Sono le stime diffuse dall'Office for national statistics. In numeri assoluti il Paese è secondo solo agli Usa.
Supera la quota choc di 40 mila la stima dei morti per coronavirus nel Regno Unito.
Stando alle elaborazioni settimanali dell’Ons, l’Office for national statistics, (l’Istat britannico), i decessi legati almeno come concausa al Covid-19 censiti in Inghilterra e Galles al 9 maggio sono saliti a 35.044 e quelli rilevati fino al 3 in Scozia e Irlanda del Nord a 3300.
Il governo britannico di Boris Johnson e i suoi consiglieri medico-scientifici hanno però più volte insistito nelle ultime settimane sulla dubbia attendibilità – almeno fino a quando non vi saranno bilanci completi e omogenei – di un paragone fra i dati ufficiali o le stime del Regno e quelli di altri Paesi. I dati dell’Ons, si nota a Londra, sono in particolare molto più ampi di quelli diffusi da altri enti: comprendono infatti tutti i decessi, anche probabili, legati al Covid-19 raccolti negli ospedali, in qualunque altro ricovero, in case private e ovunque. Cosa che altri governi non fanno, o includono solo parzialmente, nei loro aggiornamenti.
In rapporto alla popolazione il Regno Unito resta in effetti dietro a Belgio o Spagna e testa a testa con l’Italia (avendo 67 milioni di abitanti contro i circa 60 dell nostro Paese). Sullo sfondo della situazione attuale, con il lockdown solo marginalmente alleggerito malgrado la flessione della curva dei contagi di queste settimane, il governo Johnson si appresta intanto a estendere oltre giugno lo schema di sussidi pubblici concesso fino all’80% dello stipendio a milioni di lavoratori in congedo a causa delle restrizioni della pandemia.
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I sintomi si sono visti nelle elezioni britanniche. Ma presto contageranno (acuendosi) gli altri Paesi occidentali. L'analisi.
«Dato che esistono oratori balbuzienti, umoristi tristi, parrucchieri calvi, potrebbero anche esistere politici onesti» (Dario Fo). «Ogni cuoca dovrebbe imparare a reggere lo Stato» (Vladimir Lenin). Due citazioni estreme, ma che ben riassumono spirito e stato dell’arte della politica attuale. Un po’ ovunque agitata da leader divisivi, arroganti, presuntuosi. Talmente eccessivi nei loro comportamenti pubblici da riuscire, per colmo di paradosso, ad apparire normali. Scorrono le immagini di Donald Trump che twitta insulti e rabbia da impeachment, di Boris Johnson che fa jumping in un luna park, di Silvio Berlusconi che alla presentazione dell’ultimo libro di Bruno Vespa sembra Maurizio Crozza. Ma in assoluto l’immagine più desolante, per me almeno, è del ministro degli Esteri Luigi Di Maioalle prese con l’aggravarsi della crisi libica e l’intervento di Russia e Turchia nel conflitto. Qui anche la classica casalinga di Voghera capisce che il cuoco non è assolutamente all’altezza. Riuscite a immaginare il capo politico dei grillini che fronteggia Tayyip Erdogan e Vladimir Putin? Non vi viene da rimpiangere l’astuzia levantina di Giulio Andreotti?
NELLA MENTE DELL’OPINIONE PUBBLICA
Sono però sociologiche e non politiche le questioni che voglio affrontare e che scaturiscono dall’evidente contraddizione, manifestata dalla nostra classe politica, fra principi e azioni, fra richiami teorici alla coerenza e alla fedeltà (di partito) puntualmente smentiti dalla realtà. Una contraddizione questa che fa malauguratamente parte del patrimonio politico nazionale, ma che deve fare i conti, si spera fortunatamente, come dirò in seguito,con avvenimenti nuovi, veloci e imprevedibili. Ma facciamo alcuni esempi di giornata. Matteo Salvini che twitta il benvenuto ai tre senatori transfughi dal M5s, dimentico, come gli viene subito ritwittato e ricordato, che due anni fa auspicava l’inserimento nella costituzione del vincolo di mandato.
Il senatore Gian Luigi Paragone che vota no alla finanziaria, ma invocando la fedeltà al programma elettorale dei 5 Stelle. I deputati di Forza Italia che chiedono invece il referendum, dopo avere nei giorni scorsi votato la riduzione del numero dei parlamentari. Però il meglio del peggio, ossia il pessimo, lo offrono i due ex alleati Salvini-Di Maio che ora si insultano. Anche se è il leghista la dissociazione fatta persona, visto che lo si dà in avvicinamento all’altro Matteo (Renzi) e favorevole a un governo di grande coalizione guidato dal sino a ieri odiato banchiere europeista Mario Draghi. L’interrogativo più pertinente non riguarda la pena e il danno che l’attuale classe politica italiana procura al Paese, perché ormai sono conclamati, bensì l’atteggiamento delle opinioni pubbliche, dei gruppi sociali e anche dei rispettivi sostenitori ed elettori. Visto che su di esso sembra non avere effetto alcuno questa deplorevole e generalizzata abitudine a dire una cosa, pensarne un’altra e farne una diversa.
LA STANCHEZZA DIETRO UN’INDIFFERENZA MANIFESTA
A promettere fedeltà al partito o agli alleati e poi tradirli alla prima occasione utile, così come rinfacciare alla parte avversa, quando si è all’opposizione, un comportamento istituzionale scorretto, salvo poi praticarlo, una volta passati al governo. Come è puntualmente accaduto con la soppressione del dibattito parlamentare in occasione della recente legge finanziaria. Credo che sull’indifferenza dei cittadini-elettori a cambiare giudizio di fronte a scelte politiche incoerenti o infedeli giochi la stanchezza e il fastidio. Ma anche l’imporsi di un’adessitudine o presentismo famelico che cancella sia il futuro sia il passato. Internet e il web sono stati e sono un potente azzeratore di memoria. Ma della memoria a breve, perché quella remota, anche per reazione a un presente che comunque non piace, si attiva con i colori e la forza della nostalgia.
L’apparente dejà vu è preso all’interno di una struttura sociale nuova e di un contesto tecnologico totalmente diverso
Quasi nessuno credo ricordi il ministro Franco Frattini o di cosa sia stata ministra Maria Elena Boschi. Tutti però ci troviamo a rimpiangere i leader di un tempo quasi remoto: Enrico Berlinguer, Giorgio Almirante, Aldo Moro. Perfino Winston Churchill viene scomodato per confronti fuori tempo e fuori luogo. Ma comunque denotativi di una generalizzata tendenza a correre velocissimi in ogni ambito, non solo in politica. Però con la testa girata all’indietro. «A tutta velocità guardando lo specchietto retrovisore», ha scritto il sociologo Th. Eriksen in Tempo tiranno. Velocità e lentezza nell’era informatica. È la nostalgia del buon tempo che fu e della “buona politica “, rivendicata dal movimento delle Sardine, che alimenta questa ambivalenza? Certamente sì. Ma c’è anche molto di nuovo in questo riproporsi, peraltro ciclico, di corsi e ricorsi. Il fatto fondamentale che l’apparente dejà vu è preso all’interno di una struttura sociale nuova e di un contesto tecnologico totalmente diverso.
IL WEB RIDISEGNA RAPPORTI E RELAZIONI
Il fascismo non tornerà, perlomeno nelle forme che abbiano conosciuto, non tanto perché lo scrive Vespa, ma perché i media di riferimento non sono più la radio e il cinematografo bensì il web. Che ridisegna rapporti e relazioni. Per molti aspetti inediti, anche quando sembrano riproporre vecchi schemi. Un mix di edito e inedito, di confermativo e sorprendente, di passato che ritorna e futuro che ricomincia, che emerge nitidamente dalle recenti elezioni nel Regno Unito. Gli inglesi che con il loro voto hanno espresso nostalgia per l’Inghilterra imperiale, che però non c’è più, hanno nello stesso tempo indicato, sia pure inconsapevolmente, che il trionfo delle piazze virtuali, ovvero la trasformazione esclusiva della politica in tweet e streaming su Facebook, è di là da venire. Nel contempo che il trionfo di Johnson segnala un inedito assoluto: non è più la lotta di classe il motore del confronto e scontro politico, bensì il conflitto fra generazioni.
IL CASO DELLE ELEZIONI NEL REGNO UNITO
Jeremy Corbyn ha infatti strabattuto il rivale sul web, ma ha rimediato la peggiore sconfitta elettorale dal 1935. Il Labour ha vinto su Internet, facendo uso di meme, post virali su Facebook e video che hanno attirato l’attenzione degli elettori. I fan di Corbyn sono stati molto più coinvolti sui social media rispetto a quelli di Johnson, e i video dei laburisti contro i conservatori hanno ottenuto milioni di visualizzazioni. Ma ciò non si è tradotto in voti, e i Tory hanno conquistato 364 seggi contro i 203 di Labour. Questo risultato costringe tutti a rifare i conti digitali con la politica. E a riconsiderare il ruolo e il potere delle piazze reali, che date per morte, si riscoprono improvvisamente, come l’ascesa del movimento delle Sardine, vitali, attuali. Capaci di indicare nuove traiettorie e dinamiche alla dialettica sociale e alla lotta politica. Che, come mostra l’analisi del recente voto britannico di Yougov, sembra spostarsi dal piano degli interessi di classe a quelli di età.
Il labour di Corbyn ha infatti stravinto nella fascia 18-24 anni e prevalso in quella 25-49, ma straperso in quelle 50-64 e oltre i 65. È molto probabile che questo scontro fra generazioni sia destinato, a breve, a generalizzarsi e acuirsi in tutti i Paesi dell’Occidente sviluppato. Quelli del welfare generoso con i pensionati. Ma non più sostenibile e ancor meno accettabile per un numero crescente di giovani. Che sono scesi in piazza e intendono continuare a farlo. Perchè, come hanno scritto a Repubblicai quattro promotori delle Sardine, «siamo stati per troppo tempo sdraiati».
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Superato il voto e la scelta del divorzio, l'Ue trainata dalla Germania vuole ricostruire i rapporti economici con Londra. C'è un anno per un'intesa sul libero commercio. Von der Leyen: «Trarre il massimo dal minimo». Ma per gli economisti la separazione continuerà a pesare sul Pil.
Almeno è finita l’incertezza. Con la Brexit fissata al 31 gennaio 2020 l’Ue può cominciare a organizzarsi, «tutti uniti per costruire un’Europa più forte» spronano ora anche dalla Confindustria tedesca (Bdi), «in un mondo bilaterale, con Stati Uniti e Cina predominanti, dobbiamo combinare le nostre forze». Fino al 2016 in Germania nessun imprenditore si sarebbe mai augurato l’uscita del Regno Unito dall’Ue: l’isola dove ha trionfato il premier Boris Johnson, al voto anticipato del 12 dicembre 2019, era per la locomotiva d’Europa il trampolino di lancio verso gli Usa e verso la rete del Commonwealth. Una strettissima alleata commerciale. Dal referendum sulla Brexit la Germania ha allentato questo interscambio, dirottandolo in parte verso l’Olanda e proiettandolo verso ‘’Asia. Ma nonostante gli sforzi per riassestarsi è l’economia del’Ue che ha più sofferto per lo strappo. Tre miliardi e mezzo di euro persi solo nella prima metà del 2019 dagli esportatori tedeschi per gli effetti della Brexit.
