Gianni Amelio si concentra sull'umanità del leader Psi. Sottrarsi a ogni giudizio e presa di posizione, però, rappresenta una delle debolezze del film.
Gianni Amelio racconta con Hammamet gli ultimi sei mesi di vita di Bettino Craxi, interpretato da un camaleontico Pierfrancesco Favino.
E lo fa senza mai nominarlo: il leader Psi è soltanto “il Presidente”.
Il regista propone il ritratto di un uomo invecchiato e in “esilio”, che trascorre il suo tempo tra problemi di salute e famiglia, dialogando con i suoi ospiti del passato e, ovviamente, di politica.
Il film non dà alcun giudizio sulla figura di Craxi e racconta la permanenza a Hammamet come una sorta di diario-confessione. I personaggi secondari sono solo abbozzati e risultano stereotipati. Anche per questo, senza la presenza di Favino Hammamet faticherebbe a convincere lo spettatore.
Regia: Gianni Amelio; genere: drammatico (Italia, 2020); attori: Piefrancesco Favino, Livia Rossi, Luca Filippi, Silvia Cohen, Alberto Paradossi, Federico Bergamaschi, Roberto De Francesco, Adolfo Margiotta, Massimo Olcese, Omero Antonutti, Giuseppe Cederna e con Renato Carpentieri e Claudia Gerini.
HAMMAMET IN PILLOLE
TI PIACERÀ SE: ti piacciono i film che affrontano la recente storia italiana concentrandosi sul lato umano dei protagonisti.
DEVI EVITARLO SE: ti aspetti un film che prenda posizione su una delle figure più discusse della politica italiana.
CON CHI VEDERLO: con chi ha assistito alla caduta del leader socialista e alla fine della Prima Repubblica.
LA SCENA MEMORABILE: Le riflessioni sulla politica di Craxi.
LA FRASE CULT: «Finanziamenti illeciti, chi li ha mai negati! Ma non tutto serviva per la parata!»
1. NON È UN BIOPIC
La sceneggiatura, scritta da Gianni Amelio in collaborazione con Alberto Taraglio, si è concentrata sul lato più privato e umano degli ultimi sei mesi di vita del politico, malato da tempo di diabete e con un tumore al rene. Il regista ha sottolineato che non si tratta di un film biografico, ma di un progetto che dà spazio agli «spasmi di un’agonia».
2. L’INCREDIBILE TRASFORMAZIONE DI FAVINO
Pierfrancesco Favino è stato trasformato in Craxi da un team di truccatori italiani che hanno studiato in Inghilterra. Per ottenere l’incredibile livello di realismo, sono stati impiegati molti mesi. L’attore ha sottolineato: «Ricordo che durante il rituale dell’applicazione arrivava il momento, quello in cui venivano messe le sopracciglia finte e indossavo gli occhiali, che era per me il momento dell’oblio di sé, capace di aprire la porta verso qualcosa di nuovo e di diverso. Una porta che, non ci fosse stata, non sarei stato in grado di entrare in un mondo altro e di toccare le cose e le corte che ho toccato». Trovare la giusta voce è stato invece frutto di un lavoro meticoloso basato sulla visione di molti video e interviste.
3. L’UOMO PRIMA DEL POLITICO
Favino ha ammesso di conoscere, prima del film, solo il politico Craxi, non l’uomo. Per addentrarsi nella storia senza prendere posizione o esprimere giudizi, l’attore si è concentrato sul concetto di “eredità” e sulla figura di un padre.
4. LE LOCATION DEL PRESIDENTE
Per aumentare ulteriormente l’aderenza con la realtà, alcune sequenze del film sono state girate nei luoghi in cui ha vissuto Craxi tra cui la casa di Hammamet dove l’ex presidente del Consiglio è rimasto fino alla morte, il 19 gennaio 2000.
5. UN FILM DI INNOMINATI
Gianni Amelio ha eliminato tutti i nomi propri dal film. «Non si fanno», ha spiegato il regista, «perché si conoscono anche troppo». La scelta invece di modificarne alcuni e chiamare la figlia Anita invece di Stefania è stata presa pensando alla venerazione del politico nei confronti di Garibaldi.
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Il leader socialista è stato capro espiatorio di un sistema politico. A 20 anni dalla sua morte, bisognerebbe avere il coraggio di riconoscerne la statura.
Ho visto ieri sera
Hammamet di
Gianni Amelio. Lo davano in due sale dello
stesso cinema, tutte e due piene. È
un gran film, girato con mano leggera da un regista attento e padrone
del suo tempo con attori formidabili, non solo Pierfrancesco
Favino, eccezionale, non solo Renato
Carpentieri e Omero
Antoniutti o il soffertissimo Vincenzo
Balzamo di Giuseppe
Cederna, ma anche la formidabile Livia
Rossi nel ruolo difficile di Stefania
Craxi.
FUORI DALLA DAMNATIO MEMORIAE
“Un gran bel film” è
una osservazione da spettatore, neppure particolarmente cinefilo che
non può sfuggire, tuttavia, alla valutazione politica del lavoro di
Amelio. Un primo risultato il regista e i produttori Agostino
e Maria Grazia Saccà l’hanno raggiunto
togliendo il dibattito su Craxi dal
politichese o peggio ancora dalla damnatio
memoriae. Quando tanti spettatori vanno
al cinema per vedere un film come questo, non vuol dire solo
ricatturare l’attenzione di vecchi socialisti e di antichi
comunisti, ma tornare a parlare a un pubblico che non ha creduto che
la storia italiana sia cominciata con Beppe
Grillo e Matteo
Salvini.
