CRESCITA, LA SPINTA PROPULSIVA DELLE TRANSIZIONI GEMELLE

Andrea Prete, presidente Unioncamere

Quando le imprese investono nella Duplice Transizione (digital e green) il guadagno di produttività sale al 14%, addirittura al 17% se ci aggiungono investimenti nel capitale umano

 

Presidente, facciamo il punto sulle doppie transizioni. A che punto siamo e cosa ci aspetta?

Nel 2026 la spesa mondiale in digitalizzazione raddoppierà rispetto al 2022 arrivando a 3,4 trilioni di dollari. Secondo le stime del World Economic Forum questo incremento comporterà una perdita di lavoro pari a 85 milioni, compensata però da un aumento di nuova occupazione di 97 milioni, con un saldo attivo di 12 milioni. Le imprese sono consapevoli già oggi di quanto sia necessaria la svolta digitale per incrementare la produttività e innovare il modello di business. Infatti, il 64% del sistema produttivo mondiale la ritiene una scelta necessaria e non più opzionale. Nel nostro Paese, permane il divario che ci separa dai principali competitors a livello europeo e mondiale. Solo il 46% della popolazione di età compresa tra 16 e 74 anni possiede infatti almeno un livello base di competenze digitali. Siamo ancora distanti pertanto dall’obiettivo dell’80% fissato dall’Ue al 2030. Non va molto meglio sul versante produttivo, anche se un avanzamento degno di nota c’è stato negli ultimi anni, complice anche la pandemia. Ad oggi il 9% delle imprese italiane utilizza i big data, il 62% il cloud mentre solo il 6% l’Intelligenza Artificiale. Restano quindi ancora molti passi in avanti da compiere per raggiungere quel 75% di imprese che utilizzano almeno una di queste tre tecnologie, posto come obiettivo al 2030 dall’Ue. Nel nostro Paese, solo il 20% delle imprese ha un’intensità digitale alta o molto alta, un valore al di sotto del 22,1%, (media europea) a causa di competenze digitali inadeguate, tanto che solo il 28% della forza lavoro italiana ne ha di superiori al livello base, contro una media UE del 31,2%.

Ma perché alcune imprese sono ancora refrattarie alla digitalizzazione?

Lo sono per diverse ragioni. Secondo i risultati dell’indagine del nostro Centro Studi Tagliacarne, le Pmi italiane pongono in cima alla lista degli ostacoli innanzitutto la difficoltà di non trovare professionalità in grado di utilizzare al meglio le tecnologie 4.0 (31%), fenomeno ben noto quello del disallineamento tra i processi formativi e le competenze di cui le imprese necessitano per restare competitive. Esiste, poi, un timore elevato (29%) di attacchi informatici, seguito dalla difficoltà che hanno le imprese di non riuscire a utilizzare al meglio le tecnologie per carenze di infrastrutture tecnologiche. Vanno pertanto rimosse con decisione tutte le barriere che ostacolano la transizione, relative in primis ai costi, con il 37% delle imprese che denuncia scarsità di risorse, problemi di accesso al credito, tassi di interesse elevati, costi delle tecnologie altrettanto onerosi. Esiste però anche un problema di maggiore dimensione – il 41% – che attiene alla sfera culturale: le imprese non investono nella digitalizzazione perché ancora trascurano, o non conoscono del tutto, gli effetti positivi delle tecnologie 4.0 sulla competenze di vita dell’azienda. Infine, oltre 10 imprese su 100 dichiarano la mancanza di competenze digitali e l’eccesso di burocrazia come barriera ancora insormontabile per iniziare a investire nella Transizione Digitale.

E sul green quali sono le prospettive e la fotografia attuale delle performance italiane?

