Il 2020 sarà un anno pieno di incognite per il Medio Oriente

Iran, Libia, Iraq, Yemen, Egitto: molti Paesi sono in fibrillazione e vedono il ritorno del protagonismo della piazza. Ma la situazione, anche se è gravida di criticità, può aprire orizzonti di positività.

Se è vero che «il buon giorno si vede dal mattino», come recita il detto, il 2020 si prospetta gravido di incognite, non necessariamente gravide di criticità e anzi suscettibili di aprire orizzonti di positività. Non è cominciato bene per l’Iran questo 2020: ha perso un uomo che era un simbolo ma anche uno strumento di penetrazione politico-militare in Medio Oriente sotto le bandiere della rivoluzione islamica iraniana, dal Libano alla Siria all’Iraq a Gaza allo Yemen e ovunque vi fossero comunità sciite in terre a maggioranza sunnita.

Mi riferisco ovviamente a Soleimani, ucciso dal fuoco di droni acceso dal presidente degli Stati Uniti – un omicidio mirato come vengono chiamati asetticamente questi atti di guerra asimmetrici e di dubbia legittimabilità – per una serie di ragioni : di politica interna (l’attacco all’ambasciata Usa a Baghdad, l’uccisione di un combattente americano, l’impeachment) e di politica regionale (il rischio di apparire incapace di reagire a una serie di operazioni aggressive imputabili a Teheran e a suoi proxies come l’abbattimento di un drone americano, i missili sui siti petroliferi sauditi, etc.) e l’opportunità offerta del suo arrivo a Baghdad nelle vesti di un agitatore armato in casa altrui.

Mi riferisco alla clamorosa bugia degli 80 morti provocati dalla rappresaglia ordinata per dare una prima risposta all’omicidio di Soleimani messa a nudo dai servizi di diversi Paesi, in testa gli Usa naturalmente ma anche l’Iraq; bugia che non ha certo giovato all’immagine di determinazione, tempestività e forza che il regime degli Ayatollah intendeva valorizzare nel contesto regionale e oltre. Mi riferisco alle bugie usate per negare qualsivoglia responsabilità nell’abbattimento dell’aereo ucraino – con pesante bilancio di 176 vittime innocenti – e al rifiuto di consegnare la scatola nera che lo stesso regime ha dovuto in qualche modo ammettere seppure col condimento di un rinnovato attacco agli Usa.

A FEBBRAIO TEHERAN VA ALLE ELEZIONI POLITICHE

Penso che queste circostanze, al netto delle responsabilità dell’Amministrazione Trump, e non sono poche, abbiano sporcato l’immagine di un regime cui l’Europa guarda forse con un garbo non del tutto giustificato dai pur rilevanti suoi interessi economici e di sicurezza e dal rispetto della grandiosa storia di questo Paese. Immagine certo appannata sul piano internazionale. Il tutto in un contesto di grandi difficoltà interne, frutto in larga misura dal nodo scorsoio delle sanzioni Usa, che hanno provocato anche forti reazioni popolari represse nel sangue; contesti che in questi giorni si sono arricchite di sonore manifestazioni contro lo stesso Khomeini. Mentre il regime sembra incerto sul da farsi e privilegi, al momento, la logica del contenimento nella sgradevole attesa degli effetti delle nuove sanzioni di Trump. A febbraio sono previste le elezioni: saranno il primo termometro della situazione.

IN IRAQ AUMENTANO LE PROTEST ANTI USA E ANTI IRAN

L’altra incognita riguarda l’Iraq, dove un governo dimissionario fa la voce grossa con gli Usa ma fino a un certo punto visto che nel Paese e soprattutto nell’area sciita cresce la volontà di scrollarsi da dosso le influenze straniere, compresa quella iraniana oltre a quella americana, naturalmente. Le ultime mosse di Teheran non hanno favorito la sua pressione anti-americana su Baghdad e si attendono le determinazioni del presidente Barham Salih che ha rifiutato la nomina di Asaad al-Idani perché troppo ossequiente nei riguardi dei desiderata iraniani. Anche qui il Paese manifesta una diffusa aspettativa di recupero di una “identità irachena” al di là e al di sopra delle distinzioni settarie.

Un governo più rappresentativo delle principali componenti di questo Stato (sciiti, sunniti e curdi) potrebbe rimettere sui binari più costruttivi il futuro di questo Paese

Anche qui con un impressionante bilancio di vittime fra i protestatari mentre Washington non intende farsi mettere alla porta in un momento in cui il governo vigente deve cedere il passo e la minaccia del terrorismo è tutt’altro che superata. Un governo più rappresentativo delle principali componenti di questo Stato (sciiti, sunniti e curdi) potrebbe rimettere sui binari più costruttivi il futuro di questo Paese di nevralgica importanza per gli equilibri della regione e non solo per la sua ricchezza energetica. Ma sarà realistico ipotizzarlo?