NON RISOLVE IL “CASO CRAXI”
Il film tuttavia non
risolve, né poteva, il “caso Craxi”. È
probabile che chi sia entrato nella sala cinematografica con un
pregiudizio favorevole al leader Psi lo abbia visto confermato. È
credibile che altri abbiano mal digerito l’autodifesa strenua che
Craxi fa di sé e alcuni commenti ascoltati in sala a fine
proiezione fanno pensare che molti anti-craxiani siano rimasti tali.
Tuttavia non credo che Amelio, che non conosco, né Agostino e Maria
Grazia Saccà, che non conosco, volessero con il film dare una svolta
alla lettura della vicenda umana e politica di Bettino Craxi.
Volevano semplicemente raccontare una storia
dura, complessa, una tragedia
italiana, con le parole e con il punto di
vista della “vittima”.
IL PUNTO DI VISTA DELLA VITTIMA
Perché di questo si
tratta: Hammamet
racconta il punto di vista della vittima. Uso questo termine
deliberatamente perché i vent’anni che ci separano dalla sua morte
restituiscono appieno al leader socialista il ruolo di capro
espiatorio di un sistema politico e
l’obiettivo di una magistratura che si rivelò, anche in quella
occasione, totalmente priva di umanità. Craxi è un
uomo malato, che si è rifugiato nella sua
casa tunisina e che combatte perché la sua storia non diventi storia
criminale. Chiama gli altri partiti politici alla comune
responsabilità del finanziamento illegale. È
incazzatissimo con i comunisti o ex che, secondo lui, si sono
avvantaggiati delle azioni di una procura che li aveva risparmiati.
Si ribella ai compagni di partito, c’è un netto riferimento a
Giuliano Amato, che
non lo difendono. Sia Craxi sia Moro, anni prima, hanno la netta
consapevolezza che la loro fine potrebbe travolgere non solo partiti,
non solo il sistema politico, ma modificare le basi stesse della
democrazia. Così è stato. Ma non se ne discute. Il “caso Moro”
viene chiuso nella rassegnazione di una fine inevitabile e nel
dibattito successivo (il solito) su quanto Stato ci sia dietro gli
assassini. Nel “caso Craxi” c’è l’ottusità di chi non vuole
uscire dal circuito mediatico-giudiziario.
LA FINE DEI SOCIALISTI
Lasciamo perdere Moro,
ora. Il “caso Craxi” porta alla luce poche cose molto chiare. I
socialisti dopo la morte del loro capo si sono dispersi,
molti sono diventati combattivi militanti di destra. Nel loro
orizzonte la storia del Psi inizia e finisce col leader più
discusso, al punto che sono rare i dibattiti sull’intera e
grandiosa storia socialista italiana. Per tantissimi socialisti il
“caso Craxi” è la conferma dell’odio reciproco con i
comunisti. Dall’altra parte abbiamo la cultura, e oggi la classe di
governo, giustizialista che con i “casi Craxi” ha trovato la
legittimazione per creare movimenti politici, per arrivare al governo
del Paese, dando il peggio di sé, come si vede quotidianamente. Nel
mio mondo, quello ex comunista, alcuni hanno fatto sforzi
per restituire a Craxi la dignità del grande capo politico
(dispiace molto che i socialisti e la famiglia Craxi tuttora non
dicano una parola sui tentativi di Massimo
D’Alema, allora premier, e di molti suoi
“seguaci” di portare Craxi in Italia senza l’offesa della
carcerazione e delle manette). Tuttavia questi ex
comunisti “revisionisti” hanno parlato
solo a se stessi nel timore che l’anima
antisocialista e anticraxiana, molto forte
negli ex Pci, potesse ribellarsi.
L’UOMO TORNA AL CENTRO
Il film aiuta invece
questo processo. Aiuta a rimettere al centro l’uomo Craxi e il suo
discorso politico. E aiuta a fare gesti esemplari. Avevo proposto che
un gruppo di ex dirigenti dell’ex Pci si recasse ad Hammamet
nel ventennale anche scontando l’eventuale
immorale presenza di Salvini. Alcuni
dirigenti socialisti hanno chiesto a Zingaretti
di capeggiare una delegazione del Pd. Perché
tanto silenzio? Perché accettare quest’ultimo ricatto dei perdenti
della storia, cioè il mondo giustizialista e grillino, e rifiutare
di fare i conti con un uomo, un partito, le sue idee, i suoi errori,
l’orrore di una morte annunciatissima. Perché, mi chiedo, noi che
siamo stati comunisti dobbiamo, vent’anni dopo, farci rinchiudere nel
recinto di una cultura antipolitica
guidata da procure e da giornalisti? Deve emergere un punto di vista
della politica che, sulla base di una seria ricostruzione – attendo
di leggere il libro di Fabio Martini
–, possa avviare una riconciliazione fra
tutte le sinistre dove non ci siano più
figli di un dio minore, uomini di malaffare, puri senza macchia.
LO SPESSORE UMANO DELLA POLITICA
Il “caso Craxi” non si
chiuderà mai e non si deve chiudere mai. Il film ci parla anche
dello spessore umano che dovrebbe avere la
politica. Noi stiamo vivendo anni atroci in
cui l’avversario non è solo nemico ma un
“oggetto” che deve essere annichilito.
Chi ha visto il film capisce quanto dolore si crea, quando dolore si
sparge (quel gruppo di gitanti ad Hammamet che insultano Craxi),
quando ci allontaniamo da una società veramente civile.
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Due furono quelli che ne determinarono la fine politica. Il primo fu avere troppo tollerato nel Psi personaggi a dir poco improbabili. Il secondo aver sottovalutato la forza organizzativa e l'istinto di sopravvivenza del Pci.