Le proiezioni dicono che per raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica nel 2050, dapprima occorre aumentare la spesa mondiale in investimenti green dal 7 al 9% del Pil. In termini assoluti, saranno quindi necessari investimenti per 275 trilioni di dollari. Siamo però ancora indietro rispetto all’obiettivo Ue al 2030 del -55% di riduzione dei gas serra, con il solo 19% di quota di energia da fonti rinnovabili sul consumo finale che per l’Ue dovrà essere del 30%. Senz’altro in parte ciò è dovuto ai gangli burocratici che ancora insistono nel nostro Paese, rallentando la costruzione di impianti di rinnovabili. La buona notizia è però che l’Italia al primo posto in Ue per efficienza nella produzione e per riciclo. Tenendo conto, infatti, del riciclo totale tra rifiuti speciali e urbani prodotti il nostro Paese segna 83, 4%, ben al di sopra della media europea del 53,8%. I ritardi europei sulla transizione green sono sostanzialmente connessi alla dipendenza estera dalle materie prime critiche (80%). Una strada per affrancarsi potrebbe venire però dalla stessa economia circolare: a titolo esemplificativo, al 2040 tramite il riciclo delle batterie esauste, la Ue potrebbe soddisfare oltre la metà della domanda di litio e di cobalto attivata dalla mobilità elettrica. Come per la transizione digitale, migliori risultati si avrebbero anche su questo fronte se le imprese – opportunamente sostenute – prendessero maggiore coscienza dei vantaggi legati alla sostenibilità e se fossero abbattuti i muri di inefficienza burocratica che scoraggiano la voglia di investire.

Le transizioni gemelle potrebbero concretamente cambiare la fisionomia del sistema produttivo del nostro Paese grazie alla loro spinta propulsiva: sempre secondo l’analisi del Centro Studi Tagliacarne, quando le imprese investono nella Duplice transizione (digital e green) il guadagno di produttività sale al 14%, addirittura al 17% se ci aggiungono investimenti nel capitale umano. Come sistema camerale abbiamo da tempo ben chiaro che la rotta, ineludibile, da seguire sia questa e che soprattutto le pmi vadano informate, accompagnate e coinvolte come facciamo da anni e con ottimi risultati attraverso i PID. Continueremo a farlo, certi che la sfida per una crescita sostenibile passi da qui.

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CER, OLTRE L’INDIVIDUALISMO

La CCIAA di Salerno potrebbe favorire le Comunità Energetiche Rinnovabili contribuendo a finanziare studi di fattibilità, che rappresentano l’investimento iniziale di cui devono farsi carico

Sul territorio salernitano si sta lavorando per rendere presto realtà le Comunità Energetiche Rinnovabili. Quale potrebbe essere il ruolo delle Camere di Commercio?

C’è molto interesse per questo strumento che può rivelarsi prezioso per lo sviluppo dell’economia del nostro territorio e foriero di un nuovo modo di ragionare per e tra le imprese. La Camera potrebbe favorire le CER contribuendo a finanziare gli studi di fattibilità, che rappresentano l’investimento iniziale di cui la CER deve farsi carico. Nel caso di Buccino, Confindustria Salerno ci ha manifestato l’interesse di un gruppo di imprese di costituire una CER. La stessa proposta, in futuro, potrebbe arrivare anche da altre associazione di imprese energivore con grossi spazi disponibili per l’installazione degli impianti. La Camera vuole sostenere tale iniziativa non solo per gli effetti benefici che potrebbe comportare ma anche per enfatizzare la positività che c’è dietro a questo approccio, capace finalmente di  superare frammentazioni e individualismi che tanto hanno nuociuto alla crescita del nostro territorio. La sinergia è la chiave giusta per lo sviluppo.

Avete pensato a misure di sostegno mirate per il caro energia?

Attualmente due sono gli interventi allo studio. Il primo potrebbe essere un voucher per audit energetici, in grado di restituire all’azienda una diagnosi puntuale sui consumi e sulle soluzioni per un miglioramento in termini di efficientamento energetico. La seconda, invece, l’istituzione di uno sportello di consulenza che consenta alle imprese di leggere nel modo corretto la bolletta energetica, così da ricevere informazioni e soluzioni specifiche per l’ottimizzazione delle fatture.

