossia dal 23 marzo 2018. Tra loro, 11 gli espulsi mentre tre senatori sono passati direttamente al “nemico” leghista (Francesco Urraro, Stefano Lucidi e Ugo Grassi), oltre al recentissimo addio di Fioramonti dal ministero dell’Istruzione.

Su Paragone nessuna sorpresa: l’ex direttore della Padania non ha mai digerito l’alleanza con il Pd e mai l’ha nascosto. A parole, con toni sempre più accesi, e nei fatti con il voto. Da sempre contrario allo scudo penale ad ArcelorMittal per l’Ilva, a dicembre aveva votato ‘no’ anche alla risoluzione di maggioranza sul fondo salva-Stati. Fino al colpo di grazia del no alla manovra. Lui si difende appellandosi alla forza rivoluzionaria del Movimento che rischia di sparire: «Possiamo litigare con qualche collega, ma il grosso, fuori nel Paese, crede che ci sia ancora bisogno di una forza che dica che ci sono delle ingiustizie. Questa era la forza dei Cinque Stelle».

Un approccio che ha subito trovato la sponda di Di Battista e di quanti nel M5s guardano a lui per una nuova leadership: «Non c’è mai stata una volta che non fossi d’accordo con Paragone. Vi esorto a leggere quel che dice e a trovare differenze con quel che dicevo io nell’ultima campagna elettorale che ho fatto». Paragone ovviamente ringrazia e rafforza l’asse: «Ale rappresenta quell’idea di azione e di intransigenza che mi hanno portato a conoscere il Movimento: stop allo strapotere finanziario, stop con l’Europa di Bruxelles. Io quel programma lo difendo perché con quel programma sono stato eletto».

Il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra, ribatte: «Se ci definisci il nulla, perché rimanevi nel nulla prima di essere espulso?». Mentre Paola Taverna usa il sarcasmo: «Ehi Gianluigi, a quando il nuovo libro con tutte le rivelazioni?». Toni duri anche dal vice presidente del Parlamento europeo, Fabio Castaldo: «Criticare le scelte operate a livello nazionale è un conto, ma dare del nulla a chi ha lottato, a chi si è sacrificato per un sogno, è per me inaccettabile. Se questo è quello che intendeva, dovrebbe scusarsi». Luigi Gallo, altro M5s tra i più fedeli e presidente della commissione Cultura della Camera, rilancia: «Sarebbe bello interrogarsi su quello che ha fatto Paragone in due anni da parlamentare. Il nulla cosmico».

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Continua lo scontro tra Fioramonti e il M5S sui rimborsi

L'ex ministro dell'Istruzione ribadisce le sue critiche al sistema delle restituzioni. Il Movimento minaccia sanzioni ed espulsioni. Ipotesi però poco concreta.

È alta tensione all’interno del Movimento Cinque Stelle sul tema dei rimborsi, al centro del dibattito pentastellato dopo il clamoroso addio di Lorenzo Fioramonti al governo e le sue frizioni con i vertici dello stesso Movimento. L’ex ministro dell’Istruzione ha ribadito le sue critiche al sistema delle restituzioni a carico dei parlamentari Cinque Stelle di parte dei loro emolumenti. Su questo punto – scrive su Facebook – c’è «il risentimento dei parlamentari e l’imbarazzo dei gruppi dirigenti per un sistema gestito da una società il cui ruolo rimane a tutti poco chiaro». Pronta la replica dei vertici del Movimento che, attraverso il blog delle Stelle, lanciano una sorta di ultimatum a chi non restituisce: «Per coloro che dopo il 31 dicembre saranno ancora in ritardo si attiveranno i Probiviri», spiega il post. Difficile, tuttavia, che l’avvertimento abbia affetto. Anche perché, nei gruppi del M5S, il nodo delle restituzioni unisce malpancisti di varia origine.

Gli esperti di comunicazione mi hanno spiegato che alle fake news non si replica, perché rischi di dare la notizia due…

Posted by Lorenzo Fioramonti on Saturday, December 28, 2019

FIORAMONTI: «METODO FERRAGINOSO E POCO TRASPARENTE»

Sui rimborsi, Fioramonti parla di «metodo farraginoso e poco trasparente con cui si gestiscono le nostre restituzioni». Ma l’ex ministro va oltre, lanciando un appello ai capigruppo 5S per chiedere loro di «chiarire la situazione», perché, aggiunge, «gli attacchi di questi giorni nei miei confronti sono davvero inaccettabili». E infine rimarca: «Le mie posizioni si conoscevano benissimo quando, a Settembre, venni nominato Ministro. Ed erano note anche quando tutti si congratulavano con me, per il lavoro svolto e per chiedermi di non mollare». Parole che per ora si infrangono sul muro dei vertici del Movimento e di Luigi Di Maio. «A partire dal mese di novembre tutti i parlamentari in ritardo con le rendicontazioni e le relative restituzioni sono stati raggiunti da mail per ricordare loro gli impegni giuridici e morali assunti, all’atto della candidatura con il M5S», ricorda il post.

DIFFICILE CHE SI ARRIVI A SANZIONI O ESPULSIONI

Detto questo, chi conosce bene le dinamiche interne al Movimento fa notare che l’ipotesi di sanzione o addirittura di espulsione ai danni dei morosi sia poco concreta. Il team di legali che coadiuva il Movimento da settimane sta studiando modalità e tempistiche di eventuali azioni. Ma la strada è in salita. L’adesione alla regola delle restituzioni è basata sì su un contratto, ma sottoscritto volontariamente, per cui difficilmente la violazione di tale impegno può portare in qualche modo a reali sanzioni giudiziarie. Né, in questo momento, a Di Maio preme procedere con nuove espulsioni, dando così una sponda preziosa a chi medita di uscire dal Movimento.

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Continua lo scontro tra Fioramonti e il M5S sui rimborsi

L'ex ministro dell'Istruzione ribadisce le sue critiche al sistema delle restituzioni. Il Movimento minaccia sanzioni ed espulsioni. Ipotesi però poco concreta.

È alta tensione all’interno del Movimento Cinque Stelle sul tema dei rimborsi, al centro del dibattito pentastellato dopo il clamoroso addio di Lorenzo Fioramonti al governo e le sue frizioni con i vertici dello stesso Movimento. L’ex ministro dell’Istruzione ha ribadito le sue critiche al sistema delle restituzioni a carico dei parlamentari Cinque Stelle di parte dei loro emolumenti. Su questo punto – scrive su Facebook – c’è «il risentimento dei parlamentari e l’imbarazzo dei gruppi dirigenti per un sistema gestito da una società il cui ruolo rimane a tutti poco chiaro». Pronta la replica dei vertici del Movimento che, attraverso il blog delle Stelle, lanciano una sorta di ultimatum a chi non restituisce: «Per coloro che dopo il 31 dicembre saranno ancora in ritardo si attiveranno i Probiviri», spiega il post. Difficile, tuttavia, che l’avvertimento abbia affetto. Anche perché, nei gruppi del M5S, il nodo delle restituzioni unisce malpancisti di varia origine.