Per ricordarsi in modo chiaro di Bettino Craxi uomo politico occorre avere almeno 50 anni e quindi circa metà degli italiani ricordano il leader socialista italiano, scomparso il 19 gennaio de 2000 a 65 anni in esilio ad Hammamet in Tunisia, poco e male, e i più non lo ricordano affatto. Morì da latitante con due condanne per finanziamento illecito della politica e con quattro processi ancora in corso. Tuttavia c’è chi ritiene gli vada restituito un posto più dignitoso nella storia politica del Paese, a incominciare dal posto che gli spetta nella storia della sinistra italiana.
A un condannato? Si può rispondere con un’altra domanda: quanti capi di partito avrebbero potuto e magari dovuto essere come lui condannati per finanziamento illecito della politica, per soldi arrivati illegalmente al partito, dall’Italia o dall’estero, e non certo a loro insaputa? Sarebbe giusto rispondere a entrambe le domande, e non solo alla prima. Le colpe principali di Bettino Craxi furono probabilmente due, e ne determinarono la fine politica. La prima implica anche responsabilità morali e fu quella di avere troppo tollerato nel suo partito, il Psi, personaggi a dir poco improbabili, in un clima dove abbondavano “nani e ballerine” come ebbe a dire il ministro socialista Rino Formica negli anni 80, cioè sicofanti e profittatori. Ma Bettino era convinto di poter gestire questa corte forte delle proprie capacità e del fatto di essere, insieme a Filippo Turati che mai però riuscì a portarsi dietro tutto il socialismo italiano, l’unico leader capace di far marciare i socialisti italiani sui binari del socialismo democratico europeo, non peninsulare massimalista e velleitario, ma con orizzonti più ampi e obiettivi più chiari. Craxi aveva capacità e forza di governo che a Turati, più pensatore che capo, in parte mancavano.
LE ANIME DEL SOCIALISMO ITALIANO
Non si capisce Craxi, e non si capisce nemmeno il Pietro Nenni dopo il 1956, se si dimentica che il socialismo italiano ebbe sempre almeno due anime se non cinque, diviso fra socialdemocratici di stampo europeo e massimalisti, spesso ancor più rivoluzionari quest’ultimi (a parole) dei comunisti, che del massimalismo socialista diventarono l’ala organizzata e disciplinata, e in pochi anni di totale ispirazione sovietica. Già ben presenti a fine 800, i socialdemocratici si affermarono rapidamente in Germania subito dopo il ciclone bellico che aveva lacerato nel 1914-18 la grande famiglia socialista europea, e in risposta (anche armata) al bolscevismo russo. Non si sa se la socialdemocrazia si sarebbe allora affermata anche in Italia, perché il fascismo, uscito in pieno inizialmente dalla costola del socialismo italiano, chiuse a partire dal 1923 la partita. Ma è certo che dal 1912 al 1914 furono i massimalisti con Benito Mussolini a guidare il Psi, tornando alla testa (senza Mussolini) nel 1919 quando a Bologna al XVI Congresso aderirono per acclamazione all’Internazionale Comunista moscovita; nel ’22 Turati e i moderati furono espulsi.
LA CELEBRE PROFEZIA DI TURATI
È rimasta famosa la profezia che Turati lanciò parlando il 19 gennaio del 1921 al XVII Congresso socialista di Livorno, quello che vide la scissione comunista in risposta all’appello bolscevico. Il mito della rivoluzione russa non sarebbe durato a lungo, disse Turati; si sarebbe innervato, per durare, sulla forza del nazionalismo russo, diventandone l’ultima incarnazione; se innescata anche in Italia, la rivoluzione bolscevica avrebbe portato una durissima reazione, essendo l’Italia certo non sviluppata come la Germania, ma neppure arretrata come la Russia, ma una via di mezzo dove la borghesia non avrebbe accettato il bolscevismo. Tutto vero. Sessant’anni dopo (1982), uno che a Livorno c’era e da protagonista comunista, Umberto Terracini, disse alcune cose che non piacquero al suo partito e le disse anche Camilla Ravera, un’altra che da comunista a Livorno c’era: dissero che allora Turati aveva ragione, e i comunisti torto.
Craxi fu, in Italia e non solo, il grande protettore degli apostati ed esuli del comunismo
È partendo da questo che Craxi commise il suo secondo grave errore: la sottovalutazione della forza organizzativa e dell’istinto di sopravvivenza del Pci. Craxi aveva uno schema mentale piuttosto semplice con cui misurare i rapporti con il comunismo, italiano e sovietico, e ne traeva una conclusione altrettanto semplice: sono partiti con il piede sbagliato e, avendo fallito le grandi promesse, hanno perso la partita. Come dargli torto? Craxi fu, in Italia e non solo, il grande protettore degli apostati ed esuli del comunismo. «È lui che ci ha aiutato, dal Pci solo alcune buone parole di Giorgio Napolitano, perché il Pci parlava con la Cecoslovacchia ufficiale, non con noi», diceva il cecoslovacco Jiri Pelikan. Craxi, il cui ego come spesso accade ai leader politici non era certo di modeste dimensioni, pensava che lui stesso, se medesimo, e la Storia avrebbero risolto l’equivoco comunista. Il suo piccolo (e non tanto piccolo) trionfo su scala italiana doveva essere la caduta del Muro di Berlino nel novembre del 1989 e tutto quanto ne seguì, ma fu invece l’inizio della sua fine. La causa fu il combinato-disposto fra “nani e ballerine” e tutto il conseguente, e l’istinto di sopravvivenza di un partito, e di una cultura, che il detestato Palmiro Togliatti, l’uomo che copriva di insulti nell’aprile 1932 la memoria di un Turati da pochi giorni scomparso, aveva modellato come una macchina da guerra, non ancora del tutto spompata.