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Magaldi Power, terza generazione alla guida. Il nuovo Ceo Paolo Magaldi: “Moltiplicheremo le soluzioni brevettate nei diversi settori industriali”

Paolo Magaldi, ceo Magaldi Power

Paolo Magaldi, 44 anni, è il nuovo Ceo di Magaldi Power, leader mondiale nella progettazione e produzione di sistemi per la movimentazione di materiali ad altissima temperatura nei settori industriali (metallurgico, siderurgico, lavorazione dei metalli, cemento, energia). 

Fondato nel 1929 a Buccino, in provincia di Salerno, il Gruppo Magaldi, associato a Confindustria Salerno, è presente oggi in più di 50 Paesi e ha sedi operative in Stati Uniti, Messico, Emirati Arabi, India e Australia. L’azienda ha 200 dipendenti, di cui il 50% ingegneri, per un fatturato complessivo tra 40 e 50 milioni milioni di euro. Da sempre orientata all’innovazione, l’azienda ha depositato 55 brevetti internazionali.

Nel 2021 nasce, in seno al gruppo, Magaldi Green Energy, focalizzata alla ricerca, allo sviluppo, alla produzione ed alla commercializzazione di tecnologie innovative nel settore della generazione e dello stoccaggio di energia pulita.

Giunta alla terza generazione, la governance di Paolo Magaldi segue quella di suo padre, il Cavaliere del Lavoro Mario Magaldi e del nonno Paolo, fondatore del Gruppo.

«Ho la fortuna – afferma Paolo Magaldi – di essere guidato da un Presidente ed un Consiglio di Amministrazione composto dalla mia famiglia: Letizia Magaldi, Raffaello Magaldi, Mario Magaldi, da Gianmatteo Nunziante e manager di elevatissima qualità e competenza. È grazie a questa unità che siamo un’indiscutibile forza. Nei novanta anni e più di storia, il Gruppo si è saputo reinventare con dinamicità più di una volta, ridisegnando per intero il mercato di riferimento, il prodotto e l’organizzazione».

«Coltivo il sogno di moltiplicare le soluzioni brevettate in altrettanti settori industriali, e diventare uno standard indiscusso per quei processi dove i nostri prodotti offrono la migliore delle alternative disponibili, e la strada tracciata è quella giusta. Oggi – continua Paolo Magaldi – siamo divenuti una boutique metalmeccanica industriale che adatta le sue tecnologie brevettate per il trasporto meccanico di materiali sfusi ai processi che richiedono soluzioni affidabili, nel pieno rispetto dell’ambiente».

L’attuale portfolio prodotti del Gruppo rispecchia l’impegno aziendale in R&S, coprendo un’ampia gamma di materiali (fusioni, rottami metallici, ceneri, clinker, ecc.) che possono essere trasportati in modo efficiente e sostenibile.

Parallelamente alla realizzazione di sistemi all’avanguardia per la movimentazione di materiale sfusi, la Magaldi si è orientata anche al settore della produzione di energia da fonti rinnovabili e al settore dell’accumulo di energia (storage) attraverso le cosiddette “batterie di sabbia”.

Lo sviluppo e l’implementazione di queste tecnologie a basso impatto ambientale e ad alta efficienza energetica si inserisce a pieno titolo nel modello di business aziendale orientato a generare innovazione sostenibile e, più in generale, ad entrare nel percorso globale di transizione energetica e decarbonizzazione.

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Nei primi tre mesi del 2020 tariffe della luce in calo del 5,4%, gas a +0,8

L'annuncio dell'autorità per l'energia: su base annua «il risparmio per la famiglia tipo è di circa 125 euro».

Dal primo gennaio e per il primo trimestre 2020, l’Autorità per l’Energia annuncia un calo delle tariffe della luce del 5,4% e un aumento dello 0,8% di quelle del gas. Provvedimenti dovuti al ‘forte calo del fabbisogno per gli oneri generali, al contenimento delle tariffe regolate di rete e alle basse quotazioni delle materie prime nei mercati all’ingrosso. «Nei 12 mesi da aprile 2019 a marzo 2020, il risparmio complessivo per la famiglia tipo per elettricità e gas è di circa 125 euro».