LIBIA IN SUBBUGLIO E IL LAVORO PER UNA PACICAZIONE DIFFICILE

Il 2020 è iniziato in Libia con la minaccia di Haftar di sfondare nella capitale e liberarla della presenza dei terroristi, con ciò intendendo la Fratellanza musulmana, fermata dall’annuncio/ordine dl cessate il fuoco venuto da Putin ed Erdogan. Era prevedibile che questi due leader, attestati su posizioni contrapposte – Putin con Haftar (Tobruk) e Erdogan con Serraj (Tripoli) -, arrivassero a una tale intesa, evitando il rischio di un confronto militare che in realtà nessuno dei due voleva correre. Prevedibile pure che Haftar accettasse il cessate il fuoco all’ultimo giorno utile (il 12 gennaio) nell’evidente intento di marcare tutto il terreno conquistabile per poterlo capitalizzare, anche politicamente. Altrettanto prevedibile che lo stesso Haftar abbia minacciato una dura rappresaglia in caso di violazione della tregua (le poche sono apparentemente a lui addebitabili) e che Serraj abbia chiesto l’impossibile e cioè il ritiro del suo avversario che ovviamente non ne ha tenuto minimamente conto.

Intendiamoci, la tregua è la premessa per un’ipotesi di stabilizzazione-soluzione politica che è ancora lontana. È una sorta di parentesi che occorre riempire, auspicabilmente con la politica. Una politica che archivi l’esclusione proclamata da Haftar nei riguardi di una parte libica in ossequio ai suoi sponsor tra i quali stanno l’Egitto, che ha fatto della lotta contro l’Islam politico della Fratellanza musulmana la sua crociata, gli Emirati Arabi, l’Arabia saudita, la Francia, etc. e solo in parte la Russia. Una politica che escluda anche l’invadenza politica ed economica di una Turchia “ottomana”, che tra l’altro non sarebbe ben accolta neppure dai libici. Tutto ciò sullo sfondo di una sistemazione delle tessere sociali di un Paese che, prive del collante gheddafiano, sciolto nell’acido della sua uccisione nel 2011, si sono pericolosamente dissociate in assenza di un nuovo fattore collante. Mosca e Ankara, ancorché forti, non sono i risolutori veri e non tanto perché non siano affidabili quanto perché vi sono altri attori che debbono entrare nella partita. All’interno e all’esterno.

L’ITALIA DEVE RECUPERE IL SUO RUOLO IN MEDIO ORIENTE

Su questo sfondo conforta solo in parte il recupero di ruolo che l’attuale governo italiano sta tentando e che a mio giudizio non dev’essere contrastato dal tradizionale ricorso a un’autoflagellazione che rischia solo di appesantire la posta in gioco, che è politica, economica e di sicurezza. La Germania, con il vertice dell’Unione europea, è nostra importante compagna di viaggio e con l’ombrello delle Nazioni Unite sta lavorando ad una Conferenza internazionale che paradossalmente trova la sua forza proprio nella sua scelta di campo a favore della “soluzione politica”. Ma si corre ancora sul filo del rasoio.

In Medio oriente è tornato il protagonismo della piazza, pesantemente contrastato dal potere locale, ma che merita attenzione perché rappresenta una luce che l’Occidente dovrebbe sostenere

Il 2020 è iniziato anche nel segno di un nuovo protagonismo della “piazza” come si usa dire, in diversi Paesi del Medio Oriente, dall’Iraq al Libano all’Algeria e, carsicamente, anche in Egitto. Sono piazze diverse ma anche almeno tre punti in comune: la scelta della non violenza, la lotta alla corruzione e al mal governo, il recupero di un’identità nazionale liberata dal settarismo. Si tratta di un protagonismo embrionale, forse, e pesantemente contrastato dal potere locale, che merita attenzione perché rappresenta una luce che l’Occidente dovrebbe sostenere sgombrando il campo da ambigui e controproducenti paternalismi. Il 2020 si apre inoltre nell’incerta dinamica yemenita, nell’attesa delle prossime elezioni in Israele, nell’incipiente crisi governativa in Tunisia. Sarà comunque lo si voglia vedere un anno impegnativo.

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Yemen, 8 mila civili uccisi dalle bombe fabbricate (anche) in Italia

Il dato, reso noto da Oxfam, si riferisce agli ultimi quattro anni. Tra i principali fornitori di armi, anche Usa, Francia e Gran Bretagna.

Il conflitto regionale in Yemen ha causato in più di quattro anni circa 100 mila vittime, di cui 20 mila solo quest’anno. Lo ha denunciato il 28 novembre Oxfam, organizzazione umanitaria internazionale che da decenni lavora nel martoriato Paese arabo.