C’è un passaggio illuminante nella prima biografia di Massimo D’Alema nuovo segretario PDS (così si chiamava dal 1991 l’ex Pci dopo la scissione di Rifondazione), uscita nel 1995 a firma di Giovanni Fasanella e Daniele Martini. «Eravamo – diceva D’Alema – come una grande nazione indiana chiusa tra le montagne, con una sola via d’uscita, e lì c’era Craxi con la sua proposta di unità socialista…. L’unità socialista era una grande idea, ma senza Craxi. Allora avevamo una sola scelta: diventare noi il partito socialista in Italia». Concetti analoghi, un po’ meno strategici e bellicosi, avevano già espresso anni prima altri esponenti Pci o ex Pci, tra cui già nel 1987 l’ex segretario generale Cgil, Luciano Lama.
IL RAPPORTO CONFLITTUALE COL PCI
Per capire Craxi resta fondamentale il suo rapporto conflittuale con il Pci, e con il comunismo in genere e sovietico in particolare. La storia delle relazioni con la Dc è cosa diversa, una ripresa del centrosinistra con meno ambizioni e più cinismo, dove un partito indebolito da troppe correnti e da 40 anni ininterrotti di governo – grazie a un Pci troppo legato a Mosca per governare in un Paese della Nato e deciso a rimanere nell’Alleanza – poteva accomodare un’alternanza socialista mantenendo però ben salde le leve del potere economico e finanziario nell’ampio mondo di grandi imprese e banche Iri. Entrambi, socialisti e democristiani, utilizzarono abbondantemente in quell’ultimo scorcio di Guerra Fredda la spesa pubblica italiana per governare, con un salto di qualità negativo per il debito che il Paese non ha più saputo recuperare.
Con il Pci fu per Craxi diverso, una storia assai più lunga nel tempo. Gli ex comunisti si sono già abbondantemente cosparsi il capo di cenere, più in privato che in pubblico ma è umanamente comprensibile, per una serie di scelte discutibili, la prima delle quali fu continuare a credere nella Rivoluzione sovietica anche quando questa, a partire dal 1924-1926, si trasformava in uno strumento del nazionalismo russo e di un gruppo dirigente semi-asiatico attorno a Stalin. La forza del mito russo, la prima grande rivoluzione del 900 secolo si pensava delle rivoluzioni, era comunque irresistibile. Craxi rimase invece fedele a quanto Turati, già nell’ottobre del 1919, diceva al citato XVI Congresso, a Bologna, preconizzando il “triste effetto” dell’ottobre russo: miseria, terrore, “mancanza di ogni libero consenso”, militarizzazione dell’economia, “una rivoluzione a oltranza per la quale” il popolo russo “è manifestamente immaturo” e avvio di “una infinita odissea di dolori”, mentre un graduale riformismo socialdemocratico rispettoso delle libertà avrebbe potuto portare ben altri risultati. Ma non c’era un granché in Russia come tradizione rispettosa delle libertà, e il Grande Partito non ha certo cambiato le cose.
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Due furono quelli che ne determinarono la fine politica. Il primo fu avere troppo tollerato nel Psi personaggi a dir poco improbabili. Il secondo aver sottovalutato la forza organizzativa e l'istinto di sopravvivenza del Pci.
Per ricordarsi in modo chiaro di Bettino Craxi uomo politico occorre avere almeno 50 anni e quindi circa metà degli italiani ricordano il leader socialista italiano, scomparso il 19 gennaio de 2000 a 65 anni in esilio ad Hammamet in Tunisia, poco e male, e i più non lo ricordano affatto. Morì da latitante con due condanne per finanziamento illecito della politica e con quattro processi ancora in corso. Tuttavia c’è chi ritiene gli vada restituito un posto più dignitoso nella storia politica del Paese, a incominciare dal posto che gli spetta nella storia della sinistra italiana.
A un condannato? Si può rispondere con un’altra domanda: quanti capi di partito avrebbero potuto e magari dovuto essere come lui condannati per finanziamento illecito della politica, per soldi arrivati illegalmente al partito, dall’Italia o dall’estero, e non certo a loro insaputa? Sarebbe giusto rispondere a entrambe le domande, e non solo alla prima. Le colpe principali di Bettino Craxi furono probabilmente due, e ne determinarono la fine politica. La prima implica anche responsabilità morali e fu quella di avere troppo tollerato nel suo partito, il Psi, personaggi a dir poco improbabili, in un clima dove abbondavano “nani e ballerine” come ebbe a dire il ministro socialista Rino Formica negli anni 80, cioè sicofanti e profittatori. Ma Bettino era convinto di poter gestire questa corte forte delle proprie capacità e del fatto di essere, insieme a Filippo Turati che mai però riuscì a portarsi dietro tutto il socialismo italiano, l’unico leader capace di far marciare i socialisti italiani sui binari del socialismo democratico europeo, non peninsulare massimalista e velleitario, ma con orizzonti più ampi e obiettivi più chiari. Craxi aveva capacità e forza di governo che a Turati, più pensatore che capo, in parte mancavano.