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Nordstream 2 e la geopolitica del gas russo

Russia e Germania hanno vinto la partita sul gasdotto, a discapito degli Stati centrali dell'Europa, in particolare dell'Ucraina. Mentre Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati con la Cina assetata di energia e per accaparrarsi le risorse dell'Artico.

Con il via libera della Danimarca a Nordstream 2, bloccato temporaneamente per questioni ambientali, si è chiusa, salvo imprevisti, la telenovela del gasdotto russo-tedesco sotto il Baltico.

Già in dirittura d’arrivo, si era incagliato nelle acque territoriali danesi e senza la luce verde di Copenaghen avrebbe dovuto allungare il percorso. Niente chilometri in più e altri ritardi, quindi, e così il progetto trainato dal colosso Gazprom dovrebbe chiudersi nei prossimi mesi e partire a pieno regime nel 2020.

Si tratta del raddoppio di Nordstream 1, già in funzione da quasi 10 anni, che porterà altri 55 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno direttamente in Germania. Aggirando da Nord l’Europa centrale e soprattutto l’Ucraina. Voluto con forza da Mosca e Berlino, Nordstream 2 è stato ostacolato fortemente da alcuni Stati dell’Ue, guidati dalla Polonia, e soprattutto dagli Stati Uniti, interessati a indebolire il legame energetico tra Russia ed Europa e sostituirsi almeno in parte a Mosca attraverso forniture di gas liquido proveniente da Oltreoceano.

UNA BATTAGLIA VINTA DA PUTIN E MERKEL

Se dunque è stata detta davvero l’ultima parola sui tubi della discordia, ad averla vinta sono stati in primo luogo Vladimir Putin e Angela Merkel, in questi ultimi mesi sotto pressione da Washington per lasciare incompiuto il lavoro fatto dal suo predecessore Gerhard Schröder, che all’inizio degli anni Duemila aveva detto il primo sì a Nordstream 1. A nulla sembra essere in definitiva servito il pesante lavoro di lobby americano, sia su Bruxelles che su singoli Stati europei: il Cremlino continua a essere in posizione di forza nella guerra del gas che va avanti, tra cambiamenti di scenari anche repentini, già da un paio di lustri, ma che vede come attori principali sul Vecchio continente sempre Russia e Germania. Se sul versante meridionale Mosca ha dovuto cambiare le carte, con l’abbandono di Southstream poi in parte sostituito con Blustream a fianco della Turchia, su quello settentrionale l’asse Mosca-Berlino non ha dato segni di cedimento, nonostante la crisi ucraina e le sanzioni occidentali, europee e statunitensi, che comunque non sono andate a toccare i progetti energetici.

KIEV E LA QUESTIONE DELLA DIPENDENZA UCRAINA DAL GAS RUSSO

Anche le minacce di ritorsioni economiche verso le aziende europee, non solo tedesche, ma anche olandesi, austriache, francesi e italiane, sono andate a vuoto. Putin e Merkel possono dirsi soddisfatti, Donald Trump un po’ meno, così come polacchi e baltici, insieme con gli ucraini, i perdenti. Sarà infatti Kiev a essere la più penalizzata dal doppio Nordstream, che in sostanza la taglierà fuori dal sistema di transito, o comunque da gran parte di esso. Addio quindi a 3 miliardi di dollari all’anno e la necessità a questo punto di dover affrontare la questione della dipendenza dal gas russo, in realtà non così complicata. Negli anni passati, già prima del regime change a Kiev e la guerra nel Donbass, il braccio di ferro tra Russia e Ucraina sulle questioni energetiche è stato ampiamente strumentalizzato da entrambe le parti per ragioni geopolitiche ed economiche, quando in realtà l’Ucraina, senza troppi sforzi come dimostrato proprio negli ultimi anni, potrebbe sensibilmente diminuire l’import di gas russo per il proprio fabbisogno interno.

