Salute: ampi i divari territoriali. Equità orizzontale sempre più a rischio

Presentato a Roma il Report “Un paese, due cure. I divari Nord – Sud nel diritto alla salute”, promosso dalla Svimez in collaborazione con Save the Children

 

Al Sud i servizi di prevenzione e cura sono più carenti, minore la spesa pubblica sanitaria, più lunghe le distanze da percorrere per ricevere assistenza, soprattutto per le patologie più gravi. Aumentare la spesa sanitaria è la priorità nazionale. Andrebbe inoltre corretto il metodo di riparto regionale del Fondo Sanitario Nazionale per tenere conto dei maggiori bisogni di cura nei territori a più elevato disagio socio-economico. L’autonomia differenziata rischia di ampliare le disuguaglianze nelle condizioni di accesso al diritto alla salute. Queste le principali considerazioni emerse dal Report SVIMEZ “Un Paese, due cure. I divari Nord-Sud nel diritto alla salute”, presentato oggi a Roma in collaborazione con Save the Children.

Il Report, pubblicato nell’ultimo numero di Informazioni Svimez, curato da Luca Bianchi, Serenella Caravella e Carmelo Petraglia, offre una fotografia delle condizioni territoriali del SSN al quale si rivolgono i cittadini per le cure. Nel corso della presentazione è stato proiettato un video con le storie immaginarie di due donne, una calabrese e una emiliana, che affrontano la stessa patologia oncologica. Storie che riflettono la realtà dei divari Nord-Sud nella qualità dei Sistemi Sanitari Regionali (SSR) e della conseguente “scelta” di molti cittadini del Mezzogiorno di ricevere assistenza nelle strutture sanitarie del Centro e del Nord, soprattutto per curare le patologie più gravi.

Contestualmente, Save the Children ha ribadito come i divari territoriali siano evidenti già a partire dalla nascita. Sebbene nel panorama mondiale il Servizio Sanitario nazionale si posizioni come una eccellenza per la cura dei bambini, sia dal punto di vista delle professionalità che della universalità di accesso alle cure, le disuguaglianze territoriali sono molto accentuate. Secondo gli ultimi dati ISTAT disponibili, il tasso di mortalità infantile (entro il primo anno di vita) era di 1,8 decessi ogni 1000 nati vivi in Toscana, ma era quasi doppio in Sicilia (3,3) e più che doppio in Calabria (3,9). Già prima della pandemia, il numero dei consultori familiari si era andato assottigliando, con la conseguente carenza di presidi territoriali di prossimità fondamentali per sostenere la salute e il benessere materno-infantile.

Dopo l’emergenza Covid-19 si arresta la crescita della spesa sanitaria e restano ampi i divari territoriali

I divari territoriali sono aumentati in un contesto di generalizzata debolezza del Sistema Sanitario che, nel confronto europeo, risulta sottodimensionato per stanziamenti di risorse pubbliche (in media 6,6% del PIL contro il 9,4% di Germania e l’8,9% di Francia), a fronte di un contributo privato comparativamente elevato (24% della spesa sanitaria complessiva, quasi il doppio di Francia e Germania). Dai dati regionalizzati di spesa sanitaria (di fonte Conti Pubblici territoriali) risultano livelli di spesa per abitante, corrente e per investimenti, mediamente più contenuti nelle regioni meridionali. A fronte di una media nazionale di 2.140 euro, la spesa corrente più bassa si registra in Calabria (1.748 euro), Campania (1.818 euro), Basilicata (1.941 euro) e Puglia (1.978 euro). Per la parte di spesa in conto capitale, i valori più bassi si ravvisano in Campania (18 euro), Lazio (24 euro) e Calabria (27 euro), mentre il dato nazionale si attesta su una media di 41 euro. Il monitoraggio LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), che offre un quadro delle differenze nell’efficacia e qualità delle prestazioni fornite dai diversi SSR, fa emergere i deludenti risultati del Sud: 5 regioni del Mezzogiorno risultano inadempienti.