METÀ DEL COMMERCIO BRITANNICO ÈCON L’UE
Fino alle turbolenze di ottobre, con Johnson sul precipizio di una hard Brexit, fornitori dall’Ue e importatori britannici erano paralizzati. Oltremanica si accumulavano merci, mentre nel Vecchio continente si rimandavano gli ordini, nell’eventualità concreta di un’uscita disordinata di Londra dai trattati economici e commerciali comunitari tra la fine del 2019 e il 2020 e quindi di un caos alle dogane e di merci bloccate. Per decenni circa la metà dell’interscambio del Regno Unito è avvenuto con l’Ue, il suo principale partner commerciale, a costi ridotti. Un import-export che tra il 2010 e il 2017per un quarto del totale è stato con la Germania (Germania, Francia, Belgio e Olanda pesavano per il 60%), secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica britannico per un valore di quasi 850 miliardi di euro. Con le maggiori barriere tra il Regno Unito e l’Ue, uno studio della London School of Economics ha stimato per forza di cose una contrazione di questo flusso commerciale. Anche senza hard Brexit.
LONDRA PERDERÀ IL DOPPIO DEL PIL DELL’UNIONE
Sempre la stessa ricerca del 2016 ha calcolato una diminuzione, per la Brexit, delle entrate di tutta l‘Unione europea. Un calo del Pil, anche se a BoJo sembra importare poco, per il Regno Unito due volte tanto (tra i 31 e i 66 miliardi di euro) la perdita di ricchezza di tutti gli altri Paesi dell’Ue messi insieme (tra i 14 e i 33 miliardi di euro). Anche di fronte a questa prospettiva, all’investitura di luglio a Strasburgo la nuova presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyenha parlato di «sfide da affrontare insieme, legati ai valori condivisi che ci uniscono». Anticipando di mettere in campo «tutta la flessibilità possibile del Patto di stabilità, per creare un contesto fiscale più favorevole alla crescita» anche per rispondere ai contraccolpi di frenate nell’export, e nella produzione, a causa della Brexit e del nascente asse commerciale tra gli Stati Uniti e il Regno Unito sganciato dall’Ue.
Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile
Ursula von der Leyen
DOPO LA BREXIT IL LIBERO COMMERCIO DA NEGOZIARE
Von der Leyen spinge per una «partnership ambiziosa e strategica con il Regno Unito»: ricostruire con nuovi trattati quanto più la Brexit voleva distruggere. BoJo, senza più ormeggi in parlamento (364 seggi, per una maggioranza di 326 seggi), scalpita per «fare le valigie e andarsene», «senza se e senza ma» annuncia. Ma lo stesso accordo raggiunto da Johnson con Bruxelles questo autunno prevede quasi un anno ditransizione, fino al 31 dicembre 2020, per negoziare nel dettaglio i termini dei rapporti tra il Regno Unito e l’Ue dopo la Brexit. «Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile e trarremo il massimo dal minimo», ha rilanciato la super-commissaria europea alla «chiara vittoria» del premier britannico, sull’onda delle reazioni positive delle Borse e dei mercati. «Gli imprenditori riprendono a respirare, finalmente chiarezza» è il commento anche di der Spiegel. Per la Confindustria tedesca la «nebbia di Londra si dissolve»: almeno gli imprenditori sanno di che morte morire.
IN GERMANIA COLPITI IL SETTORE DELL’AUTO E IL FARMACEUTICO
In tre anni il Regno Unito è stato declassato da quinto a settimo partner commerciale della Germania: un volume d’affari di oltre 8 miliardi di euro sfumato, secondo i calcoli di Deloitte. Il binomio tra i dazi di Trump all’Ue sull’acciaio e la paralisi per la Brexit ha colpito soprattutto il comparto tedesco dell’auto (-23% di esportazioni verso la Gran Bretagna dal 2016 per 6 miliardi di euro bruciati), per il quale il mercato britannico era secondo solo a quello statunitense. Non a caso, nei distretti tedeschi dell’acciaio e dell’automotive quest’anno migliaia di addetti sono finiti in cassa integrazione, tra la Ruhr e la Saarland, mentre le case automobilistiche si apprestano a massicci tagli del personale, e anche l’export del farmaceutico è molto penalizzato. Land ricchi e prosperosi come la Baviera e il Baden-Württemberg, ai massimi tassi di occupazione, risentono dell’effetto Brexit: gli esperti prevedono perdite ancora maggiori nel secondo semestre del 2019, con ripercussioni anche sull’indotto italianodella componentistica.
Non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza cala ma resta alta
Kiel Institute for the World Economy
TRUMP CONTRO UE: IL NUOVO BRACCIO DI FERRO
A settembre la locomotiva d’Europa ha frenato più del previsto, -0,6% della produzione industriale. La crisi delle spedizioni navali, anche per la guerra commerciale tra Usa e Cina, ha esposto nel 2019 diverse banche regionali tedesche a misure di salvataggio. Con una Brexit pianificata al via, se non altro lo stallo è superato: la «catastrofe di un no deal» temuta dall’Associazione per il commercio estero tedesca (Bga) è scongiurata, l’Europa è attrezzata e presto potrà ricominciare a investire verso il Regno Unito. Ma Trump preme molto su Johnson per sganciarsi dall’orbita Ue, gli osservatori economici avvertono che anche il 2020 non sarà una passeggiata. Per il Kiel Institute for the World Economy (IfW)«non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza è diminuita ma resta alta». Per l’IMK di Düsseldorf la «Brexit continuerà a pesare nei prossimi mesi sulla crescita britannica come su quella tedesca». Anche perché all’Istituto Ifo di Monaco sono molto scettici che «si concordi un nuovo contratto sul libero commercio entro il 2020».
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Superato il voto e la scelta del divorzio, l'Ue trainata dalla Germania vuole ricostruire i rapporti economici con Londra. C'è un anno per un'intesa sul libero commercio. Von der Leyen: «Trarre il massimo dal minimo». Ma per gli economisti la separazione continuerà a pesare sul Pil.
Almeno è finita l’incertezza. Con la Brexit fissata al 31 gennaio 2020 l’Ue può cominciare a organizzarsi, «tutti uniti per costruire un’Europa più forte» spronano ora anche dalla Confindustria tedesca (Bdi), «in un mondo bilaterale, con Stati Uniti e Cina predominanti, dobbiamo combinare le nostre forze». Fino al 2016 in Germania nessun imprenditore si sarebbe mai augurato l’uscita del Regno Unito dall’Ue: l’isola dove ha trionfato il premier Boris Johnson, al voto anticipato del 12 dicembre 2019, era per la locomotiva d’Europa il trampolino di lancio verso gli Usa e verso la rete del Commonwealth. Una strettissima alleata commerciale. Dal referendum sulla Brexit la Germania ha allentato questo interscambio, dirottandolo in parte verso l’Olanda e proiettandolo verso ‘’Asia. Ma nonostante gli sforzi per riassestarsi è l’economia del’Ue che ha più sofferto per lo strappo. Tre miliardi e mezzo di euro persi solo nella prima metà del 2019 dagli esportatori tedeschi per gli effetti della Brexit.
METÀ DEL COMMERCIO BRITANNICO ÈCON L’UE
Fino alle turbolenze di ottobre, con Johnson sul precipizio di una hard Brexit, fornitori dall’Ue e importatori britannici erano paralizzati. Oltremanica si accumulavano merci, mentre nel Vecchio continente si rimandavano gli ordini, nell’eventualità concreta di un’uscita disordinata di Londra dai trattati economici e commerciali comunitari tra la fine del 2019 e il 2020 e quindi di un caos alle dogane e di merci bloccate. Per decenni circa la metà dell’interscambio del Regno Unito è avvenuto con l’Ue, il suo principale partner commerciale, a costi ridotti. Un import-export che tra il 2010 e il 2017per un quarto del totale è stato con la Germania (Germania, Francia, Belgio e Olanda pesavano per il 60%), secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica britannico per un valore di quasi 850 miliardi di euro. Con le maggiori barriere tra il Regno Unito e l’Ue, uno studio della London School of Economics ha stimato per forza di cose una contrazione di questo flusso commerciale. Anche senza hard Brexit.
LONDRA PERDERÀ IL DOPPIO DEL PIL DELL’UNIONE
Sempre la stessa ricerca del 2016 ha calcolato una diminuzione, per la Brexit, delle entrate di tutta l‘Unione europea. Un calo del Pil, anche se a BoJo sembra importare poco, per il Regno Unito due volte tanto (tra i 31 e i 66 miliardi di euro) la perdita di ricchezza di tutti gli altri Paesi dell’Ue messi insieme (tra i 14 e i 33 miliardi di euro). Anche di fronte a questa prospettiva, all’investitura di luglio a Strasburgo la nuova presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyenha parlato di «sfide da affrontare insieme, legati ai valori condivisi che ci uniscono». Anticipando di mettere in campo «tutta la flessibilità possibile del Patto di stabilità, per creare un contesto fiscale più favorevole alla crescita» anche per rispondere ai contraccolpi di frenate nell’export, e nella produzione, a causa della Brexit e del nascente asse commerciale tra gli Stati Uniti e il Regno Unito sganciato dall’Ue.
Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile
Ursula von der Leyen
DOPO LA BREXIT IL LIBERO COMMERCIO DA NEGOZIARE
Von der Leyen spinge per una «partnership ambiziosa e strategica con il Regno Unito»: ricostruire con nuovi trattati quanto più la Brexit voleva distruggere. BoJo, senza più ormeggi in parlamento (364 seggi, per una maggioranza di 326 seggi), scalpita per «fare le valigie e andarsene», «senza se e senza ma» annuncia. Ma lo stesso accordo raggiunto da Johnson con Bruxelles questo autunno prevede quasi un anno ditransizione, fino al 31 dicembre 2020, per negoziare nel dettaglio i termini dei rapporti tra il Regno Unito e l’Ue dopo la Brexit. «Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile e trarremo il massimo dal minimo», ha rilanciato la super-commissaria europea alla «chiara vittoria» del premier britannico, sull’onda delle reazioni positive delle Borse e dei mercati. «Gli imprenditori riprendono a respirare, finalmente chiarezza» è il commento anche di der Spiegel. Per la Confindustria tedesca la «nebbia di Londra si dissolve»: almeno gli imprenditori sanno di che morte morire.