Alcune tubazioni di gas in Ucraina (foto ©AP/Lapresse).

Gli interessi di Gapzrom e Naftogaz e degli oligarchi di riferimento, da una parte e dall’altra, hanno segnato i rapporti tra Mosca e Kiev nel settore più opaco e corrotto dell’economia di entrambi i Paesi. Yulia Tymoshenko, l’eroina della rivoluzione arancione del 2004, era stata sbattuta in galera dal presidente Victor Yanukovich nel 2011 con l’accusa di abuso di ufficio per aver firmato i contratti con Putin nel 2009, gli stessi che sono ancora in vigore fino alla fine di quest’anno e devono essere rinegoziati con la mediazione dell’Unione europea.

ORA MOSCA PUÒ APRIRE NUOVI MERCATI DEL GAS CON LA CINA

Tra battaglie legali e successi alterni davanti ai tribunali, Gazprom e Naftogaz sono di fronte a una nuova sfida sulla quale l’avvio di Nordstream pesa non poco. Il Cremlino ha anche stavolta il coltello dalla parte del manico, anche perché l’Ucraina, pur avendo ricevuto assicurazioni di massima da parte di Berlino e Bruxelles, è rimasta isolata e gli aiuti trasversali americani, non certo disinteressati, sono finiti in un disastro. Basti pensare al 2014 e all’entrata in scena di Hunter Biden, figlio dell’allora vicepresidente americano John, in Burisma, una delle maggiori società ucraine private energetiche.

Dal Cremlino intanto Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale

In un contesto che ha visto l’Ucraina post Euromaidan commissariata con addirittura tre ministri stranieri, tra cui l’americaca Natalia Yaresko alle Finanze, il terreno di conquista si era allargato: controllata inizialmente da un oligarca vicino a Yanukovich, il suo consiglio di amministrazione è diventato dopo il cambio di governo filoccidentale a Kiev una cabina di regia proamericana dove sono finiti tra gli altri l’ex presidente polacco Aleksander Kwasniewski e l’ex capo dell’antiterrorismo della Cia e vice ad di Blackwater (ora Academi) Joseph Cofer Black.

Xi Jingping e Vladimir Putin (foto LaPresse).

Paradossalmente, più che diventare un attore antitetico alla Russia, Burisma si è rivelata così solo il peccato originale sulla quale è scoppiato poi l’Ucrainagate che ha coinvolto Donald Trump. Ma questa è un’altra storia. Dal Cremlino intanto Putin, che con Nordstream ha infine stabilizzato il fronte occidentale, può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale, con la Cina assetata di gas, e la sfida alle risorse dell’Artico, dove per sicurezza è stata già piantata una bandiera russa.

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Nordstream 2 e la geopolitica del gas russo

Russia e Germania hanno vinto la partita sul gasdotto, a discapito degli Stati centrali dell'Europa, in particolare dell'Ucraina. Mentre Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati con la Cina assetata di energia e per accaparrarsi le risorse dell'Artico.

Con il via libera della Danimarca a Nordstream 2, bloccato temporaneamente per questioni ambientali, si è chiusa, salvo imprevisti, la telenovela del gasdotto russo-tedesco sotto il Baltico.

Già in dirittura d’arrivo, si era incagliato nelle acque territoriali danesi e senza la luce verde di Copenaghen avrebbe dovuto allungare il percorso. Niente chilometri in più e altri ritardi, quindi, e così il progetto trainato dal colosso Gazprom dovrebbe chiudersi nei prossimi mesi e partire a pieno regime nel 2020.

Si tratta del raddoppio di Nordstream 1, già in funzione da quasi 10 anni, che porterà altri 55 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno direttamente in Germania. Aggirando da Nord l’Europa centrale e soprattutto l’Ucraina. Voluto con forza da Mosca e Berlino, Nordstream 2 è stato ostacolato fortemente da alcuni Stati dell’Ue, guidati dalla Polonia, e soprattutto dagli Stati Uniti, interessati a indebolire il legame energetico tra Russia ed Europa e sostituirsi almeno in parte a Mosca attraverso forniture di gas liquido proveniente da Oltreoceano.