LE ANIME DEL SOCIALISMO ITALIANO
Non si capisce Craxi, e non si capisce nemmeno il Pietro Nenni dopo il 1956, se si dimentica che il socialismo italiano ebbe sempre almeno due anime se non cinque, diviso fra socialdemocratici di stampo europeo e massimalisti, spesso ancor più rivoluzionari quest’ultimi (a parole) dei comunisti, che del massimalismo socialista diventarono l’ala organizzata e disciplinata, e in pochi anni di totale ispirazione sovietica. Già ben presenti a fine 800, i socialdemocratici si affermarono rapidamente in Germania subito dopo il ciclone bellico che aveva lacerato nel 1914-18 la grande famiglia socialista europea, e in risposta (anche armata) al bolscevismo russo. Non si sa se la socialdemocrazia si sarebbe allora affermata anche in Italia, perché il fascismo, uscito in pieno inizialmente dalla costola del socialismo italiano, chiuse a partire dal 1923 la partita. Ma è certo che dal 1912 al 1914 furono i massimalisti con Benito Mussolini a guidare il Psi, tornando alla testa (senza Mussolini) nel 1919 quando a Bologna al XVI Congresso aderirono per acclamazione all’Internazionale Comunista moscovita; nel ’22 Turati e i moderati furono espulsi.
LA CELEBRE PROFEZIA DI TURATI
È rimasta famosa la profezia che Turati lanciò parlando il 19 gennaio del 1921 al XVII Congresso socialista di Livorno, quello che vide la scissione comunista in risposta all’appello bolscevico. Il mito della rivoluzione russa non sarebbe durato a lungo, disse Turati; si sarebbe innervato, per durare, sulla forza del nazionalismo russo, diventandone l’ultima incarnazione; se innescata anche in Italia, la rivoluzione bolscevica avrebbe portato una durissima reazione, essendo l’Italia certo non sviluppata come la Germania, ma neppure arretrata come la Russia, ma una via di mezzo dove la borghesia non avrebbe accettato il bolscevismo. Tutto vero. Sessant’anni dopo (1982), uno che a Livorno c’era e da protagonista comunista, Umberto Terracini, disse alcune cose che non piacquero al suo partito e le disse anche Camilla Ravera, un’altra che da comunista a Livorno c’era: dissero che allora Turati aveva ragione, e i comunisti torto.
Craxi fu, in Italia e non solo, il grande protettore degli apostati ed esuli del comunismo
È partendo da questo che Craxi commise il suo secondo grave errore: la sottovalutazione della forza organizzativa e dell’istinto di sopravvivenza del Pci. Craxi aveva uno schema mentale piuttosto semplice con cui misurare i rapporti con il comunismo, italiano e sovietico, e ne traeva una conclusione altrettanto semplice: sono partiti con il piede sbagliato e, avendo fallito le grandi promesse, hanno perso la partita. Come dargli torto? Craxi fu, in Italia e non solo, il grande protettore degli apostati ed esuli del comunismo. «È lui che ci ha aiutato, dal Pci solo alcune buone parole di Giorgio Napolitano, perché il Pci parlava con la Cecoslovacchia ufficiale, non con noi», diceva il cecoslovacco Jiri Pelikan. Craxi, il cui ego come spesso accade ai leader politici non era certo di modeste dimensioni, pensava che lui stesso, se medesimo, e la Storia avrebbero risolto l’equivoco comunista. Il suo piccolo (e non tanto piccolo) trionfo su scala italiana doveva essere la caduta del Muro di Berlino nel novembre del 1989 e tutto quanto ne seguì, ma fu invece l’inizio della sua fine. La causa fu il combinato-disposto fra “nani e ballerine” e tutto il conseguente, e l’istinto di sopravvivenza di un partito, e di una cultura, che il detestato Palmiro Togliatti, l’uomo che copriva di insulti nell’aprile 1932 la memoria di un Turati da pochi giorni scomparso, aveva modellato come una macchina da guerra, non ancora del tutto spompata.
C’è un passaggio illuminante nella prima biografia di Massimo D’Alema nuovo segretario PDS (così si chiamava dal 1991 l’ex Pci dopo la scissione di Rifondazione), uscita nel 1995 a firma di Giovanni Fasanella e Daniele Martini. «Eravamo – diceva D’Alema – come una grande nazione indiana chiusa tra le montagne, con una sola via d’uscita, e lì c’era Craxi con la sua proposta di unità socialista…. L’unità socialista era una grande idea, ma senza Craxi. Allora avevamo una sola scelta: diventare noi il partito socialista in Italia». Concetti analoghi, un po’ meno strategici e bellicosi, avevano già espresso anni prima altri esponenti Pci o ex Pci, tra cui già nel 1987 l’ex segretario generale Cgil, Luciano Lama.
IL RAPPORTO CONFLITTUALE COL PCI
Per capire Craxi resta fondamentale il suo rapporto conflittuale con il Pci, e con il comunismo in genere e sovietico in particolare. La storia delle relazioni con la Dc è cosa diversa, una ripresa del centrosinistra con meno ambizioni e più cinismo, dove un partito indebolito da troppe correnti e da 40 anni ininterrotti di governo – grazie a un Pci troppo legato a Mosca per governare in un Paese della Nato e deciso a rimanere nell’Alleanza – poteva accomodare un’alternanza socialista mantenendo però ben salde le leve del potere economico e finanziario nell’ampio mondo di grandi imprese e banche Iri. Entrambi, socialisti e democristiani, utilizzarono abbondantemente in quell’ultimo scorcio di Guerra Fredda la spesa pubblica italiana per governare, con un salto di qualità negativo per il debito che il Paese non ha più saputo recuperare.