1,6 milioni di famiglie italiane in povertà sanitaria, di cui 700 mila al Sud

In base alle recenti valutazioni del CREA (Centro per la ricerca economica applicata in sanità), sono il 6,1% le famiglie italiane in povertà sanitaria, perché hanno riscontrato difficoltà o hanno rinunciato a sostenere spese sanitarie. Nel Mezzogiorno la quota la povertà sanitaria riguarda l’8% dei nuclei familiari, una percentuale doppia rispetto al 4% del Nord-Est (5,9% al Nord-Ovest, 5% al Centro).

Speranza di vita minore al Sud di 1,5 anni: più alta anche la mortalità per tumore

Il Mezzogiorno, secondo gli indicatori BES (Benessere Equo e Sostenibile) sulla salute, è l’area del Paese caratterizzata dalle peggiori condizioni di salute. Gli indicatori relativi alla speranza di vita mostrano un differenziale territoriale marcato e crescente negli anni: nel 2022, la speranza di vita alla nascita per i cittadini meridionali era di 81,7 anni, 1,3 anni in meno del Centro e del Nord-Ovest, 1,5 rispetto al Nord-Est. Analoghi differenziali sfavorevoli al Sud si osservano per la mortalità evitabile causata da deficit nell’assistenza sanitaria e nell’offerta di servizi di prevenzione. Il tasso di mortalità per tumore è pari al 9,6 per 10 mila abitanti per gli uomini rispetto a circa l’8 del Nord. È cresciuto il divario per le donne: 8,2 al Sud con meno del 7 al Nord; nel 2010 i due dati erano allineati.

Nel Mezzogiorno meno prevenzione oncologica

Secondo le valutazioni dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), nel biennio 2021-2022, in Italia circa il 70% delle donne di 50-69 anni si è sottoposta ai controlli: circa due su tre lo ha fatto aderendo ai programmi di screening gratuiti. La copertura complessiva è dell’80% al Nord, del 76% al Centro, ma scende ad appena il 58% nel Mezzogiorno. La prima regione per copertura è il Friuli-Venezia Giulia (87,8%); l’ultima è la Calabria, dove solamente il 42,5% delle donne di 50-69 anni si è sottoposto ai controlli.  I dati relativi agli screening organizzati dai SSR confermano i profondi divari regionali nell’offerta di servizi che dovrebbero essere garantiti in maniera uniforme in quanto compresi tra i LEA. La quota di donne che ha avuto accesso a screening organizzati oscilla tra valori compresi tra il 63 e il 76% in Veneto, Toscana, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, P.A. di Trento, Umbria e Liguria e circa il 31% in Abruzzo e Molise. Le quote più basse si registrano in Campania (20,4%) e in Calabria, dove le donne che hanno effettuato screening promossi dal Servizio Sanitario sono appena l’11,8%, il dato più basso in Italia.

Mobilità sanitaria: è ‘fuga’ dal Sud, in particolare per le patologie più gravi. Il 22% dei malati oncologici del Sud si fa curare al Nord.

La “fuga” dal Sud per ricevere assistenza in strutture sanitarie del Centro e del Nord, soprattutto per le patologie più gravi. Nel 2022, dei 629 mila migranti sanitari (volume di ricoveri), il 44% era residente in una regione del Mezzogiorno. Per le patologie oncologiche, 12.401 pazienti meridionali, pari al 22% del totale dei pazienti, si sono spostati per ricevere cure in un SSR del Centro o del Nord nel 2022. Solo 811 pazienti del Centro-Nord (lo 0,1% del totale) hanno fatto il viaggio inverso. È la Calabria a registrare l’incidenza più elevata di migrazioni: il 43% dei pazienti si rivolge a strutture sanitarie di Regioni non confinanti. Seguono Basilicata (25%) e Sicilia (16,5%). Al Sud, i servizi di prevenzione e cura sono dunque più carenti, minore la spesa pubblica sanitaria, più lunghe le distanze da percorrere per ricevere assistenza.