Gli esperti di comunicazione mi hanno spiegato che alle fake news non si replica, perché rischi di dare la notizia due…

Posted by Lorenzo Fioramonti on Saturday, December 28, 2019

FIORAMONTI: «METODO FERRAGINOSO E POCO TRASPARENTE»

Sui rimborsi, Fioramonti parla di «metodo farraginoso e poco trasparente con cui si gestiscono le nostre restituzioni». Ma l’ex ministro va oltre, lanciando un appello ai capigruppo 5S per chiedere loro di «chiarire la situazione», perché, aggiunge, «gli attacchi di questi giorni nei miei confronti sono davvero inaccettabili». E infine rimarca: «Le mie posizioni si conoscevano benissimo quando, a Settembre, venni nominato Ministro. Ed erano note anche quando tutti si congratulavano con me, per il lavoro svolto e per chiedermi di non mollare». Parole che per ora si infrangono sul muro dei vertici del Movimento e di Luigi Di Maio. «A partire dal mese di novembre tutti i parlamentari in ritardo con le rendicontazioni e le relative restituzioni sono stati raggiunti da mail per ricordare loro gli impegni giuridici e morali assunti, all’atto della candidatura con il M5S», ricorda il post.

DIFFICILE CHE SI ARRIVI A SANZIONI O ESPULSIONI

Detto questo, chi conosce bene le dinamiche interne al Movimento fa notare che l’ipotesi di sanzione o addirittura di espulsione ai danni dei morosi sia poco concreta. Il team di legali che coadiuva il Movimento da settimane sta studiando modalità e tempistiche di eventuali azioni. Ma la strada è in salita. L’adesione alla regola delle restituzioni è basata sì su un contratto, ma sottoscritto volontariamente, per cui difficilmente la violazione di tale impegno può portare in qualche modo a reali sanzioni giudiziarie. Né, in questo momento, a Di Maio preme procedere con nuove espulsioni, dando così una sponda preziosa a chi medita di uscire dal Movimento.

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Di Maio insiste: «Nel 2020 stop ad Autostrade, concessioni affidate a Anas»

Il leader del M5s nega che il costo dell'operazione possa essere di 23 miliardi: «Un'enorme sciocchezza»

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è tornato a dare battaglia sul nodo delle concessioni autostradali ad Autostrade per l’Italia. «Nel 2020, una delle prime cose da inserire nella nuova agenda di governo dovrà essere la revoca delle concessioni ad Autostrade, con l’affidamento ad Anas e il conseguente abbassamento dei pedaggi autostradali. Le famiglie delle vittime del Ponte Morandi aspettano una risposta. E noi gliela daremo.
Non solo a loro, ma a tutto il Paese», ha scritto su Facebook il leader
del M5S Di Maio. Il ministro ha anche definito una «enorme sciocchezza» il fatto che la revoca costi 23 miliardi allo Stato.

Il messaggio postato da Luigi Di Maio il 27 dicembre ANSA / Facebook

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Di Maio insiste: «Nel 2020 stop ad Autostrade, concessioni affidate a Anas»

Il leader del M5s nega che il costo dell'operazione possa essere di 23 miliardi: «Un'enorme sciocchezza»

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è tornato a dare battaglia sul nodo delle concessioni autostradali ad Autostrade per l’Italia. «Nel 2020, una delle prime cose da inserire nella nuova agenda di governo dovrà essere la revoca delle concessioni ad Autostrade, con l’affidamento ad Anas e il conseguente abbassamento dei pedaggi autostradali. Le famiglie delle vittime del Ponte Morandi aspettano una risposta. E noi gliela daremo.
Non solo a loro, ma a tutto il Paese», ha scritto su Facebook il leader
del M5S Di Maio. Il ministro ha anche definito una «enorme sciocchezza» il fatto che la revoca costi 23 miliardi allo Stato.

Il messaggio postato da Luigi Di Maio il 27 dicembre ANSA / Facebook

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L’endorsement di Di Maio alle Sardine

«Bella piazza, sarebbe bello lavorare insieme», ha detto il leader del M5s dopo la manifestazione di Piazza San Giovanni a Roma. E sulla Popolare di Bari dice: «Va nazionalizzata».

Alla fine le Sardine si sono prese anche piazza San Giovanni a Roma, luogo storico della sinistra, stipate a decine di migliaia. Più di 100 mila per gli organizzatori. Un terzo circa, per la questura. E proprio le Sardine sono uno dei due argomenti principali di una lunga intervista di Luigi di Maio al Corriere. «Bella piazza, si può lavorare insieme», ha detto il ministro degli Esteri. «Ogni nostra convergenza è sempre sul programma. Ma facciamo così: per ipotesi, sarebbe bello lavorare insieme su ambiente, giustizia, diritti sociali, lavoro, casa e aiuto alle persone in difficoltà».

SULLA POPOLARE DI BARI: «COMMISSIONE D’INCHIESTA SULLE BANCHE»

Invece della Popolare di Bari, ultima patata bollente finita sul tavolo del Governo, Di Maio pensa che vada «nazionalizzata». «Se una banca fallisce», ha spiegato il capo politico del M5 sempre al Corriere, «non è colpa dei risparmiatori. La solidità del sistema è fondamentale, ma se ci sono manager che hanno prestato soldi allo scoperto, devono pagare. Il tempo del silenzio è finito», sostiene. E sulla necessità di salvare prima i risparmi di 70 mila famiglie, ha osservato: «Possiamo fare tutte e due le cose: avviare in Consiglio dei ministri il procedimento che metta agli atti i nomi di chi ha ricevuto soldi allo scoperto, facendo chiarezza sui legami politici locali, e contestualmente mettere al riparo i risparmi. E bisogna far partire la commissione d’inchiesta sulle banche». Se lo Stato – ha aggiunto – «deve mettere soldi per salvare i conti correnti, dobbiamo fare in modo che quella banca sia nazionalizzata. Il nostro progetto è la banca pubblica degli investimenti». E in merito al decreto: «Daremo due risposte, una ai mercati, l’altra ai cittadini».

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Di Maio non vede che Tripoli sta per cadere in mano russa

La crisi libica mette in risalto tutta l'inadeguatezza del ministro degli Esteri. Troppo preso dalle grane interne al M5s per accorgersi che l'Italia si sta condannando all'ininfluenza.