IN GERMANIA COLPITI IL SETTORE DELL’AUTO E IL FARMACEUTICO
In tre anni il Regno Unito è stato declassato da quinto a settimo partner commerciale della Germania: un volume d’affari di oltre 8 miliardi di euro sfumato, secondo i calcoli di Deloitte. Il binomio tra i dazi di Trump all’Ue sull’acciaio e la paralisi per la Brexit ha colpito soprattutto il comparto tedesco dell’auto (-23% di esportazioni verso la Gran Bretagna dal 2016 per 6 miliardi di euro bruciati), per il quale il mercato britannico era secondo solo a quello statunitense. Non a caso, nei distretti tedeschi dell’acciaio e dell’automotive quest’anno migliaia di addetti sono finiti in cassa integrazione, tra la Ruhr e la Saarland, mentre le case automobilistiche si apprestano a massicci tagli del personale, e anche l’export del farmaceutico è molto penalizzato. Land ricchi e prosperosi come la Baviera e il Baden-Württemberg, ai massimi tassi di occupazione, risentono dell’effetto Brexit: gli esperti prevedono perdite ancora maggiori nel secondo semestre del 2019, con ripercussioni anche sull’indotto italianodella componentistica.
Non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza cala ma resta alta
Kiel Institute for the World Economy
TRUMP CONTRO UE: IL NUOVO BRACCIO DI FERRO
A settembre la locomotiva d’Europa ha frenato più del previsto, -0,6% della produzione industriale. La crisi delle spedizioni navali, anche per la guerra commerciale tra Usa e Cina, ha esposto nel 2019 diverse banche regionali tedesche a misure di salvataggio. Con una Brexit pianificata al via, se non altro lo stallo è superato: la «catastrofe di un no deal» temuta dall’Associazione per il commercio estero tedesca (Bga) è scongiurata, l’Europa è attrezzata e presto potrà ricominciare a investire verso il Regno Unito. Ma Trump preme molto su Johnson per sganciarsi dall’orbita Ue, gli osservatori economici avvertono che anche il 2020 non sarà una passeggiata. Per il Kiel Institute for the World Economy (IfW)«non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza è diminuita ma resta alta». Per l’IMK di Düsseldorf la «Brexit continuerà a pesare nei prossimi mesi sulla crescita britannica come su quella tedesca». Anche perché all’Istituto Ifo di Monaco sono molto scettici che «si concordi un nuovo contratto sul libero commercio entro il 2020».
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BoJo promette il divorzio da Bruxelles il prima possibile. Voto a Westminster forse già prima di Natale. Dal primo febbraio via al periodo di transizione, con l'obiettivo di raggiungere un'intesa commerciale entro giugno. A quel punto l'uscita diventerebbe effettiva da gennaio 2021.
Con la schiacciante e difficilmente prevedibile, almeno nelle proporzioni, vittoria del partito conservatore alla elezioni nel Regno Unito, il processo verso la Brexit è destinato a subire un’inevitabile accelerazione. Boris Johnson intende presentare al voto di Westminster l’accordo sul divorzio da Bruxelles il prima possibile, forse già entro Natale, vale a dire sabato 21 dicembre. Il via libera definitivo, in ogni caso, arriverebbe solo a gennaio. «Dalle urne è emerso un mandato per la Brexit, che noi onoreremo entro il 31 gennaio» ha detto Johnson di fronte a Downing Street nel discorso della vittoria, ringraziando gli elettori e impegnandosi a «lavorare senza risparmio» anche per una programma di politica interna su temi come sanità, sicurezza e «fine dell’austerità».
IL PERIODO DI TRANSIZIONE A PARTIRE DAL PRIMO FEBBRAIO
Dato per scontato che, avendo i Tory la maggioranza assoluta, l’intesa questa volta passerà, proprio il 31 gennaio, come promesso ripetutamente dal premier in campagna elettorale, sarà il Brexit day. Dal giorno dopo, infatti, inizierà il periodo di transizione che si protrarrà, con tutta probabilità, fino alla fine del 2020.
LA NUOVA INTESA COMMERCIALE GIÀ ENTRO LA FINE DI GIUGNO?
In questo lasso di tempo la situazione resterà identica all’attuale, rimarranno in vigore leggi e accordi tra l’Ue e il Regno Unito fino a quando non ne saranno negoziati altri. In particolare quelli commerciali. Secondo la Bbc, la nuova intesa commerciale tra Bruxelles e Londra dovrebbe essere pronta entro il 30 giugno 2020 e portata in parlamento entro dicembre dello stesso anno.
L’IPOTESI DI UN’ESTENSIONE DEL PERIODO DI TRANSIZIONE
Se sarà ratificata, dal primo gennaio 2021 la Brexit sarà davvero effettiva e tra Unione europea e Regno Unito sarà in vigore un nuovo accordo commerciale (e non solo). Se dovesse essere bocciata, il Regno Unito dovrà chiedere un’estensione del periodo di transizione oppure a gennaio 2021 lascerà del tutto l’Unione senza alcuna intesa. Con un largo sostegno alle spalle, in ogn caso, per Boris sarebbe più semplice perseguire una “hard Brexit” basata su un vago accordo di libero scambio, sull’esempio del modello canadese: una soluzione che allontanerebbe decisamente Londra dall’Europa e la spingerebbe verso l’anglosfera dominata dagli Stati Uniti.
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No euro da sempre, ex assistente di Gove, è l'uomo che ha inventato gli slogan Take Control e Get Brexit Done e che ha trasformato la campagna tory in perfetti meme.
Stratega e esperto social, inventore di slogan, ma anche di traiettorie politiche, creatore di video tormentoni e di nuovi consensi. Se c’è un uomo dietro altrionfo di Boris Johnson alle elezioni britanniche è lui: lo sconosciuto Dominic Cummings. Con cinque parole, Take control’ e ‘Get Brexit done‘, ha consacrato nel 2016 Johnson come leader della campagna pro-Leave e oggi ne ha fatto il vincitore assoluto della politica del Regno Unito. Cummings, è la mente dei nuovi Tory, inviso ai politici conservatori paludati che ha saputo parlare alla pancia della Gran Bretagna con messaggi semplici ma evidentemente efficaci.
PRIMO OBIETTIVO: ELIMINARE FARAGE
Ex consulente dei Tory, classe 1972, l’uomo con lo zainetto che stamani alle sette è stato ripreso dalla telecamere di mezzo mondo mentre bussava al numero 10 di Downing street come un cittadino qualsiasi ha puntato la sua strategia comunicativa, oggi come tre anni fa, su un uso massiccio dei social e un linguaggio aggressivo e non convenzionale. Aver sostituito ‘Get change‘ con ‘Take control’ nello slogan per il referendum sulla Brexit impresse una virata netta alla campagna anti-Ue, mettendo in ombra persino il re dei brexiteer Nigel Farage che, non è un caso, è uscito da questa tornata elettorale senza neanche un seggio. Gli addetti ai lavori raccontano che uno degli obiettivi di Cummings era proprio silurare Farage e il suo Brexit Party. «Se vogliamo marginalizzare quel partito dobbiamo fare campagna elettorale sul concetto niente più ritardi, realizziamo la Brexit», scrisse Cummings ai suoi in un sms ad ottobre, svelando per la prima volta l’ormai storico ‘Get Brexit done‘.
DA SEMPRE ANTI EURO, IN COPPIA PERFETTA CON BOJO
Che fosse un tipo tosto a Westminster lo avevano capito già nel 2003, quando cominciò la sua crociata contro l‘euro. I suo avversari lo deridevano chiamandolo «adolescente brufoloso», nonostante avesse 31 anni. Lui tirava dritto e sentenziava: «Avere l’euro significherebbe perdere il controllo della nostra economia». Brexit ante-litteram. Nel 2010 diventò assistente di Michael Gove al ministero dell’Istruzione e la sua carriera nel partito conservatore iniziò a decollare fino a diventare il guru elettorale di Johnson. A «match made in heaven», una coppia perfetta che, almeno per quanto riguarda la comunicazione politica, ha dato il meglio di sé nelle ultime settimane prima del voto.
LA STRATEGIA CHE GENERA MEME HA FUNZIONATO
La parodia del popolarissimo film di Natale ‘Love Actually’ (‘Brexit Actually‘), che gli avversari hanno deriso e bollato come un becero tentativo di distrarre l’opinione pubblica dai temi veri, è stato un colpo da maestro. Ed effettivamente ha distolto l’attenzione dall’ultimo scivolone di Johnson, pescato ad ignorare la foto di un bambino malato di polmonite che dormiva sul pavimento di un ospedale. Una strategia che per i Tory più snob e tradizionalisti è roba da meme (‘meme-generating behaviour‘, l’ha definita il Guardian) ma che forse proprio per questo ha regalato il Regno a Boris Johnson con numeri che per i conservatori non si vedevano dai tempi di Margaret Thatcher.
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Il leader dei Tory: «Realizzerò la Brexit entro gennaio, senza se e senza ma». Lunedì rimpasto di governo, la prossima settimana la Regina approverà l'accordo di divorzio fra Londra e Bruxelles. Poi un anno di tempo per negoziare tutti i dettagli.
Dopo lavittoria schiacciante alle elezioni anticipate in Gran Bretagna, Boris Johnson ha tenuto un discorso a Londra ai suoi sostenitori, invitando tutti a ripetere in coro lo slogan della campagna per il voto: «Get Brexit done!». E la promessa verrà mantenuta, non ci sono più dubbi: «È una decisione del popolo, inconfutabile e indiscutibile», ha scandito il leader dei conservatori, «basta con le miserabili minacce di un secondo referendum».
LE PROSSIME TAPPE PER L’USCITA DALL’UE
Lunedì 16 dicembre è previsto un rimpasto di governo, mentre la prossima settimana la Regina approverà l’accordo di divorzio fra Londra e Bruxelles. L’Europa preme per ratificarlo presto, ma poi ci sarà tempo fino al 31 dicembre 2020 per negoziare nei dettagli i termini dei futuri rapporti tra le due entità. Una partita complessa in cui si è subito inserito il presidente americano Donald Trump, che ha evocato la possibilità di firmare un nuovo accordo commerciale tra americani e britannici «potenzialmente molto più vantaggioso».
MA LA SCOZIA PUÒ SPACCARE IL PAESE
«Con questo mandato finalmente realizzeremo la Brexit, metterò la parola fine a tutte le assurdità degli ultimi tre anni. Usciremo dall’Ue entro gennaio, senza se e senza ma», ha ribadito Johnson. Le urne hanno regalato ai Tory «la più grande vittoria dagli Anni 80, quando molti di voi non erano neanche nati». Ma adesso occorre «unire il Paese», ha sottolineato il premier, ben consapevole che anche gli indipendentisti scozzesi si sono rafforzati e puntano a chiedere una nuova consultazione popolare, due anni dopo quella del 2014, per staccarsi dal Regno Unito e restare nell’Ue. Il parlamento di Westminster potrà respingere la richiesta, ma le tensioni sono destinate a crescere. «Facciamo la Brexit, ora però facciamo colazione», ha concluso Johnson con una battuta. A lui il compito di «capire che tipo di terremoto abbiamo provocato» e affrontarne le conseguenze.
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Il grande sconfitto del voto nel Regno Unito difficilmente avrà un'altra chance. Paga le ambiguità sulla Brexit e una leadership mai così incerta. Tra i Labour gia si pensa al suo erede.
