In Cina non c’è repressione: parola del Blog di Grillo

Mentre il New York Times pubblica documenti che dimostrano la ferocia di Pechino contro gli uiguri dello Xinjiang, l'articolo di Parenti sposa la propaganda di Pechino. E bolla l'inchiesta come una fake news frutto di un complotto.

Proprio mentre il New York Times svela il contenuto di oltre 400 pagine di dossier riservati del governo cinese sulla feroce repressione della minoranza musulmana degli uiguri nella regione dello Xinjiang, grazie a uno straordinario lavoro di giornalismo d’inchiesta e a quella che è una delle più grandi fughe di notizie da Pechino degli ultimi decenni dopo i famosi Tienanmen papers, notizie opposte arrivano da un articolo pubblicato sul “vangelo grillino”, il Blog di Beppe Grillo. 

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LE FAVOLE SULLA PACIFICA CONVIVENZA NELLA REGIONE

Il contenuto dell’articolo è a dir poco sconcertante. È firmato da Fabio Massimo Parenti, professore associato dell’Istituto Internazionale Lorenzo de’ Medici a Firenze, che cita a sua volta un libro scritto proprio sullo Xinjiang da Maria Morigi (i due spesso scrivono insieme), archeologa e insegnante, la quale ha sostenuto, in una recente intervista, che nella regione ci sarebbe «una buona convivenza tra han e uiguri e non si percepisce alcun tipo di discriminazione» («come si legge continuamente sulla stampa occidentale», chiosa di suo Parenti). Mentre, sempre Morigi dice: «Sono rimasta colpita dal plurilinguismo adottato metodicamente in segnali stradali, avvisi, musei, parchi e luoghi pubblici»; «ho verificato che nelle scuole è praticato il bilinguismo per facilitare anche altre minoranze, oltre a quella uigura; assistendo a lezioni collettive in preparazione di eventi pubblici, ho notato quanto i piccoli studenti e gli educatori si impegnino a dare il meglio di sé»… Il Paese dei Balocchi, insomma, altro che feroce repressione!

«NESSUNA PIETÀ»: GLI ORDINI DI XI JINPING

Tra le carte diffuse dal Nyt, invece, ci sono anche alcuni discorsi del presidente Xi Jinping che nel 2014 esortò a non avere «alcuna pietà» nei confronti degli uiguri, e persino un sorta di “manuale” a uso della polizia politica dello Xinjiang per spiegare agli studenti perché i loro cari fossero spariti da casa. Al rientro dal semestre scolastico, gli studenti venivano avvicinati dai poliziotti già alla stazione, dove veniva loro detto che i genitori si trovavano in “scuole di addestramento” del governo, dove non potevano vederli. Nel caso di insistenza dei ragazzi, gli agenti erano autorizzati a minacciarli, per fare loro capire senza troppe allusioni che «dal loro comportamento sarebbe dipesa la lunghezza della permanenza dei genitori nelle “scuole”».

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IL COMPLOTTO ANTI-CINESE SUL BLOG DI GRILLO

L’articolo sul blog di Grillo, invece, si spinge fino ad affermare che «non vi sono corrispondenze reali alle accuse di repressione, se non addirittura di genocidio culturale», svelando poi la tesi finale: le denunce, dicono i due, sono veicolate dalle organizzazioni umanitarie in quanto strumenti di un complotto anti-cinese ordito dagli Stati Uniti. E infatti un capitolo del libro dell’archeologa si intitola «Ong e interventismo umanitario». Tutto dunque sarebbe soltanto una grande operazione di disinformazione americana, ovviamente legata alla competizione commerciale (la cosiddetta guerra dei dazi) in corso tra le due potenze. Insomma, curiosamente, il Blog diffonde ai simpatizzanti del comico genovese una visione distorta della repressione messa in atto da Pechino che corrisponde esattamente a quella veicolata dalla propaganda cinese, riguardo i molti dossier legati a violazioni dei diritti umani in Cina, dallo Xinjiang a Hong Kong.