UNA BATTAGLIA VINTA DA PUTIN E MERKEL

Se dunque è stata detta davvero l’ultima parola sui tubi della discordia, ad averla vinta sono stati in primo luogo Vladimir Putin e Angela Merkel, in questi ultimi mesi sotto pressione da Washington per lasciare incompiuto il lavoro fatto dal suo predecessore Gerhard Schröder, che all’inizio degli anni Duemila aveva detto il primo sì a Nordstream 1. A nulla sembra essere in definitiva servito il pesante lavoro di lobby americano, sia su Bruxelles che su singoli Stati europei: il Cremlino continua a essere in posizione di forza nella guerra del gas che va avanti, tra cambiamenti di scenari anche repentini, già da un paio di lustri, ma che vede come attori principali sul Vecchio continente sempre Russia e Germania. Se sul versante meridionale Mosca ha dovuto cambiare le carte, con l’abbandono di Southstream poi in parte sostituito con Blustream a fianco della Turchia, su quello settentrionale l’asse Mosca-Berlino non ha dato segni di cedimento, nonostante la crisi ucraina e le sanzioni occidentali, europee e statunitensi, che comunque non sono andate a toccare i progetti energetici.

KIEV E LA QUESTIONE DELLA DIPENDENZA UCRAINA DAL GAS RUSSO

Anche le minacce di ritorsioni economiche verso le aziende europee, non solo tedesche, ma anche olandesi, austriache, francesi e italiane, sono andate a vuoto. Putin e Merkel possono dirsi soddisfatti, Donald Trump un po’ meno, così come polacchi e baltici, insieme con gli ucraini, i perdenti. Sarà infatti Kiev a essere la più penalizzata dal doppio Nordstream, che in sostanza la taglierà fuori dal sistema di transito, o comunque da gran parte di esso. Addio quindi a 3 miliardi di dollari all’anno e la necessità a questo punto di dover affrontare la questione della dipendenza dal gas russo, in realtà non così complicata. Negli anni passati, già prima del regime change a Kiev e la guerra nel Donbass, il braccio di ferro tra Russia e Ucraina sulle questioni energetiche è stato ampiamente strumentalizzato da entrambe le parti per ragioni geopolitiche ed economiche, quando in realtà l’Ucraina, senza troppi sforzi come dimostrato proprio negli ultimi anni, potrebbe sensibilmente diminuire l’import di gas russo per il proprio fabbisogno interno.

Alcune tubazioni di gas in Ucraina (foto ©AP/Lapresse).

Gli interessi di Gapzrom e Naftogaz e degli oligarchi di riferimento, da una parte e dall’altra, hanno segnato i rapporti tra Mosca e Kiev nel settore più opaco e corrotto dell’economia di entrambi i Paesi. Yulia Tymoshenko, l’eroina della rivoluzione arancione del 2004, era stata sbattuta in galera dal presidente Victor Yanukovich nel 2011 con l’accusa di abuso di ufficio per aver firmato i contratti con Putin nel 2009, gli stessi che sono ancora in vigore fino alla fine di quest’anno e devono essere rinegoziati con la mediazione dell’Unione europea.

ORA MOSCA PUÒ APRIRE NUOVI MERCATI DEL GAS CON LA CINA

Tra battaglie legali e successi alterni davanti ai tribunali, Gazprom e Naftogaz sono di fronte a una nuova sfida sulla quale l’avvio di Nordstream pesa non poco. Il Cremlino ha anche stavolta il coltello dalla parte del manico, anche perché l’Ucraina, pur avendo ricevuto assicurazioni di massima da parte di Berlino e Bruxelles, è rimasta isolata e gli aiuti trasversali americani, non certo disinteressati, sono finiti in un disastro. Basti pensare al 2014 e all’entrata in scena di Hunter Biden, figlio dell’allora vicepresidente americano John, in Burisma, una delle maggiori società ucraine private energetiche.