L’inesperienza e l’insipienza di Luigi di Maio – e del premier Giuseppe Conte – hanno ormai espulso l’Italia da un qualsiasi ruolo nella crisi libica. Il ministro degli Esteri infatti si muove all’insegna di un dogma: «Non esiste soluzione militare: rinnoviamo l’impegno dell’Italia per una soluzione pacifica». Ma il punto è che invece proprio la soluzione militare si sta imponendo con l’imminente conquista armata di Tripoli da parte del generale Khalifa Haftar. L’allarme non è nostro, ma è stato lanciato con toni drammatici dallo stesso inviato dell’Onu Ghassam Salamé che ha dato per certa la caduta di Tripoli, non grazie alla abilità militare di Haftar (che non ha mai vinto né una guerra né una battaglia), ma come conseguenza ovvia della decisione strategica della Russia di Vladimir Putin di gettare nella battaglia attorno alla capitale libica la potente forza d’urto di 1.400-2.000 mercenari della Organizzazione Wagner –una macchina da guerra efficientissima- che stanno facendo capitolare le difese delle milizie di Misurata.

L’ANNUNCIO DI ERDOGAN E LA MINACCIA DI HAFTAR

L’imporsi imminente di una drammatica soluzione militare è tale che immediata e speculare è stata la reazione del presidente turco Tayyp Erdogan che ha annunciato che –su richiesta del governo legittimo di Fayez al Serraj– è pronto a inviare a Tripoli una forza di 5 mila militari per garantirne la difesa. Il governo di al Serraj ha immediatamente accolto con favore questa opzione. Anche Haftar ha preso sul serio questa opzione, tanto che ha minacciato «di affondare tutte le navi turche che portino soldati in Libia». Tuoni crescenti di guerra. Dunque, lo stallo della guerra civile libica che dura da anni, ha avuto una improvvisa accelerazione bellica dovuta alla decisione di Putin di applicare il “modulo ucraino”: un forte e determinante impegno militare russo affidato non già a truppe regolari (come in Siria), ma grazie agli “uomini verdi”, ex membri delle Forze speciali russe –formidabili combattenti reduci dal conflitto ceceno- inquadrati in una organizzazione privata, ma funzionale alla politica di Putin e coordinata col Cremlino.

DI MAIO SI GUARDA BENE DAL VOLARE A MOSCA E AD ANKARA

Il governo italiano non ha minimamente preso atto di questo drammatico cambiamento di scenario e ha rifiutato di compiere l’unica mossa indispensabile se vuole continuare a giocare in Libia: un intervento diplomatico diretto sulla Russia (e sulla Turchia). Ma Di Maio –preso come è dalle grane interne al M5s– si guarda bene dal volare a Mosca e ad Ankara. Pure, vi sarebbe un ampio spazio di manovre diplomatica per il nostro Paese. Putin ed Erdogan, infatti, hanno ampiamente dimostrato in Siria che –pur con interessi a volte divergenti- sono in grado di mediare le proprie strategia. Sono in contatto telefonico sulla crisi libica e si apprestano ad un vertice l’8 gennaio. L’Italia ha (avrebbe) tutti i titoli per inserirsi in questa dinamica di trattativa su Tripoli. Ma dà segno di non essersi nemmeno accorta che la propria visione del conflitto è scaduta, che i vertici non servono a nulla quando è la forza delle armi che determina i rapporti di forza. Un esempio raro e drammatico di dilettantismo.

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Di Maio non vede che Tripoli sta per cadere in mano russa

La crisi libica mette in risalto tutta l'inadeguatezza del ministro degli Esteri. Troppo preso dalle grane interne al M5s per accorgersi che l'Italia si sta condannando all'ininfluenza.

L’inesperienza e l’insipienza di Luigi di Maio – e del premier Giuseppe Conte – hanno ormai espulso l’Italia da un qualsiasi ruolo nella crisi libica. Il ministro degli Esteri infatti si muove all’insegna di un dogma: «Non esiste soluzione militare: rinnoviamo l’impegno dell’Italia per una soluzione pacifica». Ma il punto è che invece proprio la soluzione militare si sta imponendo con l’imminente conquista armata di Tripoli da parte del generale Khalifa Haftar. L’allarme non è nostro, ma è stato lanciato con toni drammatici dallo stesso inviato dell’Onu Ghassam Salamé che ha dato per certa la caduta di Tripoli, non grazie alla abilità militare di Haftar (che non ha mai vinto né una guerra né una battaglia), ma come conseguenza ovvia della decisione strategica della Russia di Vladimir Putin di gettare nella battaglia attorno alla capitale libica la potente forza d’urto di 1.400-2.000 mercenari della Organizzazione Wagner –una macchina da guerra efficientissima- che stanno facendo capitolare le difese delle milizie di Misurata.

L’ANNUNCIO DI ERDOGAN E LA MINACCIA DI HAFTAR

L’imporsi imminente di una drammatica soluzione militare è tale che immediata e speculare è stata la reazione del presidente turco Tayyp Erdogan che ha annunciato che –su richiesta del governo legittimo di Fayez al Serraj– è pronto a inviare a Tripoli una forza di 5 mila militari per garantirne la difesa. Il governo di al Serraj ha immediatamente accolto con favore questa opzione. Anche Haftar ha preso sul serio questa opzione, tanto che ha minacciato «di affondare tutte le navi turche che portino soldati in Libia». Tuoni crescenti di guerra. Dunque, lo stallo della guerra civile libica che dura da anni, ha avuto una improvvisa accelerazione bellica dovuta alla decisione di Putin di applicare il “modulo ucraino”: un forte e determinante impegno militare russo affidato non già a truppe regolari (come in Siria), ma grazie agli “uomini verdi”, ex membri delle Forze speciali russe –formidabili combattenti reduci dal conflitto ceceno- inquadrati in una organizzazione privata, ma funzionale alla politica di Putin e coordinata col Cremlino.

DI MAIO SI GUARDA BENE DAL VOLARE A MOSCA E AD ANKARA

Il governo italiano non ha minimamente preso atto di questo drammatico cambiamento di scenario e ha rifiutato di compiere l’unica mossa indispensabile se vuole continuare a giocare in Libia: un intervento diplomatico diretto sulla Russia (e sulla Turchia). Ma Di Maio –preso come è dalle grane interne al M5s– si guarda bene dal volare a Mosca e ad Ankara. Pure, vi sarebbe un ampio spazio di manovre diplomatica per il nostro Paese. Putin ed Erdogan, infatti, hanno ampiamente dimostrato in Siria che –pur con interessi a volte divergenti- sono in grado di mediare le proprie strategia. Sono in contatto telefonico sulla crisi libica e si apprestano ad un vertice l’8 gennaio. L’Italia ha (avrebbe) tutti i titoli per inserirsi in questa dinamica di trattativa su Tripoli. Ma dà segno di non essersi nemmeno accorta che la propria visione del conflitto è scaduta, che i vertici non servono a nulla quando è la forza delle armi che determina i rapporti di forza. Un esempio raro e drammatico di dilettantismo.

