Urna dai due volti per le italiane a Nyon. La Juve pesca il Lione, l'Atalanta il Valencia. Decisamente peggio va al Napoli, cui tocca in sorte il Barcellona.
Tra qualche brivido e molte speranze Juventus, Napoli e Atalanta hanno conosciuto l’esito del sorteggio degli ottavi di Champions League. A Nyon l’urna dell’Uefa ha dipinto un quadro dai due volti per le italiane, con Juventus e Atalanta premiate dalla Dea Bendata e il Napoli decisamente più sfortunato.
IL LIONE PER I BIANCONERI DI SARRI
I bianconeri di Maurizio Sarri hanno pescato il Lione, sulla carta l’avversario più morbido. Per gli uomini di Giampiero Gasperini, scongiurati gli spauracchi Barcellona, Liverpool e Paris Saint-Germain, è arrivato un avversario come il Valencia, decisamente alla portata dei bergamaschi.
MESSI SPAVENTA IL NAPOLI
Peggio è andata al Napoli, che dovrà vedersela col Barcellona. «Non ci dobbiamo lamentare», ha commentato a caldo Pavel Nedved. «Però è sempre difficile, se non arrivi in forma a febbraio e marzo non passi il turno questo è garantito». «Una grande squadra, una grande sfida, due gare affascinanti. Le affronteremo senza paura», ha detto invece Rino Gattuso, neotecnico del Napoli, commentando così – sul profilo ufficiale Twitter del club partenopeo – il difficile incrocio con il Barcellona.
GLI ACCOPPIAMENTI DEGLI OTTAVI
Borussia Dortmund-Paris Saint-Germain
Real Madrid-Manchester City
Atalanta-Valencia
Atletico Madrid-Liverpool
Chelsea-Bayern Monaco
Lione-Juventus
Tottenham-Lipsia
Napoli-Barcellona
SORTEGGIO FORTUNATO IN EUROPA LEAGUE PER INTER E ROMA
Sorteggio benevolo per le italiane anche in Europa League. Evitate le avversarie più ostiche, l’Inter se la vedrà con i bulgari del Ludogorets, la Roma con i belgi del Gent.
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Lo dicono i numeri. Quattro partecipazioni da allenatore e due eliminazioni ai gironi. Un quarto di finale come miglior risultato. E una media punti di 1.46 contro i 2.28 del campionato. Storia di una maledizione.
La Champions League è una storia a parte, una competizione che ha logiche tutte sue, quasi un altro sport. Puoi essere grande, persino uno dei più grandi, quando ti giochi un campionato su 38 partite. Non mollare un centimetro e conquistare il titolo con squadre che alla vigilia non rientrerebbero nel novero delle favorite, eppure faticare da matti quando valichi il confine e ti ritrovi a giocare in Europa. Non è nemmeno una questione di valore dell’avversario che ti trovi di fronte, è proprio un problema di dinamiche e prospettive che mutano. E se non sei pronto, se non sei nato per quella cosa là, alla fine ti ci schianti.
L’Inter è apparsa simile in maniera inquietante a quella che l’anno scorso non riuscì a battere il Psv e si fermò allo stesso punto: l’ultima partita del girone
L’Inter è prima in classifica. In due mesi e mezzo Antonio Conte ha già messo da parte nove punti in più di quanti ne aveva Luciano Spalletti un anno fa di questi tempi. Ha il terzo miglior attacco del campionato e la miglior difesa e due punti di vantaggio sulla Juventus che l’anno scorso dopo 15 partite ne dava 14 di distacco ai nerazzurri. Ma il miracolo si è sciolto in una sera di Champions League in cui l’Inter è apparsa simile in maniera inquietante a quella che l’anno scorso non riuscì a battere il Psv Eindhoven e si fermò allo stesso punto: l’ultima partita del girone.