Dal Cremlino intanto Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale

In un contesto che ha visto l’Ucraina post Euromaidan commissariata con addirittura tre ministri stranieri, tra cui l’americaca Natalia Yaresko alle Finanze, il terreno di conquista si era allargato: controllata inizialmente da un oligarca vicino a Yanukovich, il suo consiglio di amministrazione è diventato dopo il cambio di governo filoccidentale a Kiev una cabina di regia proamericana dove sono finiti tra gli altri l’ex presidente polacco Aleksander Kwasniewski e l’ex capo dell’antiterrorismo della Cia e vice ad di Blackwater (ora Academi) Joseph Cofer Black.

Xi Jingping e Vladimir Putin (foto LaPresse).

Paradossalmente, più che diventare un attore antitetico alla Russia, Burisma si è rivelata così solo il peccato originale sulla quale è scoppiato poi l’Ucrainagate che ha coinvolto Donald Trump. Ma questa è un’altra storia. Dal Cremlino intanto Putin, che con Nordstream ha infine stabilizzato il fronte occidentale, può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale, con la Cina assetata di gas, e la sfida alle risorse dell’Artico, dove per sicurezza è stata già piantata una bandiera russa.

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Nordstream 2 e la geopolitica del gas russo

Russia e Germania hanno vinto la partita sul gasdotto, a discapito degli Stati centrali dell'Europa, in particolare dell'Ucraina. Mentre Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati con la Cina assetata di energia e per accaparrarsi le risorse dell'Artico.

Con il via libera della Danimarca a Nordstream 2, bloccato temporaneamente per questioni ambientali, si è chiusa, salvo imprevisti, la telenovela del gasdotto russo-tedesco sotto il Baltico.

Già in dirittura d’arrivo, si era incagliato nelle acque territoriali danesi e senza la luce verde di Copenaghen avrebbe dovuto allungare il percorso. Niente chilometri in più e altri ritardi, quindi, e così il progetto trainato dal colosso Gazprom dovrebbe chiudersi nei prossimi mesi e partire a pieno regime nel 2020.

Si tratta del raddoppio di Nordstream 1, già in funzione da quasi 10 anni, che porterà altri 55 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno direttamente in Germania. Aggirando da Nord l’Europa centrale e soprattutto l’Ucraina. Voluto con forza da Mosca e Berlino, Nordstream 2 è stato ostacolato fortemente da alcuni Stati dell’Ue, guidati dalla Polonia, e soprattutto dagli Stati Uniti, interessati a indebolire il legame energetico tra Russia ed Europa e sostituirsi almeno in parte a Mosca attraverso forniture di gas liquido proveniente da Oltreoceano.

UNA BATTAGLIA VINTA DA PUTIN E MERKEL

Se dunque è stata detta davvero l’ultima parola sui tubi della discordia, ad averla vinta sono stati in primo luogo Vladimir Putin e Angela Merkel, in questi ultimi mesi sotto pressione da Washington per lasciare incompiuto il lavoro fatto dal suo predecessore Gerhard Schröder, che all’inizio degli anni Duemila aveva detto il primo sì a Nordstream 1. A nulla sembra essere in definitiva servito il pesante lavoro di lobby americano, sia su Bruxelles che su singoli Stati europei: il Cremlino continua a essere in posizione di forza nella guerra del gas che va avanti, tra cambiamenti di scenari anche repentini, già da un paio di lustri, ma che vede come attori principali sul Vecchio continente sempre Russia e Germania. Se sul versante meridionale Mosca ha dovuto cambiare le carte, con l’abbandono di Southstream poi in parte sostituito con Blustream a fianco della Turchia, su quello settentrionale l’asse Mosca-Berlino non ha dato segni di cedimento, nonostante la crisi ucraina e le sanzioni occidentali, europee e statunitensi, che comunque non sono andate a toccare i progetti energetici.