Con il Pci fu per Craxi diverso, una storia assai più lunga nel tempo. Gli ex comunisti si sono già abbondantemente cosparsi il capo di cenere, più in privato che in pubblico ma è umanamente comprensibile, per una serie di scelte discutibili, la prima delle quali fu continuare a credere nella Rivoluzione sovietica anche quando questa, a partire dal 1924-1926, si trasformava in uno strumento del nazionalismo russo e di un gruppo dirigente semi-asiatico attorno a Stalin. La forza del mito russo, la prima grande rivoluzione del 900 secolo si pensava delle rivoluzioni, era comunque irresistibile. Craxi rimase invece fedele a quanto Turati, già nell’ottobre del 1919, diceva al citato XVI Congresso, a Bologna, preconizzando il “triste effetto” dell’ottobre russo: miseria, terrore, “mancanza di ogni libero consenso”, militarizzazione dell’economia, “una rivoluzione a oltranza per la quale” il popolo russo “è manifestamente immaturo” e avvio di “una infinita odissea di dolori”, mentre un graduale riformismo socialdemocratico rispettoso delle libertà avrebbe potuto portare ben altri risultati. Ma non c’era un granché in Russia come tradizione rispettosa delle libertà, e il Grande Partito non ha certo cambiato le cose.
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La comunità socialista sarà in Tunisia per ricordare Bettino Craxi. È l'occasione per fare un gesto forte di riconciliazione. E mettere da parte le divisioni, una volta per tutte.
Tra il 17 e il 19 di gennaio la comunità socialista ricorderà ad Hammamet la morte di Bettino Craxi. Sono passati 20 anni, ma per i socialisti è una ferita aperta e per chi socialista non è stato, addirittura ha avversato Craxi, da tempo è iniziato un tentativo di ricostruirne la vicenda politica dando al leader del Psi meriti che in vita gli furono negati, fino al punto che fu lasciato morire in Tunisia malgrado potesse essere curato, e forse salvato, in Italia. Craxi è uno dei “grandi” della politica italiana. I socialisti non devono aversene a male se questo riconoscimento che si va facendo strada spesso non è accompagnato da una generale adesione alle sue scelte, anzi si accompagna ad una critica di alcune sue scelte. Il tema ancora bruciante è, però, il rapporto fra Craxi e la sua memoria e il vasto mondo, ormai disperso, degli ex comunisti, ovvero, più correttamente, degli ex Pci.
SERVE UN GESTO DI RICONCILIAZIONE
Io credo che sia giunto il tempo che un gruppo di ex comunisti, ovvero di ex Pci, partecipi in questa veste al ricordo di Craxi ad Hammamet. Qualcuno potrebbe andarci da solo oppure coinvolto nelle diverse delegazioni che le diverse famiglie socialiste stanno organizzando. Ma il fatto politico, l’evento che potrebbe avviare la definitiva riconciliazione fra ex Pci e ex Psi (che in parte è già avvenuta nella comune militanza a sinistra di questi anni), sarebbe se la partecipazione alla commemorazione vedesse in prima fila (è un modo di dire, si può stare anche in fondo) un gruppo di ex Pci. Il funerale di Craxi 20 anni fa si fece in Tunisia. La famiglia rifiutò l’offerta del premier Massimo D’Alema del funerale di Stato in Italia, Marco Minniti, sottosegretario di quel governo, e Gavino Angius, capogruppo al senato del partito ex comunista, si recarono in Tunisia. Poi negli anni successivi c’è stato molto silenzio e l’acredine reciproca ha creato nuove ferite. Molti socialisti sono passati a destra sostenendo di farlo in nome di Craxi che a destra, viceversa, non sarebbe mai passato. Anche i figli di Craxi hanno avuto atteggiamenti diversi, intransigente la figlia Stefania, partecipe di una comune esperienza politica Bobo, mio caro amico.
Craxi e il craxismo sono rimasti nell’immaginario collettivo sia come simbolo di un ardito riformismo sia, al contrario, come espressione di una eccessiva prepotenza della politica
Ora vedremo se Gianni Amelio, nel film che dicono sia magistralmente interpretato da Favino, saprà dare l’immagine giusta del leader socialista. C’è tuttavia un punto di fondo che a sinistra si deve comprendere. Non è vero che bisogna “scurdarsi o passato”. I grandi fenomeni popolari o di opinione pubblica restano nella memoria. Craxi e il craxismo sono rimasti nell’immaginario collettivo sia come simbolo di un ardito riformismo sia, al contrario, come espressione di una eccessiva prepotenza della politica. Gli ex Pci, che hanno accettato che si facesse strame della propria storia, dovrebbero assumere come regola di vita intellettuale e politica quella di non lasciar marcire la propria memoria e di non lasciare irrisolte le grandi questioni. Il craxismo è stata la più grande questione che la sinistra abbia avuto davanti a sé in anni cruciali, enfatizzata addirittura dal diverso atteggiamento nel caso del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro.
AD HAMMAMET UNA DELEGAZIONE POST PCI CI DEVE ESSERE
Ad Hammamet una delegazione post Pci ci deve essere. Chi deve organizzarla? Ci sono tanti dirigenti di quel partito che fanno ancora politica o che hanno smesso da poco che possono farsi promotori di questa iniziativa. Può farlo una organizzazione culturale, una assemblea. Io sono nessuno, ma se ci fosse questa iniziativa parteciperei volentieri. Il tema da lanciare è la scelta dell’ unilaterale “riconciliazione” con la figura di Craxi. Tempo fa ho usato un verbo che non è piaciuto perché ho scritto che i comunisti devono “riabilitare” Craxi. Riconosco che fu una espressione infelice il cui senso politico era chiarissimo. Oggi dico ai miei che dobbiamo fare un gesto forte di riconciliazione, che scaverà come una talpa buona, fra le nostre radici: andiamo ad Hammamet, chiunque ci sia, anche se lì ci saranno quelli del cappio. Andiamo ad Hammamet con la famiglia socialista, non guardando alle sue divisioni (le nostre sono persino maggiori) ma pensando che nel futuro questo gesto può produrre unità.