Save the Children evidenzia numeri crescenti anche nelle migrazioni sanitarie pediatriche da Sud verso il Centro-Nord, segno di carenze o di sfiducia nel sistema sanitario delle regioni del Mezzogiorno: l’indice di fuga – ovvero il numero di pazienti pediatrici che vanno a farsi curare in una regione diversa da quella di residenza – nel 2020 si attesta  in media all’8,7% a livello nazionale, con differenze territoriali che vanno dal 3,4% del Lazio al 43,4% del Molise, il 30,8% della Basilicata, il 26,8% dell’Umbria e il 23,6% della Calabria. In particolare, un terzo dei bambini e degli adolescenti si mette in viaggio dal Sud per ricevere cure per disturbi mentali o neurologici, della nutrizione o del metabolismo nei centri specialistici convergendo principalmente a Roma, Genova e Firenze, sedi di Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) pediatrici.

L’autonomia differenziata in ambito sanitario aggrava le disuguaglianze interregionali

L’obiettivo dell’equità orizzontale della sanità è ulteriormente messo a rischio dal progetto di autonomia differenziata. Sulla base delle risultanze del Comitato per l’individuazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, in particolare, tutte le Regioni a Statuto Ordinario potrebbero richiedere il trasferimento di funzioni, risorse umane, finanziarie e strumentali ulteriori rispetto ai LEA in un lungo elenco di ambiti: gestione e retribuzione del personale, regolamentazione dell’attività libero-professionale, accesso alle scuole di specializzazione, politiche tariffarie, valutazioni di equivalenza terapeutica dei farmaci, istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi. La concessione di ulteriori forme di autonomia potrebbe determinare ulteriori capacità di spesa nelle Regioni ad autonomia rafforzata, finanziate dalle compartecipazioni legate al trasferimento di funzioni e, soprattutto, dall’eventuale extra-gettito derivante dalla maggiore crescita economica. Tutto ciò, in un contesto in cui i LEA non hanno copertura finanziaria integrale a livello nazionale e cinque delle otto Regioni del Mezzogiorno risultano inadempienti, determinerebbe una ulteriore differenziazione territoriale delle politiche pubbliche in ambito sanitario. Con l’autonomia differenziata si rischierebbe dunque di aumentare la sperequazione finanziaria tra SSR e di ampliare le disuguaglianze interregionali nelle condizioni di accesso al diritto alla salute.

Per il direttore generale della Svimez Luca Bianchi, intervenuto nella tavola rotonda coordinata dal giornalista di Repubblica Antonio Fraschilla, “La necessità di incrementare le risorse complessivamente allocate alla sanità convive con la priorità di potenziare da subito le finalità di equità del SSN. I dati del report offrono la fotografia preoccupante di un divario di cura che si traduce in minori aspettative di vita e più alti tassi di mortalità per le patologie più gravi nelle regioni del Mezzogiorno. La scelta, spesso obbligata, di emigrare per curarsi oltre ai costi individuali finisce per amplificare i divari nella capacità di spesa dei diversi sistemi regionali. Rafforzare la dimensione universale del Sistema sanitario nazionale è la strada per rendere effettivo il diritto costituzionale alla salute. Una direzione opposta a quella che invece si propone con l’autonomia differenziata dalla quale deriverebbero ulteriori ampliamenti dei divari territoriali di salute e una conseguente crescita della mobilità di cura”.

“La condizione di povertà familiare incide fortemente sui percorsi di prevenzione e sull’accesso alle cure da parte dei bambini. È necessario un impegno delle istituzioni a tutti i livelli per assicurare una rete di servizi di prevenzione e cura per l’infanzia e l’adolescenza all’altezza delle necessità, con un investimento mirato nelle aree più deprivate. Occorre conoscere e superare i divari territoriali che oggi condizionano l’accesso ad un servizio sanitario che rischia di essere “nazionale” solo sulla carta. È un investimento da mettere al centro dell’agenda della politica”, ha dichiarato Raffaela Milano, responsabile dei Programmi Italia – Europa di Save the Children.