KIEV E LA QUESTIONE DELLA DIPENDENZA UCRAINA DAL GAS RUSSO

Anche le minacce di ritorsioni economiche verso le aziende europee, non solo tedesche, ma anche olandesi, austriache, francesi e italiane, sono andate a vuoto. Putin e Merkel possono dirsi soddisfatti, Donald Trump un po’ meno, così come polacchi e baltici, insieme con gli ucraini, i perdenti. Sarà infatti Kiev a essere la più penalizzata dal doppio Nordstream, che in sostanza la taglierà fuori dal sistema di transito, o comunque da gran parte di esso. Addio quindi a 3 miliardi di dollari all’anno e la necessità a questo punto di dover affrontare la questione della dipendenza dal gas russo, in realtà non così complicata. Negli anni passati, già prima del regime change a Kiev e la guerra nel Donbass, il braccio di ferro tra Russia e Ucraina sulle questioni energetiche è stato ampiamente strumentalizzato da entrambe le parti per ragioni geopolitiche ed economiche, quando in realtà l’Ucraina, senza troppi sforzi come dimostrato proprio negli ultimi anni, potrebbe sensibilmente diminuire l’import di gas russo per il proprio fabbisogno interno.

Alcune tubazioni di gas in Ucraina (foto ©AP/Lapresse).

Gli interessi di Gapzrom e Naftogaz e degli oligarchi di riferimento, da una parte e dall’altra, hanno segnato i rapporti tra Mosca e Kiev nel settore più opaco e corrotto dell’economia di entrambi i Paesi. Yulia Tymoshenko, l’eroina della rivoluzione arancione del 2004, era stata sbattuta in galera dal presidente Victor Yanukovich nel 2011 con l’accusa di abuso di ufficio per aver firmato i contratti con Putin nel 2009, gli stessi che sono ancora in vigore fino alla fine di quest’anno e devono essere rinegoziati con la mediazione dell’Unione europea.

ORA MOSCA PUÒ APRIRE NUOVI MERCATI DEL GAS CON LA CINA

Tra battaglie legali e successi alterni davanti ai tribunali, Gazprom e Naftogaz sono di fronte a una nuova sfida sulla quale l’avvio di Nordstream pesa non poco. Il Cremlino ha anche stavolta il coltello dalla parte del manico, anche perché l’Ucraina, pur avendo ricevuto assicurazioni di massima da parte di Berlino e Bruxelles, è rimasta isolata e gli aiuti trasversali americani, non certo disinteressati, sono finiti in un disastro. Basti pensare al 2014 e all’entrata in scena di Hunter Biden, figlio dell’allora vicepresidente americano John, in Burisma, una delle maggiori società ucraine private energetiche.

Dal Cremlino intanto Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale

In un contesto che ha visto l’Ucraina post Euromaidan commissariata con addirittura tre ministri stranieri, tra cui l’americaca Natalia Yaresko alle Finanze, il terreno di conquista si era allargato: controllata inizialmente da un oligarca vicino a Yanukovich, il suo consiglio di amministrazione è diventato dopo il cambio di governo filoccidentale a Kiev una cabina di regia proamericana dove sono finiti tra gli altri l’ex presidente polacco Aleksander Kwasniewski e l’ex capo dell’antiterrorismo della Cia e vice ad di Blackwater (ora Academi) Joseph Cofer Black.

Xi Jingping e Vladimir Putin (foto LaPresse).

Paradossalmente, più che diventare un attore antitetico alla Russia, Burisma si è rivelata così solo il peccato originale sulla quale è scoppiato poi l’Ucrainagate che ha coinvolto Donald Trump. Ma questa è un’altra storia. Dal Cremlino intanto Putin, che con Nordstream ha infine stabilizzato il fronte occidentale, può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale, con la Cina assetata di gas, e la sfida alle risorse dell’Artico, dove per sicurezza è stata già piantata una bandiera russa.

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