Una sconfitta così, dalle parti del Labour, non si vedeva da quasi un secolo. Per la precisione dal 1935. E un fiasco di tali dimensioni, difficile anche solo da prevedere alla vigilia, non può che ricadere sulle spalle di Jeremy Corbyn, il cui futuro, all’indomani del voto del 12 dicembre, sembra già essere scritto.
DALLE RETROVIE AL CENTRO DELLA SCENA
Per decenni più noto alle piazze dei militanti che non nei palazzi, alla Camera dei Comuni, dove pure siede da quasi 37 anni, Corbyn è sempre stato l’eterno backbencher: uno di quelli seduti agli ultimi banchi, la retrovia dei battitori liberi, fra gli indisciplinati della sinistra laburista. A 70 anni suonati, il compagno Jeremy, sembrava essersi abituato al centro della scena, ma ora sarà gioco forza costretto a un passo indietro obbligatorio.
L’IDEALISMO CHE NON LO HA MAI ABBANDONATO
Alfiere del ‘no all’austerity’, pacifista e socialista mai pentito, Corbyn è arrivato all’ultima chance politica della vita con gli stessi sogni, gli stessi pregi e difetti, gli stessi abiti sdruciti della gioventù. Solo la barba si è fatta grigia, da rossa che era. E il sorriso si è come addolcito: da nonno ribelle, caro ai molti giovani millennials apparsi a frotte, nella sorpresa un po’ stizzita dei media di establishment, ad acclamarlo fin dalla campagna del 2017 al grido “Jez, we can!”. Nato a Chippenham, nel Wiltshire, figlio di un ingegnere e di una insegnante di matematica conosciutisi sulla trincea repubblicana durante la Guerra civile spagnola, Jeremy è cresciuto in un clima di attivismo politico destinato a segnarne tutte le scelte future.
LE MILLE BATTAGLIE COMBATTUTE IN PRIMA LINEA
Dopo essere stato funzionario sindacale, è diventati deputato nel collegio londinese di Islington a 34 anni. Le sue cause hanno spaziato dai diritti dei lavoratori alla pace in Irlanda del Nord e in Palestina. Per Nelson Mandela, allora in cella nelle galere di un regime razzista sudafricano trattato coi guanti dai governi di Margaret Thatcher, si è fatto pure arrestare. Paladino del disarmo nucleare, ostile all’interventismo militare (in Iraq, Afghanistan, Libia, ma anche nei Balcani), è altrettanto radicale nella vita privata. Vegetariano, astemio e ambientalista, si è sposato tre volte: dalla seconda moglie, Claudia Bracchitta, italiana, ha avuto tre figli e ha divorziato nel 1999, pare uno screzio sull’iscrizione di uno dei ragazzi a una scuola privata, da lui considerata off limits. La consorte attuale è cilena e gli ha portato in dote il micio El Gato.
LA SCALATA UN PO’ A SORPRESA ALLA LEADERSHIP LABURISTA
La svolta nel suo destino è arrivata nel 2015, quando è stato eletto a sorpresa leader dei laburisti, sull’onda del rifiuto dilagante nella base verso gli ex blairiani liberal in carriera. L’anno dopo ha stravinto una seconda sfida malgrado il fuoco amico di gran parte della nomenklatura interna. E la bandiera del Labour è rimasta così nelle sue mani, sia contro Theresa May sia contro Boris Johnson, in barba agli alti e bassi della Brexit, alle critiche alla sua leadership incerta, alle polemiche sull’atteggiamento che gli è stato imputato rispetto a certi rigurgiti di antisionismo (ma anche di antisemitismo di sinistra) nel partito.Ma il suo punto debole è probabilmente rimasto il rapporto con la platea più vasta degli elettori, la maggioranza silenziosa. Anche se pareva aver fatto breccia tra i disillusi e gli sconfitti della globalizzazione, come fra gli under 30. Il risveglio, tuttavia, è stato traumatico e adesso è difficile credere che la parabola di Jeremy non sia giunta al capolinea.
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Il Partito conservatore del premier ottiene 368 seggi, 42 in più della maggioranza. Un risultato che non si vedeva dai tempi di Thatcher. E che allontana una volta per tutte Londra dall'Ue. A picco il Labour (191), mai così male dal 1935. Corbyn al passo d'addio. Cronaca di un voto storico.
Un plebiscito per la Brexit. Il 12 dicembre il Regno Unito è andato alle urne per la seconda chiamata alle elezioni generali da quando il referendum del 2016 ha messo in moto il tribolato iter per il divorzio di Londra dall’Unione europea. E il responso è stato inequivocabile, almeno stando ai primi exit poll: Partito conservatore a valanga, con 368 seggi, 42 in più della maggioranza assoluta. Un risultato che non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher e segna invece la disfatta peggiore dal 1935 per il Labour di Jeremy Corbyn, a 191 seggi contro i 247 che contava nella Camera bassa uscente. Terza forza è lo Scottish National Party (Snp), a 55 seggi (+20). Soltanto 13 per i LibDem, unico partito convintamente pro Remain.
JOHNSON VINCE LA SUA SCOMMESSA
Le elezioni anticipate del 12 dicembre sono state volute dal premier conservatore Boris Johnson, nel tentativo di ottenere quella maggioranza assoluta in parlamento che, defezione dopo defezione, aveva visto allontanarsi sempre di più negli ultimi mesi a Downing Street e che è necessaria per portare a termine la Brexit.
Viviamo nella più grande democrazia del mondo
Boris Johnson
«Grazie a tutti nel nostro grande Paese, a chi ha votato, a chi è stato volontario, a chi si è candidato», ha commentato a caldo Johnson. «Viviamo nella più grande democrazia del mondo». Il controllo Tory sulla Camera nega ogni spazio di manovra al fronte dei partiti – in primis il Labour a trazione socialista di un Corbyn incapace di ripetere la sorpresa almeno parziale del 2017 – che s’erano impegnati a convocare un secondo referendum sull’Europa per offrire ai sudditi di Sua Maestà una chance di ripensamento.
UN PLEBISCITO A SEI SETTIMANE DALLA SCADENZA PER LA BREXIT
La strada è segnata. Il voto consegna a Johnson le chiavi di Downing Street per i prossimi cinque anni e, soprattutto, quelle di una Brexit che, tre anni e mezzo dopo il referendum del 2016, diventa sostanzialmente irreversibile. Get Brexit done, è stato il messaggio-tormentone di BoJo in queste settimane di campagna elettorale. E una fetta ben superiore alle attese degli elettori d’Oltremanica ha deciso di abbracciarlo, a sei settimane dalla nuova scadenza per il divorzio dall’Ue fissata per il 31 gennaio. L’altra faccia della medaglia è la sconfitta di Corbyn, avviato all’addio. Lo stesso cancelliere dello Scacchiere ombra, John McDonnell, braccio destro di Corbyn, non ha escluso le dimissioni nelle prossime ore.
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Il Partito conservatore del premier ottiene 368 seggi, 42 in più della maggioranza. Un risultato che non si vedeva dai tempi di Thatcher. E che allontana una volta per tutte Londra dall'Ue. A picco il Labour (191), mai così male dal 1935. Corbyn al passo d'addio. Cronaca di un voto storico.
Un plebiscito per la Brexit. Il 12 dicembre il Regno Unito è andato alle urne per la seconda chiamata alle elezioni generali da quando il referendum del 2016 ha messo in moto il tribolato iter per il divorzio di Londra dall’Unione europea. E il responso è stato inequivocabile, almeno stando ai primi exit poll: Partito conservatore a valanga, con 368 seggi, 42 in più della maggioranza assoluta. Un risultato che non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher e segna invece la disfatta peggiore dal 1935 per il Labour di Jeremy Corbyn, a 191 seggi contro i 247 che contava nella Camera bassa uscente. Terza forza è lo Scottish National Party (Snp), a 55 seggi (+20). Soltanto 13 per i LibDem, unico partito convintamente pro Remain.
JOHNSON VINCE LA SUA SCOMMESSA
Le elezioni anticipate del 12 dicembre sono state volute dal premier conservatore Boris Johnson, nel tentativo di ottenere quella maggioranza assoluta in parlamento che, defezione dopo defezione, aveva visto allontanarsi sempre di più negli ultimi mesi a Downing Street e che è necessaria per portare a termine la Brexit.
Viviamo nella più grande democrazia del mondo
Boris Johnson
«Grazie a tutti nel nostro grande Paese, a chi ha votato, a chi è stato volontario, a chi si è candidato», ha commentato a caldo Johnson. «Viviamo nella più grande democrazia del mondo». Il controllo Tory sulla Camera nega ogni spazio di manovra al fronte dei partiti – in primis il Labour a trazione socialista di un Corbyn incapace di ripetere la sorpresa almeno parziale del 2017 – che s’erano impegnati a convocare un secondo referendum sull’Europa per offrire ai sudditi di Sua Maestà una chance di ripensamento.
UN PLEBISCITO A SEI SETTIMANE DALLA SCADENZA PER LA BREXIT
La strada è segnata. Il voto consegna a Johnson le chiavi di Downing Street per i prossimi cinque anni e, soprattutto, quelle di una Brexit che, tre anni e mezzo dopo il referendum del 2016, diventa sostanzialmente irreversibile. Get Brexit done, è stato il messaggio-tormentone di BoJo in queste settimane di campagna elettorale. E una fetta ben superiore alle attese degli elettori d’Oltremanica ha deciso di abbracciarlo, a sei settimane dalla nuova scadenza per il divorzio dall’Ue fissata per il 31 gennaio. L’altra faccia della medaglia è la sconfitta di Corbyn, avviato all’addio. Lo stesso cancelliere dello Scacchiere ombra, John McDonnell, braccio destro di Corbyn, non ha escluso le dimissioni nelle prossime ore.
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Al voto del 12 dicembre la vittoria dei Tory appare scontata. La promessa di BoJo è «uscita comunque con accordo o no a fine 2020». Ma non sarà così
Il voto britannico del prossimo 12 dicembre rappresenta comunque una svolta. Assai più importante di quando, con una lunga marcia di avvicinamento durata 12 anni e bloccata due volte dal veto francese, Londrà aderì alla Cee nel 1973.
Se giovedì 12 vince alle politiche il partito Tory, diventato ormai il Conservative Brexit Party (e le probabilità maggiori sono che vinca) è l’uscita (più lenta del previsto probabilmente, ma comunque un’uscita) da qualcosa di assai più integrato e anche politicamente significativo di quanto non fosse l’Europa comunitaria del 1973. Se, miracolosamente per i pro-Ue, i Tory non arrivano alla maggioranza restando tuttavia sicuramente il maggior partito, sarebbe comunque un fatto di grande importanza e la quasi certa fine della Brexit perché, privi di alleati, non riuscirebbero a formare il governo. E gli altri sono impegnati a tenere un nuovo referendum.