Per Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione Gimbe, “Il nostro SSN è ormai profondamente indebolito e segnato da inaccettabili diseguaglianze regionali. E con l’attuazione delle maggiori autonomie in sanità si legittimerà normativamente la “frattura strutturale” Nord-Sud: il meridione sarà sempre più dipendente dalla sanità del Nord, minando l’uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto costituzionale alla tutela della salute. Uno scenario già evidente: su 14 Regioni adempienti ai Livelli Essenziali di Assistenza solo 3 sono del Sud (Abruzzo, Puglia e Basilicata) e tutte a fondo classifica mentre la fuga per curarsi verso il Nord vale € 4,25 miliardi”.

“I dati del report restituiscono l’immagine di un Paese diviso a metà nell’accesso alle cure sanitarie. Dal nostro osservatorio, ed è un ulteriore elemento di preoccupazione, emerge una frammentazione che si aggiunge alle disuguaglianze Sud-Nord poiché riguarda questioni diffuse come la desertificazione dei professionisti e dei servizi. Medici di medicina generale ed infermieri, ad esempio, sono carenti al Nord più che al Sud, ma mancano in generale nelle aree interne, come anche alcuni servizi caratterizzati da alta innovazione e specializzazione. In questo quadro la riforma della autonomia differenziata, sulla quale si continua a ragionare – e per giunta con scarsissimo coinvolgimento dei cittadini – senza la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni, dà come unica certezza quella di amplificare questa frammentazione e di consegnarci un Paese ulteriormente diviso nella garanzia del diritto alla salute”, ha dichiarato Anna Lisa Mandorino, Segretaria generale di Cittadinanzattiva.

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Italia prima in Europa per morti da antibiotico-resistenza

Su 33 mila decessi oltre 10 mila si registrano nel nostro Paese. Le raccomandazioni dell'Istituto superiore di sanità per un uso più consapevole.

Su 33 mila decessi che avvengono ogni anno in Europa per infezioni causate da batteri resistenti agli antibiotici, oltre 10 mila si registrano in Italia.

Il nostro Paese è primo in questa triste classifica, secondo i dati appena pubblicati dall’Istituto superiore di sanità in occasione della Settimana mondiale per l’uso consapevole degli antibiotici, dal 18 al 24 novembre. Nonostate il trend sia in leggero calo, i valori superiori alla media Ue necessitano di un approfondimento.

In Italia, nel 2018, le percentuali di resistenza alle principali classi di antibiotici per gli otto patogeni sotto sorveglianza (Staphylococcus aureus, Streptococcus pneumoniae, Enterococcus faecalis, Enterococcus faecium, Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa e Acinetobacter species), spiega l’Iss sul proprio sito, “si mantengono dunque più alte rispetto alla media europea, pur nell’ambito di un trend in calo rispetto agli anni precedenti”.

Inoltre, gli oltre 2.000 casi diagnosticati nel 2018 – anche questo un dato costante – di infezioni nel sangue causate da batteri produttori di carbapenemasi (CPE), ovvero di enzimi che distruggono i carbapenemi (una classe di antibiotici ad ampio spettro) evidenziano la larga diffusione del fenomeno nel nostro Paese. I dati arrivano dai programmi di ‘Sorveglianza Nazionale dell’antibiotico-resistenza (AR-ISS)’ e ‘Sorveglianza delle CPE’, coordinate entrambe dall’Iss.