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Nel M5s anche Castaldo contro Di Maio sul listino bloccato

Il vicepresidente del parlamento Ue Castaldo, capo delegazione del M5s in Europa, contro il leader i suoi "facilitatori". E cioè la segreteria del M5s, di cui sei membri scelti direttamente dal ministro degli Esteri.

Dopo le fuoriuscite di Lucidi e Grassi, i due senatori che sono passati alla Lega, il M5s prova a cambiare pagina con il voto su Rousseau di quella che in altri partiti si sarebbe chiamata segreteria. Ma quel voto è un prendere o lasciare comprese le sei persone scelte direttamente dal capo politico Luigi Di Maio. Un metodo che non è piaciuto affatto a un nome che nel movimento sta acquisendo sempre più peso cioè quel Fabio Massimo Castaldo eletto vice presidente del parlamento europeo e che guida il gruppo grillino che a Bruxelles ha segnato il divorzio dalla Lega votando a favore della commissione di Ursula Von der Leyen.

Fabio Massimo Castaldo durante il convegno ”Open Democracy ? Democrazia in rete e nuove forme di partecipazione cittadina”, organizzato dal Movimento 5 Stelle alla Camera dei Deputati presso la Sala Mappamondo, 18 aprile 2016 a Roma. ANSA/FABIO CAMPANA

«UNA SCELTA AMPIA DI INCOERENZA»

«Una scelta d’ampia incoerenza: #iodicono alle liste bloccate!». Così in un post il vicepresidente M5s del Parlamento europeo Fabio Massimo Castaldo commenta il voto in blocco su Rousseau del listino dei cosiddetti facilitatori nazionali scelti dal capo politico del Movimento Luigi Di Maio. «La trovo una scelta ampiamente incoerente: abbiamo portato avanti per anni la battaglia a favore delle preferenze nella legge elettorale, abbiamo combattuto sempre contro i listini bloccati e imposti dall’alto, e ora poniamo i nostri attivisti davanti a un voto del genere?», ha chiesto. «Credo che non sia affatto corretto presentare un listino bloccato e dare la possibilità di votare solamente Si o No all’intera lista: si sarebbe dovuto dare a tutti noi la possibilità di votare individualmente ogni componente di quella squadra. Mi sembra non solo incoerente, ma anche limitante», ha scritto su Fb, Castaldo protestando sulla scelta di far semplicemente ratificare dalla rete i sei facilitatori M5S scelti dal capo politico.

Il capo politico del M5s Luigi Di Maio.

18 FACILITATORI, SEI SCELTI DAL CAPO

Il ragionamento del vicepresidente del parlamento europeo prosegue: «Si sceglie, infatti, una squadra di 18 persone che affiancherà il capo politico del Movimento nei processi decisionali e nelle scelte programmatiche. In questo percorso «sei facilitatori sono indicati direttamente dal capo politico, con funzioni estremamente rilevanti, e oggi si vota anche per confermare o declinare tale scelta». Nel listino, sottolinea l’eurodeputato, ci sono nomi «diversi di assoluto valore per competenze, capacità e impegno dimostrato in questi anni. Ma in tutta franchezza non posso tacere sul fatto che ci sia un problema non tanto di merito, sul quale non voglio esprimermi per non influenzare in alcun modo il vostro giudizio». «Si sarebbe dovuto dare a tutti noi la possibilità di votare individualmente ogni componente di quella squadra. Svolgeranno funzioni molto diverse gli uni dagli altri, pertanto il voto avrebbe dovuto essere sulla competenza dei singoli» sostiene. Il problema, invece, è «di metodo. E per questo vorrei porre una riflessione a tutti noi attivisti».

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Il Mes spacca il M5s, Di Maio a un bivio

Il capo politico vuole evitare di appiattirsi sul Pd presentando una risoluzione solitaria sul Salva Stati. Dall'altro sa che non può tirare troppo la corda. Lo scenario.

Archiviato il braccio di ferro sulla manovra su cui la maggioranza pare essere arrivata a un accordo, Luigi Di Maio deve vedersela con il dossier Mes. Permanenza al governo, tenuta di una leadership sempre più in discussione e sopravvivenza dello stesso Movimento 5 stelle.

Lunedì mattina comincia il conto alla rovescia. I pentastellati hanno 48 ore per cercare di assottigliare il fronte contrario a una risoluzione di maggioranza con il Pd sul fondo Salva Stati. Portare in Aula una risoluzione in solitaria per il M5s equivarrebbe infatti accendere la miccia della crisi di governo.

DI MAIO ABBASSA I TONI

I dissidenti, in Senato e alla Camera, ci sono e ci saranno. E Di Maio lo sa. Tutto dipende dal loro numero. Difficile convincere parlamentari come Paragone, Grassi, Giarrusso, Maniero o Raduzzi, i duri e puri contro il Mes. Giuseppe Conte dal canto suo ostenta sicurezza e tranquillità. Mentre il capo politico M5s, dopo aver teso la mano ad Alessandro Di Battista, abbassando i toni. Né Beppe Grillo, né la maggior parte degli eletti vuole la crisi. Lo confermano le parole di Roberta Lombardi che sabato a SkyTg24 ha difeso il governo chiedendo di fatto a Di Maio «meno tweet e più mediazione». Il capo politico M5s è di fronte a un bivio. Da un lato vuole difendere l’identità del Movimento senza appiattirsi sul Pd, dall’altro sa che è necessario non tirare troppo la corda con gli alleati visto che in caso di una vittoria in Emilia-Romagna Nicola Zingaretti potrebbe rompere facendo di fatto cadere l’esecutivo.

MESSAGGI DI PACE NEL M5S

Un primo risultato Di Maio lo ha raggiunto. In una nota congiunta del vice capogruppo M5s alla Camera Francesco Silvestri e dei 14 capicommissioni viene negata con forza la stesura di un documento politico contro di lui. Resta però «la necessità di un confronto periodico perché ognuno deve essere un pezzo di un ingranaggio collegiale», è la linea dei capicommissione. Una linea che un parlamentare sintetizza così: «Non vogliamo più sapere cosa farà il M5s dai giornali».

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Il Mes spacca il M5s, Di Maio a un bivio

Il capo politico vuole evitare di appiattirsi sul Pd presentando una risoluzione solitaria sul Salva Stati. Dall'altro sa che non può tirare troppo la corda. Lo scenario.

Archiviato il braccio di ferro sulla manovra su cui la maggioranza pare essere arrivata a un accordo, Luigi Di Maio deve vedersela con il dossier Mes. Permanenza al governo, tenuta di una leadership sempre più in discussione e sopravvivenza dello stesso Movimento 5 stelle.