Alle 23 ora italiana di giovedì 12 dicembre gli exit poll daranno le prime indicazioni e due ore dopo ci saranno i primi risultati parziali di alcuni collegi ritenuti particolarmente significativi. Si tratta di una ventina di circoscrizioni, nella zona suburbana londinese e nel Sud Ovest dell’Inghilterra dove i conservatori potrebbero perdere alcuni seggi a favore del voto filo-Ue. Ugualmente molta attenzione ci sarà sui seggi tradizionalmente laburisti delle Midlands e dell’Inghilterra settentrionale dove il partito Tory potrebbe, anzi, dovrebbe in nome della Brexit strappare vari seggi tradizionalmente laburisti ma a maggioranza contrari “da sinistra” all’Unione europea. Vincere qui è per il premier Boris Johnson indispensabile per assicurarsi una sufficiente maggioranza nel rinnovato del parlamento di Westminster.
ESISTE IL FRONTE PRO BREXIT, NON ESISTE QUELLO ANTI BREXIT
La linea ufficiale laburista è stata di “equidistanza” fra pro Europa e anti Europa, puntando invece su altri nodi, tipo il servizio sanitario nazionale la casa e l’impoverimento diffuso; è una “equidistanza” comprensibile, per alcuni aspetti, visto che un quarto circa degli elettori laburisti non ama Bruxelles e nelle circoscrizioni indicate sfiora la maggioranza, ma certamente poco utile in una competizione dove il tema Brexit è stato dominante ed è stato difficile far finta che così non fosse.
Laburisti, liberaldemocratici e nazionalisti scozzesi non sono mai stato così disuniti come in questa campagna elettorale
La forza dei Tory e di Boris Johnson è che hanno monopolizzato con un partito unito e “normalizzato” tutto il fronte pro Brexit, fatto fuori praticamente l’inventore della formula Nigel Farage, che farà fatica secondo i sondaggi a prendere una manciata di deputati e forse nessuno, e lanciato un chiaro e pressoché unico messaggio, con un contorno di promesse fantasmagoriche di spesa pubblica. Il messaggio è «facciamo la Brexit, rispettiamo la democrazia», cioè il referendum del 2016.
Il fronte opposto, laburisti e liberaldemocratici essenzialmente, più i nazionalisti scozzesi, non è mai stato così disunito come nella campagna elettorale; non offre nessuna garanzia di aver saputo concentrate bene collegio per collegio i voti sul candidato remain più vicino alla vittoria; e tantomeno offrire una visione e parole d’ordine comuni. Insomma, c’è un fronte pro Brexit ma non uno anti Brexit.
CORBYN HA POCHISSIME CHANCE DI DIVENTARE PRIMO MINISTRO
Jeremy Corbyn ha fatto campagna molto più su programmi e slogan economico-sociali. L’unica cosa chiara sul tema centrale, la Brexit, la dice quando assicura che, se vincerà, negozierà in pochi mesi un nuovo trattato, per vari aspetti sulla falsariga, si pensa, di quello che da tempo regola i rapporti fra Oslo e Bruxelles e per altri più stretto, e lo sottoporrà subito a un nuovo referendum con un quesito semplice: o il nuovo trattato di collaborazione dall’esterno con la Ue o il remain, cioè cancellare tutto e avanti come membro a pieno titolo dell’Unione. Ma l’unica cosa certa è che Corbyn non vincerà.
Corbyn rimane ancorato a idee più da Quarta internazionale (Trotzky) che da moderno Paese industriale dell’Occidente
Corbyn è il meno popolare dei leader che il Labour abbia mai avuto. Ritenuto una brava persona, assai più affidabile a livello personale di Boris Johnson «autore di una carriera fatta di bugie», come scrive il più autorevole commentatore politico del Financial Times, ma ancorato a idee più da Quarta internazionale (Trotzky) che da moderno Paese industriale dell’Occidente. Al suo fianco ha poi portato al vertice del partito esponenti della sinistra radicale come Seumas Milne, che ex colleghi giornalisti del Guardian definiscono un public school leftist, cioè un radical chic (la public schoolin Gran Bretagna è la scuola privata di rango), o come Andrew Murray, anch’egli di alti natali ma senza public school, fortemente anti occidentale e anti Israele e con molta nostalgia del ruolo ahimé finito di un’Unione sovietica guardiana della pace.
Corbyn ha in teoria qualche chance di diventare primo ministro di un governo di coalizione con liberaldemocratici e nazionalisti scozzesi cementato da poca amicizia e molta convenienza, che potrebbe rinegoziare la Brexit sottoporla a nuovo referendum e poi andare a nuove elezioni visto che solo su questo saranno d’accordo. Sarebbe una possibilità teorica se il responso di giovedì sarà un altro hung parliament, un parlamento impiccato, bloccato senza nessuno dei due partiti con almeno 326 seggi, e con una somma fra laburisti liberaldemocratici e scozzesi che arrivi almeno attorno a 330. Ma i sondaggi danno oggi a Johnson attorno a 350 deputati, per quanto sia molto aleatorio nel sistema uninominale secco britannico trasformare una intenzione di voto in seggi, e su queste cifre, se confermate, la partita è chiusa. Andrew Hawkins di ComRes, fra i più seguiti centri di sondaggio commerciale e politico, parla di 30 deputati in più rispetto al’insieme dell’opposizione.
TUTTI I SONDAGGI DANNO LA VITTORIA SICURA DEI TORY
I mercati finanziari scommettono già su una vittoria dei Tory, il mondo delle scommesse politiche, come noto in Gran Bretagna floridissimo e più che mai nel 2019, un po’ meno. La forbice è tra un 65% di scommesse a favore di Johnson e un 35% circa per Corbyn, ma attenzione, non conta solo il numero, contano molto le cifre impegnate, molto molto più alte sul lato Johnson. Quanto ai seggi a Westminster, gli scommettitori viaggiano su 338-344 per i conservatori mentre al massimo scommettono su 221+46+22 fra laburisti, liberaldemocratici e nazionalisti scozzesi, quindi 289 che, anche con l’aggiunta di una dozzina di indipendenti, non arriverebbero al minimo matematico di 326.
Le trattative per arrivare da quello che è ora solo un contratto di divorzio a un’intesa commerciale complicatissima richiederà anni, tutti i tre anni
Sembra quindi, secondo l’arte delle previsioni e anche in parte secondo l’aria che si respira, una partita chiusa, che sarà chiusa solo però nella notte del 12-13 dicembre. Una volta vinto, Johnson prenderà il suo tempo. La promessa di oggi, per scaldare i seguaci, è «uscita comunque con accordo o no a fine 2020», ma non sarà così. Le trattative per arrivare da quello che è ora solo un contratto di divorzio a un’intesa commerciale complicatissima richiederà anni, tutti i tre anni, fino al 2022, ipotizzati dal divorzio. E fino ad allora il Regno Unito sarà commercialmente parte della Ue. E poi si voterà nel 2024 e Johnson vuole restare a Downing Street almeno due mandati come Margaret Thatcher e Tony Blair e vorrà una Brexit che faccia meno danni possibili alla sua rielezione. L’uscita subito? Già prometteva di uscire il 31 ottobre vivo o morto e poi di non chiedere una proroga fino al 31 gennaio, vivo o morto, e ha fatto entrambe le cose, vivo o morto. La sua è appunto «una carriera fatta di bugie»
QUELLE FALSE CITAZIONI DI CHURCHILL FATTE DA JOHNSON
Nella campagna referendaria del 2016, dove Johnson era portabandiera del leave, fu molto utilizzata una citazione da Winston Churchill, estratta si diceva da un dibattito parlamentare dell’11 maggio 1953, con Churchill premier che parlava della Ced , la Comunità europea di difesa fra alcuni Paesi del continente che il parlamento francese avrebbe silurato nell’agosto 1954. Non ne faremo parte, diceva effettivamente Churchill, come da resoconti parlamentari, «perché siamo con l’Europa ma non dell’Europa». La citazione ampliava nel 2016, attribuendolo sempre a Churchill, questo concetto. E lo completava con un sonoro e churchilliano «se la Gran Bretagna deve scegliere fra l’Europa e i mari aperti, sceglierà sempre i mari aperti».
Si trattava di un falso. Le elaborate distinzioni su che cos’è il Regno Unito e che cos’è l’Europa e quale sia il giusto rapporto erano sì di Churchill, ma in un articolo scritto nel 1930 per l’americano Saturday Evenening Post. E la frase sugli oceani fu detta non nel ’53 in parlamento ma in uno scatto di rabbia nel maggio 1944 a un Charles De Gaulle chiamato da Algeri a Londra per illustrargli il piano Overlord (Normandia) e che poneva troppe condizioni. È arcinoto che Churchill a più riprese e con forza, dal 1947 al 1961, spinse per la piena e convinta adesione di Londra al progetto europeo. Ma Johnson, che ha scritto un libro su Churchill per crescere all’ombra del mito (ottobre 2015) ha avuto bisogno della sua versione. Falsa.
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Il leader laburista tenta di rimontare nei sondaggi negli ultimi giorni di campagna. Mentre il premier Tory si sforza di tenere le distanze da Trump, a Londra per il vertice Nato. Lo scenario.
Al summit della Nato che si è aperto a Londra il 3 dicembre, Boris Johnson non ha in programma bilaterali ufficiali con Donald Trump.
Foto e strette di mano saranno inevitabili nella due giorni. Anche qualche scambio di battute, e un incontro alla fine probabilmente si farà: Trump pressa, il premier britannico deve fare gli onori di casa per il compleanno dei 70 anni dell’Alleanza atlantica.
Ma nella settimana che precede il voto anticipato del 12 dicembre non vuole accostarsi troppo al presidente americano. Il rivale laburista Jeremy Corbyn è in rimonta, martella da mesi l’opinione pubblica con la storia del «Trump britannico» e Oltremanica non c’è nessuno di più inviso di lui. Dicono che anche la regina Elisabetta lo odi. Troppo sbracato, il tycoon, anche per una certa destra inglese che mal digerisce gli atteggiamenti esagitati così simili di BoJo.
LA FORTEZZA BRITANNICA CHE SOGNA JOHNSON
A questo proposito, il leader deiTories è sotto attacco anche per aver cavalcato maldestramente l’attentato sul London Bridge. Ha annunciato frontiereblindate e lo screening dei passaporti per tutti. Ma non potrebbe fare altrimenti: da tempo non si vedeva una campagna così mediatica nel Regno Unito, ognuno si gioca il tutto per tutto. Johnson, ancora davanti di 10 punti ai laburisti, fomenta l’elettorato euroscettico. L’ultima mossa è il programma di visti d’ingresso simili a quelli degli Usa, anche per cittadini dell’Ue che una volta compiuta la Brexit entro il 31 gennaio 2020 (e trascorso il periodo di transizione entro il 31 dicembre 2020) dovranno pagare per un weekend a Londra. Naturalmente, esibendo un passaporto biometrico, perché la carta d’identità facilmente falsificabile non basterà più. Schedati, nella fortezza britannica potranno restare al massimo tre mesi. «Tolleranza zero» per gli irregolari.