ELIMINATO DA UN BARCELLONA DI RISERVE E GIOVANISSIMI
Sì, stavolta di fronte c’era il Barcellona, ma era un Barcellona già agli ottavi e sicuro del primo posto, arrivato a Milano senza Leo Messi e Gerard Piqué, lasciati a riposo a casa, e con Suarez in panchina. Un Barcellona che ha schierato un solo titolare su 11, il difensore centrale Clément Lenglet, che ha mandato in porta Neto (all’esordio stagionale), ha schierato terzino destro della squadra B Moussa Wague (una sola presenza in Liga e un minuto in Champions prima di ieri), ha piazzato al centro della difesa Jean-Clair Todibo (77 minuti distribuiti su due partite di Liga), a centrocampo Carles Aleña (63 minuti in due partite di campionato) e in attacco Carles Pérez (457 minuti in Liga, un veterano al confronto degli altri compagni già citati). Un Barcellona che ha battuto l’Inter con un gol di Ansu Fati, un ragazzo di talento finissimo ma anche di 17 anni e 40 giorni entrato in campo un minuto prima.
Alla vigilia della partita, leggendo la lista dei convocati e poi la formazione di Ernesto Valverde, in molti sogghignavano. Qualcuno persino ventilava il più classico dei biscotti, una partita farsa già acchitata per far passare il turno all’Inter. Al termine dei 90 minuti a ridere, ma di una risata ben diverse, sono rimasti solo i gufi. Di certo non ha riso Conte, che la Champions League l’ha vissuta da allenatore quattro volte, la metà delle quali terminate ai gironi e con un quarto di finale come miglior risultato in carriera. Un allenatore che ha confermato la sua allergia al contesto europeo persino in Europa League, quando nel 2013-14 si fece eliminare in semifinale dal Benfica, perdendo l’occasione di giocarsi la coppa nella finale davanti al pubblico dello Juventus Stadium.
QUELLE SIMILITUDINI TRA LE ELIMINAZIONI CON INTER E JUVE
Il confronto tra il Conte del campionato e quello della Champions League è oggettivamente impietoso. Basta vedere le medie punti nelle varie competizioni. In Serie A viaggia spedito a 2,28, in Premier scende a un 2,14 viziato dalla seconda stagione al Chelsea, in Champions a 1,46. Vince meno di una partita ogni due, non proprio statistiche da top manager. E la sconfitta del 10 dicembre assomiglia fin troppo a quella di sei anni fa a Istanbul, più per le condizioni in cui l’Inter si è costretta ad affrontare un ultimo scontro decisivo che per due partite diverse per blasone dell’avversario e condizioni ambientali. In casa del Galatasaray la neve aveva reso il campo impraticabile, a San Siro la palla viaggiava veloce, soprattutto quando veniva trasmessa dai piedi delle riserve del Barcellona, ma l’eliminazione di quella Juve fu figlia del pareggio di Copenaghen almeno quanto quella di quest’Inter lo è di quello con lo Slavia Praga.
UN’INTER FIGLIA DI CONTE, NEL BENE E NEL MALE
L’Inter non ha giocato male la sua Champions League, per nulla. A tratti ha persino dato l’impressione di essere forte, fortissima. All’andata al Camp Nou ha preso in giro il Barcellona per un tempo, al ritorno ha fatto lo stesso per i primi 45 minuti col Borussia Dortmund. In entrambi i casi, però, è stata rimontata sparendo dal campo. E l’impressione è che sia successo per limiti caratteriali prima ancora che tecnici, per una sorta di disegno calcistico più che per una condizione atletica inadeguata a reggere quei ritmi forsennati per più di un tempo. Se questa Inter è figlia di Conte, lo è nel bene e nel male. E se era possibile prevedere che in campionato avrebbe trovato risorse che nessuno pensava potesse avere, era altrettanto facile immaginare che in Champions non sarebbe durata a lungo. A prescindere da ogni discorso sulla complessità del girone in cui era stata sorteggiata.
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Lo dicono i numeri. Quattro partecipazioni da allenatore e due eliminazioni ai gironi. Un quarto di finale come miglior risultato. E una media punti di 1.46 contro i 2.28 del campionato. Storia di una maledizione.