“Purtroppo, il nostro Paese detiene il triste primato, nel contesto europeo, della mortalità per antibiotico-resistenza – afferma Annalisa Pantosti, responsabile della Sorveglianza AR-ISS -. Gli ultimi dati disponibili mostrano infatti che i livelli di antibiotico-resistenza e di multi-resistenza delle specie batteriche sotto sorveglianza sono ancora molto alti, nonostante gli sforzi notevoli messi in campo finora, come la promozione di un uso appropriato degli antibiotici e di interventi per il controllo delle infezioni nelle strutture di assistenza sanitaria. In questo contesto, il Piano Nazionale di Contrasto dell’Antibiotico-Resistenza (PNCAR) 2017-2020 rappresenta un’occasione per migliorare e rendere più incisive le attività di contrasto del fenomeno a livello nazionale, regionale e locale”.

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Cosa sono le case della salute e perché funzionano

Ospedali riconvertiti, ma non solo. Offrono strutture alternative a quelle del servizio pubblico. Riducendo accessi al pronto soccorso e ricoveri. In attesa di una riforma, ecco a chi (e a quali patologie) servono questi punti di assistenza.

Spesso sono ospedali riconvertiti, ma non solo. Le case della salute, previste in via sperimentale dal decreto del ministero del 10 luglio 2007 e poi implementate da molte Regioni, stanno diventando un punto di riferimento in tutto il territorio nazionale. Ed è una buona notizia, dal momento che il servizio pubblico continua a perdere strutture e ospedali. Solo nel 2018 si sono perse almeno 91 strutture di ricovero, pari al 6% del totale. Conforta sapere che il Lazio, con 20 case attivate (l’ultima nata a settembre all’interno dello storico presidio di Trastevere annesso all’antichissima Chiesa di San Cosimato) ha raggiunto 1,8 milioni di prestazioni totali nel primo semestre del 2019, in crescita del 5,3% rispetto a quelle eseguite nel primo semestre del 2018. In particolare sono in crescita i dati delle strutture nella Asl Roma 2. Il governatore Nicola Zingaretti e la sua Giunta ne avevano annunciate 48, ma al momento non si parla di nuove strutture. Il Sud laziale è il territorio più penalizzato nonostante sia prevista la trasformazione di 11 punti di primo intervento, sette dei quali in provincia di Latina, in punti di erogazione di assistenza primaria entro il 31 dicembre 2019.

PRESIDI SPARSI IN TUTTE LE REGIONI ITALIANE

Al momento la Regione Lazio ha preferito concentrare le risorse sulle case esistenti e i risultati sembrano darle ragione. Questo dato permette di allargare l’orizzonte ad altre regioni. In Toscana l’obiettivo è arrivare a una casa della salute per aggregazione funzionale di 10 medici ogni 30 mila abitanti, che offra servizi infermieristici e diagnostica di primo livello. In Umbria accanto a una trentina di centri di salute in zone spopolate, le case della salute, intese come ospedali pubblici riconvertiti, sono funzionanti a Marsciano e a Trevi. In Calabria sono finanziate sei case su otto in progetto; in Piemonte ne sono operative una sessantina, di cui 25 in provincia di Torino. Le Marche hanno un crono-programma che dovrebbe essere avviato dal 2020 e portato a regime entro un paio di anni, in Lombardia molti pazienti coinvolti nel piano cronicità fanno teoricamente capo ai Presst, i presidi socio sanitari territoriali: poliambulatori per visite, esami e terapie più semplici, che evitano il ricorso all’ospedale.

IMPATTO SUI “CODICI BIANCHI”