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Il leader socialista era figlio del riformismo italiano e interprete della sua idea più aggressiva con una visione che tuttora è legittimo non condividere. Ma sarebbe un gesto esemplare chiedere rispetto per la sua figura. E se Davigo non è d’accordo, pazienza.
Fra qualche settimana, comunque all’inizio del nuovo anno, vedremo nelle sale il film di Gianni Amelio dedicato a Bettino Craxi.
Chi l’ha visto ne parla molto bene ed elogia l’interpretazione di Pierfrancesco Favino, già straordinario interprete di tanti film, fra cui Il Traditoredi Marco Bellocchio che racconta la storia di Masino Buscetta.
Fra qualche mese è anche l‘anniversario, 20 anni, della morte di Craxi quindi è normale e positivo che alcuni organi di stampa, in primo luogo il Corriere della Sera se ne occupino, diffusamente. Il Corriere lo ha fatto ieri con un articolo di Pigi Battista e un dibattito fra storici, Giovanni Scirocco, Silvio Pons e RobertoChiarini. Chi ha letto questi testi ha trovato sicuramente riflessioni di grande interesse.
IL DIBATTITO PIENO DI LUOGHI COMUNI SU CRAXI
C’è un doppio tema che accende la discussione sulla figura di Craxi ed è da un lato la sua demonizzazione criminale e dall’altro, non slegato da esso, il riproporsi delle ragioni della contrapposizione fra Craxi e il Pci e ancora oggi fra il socialismo che si richiama al suo leader e i post comunisti.
La riforma radicale di politica e istituzioni è l’unica salvezza contro la destra che dilaga sia nelle forme del sovranismo leghista sia nelle idee della destra tradizionale di Giorgia Meloni
È una discussione difficile, ancora piena di acrimonie, di luoghi comuni, di incapacità di guardare lontano, sia all’indietro, sia, soprattutto, davanti. Ovviamente non è possibile un giudizio definitivo che metta pace fra i contraddittori. Per tanti Craxi resta un innovatore vittima del giustizialismo, per altri il simbolo della corruzione della politica. Né è facile rasserenare gli animi fra la componente comunista e quella socialista che negli anni di Craxi e Berlinguer si divisero in modo irrevocabile.
PER LA SINISTRA LA SOCIALDEMOCRAZIA ERA L’UNICA PROSPETTIVA
La beffa della storia è che oggi molte di quelle ragioni di divisione sono irrilevanti. La socialdemocrazia, ancorché cadente, era l’unica prospettiva per la sinistra di fronte a un comunismo fallimentare e persino di fronte all’italo-comunismo. È chiaro a tutti che dopo il 2008 si è fatta strada l’idea socialista che non c’è salvezza fuori da una logica che porti la sinistra a fare a cazzotti con il capitalismo (idea di Lombardi) senza aspirare alla fuoriuscita.
È chiaro davanti a noi che la riforma radicale di politica e istituzioni è l’unica salvezza contro la destra che dilaga sia nelle forme del sovranismo leghista sia nelle idee della destra tradizionale di Giorgia Meloni che sembra destinata a grandi successi elettorali. Infine, come dato saliente e clamoroso, appare sempre più chiaro che nella lettura ex post delle vicende che portarono l’Italia al fascismo una responsabilità cade sulla testa dei comunisti che si scissero dal Psi. Quella scissione è storicamente spiegabile ma oggi nessuno che si dica comunista la farebbe.
CRAXI NON È UNA PAGINA DI STORIA CRIMINALE
Craxi in questo contesto che cosa è stato? Non è stato il malandrino politico che ha preso il potere. Prima e dopo di lui altre figure meritano questa definizione, soprattutto in questi anni recenti. Craxi è stato un grande leader della sinistra che ha intuito come pochi la crisi della politica e delle istituzioni, che ha capito il grado di sofferenza del sistema economico, che ha colto come il movimento sindacale dovesse rinnovarsi anche a prezzo di durissime lacerazioni. È stato un leader socialdemocratico occidentale, più encomiabile per aver accettato dal cancelliere Helmut Schmidt la proposta di mettere i missili di quando venne elogiato per aver consentito a Sigonella di impedire l’arresto di terroristi palestinesi. Comunque ognuno la pensi come vuole.
Craxi è stato un grande leader della sinistra che ha intuito la crisi della politica e delle istituzioni, che ha capito il grado di sofferenza del sistema economico, che ha colto come il movimento sindacale dovesse rinnovarsi anche a prezzo di durissime lacerazioni
Il tema di oggi non è la classifica dei meriti e dei demeriti. Il tema di oggi è che dobbiamo farla finita con questa discussione primordiale e primitiva. Craxi non è un pezzo di storia criminale. Questo giudizio non riguarda solo lui, riguarda l’intera Prima Repubblica. La vittoria del “mostri” che da anni invadono le stanze del potere nasce dall’aver accettato questa lettura della storia italiana.
IL GIUSTIZIALISMO NON HA GRANDI PADRI
I magistrati sono diventati storici, maestri di morale, leader di massa. Prevalentemente sono gli stessi che hanno tradito Giovanni Falcone quando aspirava a diventare, legittimamente, capo della Procura antimafia. Il giustizialismo non ha grandi padri. Non lo era Falcone, basta leggere tutti i suoi scritti, non lo era neppure Paolo Borsellino, uomo d’ordine ma non uomo da guerra civile strisciante.