LA STRUMENTALIZZAZIONE DELLA TRAGEDIA DEL LONDON BRIDGE
A chi, nel Labour e tra i LibDem, gli rinfaccia che il terrorismo viene più dall’interno che da fuori confine, BoJo risponde contestando le misure troppo blande sui detenuti come nel caso dell’attentatore ucciso il 29 novembre. Un attacco allo Stato poco opportuno che, nella composta Londra capace di essere eroica oggi come ieri – contro i nazifascisti come contro l’Isis -, gli è costato l’accusa di strumentalizzare una tragedia nazionale a fini politici. Nella «totale mancanza di rispetto per le vittime e i loro famigliari», rimproverano i LibDem. Sui fatti di Londra anche lo scatenato Corbyn ha mantenuto i toni bassi, lasciando parlare il padre del 25enne Jack Merritt morto nell’attacco, e che era impegnato nella riabilitazione dei detenuti come attentatore Usman Khan. «Jack sarebbe livido nel vedere la sua morte, e la sua vita, usate per perpetuare l’agenda di odio che ha sempre combattuto», ha scritto in una lettera al Guardianche ha fatto molto scalpore. Boris Johnson
PAROLA D’ORDINE: TOLLERANZA ZERO
Per Johnson vale il detto di Oscar Wilde: «Bene o male, basta che se ne parli». In un’intervista alla Bbc aveva scaricato sul Labour la responsabilità del rilascio del 28enne Khan, condannato per terrorismo nel 2012 e in libertà vigilata dal 2018 con il braccialetto elettronico. Su detenuti pericolosi come lui, britannico di origini pakistane legato gruppi jihadisti, il premier si è impegnato ad abbandonare «il sistema di rilascio automatico a breve». «Bisogna essere realisti», ha tuonato. E quindi tolleranza zero anche sul suolo britannico per chi commette reati gravi, è il messaggio che BoJo vuol far passare nel rush elettorale per i cittadini affamati di sicurezza. Guai però a toccare il tasto della sanità pubblica, un pilastro del Regno Unito che porta o toglie milioni di voti. Proprio lì Corbyn semina il panico, sventolando ai comizi 451 pagine di dossier su presunte trattative dei premier May e Johnson per svendere il servizio sanitario agli Usa, dopo la Brexit.
IL TOTEM DELLA SANITÀ PUBBLICA
Nominato premier, per prima cosa quest’estate Johnson ha promesso quasi 2 miliardi per risanare una ventina di strutture sanitarie. E in autunno ha rincarato la dose annunciando 15 miliardi di euro di investimenti in 40 nuovi ospedali. Uno specchietto per le allodole anche per il think tank britannico Nuffield Trust specializzato in sanità, che se da un lato non rileva piani del governo per cedere degli asset alle corporation americane, dall’altro con la Brexit stima un mercato allargato per le case farmaceutiche di Oltreoceano. Per Johnson c’è un altro buon motivo per non farsi riprendere troppo accanto a Trump: anche sulla difesa del clima, diventato un trend di massa, i due leader hanno posizioni diverse. Il paradosso è che Trump, accanito fan della Brexit, non smette di cercare il premier britannico e di sbilanciarsi sul voto inglese. Un assist perfetto al Labour.
L’ULTIMA DI CORBYN? RINAZIONALIZZARE BRITISH TELECOM
Il rosso Corbyn nero sondaggi veleggia tra il 33 e il 34% mentre i Tory di Johnson sul 42-43%. Ma lo «stalinista», come lo addita BoJo, è un mago delle rimonte. In campagna Corbyn, Johnson e Trump sono più simili di quanto non si creda e l’elettorato è molto fluido: nulla è ancora detto, frenano gli analisti. Sono chiaramente fuochi d’artificio da campi opposti: l’ultimo di Corbyn è il piano per «rinazionalizzareBritish Telecom, assicurare la banda larga gratis a tutti, tassare giganti della Rete come Google, Amazon e Facebook». Uno choc per i mercati: all’annuncio le azioni di Bt, privatizzata da Margaret Thatcher, sono crollate al 3,7%, per mezzo miliardo di valore bruciato. Ma le telecomunicazioni sono il «core business del 21esimo secolo, guai a lasciarlo alle multinazionali», ammetterebbe anche BoJo.
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I 4,1 milioni di nuovi elettori sono un'ottima notizia per il leader laburista, popolarissimo tra i ventenni. Mentre l'Snp apre a un'alleanza progressista contro Johnson.
Oltre 4 milioni di nuovi elettori. A loro si aggrappa il partito laburista di Jeremy Corbyn per rovesciare il tavolo e sorprendere il premier conservatore Boris Johnson alle elezioni britanniche del 12 dicembre. Il dato rappresenta un record, nel 2017 furono 2,9 milioni. Su questo voto giovanile fa leva il Labour contro i conservatori favoriti dai sondaggi. Di quei 4,1 milioni di nuovi elettori i tre quarti sono under 34: una platea che 2 anni fa aveva quasi fatto saltare il banco portando i laburisti a un 40% non previsto da nessuno, con tassi di consenso pro-Corbyn fra i ventenni a livelli da plebiscito. Il dato va preso con le molle, anche perché le nuove iscrizioni vanno validate. Ma comunque rischia di minacciare i piani di BoJo, che per vincere le elezioni (e onorare la promessa di attuare la Brexit entro Natale) ha bisogno di assicurarsi una maggioranza assoluta di seggi nella nuova Camera dei Comuni. Al Labour e al resto delle opposizioni potrebbe invece anche bastare il risultato di un parlamento frammentato.
OCCHI PUNTATI SULLA SANITÀ
Per recuperare consensi Corbyn ha giocato la carta di una conferenza stampa sulla difesa della sanità pubblica (Nhs), uno dei suoi cavalli di battaglia più popolari. E ha svelato 451 pagine di documenti riservati sui negoziati preliminari fra i governi Tory e l’amministrazione di Donald Trump sui temi di un futuro accordo bilaterale di libero scambio post Brexit che sembrano almeno in parte accreditare lo scenario d’ipotetici cedimenti a infiltrazioni delle corporation Usa negli ospedali del Paese. La conferma che «la Nhs sarà messa in vendita», nelle denunce laburiste liquidate da Johnson come «assurdità e bugie». Corbyn poi ha incassato l’apertura degli indipendentisti scozzesi dell’Snp – potenzialmente cruciali nel parlamento del dopo 12 dicembre – all’idea di «un’alleanza progressista»: l’appoggio a un eventuale governo Corbyn di minoranza cementato dall’obiettivo comune di un secondo referendum sulla Brexit, pur con la condizione-capestro ripetuta dalla first minister di Edimburgo, Nicola Sturgeon, di un parallelo bis referendario sulla secessione della Scozia pure nel 2020.
TORNANO LE ACCUSE DI ANTISEMITISMO
Segnali di incoraggiamento che tuttavia non cancellano il coro ostile anti-Jeremy dei media mainstream, rilanciato dalle accuse di appeasement verso «il veleno» di certi rigurgiti «anti-ebraici» scagliate il 26 novembre contro il numero uno laburista dal gran rabbino del Regno Unito, Ephraim Mirvis. Accuse da cui Corbyn ha tentato di difendersi in un’affannata intervista alla Bbc di fronte alle incalzanti domande di Andrew Neil, ex firma del conservatore Spectator, condannando con forza l’antisemitismo. Ma ostinandosi a non rinnovare le scuse rivolte alla comunità ebraica un anno fa. Scuse che invece Boris s’è d’un tratto affrettato a fare, dopo essersi rifiutato per mesi, sui fenomeni d’islamofobia imputati ai Tory. Un modo per lasciare al solo Corbyn l’etichetta di “cattivo”.
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Il premier britannico, noto per la sua inaffidabilità fin da quando era giornalista, non è così amato come alcuni sondaggi potrebbero far pensare. E i risultati potrebbero vedersi in un voto anticipato che s'annuncia sul filo.
La Brexit non è soltanto un programma politico monotematico che ha fatto ormai dei conservatori un Brexit party. Le elezioni politiche anticipate che si stanno avvicinando (12 dicembre) sono sia un secondo referendum sia una persona, una fisionomia umana non sgradevole, un po’ sovrappeso e tozza, uno stile spesso efficace ma non sempre ispiratore di vera fiducia, ricco di promesse di un futuro radioso ma vago. Tutto questo si chiama Boris Johnson.
È un ruolo al quale l’ex sindaco di Londra, piuttosto popolare, ed ex inefficace ministro degli Esteri , deputato dal 2015, si prepara da 30 anni. Ha incominciato a farlo come corrispondente per cinque anni da Bruxelles del Daily Telegraph, quotidiano ufficioso e quasi ufficiale del nazionalismo conservatore britannico. Boris arrivava a Bruxelles nel 1989 pochi mesi prima che vi arrivasse, per un quotidiano italiano, anche l’autore di queste note. Gli uffici erano vicini, Boris sempre favorevole a una pausa dal computer e a una birra, pronto alla battuta, e fonte inesauribile di pettegolezzi comunitari. Della cui attendibilità tuttavia, facevano presto capire i suoi colleghi britannici, non c’era garanzia. Maliziosamente qualcuno ricordava che aveva incominciato poco più di un anno prima il suo percorso nel giornalismo al Times, abituale trampolino dei rampolli della storica élite del Paese – Johnson ovviamente ha fatto Eton, e poi Oxford – , ma era stato licenziato dopo un’intervista in parte inventata. Bruxelles era una destinazione per lui naturale, perché lì era cresciuto, figlio di uno dei primi eurodeputati britannici, poi funzionario Cee.
BORIS, UN CABARETTISTA CON BRUXELLES NEL MIRINO
L’attuale premier era nella Bruxelles dei corrispondenti il perno di alcune serate cabarettistiche che soprattutto i britannici, come noto appassionati del palcoscenico, organizzavano per la comunità dei giornalisti, e affini, e dedicate ovviamente a smitizzare e ridicolizzare la burocrazia europea, che offriva ampi spunti. Cavalcò alla grande all’inizio della sua corrispondenza la storia della standardizzazione europea non solo dei preservativi, ma anche, di conseguenza sosteneva lui, delle dimensioni di ciò che lo strumento profilattico doveva preservare. Era ovviamente una pochade, nata da una mossa comunitaria per garantire standard sanitari minimi al suddetto prodotto gommoso, capaci di assicurare protezione contro l’epidemia di Aids allora agli inizi. Non c’entravano “misure” o cose simili, ma Johnson usò il tutto per ridicolizzare Bruxelles. Era una delle sue tattiche preferite.
I suoi interventi più che porre precise domande ai portavoce erano mirati a far ridere la platea, citando stranezze comunitarie che poi gli articoli sul Telegraph riportavano, enfatizzavano, travisavano
Boris, quando voleva, era la star dell’ampia sala stampa al quotidiano briefing di mezzogiorno nel palazzo Berlaymont e, dal 2001, nel vicino palazzo Breydel, dove il tutto si trasferiva per disinfestare il Berlaymont dalle oltre 1.000 tonnellate di amianto nascoste nelle strutture, e rifarlo ex novo. I suoi interventi più che porre precise domande ai portavoce erano mirati a far ridere la platea, citando stranezze comunitarie che poi gli articoli sul Telegraph riportavano, enfatizzavano, travisavano. Con buon successo fra molti lettori euroscettici e conservatori. Per capire il binomio Boris-Europa occorre ricordare che nel novembre di quell’anno cadeva il Muro di Berlino, e rapidamente tutto il mondo europeo cambiava paradigma, accelerava, e andava oltre quel modello di mercato comune. Occorre anche ricordare qualcosa di quando e come era avvenuto l’ingresso britannico nella Cee.