La Champions League è una storia a parte, una competizione che ha logiche tutte sue, quasi un altro sport. Puoi essere grande, persino uno dei più grandi, quando ti giochi un campionato su 38 partite. Non mollare un centimetro e conquistare il titolo con squadre che alla vigilia non rientrerebbero nel novero delle favorite, eppure faticare da matti quando valichi il confine e ti ritrovi a giocare in Europa. Non è nemmeno una questione di valore dell’avversario che ti trovi di fronte, è proprio un problema di dinamiche e prospettive che mutano. E se non sei pronto, se non sei nato per quella cosa là, alla fine ti ci schianti.
L’Inter è apparsa simile in maniera inquietante a quella che l’anno scorso non riuscì a battere il Psv e si fermò allo stesso punto: l’ultima partita del girone
L’Inter è prima in classifica. In due mesi e mezzo Antonio Conte ha già messo da parte nove punti in più di quanti ne aveva Luciano Spalletti un anno fa di questi tempi. Ha il terzo miglior attacco del campionato e la miglior difesa e due punti di vantaggio sulla Juventus che l’anno scorso dopo 15 partite ne dava 14 di distacco ai nerazzurri. Ma il miracolo si è sciolto in una sera di Champions League in cui l’Inter è apparsa simile in maniera inquietante a quella che l’anno scorso non riuscì a battere il Psv Eindhoven e si fermò allo stesso punto: l’ultima partita del girone.
ELIMINATO DA UN BARCELLONA DI RISERVE E GIOVANISSIMI
Sì, stavolta di fronte c’era il Barcellona, ma era un Barcellona già agli ottavi e sicuro del primo posto, arrivato a Milano senza Leo Messi e Gerard Piqué, lasciati a riposo a casa, e con Suarez in panchina. Un Barcellona che ha schierato un solo titolare su 11, il difensore centrale Clément Lenglet, che ha mandato in porta Neto (all’esordio stagionale), ha schierato terzino destro della squadra B Moussa Wague (una sola presenza in Liga e un minuto in Champions prima di ieri), ha piazzato al centro della difesa Jean-Clair Todibo (77 minuti distribuiti su due partite di Liga), a centrocampo Carles Aleña (63 minuti in due partite di campionato) e in attacco Carles Pérez (457 minuti in Liga, un veterano al confronto degli altri compagni già citati). Un Barcellona che ha battuto l’Inter con un gol di Ansu Fati, un ragazzo di talento finissimo ma anche di 17 anni e 40 giorni entrato in campo un minuto prima.
Alla vigilia della partita, leggendo la lista dei convocati e poi la formazione di Ernesto Valverde, in molti sogghignavano. Qualcuno persino ventilava il più classico dei biscotti, una partita farsa già acchitata per far passare il turno all’Inter. Al termine dei 90 minuti a ridere, ma di una risata ben diverse, sono rimasti solo i gufi. Di certo non ha riso Conte, che la Champions League l’ha vissuta da allenatore quattro volte, la metà delle quali terminate ai gironi e con un quarto di finale come miglior risultato in carriera. Un allenatore che ha confermato la sua allergia al contesto europeo persino in Europa League, quando nel 2013-14 si fece eliminare in semifinale dal Benfica, perdendo l’occasione di giocarsi la coppa nella finale davanti al pubblico dello Juventus Stadium.
QUELLE SIMILITUDINI TRA LE ELIMINAZIONI CON INTER E JUVE
Il confronto tra il Conte del campionato e quello della Champions League è oggettivamente impietoso. Basta vedere le medie punti nelle varie competizioni. In Serie A viaggia spedito a 2,28, in Premier scende a un 2,14 viziato dalla seconda stagione al Chelsea, in Champions a 1,46. Vince meno di una partita ogni due, non proprio statistiche da top manager. E la sconfitta del 10 dicembre assomiglia fin troppo a quella di sei anni fa a Istanbul, più per le condizioni in cui l’Inter si è costretta ad affrontare un ultimo scontro decisivo che per due partite diverse per blasone dell’avversario e condizioni ambientali. In casa del Galatasaray la neve aveva reso il campo impraticabile, a San Siro la palla viaggiava veloce, soprattutto quando veniva trasmessa dai piedi delle riserve del Barcellona, ma l’eliminazione di quella Juve fu figlia del pareggio di Copenaghen almeno quanto quella di quest’Inter lo è di quello con lo Slavia Praga.