Lunedì mattina comincia il conto alla rovescia. I pentastellati hanno 48 ore per cercare di assottigliare il fronte contrario a una risoluzione di maggioranza con il Pd sul fondo Salva Stati. Portare in Aula una risoluzione in solitaria per il M5s equivarrebbe infatti accendere la miccia della crisi di governo.

DI MAIO ABBASSA I TONI

I dissidenti, in Senato e alla Camera, ci sono e ci saranno. E Di Maio lo sa. Tutto dipende dal loro numero. Difficile convincere parlamentari come Paragone, Grassi, Giarrusso, Maniero o Raduzzi, i duri e puri contro il Mes. Giuseppe Conte dal canto suo ostenta sicurezza e tranquillità. Mentre il capo politico M5s, dopo aver teso la mano ad Alessandro Di Battista, abbassando i toni. Né Beppe Grillo, né la maggior parte degli eletti vuole la crisi. Lo confermano le parole di Roberta Lombardi che sabato a SkyTg24 ha difeso il governo chiedendo di fatto a Di Maio «meno tweet e più mediazione». Il capo politico M5s è di fronte a un bivio. Da un lato vuole difendere l’identità del Movimento senza appiattirsi sul Pd, dall’altro sa che è necessario non tirare troppo la corda con gli alleati visto che in caso di una vittoria in Emilia-Romagna Nicola Zingaretti potrebbe rompere facendo di fatto cadere l’esecutivo.

MESSAGGI DI PACE NEL M5S

Un primo risultato Di Maio lo ha raggiunto. In una nota congiunta del vice capogruppo M5s alla Camera Francesco Silvestri e dei 14 capicommissioni viene negata con forza la stesura di un documento politico contro di lui. Resta però «la necessità di un confronto periodico perché ognuno deve essere un pezzo di un ingranaggio collegiale», è la linea dei capicommissione. Una linea che un parlamentare sintetizza così: «Non vogliamo più sapere cosa farà il M5s dai giornali».

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M5s, Lombardi: «Da Di Maio vorrei meno tweet e più mediazione»

La capogruppo pentastellata alla Regione Lazio a SkyTg24 critica l'atteggiamento del capo politico troppo «muscolare».

Luigi Di Maio, sempre più isolato all’interno del M5s, lo ha negato con insistenza: l’idea che il M5s voglia fare cadere il governo «è una sciocchezza», ha ribadito il 6 dicembre a Radio Capital. «Lo abbiamo fatto nascere noi, altrimenti non lo facevamo partire». Eppure le acque pentastellate restano increspate.

LOMBARDI DIFENDE IL GOVERNO CON IL PD

Sabato a lanciare la frecciata quotidiana all’indirizzo del ministro degli Esteri e capo politico del M5s è stata Roberta Lombardi. «Io so che Di Maio sta cercando di porre all’attenzione del governo dei punti di vista tipici del M5s ma preferirei ci fosse molto meno la ricerca del tweet e molto più la voglia di conciliare punti di vista diversi che però hanno pari dignità e devono trovare una forma di mediazione», ha detto la capogruppo pentastellata alla Regione Lazio ospite de L’intervista di Maria Latella su Skytg24. Insomma l’atteggiamento di Di Maio «è quello del capo politico di una forza che sta cercando di mantenere la propria identità all’interno del governo ma», ha messo in chiaro, «lo fa in una modalità molto muscolare che non condivido, preferirei che fosse più mediata».

LOMBARDI: «DIAMO UN’OPPORTUNITÀ A QUESTO PAESE»

Alla domanda su cosa pensi Di Maio di questo governo, Lombardi ha risposto in pieno stile pentastellato delle origini. «Io vengo da una scuola del M5s dove quello che interessa non è l’opinione del singolo. Sono stata uno degli sponsor di questo governo perché ho detto che c’è la possibilità di fare delle cose bene insieme. Diamo un’opportunità a questo Paese, adesso questo governo deve continuare a essere utile». Del resto, ha ricordato la capogruppo 5 stelle alla Pisana, anche il garante Beppe Grillo ha sempre detto che «ci sono dei temi» su cui Pd e M5s possono trovare un punto di accordo. Come M5s, ha aggiunto, «abbiamo fatto un investimento su questo governo perché volevamo fare delle cose utili per il Paese. Quindi sicuramente questo modo continuo di porre dei distinguo, anche semplificando il messaggio politico alla ricerca sempre del titolo o dell’agenzia che ti ponga più in evidenza, è stancante», ha messo in chiaro Lombardi.

«NESSUNA DEROGA SUL SECONDO MANDATO»

Sulla regola del secondo mandato la «rompiscatole» (come lei stessa si definisce) Lombardi ha puntato i piedi. Anche se si tratta di Virginia Raggi. «Nessuna deroga per nessuno. Si può fare politica anche fuori dalle istituzioni, anzi un ricambio generazionale è sano e salutare», ha detto l’ex parlamentare M5s.

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I temi al centro dell’incontro fra Di Maio e Lavrov

Il ministro degli Esteri ha chiesto all'omologo russo di rimuovere le sanzioni sul parmigiano reggiano. E sulla Libia ha invitato Mosca ad agire nell'alveo della Conferenza di Berlino.

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha incontrato a Roma Sergej Lavrov, capo della diplomazia russa. Tanti i temi al centro del bilaterale: dalla guerra in Libia alle sanzioni che l’Unione europea ha imposto alla Russia, passando per le contromisure di Mosca che hanno colpito, tra le altre cose, anche le esportazioni italiane di parmigiano reggiano.

ITALIA PREOCCUPATA PER L’ESCALATION MILITARE IN LIBIA

«Questo confronto conferma l’importanza della Russia per l’Italia come interlocutore fondamentale», ha detto Di Maio nella conferenza stampa finale, «ho rappresentato al ministro Lavrov le nostre preoccupazioni per l’intensificarsi della guerra civile in Libia, ribadendo che per noi non esiste una soluzione militare».

SUL CAMPO INTERESSI DIVERGENTI

Mosca, tuttavia, appoggia il generale Khalifa Haftar e sarebbe presente sul campo con alcune migliaia di mercenari: una scelta opposta rispetto a quella fatta da Roma, che al contrario sostiene il governo del premier Fayez al-Serraj. In Libia, ha detto non a caso Di Maio, ci sono «troppe interferenze, mentre ogni iniziativa dovrebbe entrare nell’alveo della Conferenza di Berlino. Non perché ci sia una presunzione di superiorità europea, ma perché se tutti sono impegnati a lavorare sul cessate il fuoco è importante non promuovere fughe in avanti».