IL PERCORSO EUROPEO DI LONDRA, DA CHURCHILL A THATCHER
Winston Churchill aveva tracciato nel primo Dopoguerra, anticipando gli inviti continentali a unirsi ai tentativi europeisti, una linea chiara, che però ancora oggi una parte dei suoi connazionali si rifiuta di accettare: se riusciamo a salvare una quota sufficiente dell’Impero stiamo per conto nostro, diceva Churchill che pure sollecitava i continentali a unirsi fra loro; se lo perdiamo ci uniamo agli altri, ma in modo convinto e cercando di essere fra i leader. Dopo vari no all’Europa del governo di Clement Attlee, nazional-laburista e timoroso che i democristian-centristi continentali limitassero l’esperimento socialista britannico, furono i conservatori con due collaboratori e allievi di Churchill, Harold Macmillan ed Edward Heath, a iniziare a fine Anni 50 la lunga marcia che, anche per i ripetuti veti francesi, si concluderà solo nel 1973. Il motivo della conversione era lampante: il mercato comune funzionava, la Gran Bretagna nel 1951-1973 aveva avuto con il 2,7% per anno la crescita media più bassa fra tutti i Paesi Ocse; Germania, Francia e Italia si erano attestate sul 5% annuo o sopra.
LA CONTRADDIZIONE MAI RISOLTA TRA COMMERCIO E POLITICA
Già allora era chiaro però che se c’era una netta maggioranza a favore del mercato comune, con Margaret Thatcher assolutamente in prima fila per trasformarlo 10 anni dopo o poco più nel mercato Unico, c’erano forti resistenze alla cessione di sovranità politica che inevitabilmente lo stesso mercato, comune e poi unico, alla fine implicava. In un discorso emozionale del 1962, ricco di riferimenti al Commonwealth e alla comunità mondiale anglofona, il leader laburista Hugh Geistkell aveva ricordato che il progetto europeo era «la fine di 1.000 anni di indipendenza» per le isole britanniche e invitato a riflettere. Nel 1975 il referendum sulla Ue voluto dal nuovo governo laburista di Harold Wilson passava con una maggioranza del 67%. Ma il Regno Unito, e gli inglesi in particolare, non hanno mai risolto la contraddizione tra il desiderio commerciale di stare nel grande mercato europeo e il desiderio politico di restare pienamente indipendenti. Non a caso una buona quota di funzionari britannici dell’Ue ha sempre remato contro qualsiasi cosa potesse limitare l’autonomia di scelta del Parlamento e dell’amministrazione britannica.
Non appena fu chiaro, e fu chiaro subito nel 1989, che la fine del sistema sovietico implicava non solo l’allargamento, che da Londra ampi settori politici favorivano sperando si trasformasse in una diluizione della Ue, ma anche l’approfondimento di strutture e obiettivi sul piano politico, scattò la reazione. E incominciò a organizzarsi l’armata anti-Ue che conta ora il 12 dicembre di vincere lo scontro decisivo. Thatcher doveva cedere nel 90 la premiership, messa in minoranza nel partito proprio dai filo-europei. Ma avrebbe da allora, e in crescendo, coltivato un lascito fortemente anti-Bruxelles («nel corso della mia vita tutti i guai sono venuti dal Continente», dichiarava nel 1999) di cui Johnson è oggi esponente e bandiera.
TUTTO RIDOTTO A UNA QUESTIONE DI ORGOGLIO NAZIONALE
Esponente autorevole? Non tutti i suoi articoli da Bruxelles erano propaganda e falsità. Se prendiamo ad esempio uno (Delors plan to rule Europe) scritto del maggio 1992 sul piano Delors di riforma della Commissione e del Consiglio, con evidente estensione dei poteri, Johnson ammette che si stava cercando di affrontare «un problema reale» anche se per Londra, aggiungeva, «in modo inaccettabile». E il suo articolo di addio a Bruxelles, marzo 1994, era un elenco di casi nei quali Londra aveva subìto scelte collettive e si concludeva con la previsione che i britannici avrebbero tollerato sempre meno decisioni prese «in a foreign city». Il tutto era ridotto a orgoglio nazionale, senza mai negare che l’interesse economico fosse invece sul lato dell’appartenenza alla Ue. Amato e scelto come premier con un voto da quasi i due terzi dei 160 mila iscritti al partito, considerato dal gruppo parlamentare il più attrezzato a realizzare dopo oltre tre anni inutili l’attesa Brexit, Johnson non gode nel suo Paese di profonda stima.
BOJO VISTO DAL SUO EX DIRETTORE AL TELEGRAPH
«Non è un uomo in cui si possa credere, che ispiri fiducia o rispetto, salvo che come superlativo esibizionista», scriveva nel 2012 il suo ex direttore del Telegraph, Max Hastings, uno dei più noti e autorevoli giornalisti britannici. «La sua elevazione alla premiership», aggiungeva nel giugno 2019, «vorrà dire la fine di ogni pretesa britannica di essere un Paese serio». I sondaggi di opinione danno Boris e i conservatori ampiamente vincenti. La media delle scommesse, sondaggio forse più attendibile, dice che c’è al 60% la vittoria conservatrice e al 30% un hung parliament, un risultato senza vincitori, da cui emergerebbe un governo di coalizione con il leader laburista Jeremy Corbyn, persona onesta dicono a Londra ma troppo complicato (vuole anche lui un nuovo socialismo britannico), per parlare chiaro al Paese. Corbyn ha dopo il voto potenziali alleati, anche se adesso giurano che mai lo aiuteranno. Johnson no.
IL PALLOTTOLIERE CONSERVATORE E QUEI NUMERI SUL FILO
Se i pronostici spesso danno Boris vincitore, e anche con ampio margine, i numeri parlamentari invitano alla prudenza. A Westminster la maggioranza è di 326 deputati, ne servono almeno 330 per un minimo di margine; i conservatori uscenti erano 298, e tra Scozia e area londinese più Southwest England i Tory potrebbero perdere ancora circa 25 seggi. Devono quindi portarne via nelle Midland e nel Nord inglese circa 50, ai laburisti essenzialmente. Forse sarà semplice. E forse non sarà una passeggiata.
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A sorpresa i due leader pareggiano nell’agguerrito duello tivù per le Legislative. I progressisti perdono consensi tra i Libdem. Mentre il Labour non si decide sul divorzio dalla Ue.
ll fermo immagine più esaustivo del sorprendente duello in tivù del 19 novembre tra Boris Johnson e Jeremy Corbyn è sul pubblico che ride. Più volte e a più riprese, fragorosamente. Che si ricordi in Gran Bretagna non si era mai riso tanto a un dibattito tra leader politici, come al primo duello andato in scena Oltremanica tra un primo ministro e un capo dell’opposizione. Lo scontro in vista del turbolento voto nazionale del 12 dicembre 2019 ha avuto quasi 7 milioni di spettatori incollati allo schermo (5 milioni in più dei faccia a faccia tra i leader minori) e l’inatteso risultato di un pareggio. Nei sondaggi il premier pirotecnico è in vantaggio di almeno 10 punti (42%) sul capo dei laburisti (32%), Le previsioni di YouGov sul duello erano ancora più sbilanciate verso il leader dei conservatori (37%): appena il 23% del campione si immaginava che Corbyn potesse fare meglio di “BoJo”. Invece la percentuale si è quasi ribaltata con un 49% di gradimento per Corbyn e un 51% per Johnson.
IL NUCLEARE SULLA BREXIT
Anche la Bbc è del parere che non ci siano vincitori. Corbyn si è dimostrato aggressivo quanto il premier per la turbo Brexit: lo ha attaccato da mastino sulla sanità, proponendo al pubblico affamato una svolta. Ma la verità è che tutti sono stufi e nessuno ha un’idea di come andranno le Legislative più drammatiche della democrazia britannica: l’elettorato è mobile, disilluso, frammentato. lo dimostra anche la bufera sui Libdem, terzo partito rivelazione delle Europee di quest’anno, scatenata dalla leader Jo Swinson «pronta se necessario a usare l’atomica», ha dichiarato in tivù subito dopo il duello. E ci mancava il nucleare: Swinson aveva molti punti a suo favore (prima donna in capo ai Libdem, più giovane leader politico britannico di sempre, calamita degli anti-Brexit) per calare la carta del rinnovamento, ma si sta alienando molte simpatie per l’imprudenza nelle dichiarazioni. Dall’estate i Libdem sono scesi dal 20% al 15% nei sondaggi.
I LIBDEM HANNO UN PROBLEMA
Swinson, europeista thatcheriana, vuol marcare le distanze dalla sinistra. Ma la scelta non paga. La leader indipendentista Nicola Sturgeon, scozzese come Swinson, è inorridita dal «test di virilità nauseante» del bottone dei Libdem sull’atomica: «La mia risposta a uccidere milioni di persone sarebbe stata no». Un fossato tra Swinson e la socialista Sturgeon, rossa governatrice di Edimburgo, significa minor compattezza nelle barricate a Westminster contro la Brexit: gli indipendentisti scozzesi sono una forza cruciale anche nel parlamento di Londra. Con “BoJo” al governo hanno anche ripreso a puntare i piedi sulla secessione: nel dibattito il premier uscente ha accusato Corbyn di volersi alleare con i nazionalisti scozzesi di Surgeon, per chiedere un referendum, e ha ammesso che «preservare il Regno Unito è più importante che compiere la Brexit». Una priorità: la deregulation nell’isola è uno dei rischi peggiori – e concreti – della Brexit.
Al duello Corbyn ha demolito il piano dei 40 nuovi ospedali promessi dal leader conservatore
LA BATTAGLIA SULLA SANITÀ
I sostenitori più accaniti del leave lo antepongono anche all’unità nazionale. Sarebbe una catastrofe e Johnson frena, ma così rischia di perdere consensi verso il Brexit Party (5%)di Nigel Farage. Viceversa, in Scozia diversi elettori conservatori – pro remain – come già dei deputati potrebbero mollare i tory. Da parte sua Corbyn nega di spalleggiare gli scozzesi, ma certo sui temi sociali è più vicino ai separatisti di Edimburgo che non ai Libdem: il suo Labour anticapitalista fa la guerra alla «società di miliardari e di persone molto povere», è per la «fine dell’austerità» e per un welfare granitico. Al duello Corbyn ha demolito il piano dei 40 nuovi ospedali promessi dal leader conservatore. Un documento (smentito da Johnson) proverebbe incontri segreti tra l’ultimo governo e investitori statunitensi pronti a entrare nel sistema sanitario britannico, con nuovi accordi commerciali bilaterali, non appena verrà archiviata la Brexit.