IL FALLIMENTARE VIAGGIO DI DI MAIO IN CINA

La tesi ricorda curiosamente molto da vicino quella propagandata dai sovranisti sul complotto delle ong che salvano i migranti in mare, che sarebbero in realtà manovrate da potentati stranieri ostili (con a capo, ovviamente, il “solito” Soros) per un folle progetto di  “sostituzione etnica” nel nostro Paese. Idiozie, per essere educati, si diranno in molti, nell’uno e nell’altro caso. Ma certo non sembra causale che l’articolo-farsa sul Blog di Grillo esca proprio poco dopo il recente – e per più versi fallimentare- viaggio di Luigi di Maio in Cina, dove il nostro ineffabile ministro degli Esteri si è distinto in dichiarazioni sui fatti di Hong Kong capaci di far arrossire Ponzio Pilato («la politica dell’Italia è quella della non interferenza negli affari interni di alti Paesi» ha detto).

LE VISITE “GUIDATE” DEL GOVERNO DI PECHINO

Ovviamente la realtà della tragedia del popolo uiguro in Cina è ben diversa da quanto propagandata da Grillo & Co. Sulla base delle denunce, ben più articolate e documentate dell’articolo su citato, che si basano su informazioni verificate, sui numerosi dossier di ong e sulle testimonianze dirette raccolte dai giornalisti (tutte «credibili» a parere dell’Onu), la Cina sta portando avanti da anni nella regione un piano per la detenzione di massa e la trasformazione socio-culturale, con tutte le caratteristiche del vero e proprio genocidio. La cosa più incredibile è che nessuno dei due studiosi, autori delle sconcertanti dichiarazioni contenute nell’articolo apparso sul Blog di Grillo, ha mai potuto visitare autonomamente la regione, quindi non ha mai avuto la possibilità di verificare la versione del governo cinese.  Parenti, infatti, ammette con imbarazzante candore di essere stato nello Xinjiang recentemente, nel corso di un viaggio di quattro giorni «organizzato dal governo cinese», dove – manco a dirlo – non avrebbe notato «niente di particolarmente rilevante». Dal canto suo, Morigi scrive direttamente di avere avuto «anche l’opportunità di visitare varie moschee e un importante istituto di studi islamici» e di essere venuta a conoscenza «del fatto che in Xinjiang esistono più moschee pro capite che in qualsiasi altro Paese al mondo». Tutto a posto dunque.

L’ESEMPIO DELLA COREA DEL NORD

Nessuno dei due studiosi, insomma, sembra essere stato sfiorato dal dubbio che nei viaggi organizzati dal governo cinese siano stati manovrati dall’efficiente macchina della propaganda che ha mostrato loro solo ciò che voleva far vedere e ha “venduto” notizie e dati “politicamente opportuni”. Un po’ come faceva la Corea del Nord quando invitava i giornalisti nei rari viaggi-stampa dove facevano incontrare solo nordcoreani belli, puliti e felici, che ripetevano a memoria la favoletta della Nord Corea «paradiso socialista del Pianeta». E dire che – per quell’ironia sicuramente involontaria che spesso ci mette lo zampino – l’articolo del blog di Grillo è pubblicato proprio nella sezione che si chiama: “Cervelli”.

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Cosa si nasconde dietro l’aumento dei suicidi a Hong Kong

Molti giovani non sopportano la pressione psicologica dovuta alle violenze. Il sospetto però è che in alcuni casi si tratti di omicidi mascherati. Il punto.

da Hong Kong

Niko Cheng era pronta a morire in agosto, a 22 anni. Da mesi non frequentava più le lezioni alla scuola da infermiera e ormai aveva preso la sua decisione. Cheng era particolarmente conosciuta nel movimento e faceva parte del gruppo soprannominato I Combattenti, per il loro coraggio nel confrontarsi con la polizia di Hong Kong. La data era decisa: il 31 del mese. Esausta e stanca dopo mesi di proteste, Cheng in un primo tempo aveva preso in considerazione l’idea di lanciarsi contro la polizia e costringerla a spararle.