LA STOCCATA DI LAVROV ALLA NATO

Lavrov, intervenendo ai Med Dialogues, non ha risparmiato una stoccata all’Alleanza atlantica: «In Libia la Nato ha svolto un’avventura pericolosa, che ha avuto un impatto negativo sull’economia del Paese. Solo con un dialogo inclusivo e internazionale si potrà risolvere la crisi. Plaudiamo all’iniziativa della cancelliera Merkel, che ha organizzato la Conferenza di Berlino per proseguire quella di Parigi e quella di Palermo» Ma la Conferenza di Berlino «ci ha meravigliato perché non sono state invitate le parti libiche e i Paesi vicini, quindi in questo senso è stata un’occasione persa. Spero che in futuro vengano fatti passi in avanti con un approccio più inclusivo».

UNA «RIFLESSIONE POLITICA» SULLE SANZIONI EUROPEE

Quanto alle sanzioni europee in risposta alle azioni russe contro l’integrità territoriale dell’Ucraina, Di Maio ha detto che l’Italia «si muove nel solco dell’Unione europea», ma vuole «promuovere una riflessione politica che preveda gli effetti sulle nostre aziende delle sanzioni e delle contromisure russe».

IL DOSSIER PARMIGIANO

Allo stesso tempo «servono passi avanti sugli accordi di Minsk, fondamentali per riuscire a scongelare la situazione». Il titolare della Farnesina ha quindi chiesto a Lavrov di «rimuovere le sanzioni sul parmigiano reggiano», perché a suo giudizio «non rientrano nei parametri di quelle ideate nei confronti dell’Unione europea». Una mossa spendibile anche in ottica elettorale, visto che in Emilia-Romagna si vota il 26 gennaio. Il leader del M5s ha infine annunciato che a luglio sarà in Russia per ricambiare la visita diplomatica e per partecipare all’Innoprom, la fiera sulla tecnologia.

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Perché sulla prescrizione Di Maio e il governo si giocano il futuro

Trovare un'intesa o far crollare tutto: giustizia decisiva per le sorti dei giallorossi. E anche per quelle del capo M5s: in caso di elezioni sarebbe sostituito da Di Battista. Ma tra paletti renziani e scenari di asse Pd-Forza Italia l'accordo sembra lontano.

La prescrizione potrebbe essere la miccia accesa per far deflagrare il governo. La preoccupazione rimbalza da Palazzo Chigi alle Camere, attraversando le segreterie dei partiti. È il tema su cui Luigi Di Maio manifesterà le reali intenzioni sull’alleanza con Partito democratico e Italia viva. Nei fatti può tirare la corda fino a spezzarla, senza che nessuno gli possa rinfacciare alcunché: la cancellazione della prescrizione è una misura bandiera del Movimento 5 stelle.

BONAFEDE IN PRIMA FILA

Fonti della maggioranza osservano: «Nessuno potrà polemizzare sulla prescrizione. Nemmeno i suoi più tenaci detrattori». Di sicuro al fianco di Di Maio c’è il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che ha voluto questo provvedimento quando era al governo con la Lega e che lo sta difendendo anche dai rilievi del Pd.

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede all’epoca del governo gialloverde con la Lega di Matteo Salvini.

ATTESO UN GESTO DI CHIAREZZA DAI CINQUE STELLE

Dunque se il numero uno della Farnesina vuole davvero far cadere il Conte II ha l’occasione giusta: quasi irripetibile. Al contrario se dovesse mostrare disponibilità a trovare un’intesa, allora agli alleati arriverebbe un messaggio chiaro: la volontà, nonostante tutto, di proseguire con il governo. Insomma, sulla prescrizione è atteso il gesto di chiarezza invocato da più parti, qualunque sia la direzione.

DI MAIO PERÒ RISCHIA ANCHE LA SUA FINE POLITICA

La partita presenta un alto coefficiente di rischio per Di Maio: la fine di questo esecutivo sarebbe in pratica la fine della sua parabola politica. Una prescrizione delle sue ambizioni. La coalizione con i dem è tuttora sponsorizzata da Beppe Grillo: resta convinto che il Conte II sia un’opportunità per il M5s. La sola idea di staccare la spina fa virare i suoi umori verso il nero. E chissà che l’Elevato, come si è proclamato l’ex comico, in caso di crisi di governo non decida di avviare “il processo” di destituzione del capo politico, raccogliendo tutti i malumori nel Movimento. Che sono tanti e solidi, come testimonia il costante sbandamento dei gruppi parlamentari.

DA ESCLUDERE UN RITORNO CON LA LEGA

Di Maio dovrebbe avere un piano B da tirar fuori come un coniglio dal cilindro per garantirsi un futuro politico. Neppure nella più incallita professione di ottimismo può immaginare di tirare dritto, come se nulla fosse, di fronte all’eventuale showdown che porterebbe il Paese alle elezioni. Perché non ci sono altre strade percorribili. Il remake dell’alleanza con la Lega è impraticabile per varie ragioni. Prima di tutto i gruppi parlamentari del M5s sono nettamente contrari a un ritorno al passato; inoltre Matteo Salvini non avrebbe alcun motivo per tornare indietro.

DI BATTISTA PRONTO A DIVENTARE NUOVO UOMO IMMAGINE

E infine il Quirinale ha fatto filtrare più volte l’orientamento: dopo il Conte II è quasi impossibile pensare che possano esserci altri esecutivi in questa legislatura. Quindi resta solo lo scenario elettorale e l’ipotesi del tandem con Alessandro Di Battista: l’ex deputato sarebbe l’uomo immagine con il capo politico a fare da regista alle spalle. Ma si torna al punto di partenza: è una sfida spericolata, che finge di non considerare gli effetti del trauma di una rottura. E che ignora il calo nei sondaggi.

di maio di battista prescrizione
Luigi Di Maio con Alessandro Di Battista. (Ansa)

M5S CONTRO I «PALETTI RENZIANI»

Guarda caso, però, proprio Di Battista è tornato a pestare duro sulla cancellazione della prescrizione, rinsaldando la ritrovata intesa con il leader del Movimento. «I politici del Pd, che osano mettere a rischio questa norma di civiltà, dovrebbero avere il coraggio di andare dai familiari dei morti di Casale Monferrato, guardarli negli occhi e imbastire le ormai ventennali supercazzole sul tema», ha attaccato ricordando le vittime dell’Eternit e parlando poi di «pali renziani» all’interno del Pd.

CONTE, FIUTATA L’ARIA, VUOLE MEDIARE

Praticamente in contemporanea Di Maio ha evocato un Nazareno 2.0 sulla Giustizia, una rinnovata intesa PdForza Italia, sfoderando il lessico marcatamente ostile ai dem. Giuseppe Conte ha fiutato l’aria ed è intervenuto dicendosi di sicuro che sarà «trovata una soluzione». Le ostilità sono aperte e la tensione è troppo alta: per questo il presidente del Consiglio ha cercato di stemperare la polemica.