ELETTORATO INSOFFERENTE
L’impopolarità di Swinson tra i progressisti è acqua al mulino del Labour, che tuttavia sull’uscita dall’Ue non riesce a inviare messaggi chiari. Neanche al faccia a faccia: incalzato da “BoJo”, Corbyn ha affermato di voler rinegoziare una Brexit migliore con Bruxelles e di sottoporla a un nuovo referendum, con l’opzione anche di restare nell’Ue. Ma non ha detto se è per leave o per il remain. Schierarsi, equivarrebbe a perdere la fronda dei laburisti euroscettici, preziosa anche per i tory. Ma allora non c’è da stupirsi se alla dichiarazione di «voler unire il Paese, non dividerlo» il pubblico è scoppiato a ridere. Come all’esclamazione di Johnson: «La verità è importante per le elezioni!». Spenti i riflettori, gli spettatori hanno commentato di non poterne più dei politici. Ben vengano le belle intenzioni, ma poi Labour, scozzesi e Libdem troveranno una sintesi per la convivenza? E le promesse di BoJo hanno fondamento, la Brexit è possibile entro il 31 gennaio?
Un’altra insidia del voto la localizzazione dell’elettorato britannico pro e contro la Brexit
VOTO A MACCHIA DI LEOPARDO
Come David Cameron, l’ex sindaco di Londra si gioca la carriera politica sulla tabella di marcia. Battuto da Westminster, Johnson ha mandato il Paese alle urne per ricompattare itory sul leader e crearsi un parlamento amico. È verosimile che la spunterà: anche scendendo sotto il 42% di Theresa May è molto difficile che il Labour arrivi al 40% del 2017. Ma sarà una vittoria di misura tra una popolazione sempre più lacerata: un’altra insidia è la localizzazione dell’elettorato britannico in macroaree pro e contro la Brexit. Scozia e Londra (e altre città inglesi) per il remain, come oltre la metà dell’Irlanda del Nord tornata calda. Galles e Inghilterra per il leave. E nel sistema elettorale britannico, conta il prevalere di una forza sull’altra nei collegi, non importa con quale percentuale. L’80% di un collegio vale i deputati del 51% di un altro. Il prossimo match tra “BoJo” e Corbyn è il 6 dicembre, verso le Legislative di un altro voto schizofrenico sulla Brexit.
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Secondo i sondaggi i conservatori sono in netto vantaggio. Se alle elezioni del 12 dicembre BoJo arrivasse alla soglia di sicurezza di 330 seggi, allora Londra procederebbe con un taglio netto delle trattative con Bruxelles.
Fra un mese avremo scoperto se Boris Johnson e i suoi conservatori hanno stravinto, vinto, o perso le elezioni politiche del 12 dicembre e solo nel primo e nel secondo caso potremo dire che il nodo Brexit è stato sciolto. Si saprà venerdì 13 dicembre. Probabilmente ci sarà, ma potrebbe anche non esserci, una risposta chiara – sì alla Brexit – e finirà, o passerà alla fase due, questalunghissima tragicommedia amletica che la politica britannica ha messo in scena per la delizia di pochi e la noia, ormai, di molti.
I CONSERVATORI GUADAGNANO CONSENSI
La prima cosa certa è che i conservatori aumenteranno i consensi rispetto ai meno di 300 (causa defezioni ed espulsioni) deputati attuali e se sfuggirà loro la maggioranza sarà per un soffio, mentre sembrano invece destinati a conquistarla con margini di tutta tranquillità. E la seconda certezza è che i laburisti sicuramente non vinceranno e potrebbero perdere malamente, inanellando la quarta sconfitta consecutiva in meno di 10 anni. Nonostante questo però se i conservatori non hanno il balzo sperato e indicato oggi dai sondaggi, il molto problematico leader laburista Jeremy Corbyn potrebbe riuscire a ottenere la premiership come capo di un governo di coalizione formato da laburisti, liberaldemocratici e nazionalisti scozzesi, oggi l’un contro l’altro armati (soprattutto laburisti e liberaldemocratici che mai si sono amati) ma difficilmente capaci di resistere alla tentazione di fare di Boris Johnson il capo dell’opposizione.
A metà novembre tutto sembra ancora possibile anche se la vittoria dei conservatori è data per molto, molto più probabile di una loro sconfitta. Il giudizio più elaborato dei maggiori esperti elettorali britannici concorda con quello più grezzo e istintivo degli scommettitori, scatenati su un evento come questo secondo referendum Brexit sotto le mentite spoglie di elezioni politiche anticipate. In questi giorni gli scommettitori danno a Johnson il 62% di probabilità di una maggioranza, vedono al 35% la possibilità di un parlamento senza maggioranza e quindi forse una coalizione anti-Tory a guida laburista, e danno solo il 3% all’ipotesi di una supremazia corbynista.
TRA CORBYN E JOHNSON È GARA DI IMPOPOLARITÀ
Secondo il professor Sir John Curtice della Strathclyde University, massima autorità di meccanismi elettorali, una certezza è che i laburisti hanno zero possibilità di uscire primo partito dal voto, e non solo per la scarsa popolarità del loro leader Corbyn, poco apprezzato da almeno tre quarti dell’elettorato. Nemmeno Boris Johnson è amato e tantomeno rispettato, a parte il nocciolo più duro dei brexiteerconservatori che sperano da lui la vittoria nella crociata nazionalista. La conclusione dice Curtice è che siamo di fronte a una «gara di impopolarità».
I sondaggi danno i conservatori poco sotto quota 40% con una dozzina e oltre di punti di distacco dai laburisti; terzi ben sotto il 20% i liberldemocratici e quarti, ma sotto il 10% e in continua erosione, i “faragisti” del Brexit party di Nigel Farage, svuotato da un partito conservatore diventato altrettanto brexiteer. Ci sono poi i nazionalisti scozzesi, terzo gruppo parlamentare della legislatura appena conclusa dopo conservatori e laburisti, ma sono un caso a parte, geograficamente delimitato. Potrebbero comunque pesare in una coalizione, nel caso di un difficile ma non impossibile semiflop dei consevatori, perché aumenteranno i consensi tornando ai circa 50 deputati che conquistarono nel 2015.
LA PARTITA DEI COLLEGI LOCALI
Nel sistema elettorale britannico i sondaggi nazionali sulle intenzioni di voto possono facilmente essere smentiti da una serie di realtà e personalità locali nei 650 collegi dove vige il maggioritario secco e prende il seggio chi ha più voti senza nessun tipo di recupero nazionale per quelli che seguono. Gli esperti, e Curtice fra questi, considerano quindi anche le dinamiche nei collegi più contendibili e la conclusione è che al momento Johnson può contare, teoricamente, su una maggioranza sicura in grado di consentirgli di portare avanti la Brexit che vuole, e cioè probabilmente fra un anno una hard Brexit con poche o nulle intese con Bruxelles. Qualcuno parla di 360-370 seggi ai conservatori, oggi tutti brexiteer dopo la recente espulsione a ottobre dei moderati.
A CACCIA DELLA SOGLIA DI SICUREZZA DI 330 DEPUTATI
Per governare con un minimo di tranquillità occorrono, nel parlamento di 650 seggi, non meno di 330 deputati che sono quanti David Cameron conquistò nel voto del 2015 e quanti ne aveva il suo successore Theresa May quando nel giugno del 2017 andò al voto anticipato per rafforzarsi e finì invece per perderne 13. Le previsioni fatte allora furono clamorosamente smentite; due settimane prima del voto ai conservatori venivano attribuiti 364-396 seggi e il giorno del voto 337-366 con un solo analista/sondaggista, YouGov, che diceva 302. Ai laburisti invece ne venivano attribuiti prima 180-212 e poi 207-227 e ne ebbero 262.
L’IDENTITÀ CONFUSA DEI LABURISTI
È anche sulla base di questo clamoroso precedente, appena due anni fa, che molti sono restii a dare per scontata la netta vittoria di Johnson e della sua Brexit ma le cose in due anni sono cambiate. Soprattutto c’è un partito laburista che non ha saputo dare agli elettori una chiara prospettiva, a forza di non voler scegliere fra leaveeremainper paura di alienare una delle due anime che lo abitano, e per rispondere alle complicazioni mentali del suo leader Corbyn che vorrebbe una “sua” Brexit tutta a sinistra ma ha fra le mani un partito a maggioranza remain. Mentre nel 2015 il Labour è andato assai meglio del previsto perché riusciva a sembrare un remain party ai remainer e un leave party ai leaver, oggi rischia di andare male o anche malissimo perché sembra diventato un leave party ai remainer e un remain party ai leaver. E questa è solo una delle differenze con due anni fa.
I DUE SCENARI POSSIBILI
Per il professor Curtice esistono due scenari: o una netta vittoria di Johnson e la partita è chiusa, o un parlamento bloccato senza chiara maggioranza. Per farcela i conservatori devono mantenere nei sondaggi fino all’ultimo un distacco di almeno 7-6 punti sui laburisti. Se finiranno sotto i 320 deputati hanno perso, se saranno a 320 o due o tre sopra avranno bisogno del sostegno degli Unionisti dell’Irlanda del Nord, come ha fatto May dopo il 2017, e non sarà facile perché gli Unionisti si sentono abbandonati dalla Brexit di Johnson. In questo scenario non è impensabile un governo di coalizione, con pochi seggi di maggioranza, fra laburisti, scozzesi e liberaldemocratici, guidato da Corbyn, finché dura, fino alla negoziazione cioè di una “nuova” Brexit e al referendum popolare che la accetta o preferisce il remain. Ma è un’ipotesi appesa a un filo. Per ora Johnson è in netto vantaggio.
LE CONSEGUENZE DELLA HARD BREXIT DI BOJO
La conseguenza sarebbe, probabilmente, un taglio traumatico dopo un anno di stentate trattative. Johnson e i suoi vogliono una Gran Bretagna corsara che porti via business al continente con una deregulation spinta e una tassazione competitiva per le imprese e i ricchi. È più che possibile che la maggioranza degli inglesi, in particolare gli inglesi che sono però la grandissima maggioranza dell’elettorato del Regno Unito, li segua. È chiaro, o dovrebbe esserlo, che fuori dalla Ue il Paese si isola, e comunque vada non sarà facile sostituire un mercato come quello attuale europeo, a totale libero accesso. Ma domina una grande ubriacatura di nazionalismo, con il sogno di un impossibile ritorno al passato e un disprezzo molto inglese per i continentali, oltre che per gli scozzesi e altri.
«È strano per un Paese scegliere di essere meno prospero e di pesare meno nel mondo», scrive Chris Patten, l’ultimo governatore britannico di Hong Kong, ex commissario Ue e oggi Chancellor dell’Univerisià di Oxford. «Alcuni dicono che non ha importanza. Ma vediamo che cosa succederà quando avremo meno soldi per tutto ciò che vogliamo fare come Paese e come individui. Le promesse e le previsioni legate alla Brexit verrano presto testate dalla realtà. Quando lo saranno, non vorrei essere uno dei brexiteer di Boris Johnson».
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