In Emilia-Romagna esistono 70 strutture suddivise in tre livelli a seconda della grandezza e dei servizi e sono già un punto di riferimento per un quarto della popolazione. L’obiettivo è arrivare a circa 120 case e coprire tutto il territorio regionale. E proprio dall’assessorato regionale alla Salute è arrivata una conferma: le case della salute funzionano. È stato infatti somministrato un questionario in 64 strutture, escluse quelle dei Comuni capoluogo di provincia, attive da almeno nove mesi nel periodo dal 2009 al 2016. Le risposte hanno fatto segnare un calo dal 40 a 60% di accessi al pronto soccorso in 14 centri, dal 50 al 20% in 26 e dal 20 al 12% in altri 14 località. In media, dove c’è una casa della salute, si riducono del 21,1% gli accessi al pronto soccorso per cause che non richiedevano un intervento urgente, i cosiddetti “codici bianchi”. Percentuale che ha sfiorato il 30% quando il medico di medicina generale opera all’interno della casa. E calano contemporaneamente (-3,6%) i ricoveri ospedalieri per le patologie trattabili a livello ambulatoriale, come diabete, scompenso cardiaco, broncopneumopatia cronica ostruttiva, polmonite batterica. Anche in questo caso l’effetto è ancora maggiore (-5,5%) se presente il medico di medicina generale. Non solo, perché nei territori serviti dalle case della salute si è intensificata nel tempo (+5,5%) l’assistenza domiciliare al paziente, sia infermieristica sia medica.

FOCUS SOPRATTUTTO SUGLI ANZIANI

Francesco Longo, direttore del Cergas, il Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale dell’Università Bocconi, spiega: «La casa della salute è un investimento infrastrutturale per le Regioni. Le nuove strutture provengono dalla trasformazione di piccoli ospedali arricchiti dalla presenza del medico di famiglia e dell’infermiere territoriale a lui riferito, o di personale ad hoc per le cure domiciliari. I loro obiettivi sono eterogenei per ora. La mission principale, al momento, riguarda case orientate più sugli anziani e sulla home-care con letti per subacuti e postacuti o di hospice, con l’obiettivo prevalente di evitare ricoveri impropri di anziani. Spesso queste case insistono su un territorio isolato che non ha una popolazione residente sufficiente per un ospedale, dal quale dista in media 20 chilometri o più. Una seconda funzione è orientata a gestire patologie croniche leggere come diabete, ipertensione, o di media entità come scompenso e Bpco. Ad affrontarle, non ci sono solo medici di famiglia ma anche specialisti che, per esempio, una volta ogni 15 giorni effettuano visite dedicate per patologia».

QUANDO UNA GRANDE RIFORMA?

Quale può essere il futuro delle case della salute? I tanti governi che si sono succeduti hanno spesso parlato di una grande riforma della medicina del territorio da attuare, sia per reperire nuove risorse sia per aiutare molti ospedali che sono al collasso in particolare nei pronto soccorso. Mai nessuno però ha preso concretamente a cuore la vicenda. Si chiede da più parti, non ultima la Fondazione Gimbe, la creazione di un sistema di cure intermedie, assistenza domiciliare, hospice, e un sistema socio sanitario integrato. Laddove le case della salute funzionano è perché i cittadini trovano soddisfatti i loro bisogni e in quel luogo trovano le risposte e non si rivolgono al pronto soccorso.

PROBLEMI DI SPESA, SPECIALMENTE AL SUD

Nino Cartabellotta, presidente di Gimbe, dice: «Dobbiamo immaginare degli staff in setting diversi. E poi anche qui c’è un problema di spesa, soprattutto al Sud si spende troppo per l’ospedale, mentre dobbiamo assolutamente investire nelle cure primarie. Auspico nuovi standard per il territorio e credo che sarebbe anche il caso di istituire un Fondo socio sanitario nazionale in modo da mettere ordine alla frammentazione che abbiamo oggi tra i vari livelli istituzionali».

NUOVO PROGETTO IN EMILIA-ROMAGNA

Dai Comuni dell’alta Verbania a Piombino, fino alla Puglia, dove nel giugno 2018 è stato approvato il piano regionale per la creazione di 33 nuovi Pta, i punti territoriali di assistenza, la discussione sulla riorganizzazione territoriale è molto accesa. In Emilia-Romagna è nato da poco il progetto “Romagna salute” che integra i servizi dell’Università di Bologna con quelli delle Asl romagnole e prevede la nascita di nuove case della salute. La strada è avviata, le case della salute sembrano godere di ottima… salute anche per il futuro.

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