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«Non avevo alcuna motivazione a fare qualsiasi cosa. Ho solo pensato che fosse tutto inutile, insignificante», ha raccontato. Poi ha incontrato altri giovani compagni che l’hanno convinta a desistere e ha anche trovato l’aiuto di una Ong che si occupa del contrasto al suicidio nell’ex colonia britannica, e ce l’ha fatta. «Allora che ho capito che dovevo riprendermi la mia vita, una vita normale».

L’AUMENTO DEI SUICIDI CON L’INIZIO DELLE PROTESTE

Ma per una storia a lieto fine, come quella dell’aspirante infermiera, ce ne sono molte altre per le quali nessuno ha potuto evitare l’epilogo più tragico. Mentre infatti continuano le proteste, gli esperti di salute pubblica affermano è in corso anche un’altra battaglia più silente ma in qualche modo più pericolosa delle violenze di piazza: quella che da soli combattono sempre più residenti che mostrano segni di depressione, ansia e stress acuto. Dall’inizio delle proteste, a metà dello scorso giugno, il numero di suicidi denunciati è aumentato vertiginosamente. Nei due mesi successivi la media era di circa 10 ogni 10 giorni. Dal 21 al 31 agosto, il numero è salito improvvisamente a 18. E nei 10 giorni successivi si è arrivati a 49. Il bilancio, aggiornato a fine ottobre, parla di oltre 100 casi. E molte vittime sono giovani manifestanti.

Manifestanti per la democrazia in corteo nella ex colonia britannica.

DEPRESSIONE E ANSIA: L’EPIDEMIA DI HONG KONG

Esperti di sanità pubblica affermano che i manifestanti, molti anche più giovani di Cheng, non sarebbero attrezzati per affrontare l’esposizione alla violenza spinta così all’estremo. «Alcuni di loro sono molto giovani, molto ingenui. Si buttano a capofitto», ha dichiarato Yip Siu Fai, direttore del Center of Suicide Research and Prevention di Hong Kong. «Potrebbero non essere sufficientemente maturi dal punto di vista psicologico. Per loro, i danni potrebbero essere molto gravi. E per i più deboli tra loro, addirittura irreversibili». Ma non sono solo i manifestanti a essere a rischio. Uno studio dell’Università di Hong Kong pubblicato di recente, ha rilevato che un’abitante su 10 soffre di depressione, con un aumento dei pensieri suicidari esponenziale rispetto al passato.

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UNA PRESSIONE PSICOLOGICA DIFFICILMENTE GESTIBILE

Gabriel Leung, che ha guidato il team di ricercatori, ha spiegato che il disagio esistenziale non interessa soltanto chi partecipa alle proteste. Leung parla apertamente di un effetto di ricaduta a livello di comunità. Secondo lui, a Hong Kong siamo di fronte a una vera e propria «epidemia». «Tutta la società sta soffrendo», ha affermato Clarence Tsang, direttore esecutivo di Samaritan Befrienders Hong Kong, una Ong specializzata nella prevenzione del suicidio. «Questa situazione», ha dichiarato, «sta generando un’enorme pressione psicologica. Non è esagerato affermare che stia colpendo quasi l’intera popolazione».

Manifestanti a Hong Kong.

IL SOSPETTO È CHE SI TRATTI DI OMICIDI MASCHERATI

Ma c’è un aspetto ancora più inquietante, anzi terrificante, dietro questa ondata di suicidi: il sospetto che molti decessi siano in realtà degli omicidi mascherati da suicidi. Un fenomeno che pare essere aumentato drasticamente dopo l’irruzione della polizia alla stazione della metro di Prince Edward, il 31 agosto scorso. I testimoni raccontano di aggressioni volente da parte degli agenti. Secondo un dipendente delle pompe funebri ci sarebbero stati sei morti. Tutti con il collo rotto. La polizia dal canto suo ha sempre negato l’esistenza di vittime: l’ipotesi è che quei casi siamo stati poi fatti passare per suicidi.