BOMBE FABBRICATE IN GRAN PARTE IN GB, USA, FRANCIA, IRAN E ITALIA

Dal 2015, secondo Oxfam, sono stati uccisi 12 mila civili, 8 mila dei quali hanno trovato la morte a causa di raid aerei sauditi, con bombe fabbricate in gran parte in Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Iran e Italia.

Dall’inizio del conflitto in oltre un caso su tre l’uso di armi esplosive ha ucciso una donna o un bambino, vittime ‘collaterali’ di raid aerei o bombardamenti via terra

Oxfam

In Yemen sono in corso da anni diversi conflitti intrecciati fra loro e che coinvolgono attori locali accanto a potenze regionali e internazionali. La guerra a cui si riferisce l’ultimo rapporto di Oxfam è quella combattuta dal 2015 dalla Coalizione araba a guida saudita contro gli insorti Houthi, vicini all’Iran. In questo quadro, secondo Oxfam, «dall’inizio del conflitto in oltre un caso su tre l’uso di armi esplosive ha ucciso una donna o un bambino, vittime ‘collaterali’ di raid aerei o bombardamenti via terra che colpiscono aree popolate, campi profughi, scuole e ospedali».

IL NUMERO DI CIVILI UCCISI È AUMENTATO DEL 25% NEGLI ULTIMI TRE MESI

Secondo l’organizzazione internazionale, negli ultimi tre mesi il numero dei civili uccisi è aumentato del 25%. Dall’inizio del 2019 sono oltre 1.100 i civili uccisi, 12 mila dal 2015. E per Oxfam di questi 12 mila, 8 mila (67%) sono stati causati da raid aerei della Coalizione a guida saudita. «Bombardamenti che vedono l’utilizzo di armi prodotte in gran parte in Gran Bretagna, Usa, Francia, Iran e Italia».

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La pace in Yemen non è più un miraggio

A un anno dal cessate il fuoco tra i ribelli Houthi e le forze militari del governo yemenita, qualcosa sta cominciando a cambiare nel Paese mediorientale. Anche grazie una differente strategia dell'Arabia saudita, che sta favorendo il processo di de-escalation del conflitto.

All’incirca un anno fa la comunità internazionale fu attraversata da un moto di speranza per le confortanti notizie che stavano giungendo da Stoccolma dove si stava perfezionando un accordo di cessate il fuoco tra i ribelli Houthi e le forze militari del governo yemenita sostenute dalla coalizione araba a guida saudita.

Si parlò allora di un primo significativo passo in direzione della fine di una guerra che aveva già provocato decine di migliaia di morti, oltre 2 milioni di sfollati e un disastro umanitario di spaventose dimensioni.

Punti nevralgici dell’accordo erano stati, allora, la liberazione dei porti sul mar Rosso di Salif, Ras Issa e soprattutto di Hodeida, un vero e proprio polmone di sopravvivenza per gli yemeniti dall’occupazione delle milizie degli Houthi e una serie di misure di confidence building tra cui lo scambio di migliaia di prigionieri.

Ci sono voluti mesi e mesi – di fatto il vero ritiro dai porti è iniziato solo nel maggio del 2019 – prima che l’accordo facesse emergere risultati significativi. E ciò per la complicità di un contesto di grande complessità sul quale ha influito anche il riaccendersi del terrorismo – sia di Al Qaeda che dell’Isis – che continuava e continua a trovarvi utile concime per le sue radici stragiste. Contesto che d’altra parte si è reso anche più problematico per il progressivo sfilarsi dalla coalizione anti-Houthi di parte dei suoi componenti e che ha segnato un serio vuoto con l’abbandono del campo da parte dei sudanesi (circa 10 mila uomini) con la svolta rivoluzionaria che ha portato alla destituzione del presidente Omar al Bashir e, soprattutto, con lo scontro che ha visto contrapposte le forze militari del presidente Abd Rabu Mansur Hadi con quelle dei separatisti del Sud (Stc); le prime sostenute dall’Arabia Saudita e le ultime dagli Emirati, a loro volta preziose alleate di Riad contro gli Houthi. e la conseguente occupazione di Aden da parte dello Stc.

L’IMPORTANTE INTESA DEL 5 NOVEMBRE

Un bel pasticcio anche perché dilatatosi ad altre tribù e ad altri gruppi regionali. C’erano sufficienti ragioni insomma per indurre Riad a ricalibrare l’impegno a sostenere in via esclusiva (ed escludente) il presidente Hadi, rifugiato in Arabia Saudita, e a mantenere la forza dell’unione con gli Emirati. E in tale contesto a orientarsi rapidamente verso un orizzonte strategico disegnato dall’assoluta necessità di sgomberare il campo da quella che rischiava di essere una “guerra civile minore all’interno della guerra civile maggiore”. Non è stato affatto agevole ma in qualche modo l’obiettivo è stato raggiunto con un’intesa – il cosiddetto accordo di Riad – siglata il 5 novembre dopo la ripresa del controllo di Aden. Un’intesa molto significativa perché ha previsto l’inclusione del movimento separatista nel governo yemenita e quello delle milizie del Sud sotto l’autorità dei ministri dell’Interno e della Difesa.

