Antonio Conte in Champions League non è un top manager
Lo dicono i numeri. Quattro partecipazioni da allenatore e due eliminazioni ai gironi. Un quarto di finale come miglior risultato. E una media punti di 1.46 contro i 2.28 del campionato. Storia di una maledizione.
La Champions League è una storia a parte, una competizione che ha logiche tutte sue, quasi un altro sport. Puoi essere grande, persino uno dei più grandi, quando ti giochi un campionato su 38 partite. Non mollare un centimetro e conquistare il titolo con squadre che alla vigilia non rientrerebbero nel novero delle favorite, eppure faticare da matti quando valichi il confine e ti ritrovi a giocare in Europa. Non è nemmeno una questione di valore dell’avversario che ti trovi di fronte, è proprio un problema di dinamiche e prospettive che mutano. E se non sei pronto, se non sei nato per quella cosa là, alla fine ti ci schianti.
L’Inter è apparsa simile in maniera inquietante a quella che l’anno scorso non riuscì a battere il Psv e si fermò allo stesso punto: l’ultima partita del girone
L’Inter è prima in classifica. In due mesi e mezzo Antonio Conte ha già messo da parte nove punti in più di quanti ne aveva Luciano Spalletti un anno fa di questi tempi. Ha il terzo miglior attacco del campionato e la miglior difesa e due punti di vantaggio sulla Juventus che l’anno scorso dopo 15 partite ne dava 14 di distacco ai nerazzurri. Ma il miracolo si è sciolto in una sera di Champions League in cui l’Inter è apparsa simile in maniera inquietante a quella che l’anno scorso non riuscì a battere il Psv Eindhoven e si fermò allo stesso punto: l’ultima partita del girone.
ELIMINATO DA UN BARCELLONA DI RISERVE E GIOVANISSIMI
Sì, stavolta di fronte c’era il Barcellona, ma era un Barcellona già agli ottavi e sicuro del primo posto, arrivato a Milano senza Leo Messi e Gerard Piqué, lasciati a riposo a casa, e con Suarez in panchina. Un Barcellona che ha schierato un solo titolare su 11, il difensore centrale Clément Lenglet, che ha mandato in porta Neto (all’esordio stagionale), ha schierato terzino destro della squadra B Moussa Wague (una sola presenza in Liga e un minuto in Champions prima di ieri), ha piazzato al centro della difesa Jean-Clair Todibo (77 minuti distribuiti su due partite di Liga), a centrocampo Carles Aleña (63 minuti in due partite di campionato) e in attacco Carles Pérez (457 minuti in Liga, un veterano al confronto degli altri compagni già citati). Un Barcellona che ha battuto l’Inter con un gol di Ansu Fati, un ragazzo di talento finissimo ma anche di 17 anni e 40 giorni entrato in campo un minuto prima.
Alla vigilia della partita, leggendo la lista dei convocati e poi la formazione di Ernesto Valverde, in molti sogghignavano. Qualcuno persino ventilava il più classico dei biscotti, una partita farsa già acchitata per far passare il turno all’Inter. Al termine dei 90 minuti a ridere, ma di una risata ben diverse, sono rimasti solo i gufi. Di certo non ha riso Conte, che la Champions League l’ha vissuta da allenatore quattro volte, la metà delle quali terminate ai gironi e con un quarto di finale come miglior risultato in carriera. Un allenatore che ha confermato la sua allergia al contesto europeo persino in Europa League, quando nel 2013-14 si fece eliminare in semifinale dal Benfica, perdendo l’occasione di giocarsi la coppa nella finale davanti al pubblico dello Juventus Stadium.
QUELLE SIMILITUDINI TRA LE ELIMINAZIONI CON INTER E JUVE
Il confronto tra il Conte del campionato e quello della Champions League è oggettivamente impietoso. Basta vedere le medie punti nelle varie competizioni. In Serie A viaggia spedito a 2,28, in Premier scende a un 2,14 viziato dalla seconda stagione al Chelsea, in Champions a 1,46. Vince meno di una partita ogni due, non proprio statistiche da top manager. E la sconfitta del 10 dicembre assomiglia fin troppo a quella di sei anni fa a Istanbul, più per le condizioni in cui l’Inter si è costretta ad affrontare un ultimo scontro decisivo che per due partite diverse per blasone dell’avversario e condizioni ambientali. In casa del Galatasaray la neve aveva reso il campo impraticabile, a San Siro la palla viaggiava veloce, soprattutto quando veniva trasmessa dai piedi delle riserve del Barcellona, ma l’eliminazione di quella Juve fu figlia del pareggio di Copenaghen almeno quanto quella di quest’Inter lo è di quello con lo Slavia Praga.
UN’INTER FIGLIA DI CONTE, NEL BENE E NEL MALE
L’Inter non ha giocato male la sua Champions League, per nulla. A tratti ha persino dato l’impressione di essere forte, fortissima. All’andata al Camp Nou ha preso in giro il Barcellona per un tempo, al ritorno ha fatto lo stesso per i primi 45 minuti col Borussia Dortmund. In entrambi i casi, però, è stata rimontata sparendo dal campo. E l’impressione è che sia successo per limiti caratteriali prima ancora che tecnici, per una sorta di disegno calcistico più che per una condizione atletica inadeguata a reggere quei ritmi forsennati per più di un tempo. Se questa Inter è figlia di Conte, lo è nel bene e nel male. E se era possibile prevedere che in campionato avrebbe trovato risorse che nessuno pensava potesse avere, era altrettanto facile immaginare che in Champions non sarebbe durata a lungo. A prescindere da ogni discorso sulla complessità del girone in cui era stata sorteggiata.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it