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UNA LISTA DELL’ORRORE

La lista da allora si è drammaticamente allungata. Il 10 ottobre un uomo è precipitato da un grattacielo nella zona di Sha Tin. Il coroner, sulla base delle analisi post-mortem, ha però dichiarato che l’uomo era morto almeno due giorni prima di precipitare dal grattacielo. E non si tratterebbe di un caso isolato. Diverse vittime cadute da edifici alti non sanguinavano, e i cadaveri presentavano ferite pregresse. Una vittima che si presumeva fosse “affogata” è stata ripescata con le mani legate. Un’altra, il cui corpo è stato trovato fluttuante nella baia di Tsuen Wan, aveva la bocca chiusa e non risultava morta per annegamento poiché nei suoi polmoni non era stata ritrovata acqua. Infine c’è il caso più raccapricciante, quello di una donna, nuda, caduta da un grattacielo, ma il cui corpo sembra sia stato praticamente tagliato in due mentre era ancora in vita.

Un manifestante di Hong Kong dà fuoco a un cumulo di rifiuti.

STUPRI E VIOLENZE: LE DENUNCE DEI MANIFESTANTI

Secondo l’osservatorio sull’intelligenza Artificiale The AI Organization, attraverso software di riconoscimento facciale sviluppati da Pechino, la polizia identificherebbe i manifestanti. Una volta catturati sarebbero vittime di violenze e stupri. Una volta morti verrebbero inscenati suicidi. Un quadro che apre a scenari terribili, ma a sostegno del quale mancano finora prove certe.  Anche se aumentano le denunce. L’ultima è quella di una 18enne che ha raccontato di essere stata violentata a settembre da quattro uomini mascherati nella stazione di polizia di Tsuen Wan dopo essere stata trascinata all’interno mentre passeggiava in zona. La ragazza non aveva raccontato nulla alla famiglia ma a metà ottobre dopo aver scoperto di essere incinta ha deciso di abortire. Ora si attende che l’analisi del dna del feto possa confermare o smentire questa brutta storia. E forse scoperchiare un vaso di pandora pieno di orrori.

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Sarà Giacarta la prima città vittima dei cambiamenti climatici

La capitale dell'Indonesia affonda di 25 cm l'anno. Il governo indonesiano ha già stanziato 40 miliardi di dollari. Ma non può salvarla: è costretto a spostarla di migliaia di chilometri.

Affonda al ritmo di 25 centimetri all’anno. E ormai quasi metà della città di trova sotto il livello del mare. Periodicamente una larga parte dell’abitato finisce sott’acqua, paralizzando ogni cosa e provocando danni incalcolabili.

Le autorità hanno messo in campo ormai da tempo un piano ambizioso, il cui costo stimato sfiora già oggi i 40 miliardi di dollari, per correre ai ripari, ben consci che i cambiamenti climatici non aspettano e non daranno tregua alla loro città. Purtroppo non stiamo parlando di Venezia, la città che non appartiene solo all’Italia ma all’intera umanità, invasa e ferita – forse in modo irreparabile – da una marea fuori controllo.

Siamo a oltre 10 mila chilometri di distanza, in un altro Stato – la nazione musulmana più popolosa del mondo – in un altro continente e di fronte a un problema che colpisce quasi 10 milioni di persone (32 considerando i sobborghi): siamo a Giacarta, capitale dell’Indonesia, che ormai da anni affonda lentamente ma inesorabilmente e rischia di diventare la prima “vittima eccellente” del disastro climatico alle porte.

TANTE CITTÀ DEL SUD EST ASIATICO A RISCHIO

La soluzione studiata dalle autorità indonesiane, però, non ha nulla a che fare con il discusso ed eternamente incompiuto Mose. Laggiù stanno già preparando tutto per fare qualcosa che – sicuramente – a Venezia non si potrà mai fare: trasferire totalmente la capitale qualche migliaio di chilometri più a Est, nell’immensa e ancora in buona parte selvaggia provincia del Kalimantan. Per gli scienziati non ci sono soluzioni. Così ministeri e ambasciate si sposteranno nell’isola del Borneo.