L’IMPENNATA DELLO SCONTRO

Non è stato agevole perché ha di fatto sanzionato una sorta di supremazia dell’Arabia Saudita che potrebbe essere messa in discussione se non si realizza anche l’altra parte della guerra civile. E non lo è stato perché è maturato in concomitanza – e forse anche grazie – all’impennata dello scontro con gli Houthi. Mi riferisco a quella serie di “incidenti” occorsi a danno di petroliere saudite e soprattutto al pesante attacco di settembre, con droni e missili ai due siti petroliferi sauditi dell’Aramco, rivendicato proprio dagli Houthi ma difficilmente dissociabile da una responsabilità iraniana.

L’Arabia Saudita ha dato l’impressione di essere propensa a cambiare logica e ad accettare che i nodi della guerra siano anche legati a fattori come l’eccesso di autoritarismo di Hadi

Al di là dell’intenso dibattito sull’effettiva responsabilità di questi atti, è pur vero che Riad ha condannato questo «vero e proprio atto di guerra» assumendo anche toni minacciosi, ma è altrettanto vero che tutto si è fermato a livello verbale, quasi a dimostrazione della sua impotenza di fronte alla dura constatazione della sua vulnerabilità. E dunque del rischio di esporsi, contrattaccando, a una spirale conflittuale dagli esiti perniciosi visti i limiti del loro ombrello protettivo. In quel clima ha avuto la funzione di un suggerimento da non lasciar cadere la dichiarata disponibilità degli Houthi a interrompere gli attacchi sul territorio saudita – una sorta di tregua insomma – se anche Riad si fosse impegnata a fare altrettanto su quello yemenita. E, di conseguenza di ridare ossigeno al processo di de-escalation del conflitto, ormai auspicabile anche da parte degli Houthi dopo tanti anni di guerra impantanata, di stallo militare superabile solo con la politica e con i crediti acquisiti con l’accordo di Stoccolma e i segnali derivanti dall’accordo di Riad.

IL NODO DELLA CONDIVISIONE DEL POTERE

L’Arabia Saudita ha dato cioè l’impressione – anzi, più che l’impressione – di essere propensa a cambiare logica, approccio e ad accettare che i nodi della guerra siano anche legati ad altri fattori come l’eccesso di autoritarismo di Hadi, come del suo predecessore, alla diffusa corruzione e al ruolo denegato agli Houthi di una reale partecipazione alla gestione del governo del Paese e, forse, anche a fattori precedenti la spinta conflittuale iraniana. Questa sua propensione era implicita nell’intesa con le forze separatiste del Sud che aveva in qualche modo indicato la rotta da seguire nel senso di una condivisione di questo potere di governo su cui portare anche Hadi, chiamato a riprendere posto ad Aden. Tutto ciò con l’implicito corollario di una sorta di garanzia tutelare esercitata dalla Casa reale saudita per la quale lo Yemen resta più che mai un tassello di fondamentale importanza per la sua sicurezza e stabilità. Superfluo sottolineare come questo processo negoziale con gli Houthi molto sottotraccia, ora in Oman, sia soltanto all’inizio e possa deragliare, ma la prospettiva di una correzione degli errori del passato rappresenta un segno incoraggiante.

L’EMBLEMATICO DISCORSO DEL RE SALMAN

Intanto il primo ministro sta rientrando in Yemen (Aden, capitale provvisoria) con i colleghi delle Finanze, dell’Educazione, delle Telecomunicazioni in adempimento dell’accordo siglato con i separatisti del Sud in vista di un ritorno istituzionale del Paese ad una relativa normalità. Martin Griffiths, l’Inviato speciale delle Nazioni Unite, non ha mancato di manifestare espressioni di incoraggiamento e l’auspicio che la fine del conflitto possa maturare nei primi mesi del 2020. Ed è significativo che nel discorso annuale di fronte al parlamento saudita (Shoura Council) lo stesso re Salman abbia fatto esplicito riferimento ai colloqui di pace in corso e abbia nel contempo sollecitato l’Iran, alle prese con i drammatici sviluppi delle manifestazioni di protesta che lo stanno attraversando, ad abbandonare l’ideologia espansionistica che ha fatto tanto male, ha sottolineato, al suo stesso popolo.

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