UN’INTER FIGLIA DI CONTE, NEL BENE E NEL MALE
L’Inter non ha giocato male la sua Champions League, per nulla. A tratti ha persino dato l’impressione di essere forte, fortissima. All’andata al Camp Nou ha preso in giro il Barcellona per un tempo, al ritorno ha fatto lo stesso per i primi 45 minuti col Borussia Dortmund. In entrambi i casi, però, è stata rimontata sparendo dal campo. E l’impressione è che sia successo per limiti caratteriali prima ancora che tecnici, per una sorta di disegno calcistico più che per una condizione atletica inadeguata a reggere quei ritmi forsennati per più di un tempo. Se questa Inter è figlia di Conte, lo è nel bene e nel male. E se era possibile prevedere che in campionato avrebbe trovato risorse che nessuno pensava potesse avere, era altrettanto facile immaginare che in Champions non sarebbe durata a lungo. A prescindere da ogni discorso sulla complessità del girone in cui era stata sorteggiata.
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Secondo i rumor della stampa spagnola, il premio andrà all'argentino per la sesta volta. Sarebbe la dimostrazione che nel calcio di oggi i gol contano più dei trofei.
Il Pallone d’oro viaggia ancora verso Barcellona, per la sesta volta in 11 anni.
Perché lui, proprio lui, che non ha vinto niente se non una Liga, che è uscito male dalle semifinali di Champions, che ha perso anche la semifinale di Copa America. Perché lui e non un altro? La risposta, in realtà, potrebbe essere molto semplice: se davvero Messi avesse già vinto, lo avrebbe fatto soprattutto per assenza di concorrenza.
IL PALLONE D’ORO SEMPRE PIÙ LEGATO AL MARKETING
Parliamoci chiaro, nell’ultima dozzina di anni il Pallone d’oro si è trasformato in una gigantesca occasione di marketing per il mondo del calcio. Sì, certo, a vincere è sempre il migliore (o uno dei migliori), ma le logiche attraverso cui il premio viene attribuito sono cambiate nel corso del tempo. Oggi sarebbe impensabile vedere premiato un Matthias Sammer o un Fabio Cannavaro. Sarebbe difficile persino che il premio finisse nelle mani di un Michael Owen. Oggi la macchina del pallone esige volti da copertina, e i follower sui social contano giusto poco meno dei trofei conquistati e dei gol segnati. I gol segnati, in particolare, sono fondamentali, forse ancora più delle coppe vinte.
Il Pallone d’oro ha vissuto da sempre nel paradosso di un premio individuale nel contesto di uno sport di squadra
Perché, se il Pallone d’oro ha vissuto da sempre nel paradosso di un premio individuale nel contesto di uno sport di squadra, ultimamente ha deciso di sciogliere questa dicotomia a favore del primo dei due aspetti. Conta più ciò che fai da solo, soprattutto se i numeri sono eclatanti. Nell’era degli attaccanti da 50 gol a stagione non c’è più spazio per i difensori, a malapena riescono a infilarcisi i centrocampisti offensivi, e solo se riescono a far coincidere l’anno sabbatico dei fenomeni con quello in cui loro compiono imprese mirabolanti come far sfiorare la vittoria della Coppa del Mondo a una nazione di poco più che 4 milioni di abitanti, come nel caso del croato Luka Modrić.
Messi di gol ne ha fatti 51, in 50 partite. Nell’anno solare è a quota 39, sei in meno di quelli di Robert Lewandowski (che andando avanti di questo passo rischia seriamente di prenotare in anticipo il prossimo, di Pallone d’oro). Ha vinto la Scarpa d’oro e il titolo di capocannoniere della Champions League (per la sesta volta, entrambi). Ha vissuto una stagione contraddittoria sotto l’aspetto delle competizioni disputate. Si è fermato in semifinale di Champions, dove contro il Liverpool, futuro vincitore della coppa, è stato straordinario protagonista nel 3-0 del Camp Nou e un fantasma nello 0-4 subito ad Anfield. Eppure la sua candidatura resta la più forte.