IL PD OSSERVA E NON FA PASSI INDIETRO

A Largo del Nazareno, intanto, non c’è alcuna intenzione di giocare al ruolo di “responsabili” a ogni costo. Sul tema della prescrizione men che meno. Il segretario Nicola Zingaretti ha lanciato avvertimenti chiari: c’è stato il tweet di Pierluigi Castagnetti, figura molto vicina al Quirinale, sulla chiusura del sipario di questo esecutivo, poi l’intervista di Goffredo Bettini, in estate grande tifoso del “governo di legislatura” con il Movimento, che ha avvertito come la pazienza stia per finire. A seguire le dure prese di posizione dei capigruppo di Camera e Senato, Graziano Delrio e Andrea Marcucci, che hanno vestito i panni delle colombe durante la nascita del Conte II. Ma anche loro sono irritati. Segnali di fumo non trascurabili. Per il momento la linea politica è quella di osservare cosa accade nel Movimento, senza cedere, cercando di comprendere il progetto di Di Maio. Che continua a muoversi su un filo.

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E ora serve un bel “vaffa” di Zingaretti a Di Maio

Farsi imbottigliare dalle stupidaggini del M5s, che continua a guardare verso destra, è un errore fatale. Meglio mandarli al diavolo domani, anzi ieri.

La cronaca politica propone due domande: ma che cosa vogliono Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista? Ovvero vogliono qualcosa? L’unica cosa chiara è che i due baciati in fronte da Beppe Grillo hanno il terrore di finire male.

Per loro finire male significa uscire dall’orbita reale, per l’uno, potenziale per l’altro, del governo. E oggi l’orbita del governo ruota attorno a Salvini-Meloni.

L’altra paura è che hanno la matematica certezza che se non fanno ammuina il loro movimento arriva alle elezioni “sminchiato”, quindi con pochi voti e probabilmente senza quelli che potrebbero eleggere l’uno e l’altro o l’uno o l’altro.

DI MAIO E DI BATTISTA CONTINUANO A GUARDARE A DESTRA

Era sembrato, nelle scorse settimane, che Beppe Grillo riuscisse a portare i pentastellati fuori dall’attrazione pericolosa della destra. Grillo aveva addirittura immaginato di progettare cose in comune con il Pd. Di Maio e Di Battista, e forse Casaleggio, hanno detto di “sì”, ma si sono mossi lungo la strada opposta. Nessuno di noi sa se Matteo Salvini e soprattutto la sua temibile competitrice Giorgia Meloni vorranno aggregare questi due giovani cadaveri della politica nel governo che faranno dopo le elezioni, tuttavia Di Maio e Di Battista, fedeli figli di cotanti padri di destra, cercano da quelle parti la soluzione che li porti ad una più che dignitosa sopravvivenza economica.

Quando cadrà il governo Conte sarà chiaro che la coppia destrorsa del M5s sarà davanti all’uscio di Salvini a chiedere un posto

Il dramma dei cinque stelle, nati sulla base di una cultura che definimmo populista, di decrescita felice, di guerra alla democrazia rappresentativa, è che oggi sono il nulla assoluto. Da quelle parti ci sono solo “no”, sulle cose che capiscono, e ancora “no” su quelle che non capiscono. E tutto ciò accade mentre gran parte del loro elettorato è scappato e altro andrà via quando cadrà il governo Conte e sarà chiaro che la coppia destrorsa del M5s sarà davanti all’uscio di Salvini a chiedere un posto, una sistemazione, una cosa per campare. Sta arrivando il momento in cui la voracità della destra riuscirà a cancellare l’episodio grillino.

LA SINISTRA DEVE MOLLARE IL M5S PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI

Chi di noi analizzò il fenomeno dei cinque stelle non in base alla composizione sociale ma in relazione alla cultura che esprimevano e alla direzione di marcia che avevano preso, non sono sorpresi né dalla svolta a destra né dalla loro prossima fine. Questo non vorrà dire che il sistema politico si sistemerà. La pattuglia grillina nel prossimo parlamento, a meno che non vengano fatti fuori Di Maio e i suoi e che Di Battista vaghi a fare niente per il mondo, sarà il più massiccio episodio di ascarismo parlamentare. «Accattataville».

Manifestazione delle Sardine in Piazza Duomo a Milano.

Salvini dovrà far digerire ai suoi il ritorno dei traditori, per giunta statalisti. La Meloni non li ha mai sopportati. Resta la sinistra che tarda a comprendere che farsi imbottigliare dalle stupidaggini di Di Maio e Salvini su un fondo salva Stati che quei due conoscevano e che, lo vogliano o no, ci sarà, è un errore, meglio mandarli al diavolo domani, anzi ieri. Perché l’unica campagna elettorale che si può fare richiede di rubare alle sardine il tema della civiltà politica e alla destra “sovranista e antitaliana” la questione dell’onore della patria che la destra attuale vorrebbe nuovamente serva di una potenza straniera.

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Di Maio fa il pompiere sul Mes

Il leader del M5s dopo il gelo con il premier: «Ho sentito Conte e siamo in piena sintonia». Ma l'asse con Di Battista preoccupa il Pd. Occhi puntati sul ministro Gualtieri, che all'Eurogruppo tratterà modifiche alla riforma del fondo salva-Stati.

Negoziare all’Eurogruppo e con i leader europei, ottenere almeno un rinvio della firma del Meccanismo europeo di stabilità.

Per raffreddare gli animi in Senato ed evitare che l’11 dicembre una spaccatura della maggioranza apra una crisi politica. Il rischio c’è, affermano dal Pd, anche perché il gruppo M5s è spaccato e imprevedibile. In più, preoccupa l’asse di Luigi Di Maio con Alessandro Di Battista contro la riforma del fondo salva-Stati: «Il M5s è l’ago della bilancia, decidiamo noi».

Il ministro degli Esteri invia un segnale distensivo: «Conte l’ho sentito due ore fa e siamo in piena sintonia, sia sul Mes sia sul tema della prescrizione», ha detto a Di Martedì su La7. Ma i dem non si fidano e le fibrillazioni preoccupano anche Italia viva.

LEGGI ANCHE: Cos’è il Mes e perché Salvini e Meloni attaccano il governo

Nelle prossime ore gli occhi saranno tutti puntati sul ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che all’Eurogruppo tratterà con gli alleati europei sul Mes. In discussione non c’è l’impianto del Meccanismo, ma regolamenti secondari ancora oggetto di negoziato. In più, in una “logica di pacchetto”, si avvierà la trattativa sull’Unione bancaria, che è ancora a una prima stesura: il ministro, come più volte affermato, dirà che l’Italia si oppone al meccanismo – sostenuto dalla Germania ma per noi svantaggioso – che punta a ponderare i titoli di Stato detenuti dalle banche sulla base del rating dei singoli Paesi.