LE DUE IDEE SBAGLIATE DEGLI EX COMUNISTI
Gli ex comunisti hanno pensato due idee sbagliate. Ne hanno, ne abbiamo avute tante, ma le prime due sono queste: l’idea che la fine del comunismo fosse anche merito nostro e fosse una gioia e che la fine di Craxi liberasse il campo dal nemico interno. Il comunismo è caduto malgrado i comunisti italiani, che erano cosa diversa ma che non avevano mai intaccato quel sistema.
Craxi era figlio del riformismo italiano e interprete della sua idea più aggressiva, con una visione che è legittimo tuttora non condividere. È per questo che io penso che che un gesto esemplare che riguardi la “riabilitazione” sia Craxi sia necessario. Immagino che alcuni dirigenti ex Pci scrivano un breve documento e dicano che Craxi era un nostro compagno da cui abbiamo dissentito ma che chiediamo a tutti di rispettare e ammirare per le sue idee. Se Davigo non è d’accordo, chissenefrega.
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L'inchiesta su Open riapre il dibattito su denaro e politica. Lo storico esponente del Psi non ha dubbi e punta il dito contro la solita ipocrisia italiana. Con la differenza che nella Prima Repubblica era «condivisa e istituzionalizzata» mentre ora «tutti fanno i giustizialisti quando si tratta degli altri». L'intervista.
«Che cosa insegnano le ultime inchieste della magistratura sulle fondazioni legate ai partiti? Che anche una forma di ipocrisia può entrare in crisi». Parola di Rino Formica, 92 anni, già ministro e fra i massimi esponenti del Psi di Bettino Craxi. Anche se da Mani Pulite è passata un’era geologica «e le regole del finanziamento ai partiti sono profondamente cambiate, siamo sempre allo stesso punto».
DOMANDA: Qual è il punto da cui non ci saremmo mossi in tutti questi anni? RISPOSTA. Il punto è la pretesa di mettere le brache alla realtà, facendo finta che sia diversa da quel che è. Per dirla in modo diverso: siamo sempre alla finzione che un’attività politica possa essere svolta in modo spirituale, senza una necessità di organizzazione. Al contrario, la politica ha sempre bisogno di organizzazione, strutture, lavoro. E richiede inevitabilmente denaro, a meno di immaginare che sia tutto spontaneo o risolvibile a livello di volontariato.
Veramente il denaro può arrivare dai privati, purché in modo diretto e alla luce del sole. Non è così. Il finanziamento a un partito apre la porte a ipotesi di reato, come il traffico di influenze e altre cose del genere. Ci si domanda sempre: perché quel privato finanzia un partito? Quale sarà il suo interesse occulto? Insomma, se uno spende soldi per il suo divertimento va bene, perché incrementa il Pil. Se invece vuole finanziare un’attività politica perché ha fiducia verso un partito o un singolo politico allora è oggetto di sospetto e riprovazione.
Il famoso discorso di Craxi alla Camera del 1992, quando disse che tutti i partiti sapevano e si comportavano alla stessa maniera è sempre attuale. Solo che allora, a differenza di oggi, nessuno si alzò per smentirlo
Non ci dobbiamo cautelare dal rischio che un privato finanzi un partito per ottenerne un vantaggio personale? Ma quello è un reato. Se in cambio di quel finanziamento ottiene un beneficio illecito va processato e condannato. Ma qui parliamo di un’altra cosa. Non conosco le carte dell’inchiesta sulla Fondazione renziana Open, ma da quanto leggo sui giornali mi pare sia contestato il finanziamento illecito.
Davvero non vede un miglioramento del rapporto fra soldi e politica dai tempi di Mani Pulite? Al contrario, vedo un peggioramento sostanziale, che si è consumato con il passaggio da una ipocrisia condivisa e istituzionalizzata, com’era quella della Prima Repubblica a un finzione espressa a livello individuale: tutti continuano a comportarsi sempre allo stesso modo, però fanno i giustizialisti quando si tratta degli altri. Il famoso discorso di Craxi alla Camera del 1992, quando disse che tutti i partiti sapevano e si comportavano alla stessa maniera è sempre attuale. Solo che allora, a differenza di oggi, nessuno si alzò per smentirlo.
Intende dire che i bilanci dei partiti di quel tempo erano tutti falsi? Non solo erano falsi, ma erano anche avallati dagli uffici di presidenza delle Camere che avevano il compito di controllare. Tutti sapevano che i partiti ricevevano contributi privati in aggiunta al contributo pubblico e tutti facevano finta di non vedere. Poi con la Seconda Repubblica quella tolleranza generale è venuta meno e questo spiega la proliferazione delle fondazioni politiche.
Nel senso che sono nate fondamentalmente per raccogliere soldi per i partiti? Ne sono convinto. A parte quelle con una struttura vera e propria, che svolgono con continuità attività culturali importanti e riconosciute. Ma si contano sulle dita di una mano.
Come se ne esce? È difficile, perché l’attitudine a infrangere le regole per poi fare la morale agli altri è un tratto tipico del nostro Paese. E per cambiare la mentalità di un Paese ci vuole tanto tempo, mentre la politica pretende soluzioni immediate. Ma vale sempre la pena di combattere l’ipocrisia, riconoscendo che la politica ha i suoi costi, specie se è una politica riformista.
Addirittura? Certo. Quando ero ragazzo i più anziani mi spiegarono che la differenza fra conservatori e riformisti era che i primi lasciavano marcire i problemi mentre i secondi lavoravano per affrontarli nel modo più tempestivo. È soprattutto questa attività che richiede risorse. E un Paese che non fa riforme, in tempi così complessi, è destinato a precipitare nel caos.
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