PER CRISTIANO RONALDO UNA STAGIONE DELUDENTE
Guardiamoci intorno, vagliamo gli altri potenziali candidati al Pallone d’oro 2019, cerchiamo di capire perché, probabilmente, lo vincerà ancora Messi. Partiamo da Cristiano Ronaldo, che nell’ultimo decennio abbondante è stato il suo più grande rivale, che ne ha vinti cinque, lo stesso numero che al momento può vantare Messi. Cristiano è penalizzato da una prima stagione alla Juve che è andata meno bene del previsto, ha vinto lo Scudetto con i bianconeri e la Nations League con il Portogallo, ma è uscito ai quarti di finale della Champions League. In Serie A ha segnato 21 gol, 28 complessivi in tutte le competizioni di club, ha messo a referto due triplette decisive agli ottavi di Champions con l’Atletico Madrid e nella semifinale di Nations League con la Svizzera, ma è rimasto sotto le 40 reti per la prima volta in nove anni.
IL LIVERPOOL NON HA UN GIOCATORE CHE SPICCA SUGLI ALTRI
Allora, forse, i veri rivali di Messi andrebbero cercati tra chi la Champions l’ha vinta. Il problema del Liverpool è che è la sublimazione del calcio come gioco di squadra, un collettivo che sopravanza di molto la somma delle individualità che lo compongono. Momo Salah ha segnato meno della stagione precedente (27 gol, poco più della metà di quelli di Messi), Sadio Mané e Roberto Firmino sembrano nomi non altrettanto forti.
Quest’anno ai portieri hanno dedicato una categoria a parte: il Pallone d’Oro dei portieri
I singoli che hanno spiccato maggiormente nella squadra di Jürgen Klopp, Virgil Van Dijk e Alisson, giocano troppo lontani dalla porta avversaria. Il primo fa il difensore centrale, e il fatto che non perda praticamente mai un uno-contro-uno sembra non bastare per prendersi il premio. Il secondo fa il portiere, e in tutta la storia del Pallone d’oro solo una sola volta il trofeo è stato vinto un giocatore in questo ruolo, nel 1963 da Lev Jašin, il Ragno nero russo della Dinamo Mosca. Non a caso da quest’anno agli estremi difensori hanno dedicato una categoria a parte: il Pallone d’Oro dei portieri.
Ecco perché pare che France Football abbia mandato i suoi fotografi a Barcellona in una mattina di fine novembre. Ed ecco perché ancora una volta, a vincere, sarà Messi. Peraltro non sarà nemmeno il premio che la Pulce ha meritato meno nella sua carriera, considerando quello strappato nel 2010 ai campioni del mondo Andreas Iniesta e Xavi e a uno Wesley Sneijder reduce da triplete con l’Inter e finale mondial persa con l’Olanda. Sarà così ancora una volta, aspettando Kylian Mbappé più che Neymar. Perché chi non fa gol non può più essere considerato il migliore calciatore al mondo.
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Circa 3 mila persone si sono dirette a piedi verso San Siro partendo dall'Arco della Pace. Tensione nei pressi dello stadio.
Il corteo è partito dall’Arco della Pace e ha bloccato il traffico di Milano. Cori e saluti romani, cappucci e fumogeni accesi. Gli ultrà della Dinamo Zagabria, squadra croata che nella serata del 26 novembre affronterà l’Atalanta a San Siro per il match di Champions League, si sono diretti a piedi verso lo stadio. Circa 3 mila persone hanno percorso via Pagano, poi via Giotto, via Monte Rosa, viale Pietro Tempesta e via Monreale. Le forze dell’ordine li hanno sorvegliati sia da terra, sia dal cielo, con l’ausilio degli elicotteri. All’arrivo a San Siro ci sono stati comunque dei momenti di tensione con i tifosi dell’Atalanta e la polizia è dovuta intervenire.
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