LA FIRMA DEL MES NON PRIMA DI FEBBRAIO

Anche Conte, nei suoi colloqui a margine del vertice Nato di Londra, discuterà del “pacchetto” europeo con gli altri leader, a partire da Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Ma è il fattore tempo quello su cui il governo spera di far leva, nell’immediato. La firma del Mes, anche per ragioni tecniche, non dovrebbe arrivare prima di febbraio. Da quel momento i singoli Paesi dovranno ratificare il trattato. La speranza è che i dubbi emersi anche in Francia e fattori come la crisi di governo a Malta possano spingere la lancetta un po’ più in là.

LA DIFFICILE RICERCA DI UN’INTESA IN PARLAMENTO

Negoziazioni nell’ambito del “pacchetto” Ue e rinvii saranno la leva sulla quale si cercherà di plasmare un’intesa di maggioranza sulla risoluzione che dovrà essere votata l’11 dicembre in Parlamento, alla vigilia della partecipazione di Conte al Consiglio europeo. «Sono legittime diverse sensibilità», dichiara il premier cercando di placare gli animi e assicurando che «l’ultima parola spetta al Parlamento» e che «lavoriamo per rendere questo progetto utile agli interessi dell’Italia».

BASTA UNA MANCIATA DI VOTI PER METTERE IN CRISI IL GOVERNO

Da Bruxelles, però, Matteo Salvini incalza e rilancia Mario Draghi come candidato al Colle: «Il trattato non è emendabile, bisogna bloccarlo. Conte ha lo sguardo di chi ha paura e scappa». Lega e Fratelli d’Italia non faranno sconti in Aula. Ed è in Aula che può scoppiare l’incidente. Perché, spiegano fonti dem dal Senato, è impossibile prevedere i comportamenti dei senatori M5s (Paragone e Giarrusso già si sono smarcati). I “contiani” lavorano a un’intesa, ma basta una manciata di voti a far andare in minoranza il governo. Di qui il pressing su Di Maio perché lavori per compattare le truppe su una posizione unica e chiara in asse con il governo. Il M5s sta lavorando a una risoluzione di maggioranza, a partire dalle proprie posizioni. Ma i dem non sono disposti a cedere. Per chiudere, servirà probabilmente un nuovo vertice di maggioranza. Ma, come emerge da un incontro di Italia viva con Conte, i punti di divergenza sono tanti e il clima sempre più agitato.

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Nel M5s Di Battista in soccorso di Di Maio contro il Mes

Dopo il gelo con Conte, il capo politico grillino rialza la testa: «Si firma tutto il pacchetto del Salva-Stati. Saremo noi a decidere se e come passa». E Dibba approva sui social. Ma il Pd: «Non è un governo monocolore». Salvini: «Trattato non emendabile, da bloccare».

Nel day after sul Mes Luigi Di Maio ha provato a rialzare la testa. Dopo l’informativa alle Camere, il gelo col premier Giuseppe Conte e il clima da separati in casa nel governo, con lo spauracchio della crisi che riaffiora costantemente, il capo politico del Movimento 5 stelle è intervenuto su Facebook: «Conte ha detto che tutti i ministri sapevano di questo fondo. Sapevamo che il Mes era arrivato a un punto della sua riforma, ma sapevamo che era all’interno di un pacchetto, che prevede anche la riforma dell’unione bancaria e l’assicurazione sui depositi. Per il M5s queste tre cose vanno insieme e non si può firmare solo una cosa alla volta».

DI BATTISTA: «COSÌ NON CONVIENE ALL’ITALIA»

Col ministro degli Esteri si è schierato anche un altro “big” grillino, Alessandro Di Battista, lui che è stato “accusato” di voler spostare il M5s verso destra proprio assieme a Di Maio. E in un commento social Dibba ha appoggiato la linea del capo: «Concordo. Così non conviene all’Italia. Punto».

DI MAIO: «SIAMO L’AGO DELLA BILANCIA»

Di Maio tra le altre cose ha spiegato che «il M5s dice che c’è una riforma in corso, prendiamoci del tempo per fare delle modifiche che non rendano questo fondo un pericolo. Siamo al governo. Questo significa che abbiamo la possibilità, ma anche la responsabilità, di agire per migliorare le cose». E infine: «Il M5s continua a essere ago della bilancia. Decideremo noi come e se dovrà passare questa riforma del Mes».

MA IL PD LO FRENA: «NON È UN GOVERNO MONOCOLORE»

Non ha proprio la stessa idea degli equilibri di maggioranza il capogruppo del Partito democratico al Senato, Andrea Marcucci. Che intervistato da La Stampa sui pericoli di rottura ha detto: «Inutile ignorare i rischi, io però scommetto sul buon senso». E con Di Maio cosa sta accadendo? «Avute le necessarie spiegazioni dal premier sull’iter del provvedimento, si ravveda. Se non lo facesse, sarebbe chiamato a trarne le conseguenze sulla vita del governo», ha risposto Marcucci, ricordando che «il M5s non è alla guida di un monocolore, questo è un governo di coalizione, dove le posizioni di tutta la maggioranza devono essere tenute in considerazione».

SALVINI: «DA BRUXELLES DICONO CHE IL TRATTATO È CHIUSO»

Dal centrodestra Matteo Salvini ha tenuto la sua linea parlando da Bruxelles: «La nostra posizione è quella dei cinque stelle, il trattato così come è non è accettabile, va visito, ridiscusso, ridisegnato, emendato, che è l’esatto contrario di quello che arrivava da Bruxelles dicendo il pacchetto è chiuso. Mi sembra che il premier abbia diversi problemi, non lo invidio».

Siamo contro le modifiche, dal nostro punto di vista il trattato sul Mes non è emendabile, è da bloccare e punto


Matteo Salvini

Poi ha chiuso ulterioremente ogni margine di trattativa: «Noi non abbiamo cambiato posizione rispetto a sette anni fa, eravamo contro allora e siamo contro le modifiche oggi, dal nostro punto di vista il trattato sul Mes non è emendabile, è da bloccare e punto. Quando parlavo di emendabilità riportavo le parole del vice capogruppo dei cinque stelle Silvestri che esprimeva tutti i suoi dubbi alla Camera. Per noi è una esperienza chiusa, che non è utile né modificare né ripetere».

«NESSUNO MI HA MOSTRATO IL TESTO CON LE MODIFICHE»

Prima, su Rai Radio1 a Radio anch’io, aveva detto: «Stiamo parlando di un trattato che coinvolge 124 miliardi di euro degli italiani con delle regole di distribuzione e di prestito a decenni che in questo momento andrebbero ad avvantaggiare il sistema economico e bancario tedesco. Nessuno mi ha mai fatto vedere il testo delle modifiche di questo trattato. Io non ho mai letto il testo ed è grazie a noi che ne stiamo parlando altrimenti Conte e Gualtieri non sarebbero mai venuti in Aula. Il parlamento deve poter intervenire su quel testo».

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