Giacarta, Manila, Saigon e Bangkok sprofondano ogni giorno di più e a ogni alluvione

E la capitale dell’Indonesia non è nemmeno l’unica grande metropoli ad essere ad alto rischio “annegamento”: insieme ad essa anche Manila, Saigon e Bangkok sprofondano ogni giorno di più e a ogni alluvione, ad ogni marea, rese sempre più imponenti e minacciose dagli sconvolgimenti causati dal riscaldamento globale, finisco a mollo ogni volta di più, ogni vota più disastrosamente.

Tangerang, area vicina a Giacarta, dopo l’alluvione del 2009 (foto BERRY/AFP via Getty Images).

La situazione di Giacarta, però, appare davvero apocalittica: il 40% della città è già sotto il livello dell’oceano che circonda l’isola di Giava. La zona rivierasca settentrionale è affondata di 2,5 metri nell’ultimo decennio. Come sempre accade, l’intervento umano ha peggiorato la situazione: le “fondamenta” geologiche su cui poggia la città, infatti, sono state indebolite anche dal pompaggio indiscriminato delle falde acquifere. Il governo stima in 7 miliardi di dollari all’anno il danno economico causato da questa situazione.

IN INDONESIA SONO TUTTI D’ACCORDO: AGIRE SUBITO SUL RISCALDAMENTO CLIMATICO

Il presidente Joko “Jokowi” Widodo, in un discorso televisivo, ha spiegato di recente che il governo presenterà al parlamento un disegno di legge per il trasferimento della capitale, iniziando con il trasferimento di uffici e sedi istituzionali, entro il 2024. Il nome della nuova capitale non è stato ancora rivelato, ma il progetto è estremamente ambizioso e il suo costo enorme verrà finanziato per il 19% dallo Stato e il resto attraverso la creazione di partnership miste pubblico-privato o direttamente da privati. A trasferimento avvenuto, non prima di cinque anni, nella nuova capitale abiteranno e lavoreranno circa un milione e mezzo di funzionari pubblici.

In Indonesia sono tutti d’accordo: intervenire e subito, i cambiamenti climatici non ci concederanno ancora altro tempo

Secondo Heri Andreas, scienziato del Bandung Institute of Technology indonesiano, «l’innalzamento costante del livello del mare causato dal riscaldamento globale ha già fatto sì che alcune zone della città vengano periodicamente invase da più di 4 metri d’acqua. Non c’è più tempo, dobbiamo intervenire subito per evitare una catastrofe planetaria. Tutti i governi del mondo dovrebbero essere pronti a mettere da parte i loro interessi locali per unirsi nella lotta contro quella che rischia di essere un’autentica apocalisse prossima ventura».

Le strade di Giacarta dopo gli allagamenti avvenuti nell’aprile del 2019.

In Indonesia, un enorme Paese dal passato e dal presente politico spesso turbolento anche più di quello italiano, sono tutti d’accordo sul punto: intervenire e subito, i cambiamenti climatici non ci concederanno ancora altro tempo. A Venezia anche l’aula consiliare dove si tenevano i lavori si è allagata qualche giorno fa, e tutti i consiglieri sono dovuto scappare in gran fretta per mettersi in salvo dall’acqua alta eccezionale. Giusto due minuti dopo che la maggioranza, formata da Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia aveva bocciato gli emendamenti per contrastare i cambiamenti climatici, presentati dall’opposizione.

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La triste storia di Luigi Di Maio sulla Via della Seta

Dopo tanti annunci roboanti, il ministro degli Esteri è tornato da Shanghai con un pugno di mosche in mano. Intanto la Cina continua la sua campagna acquisti in Italia.

Giggino è stato a Shanghai. Anzi, il nostro ministro degli Esteri, capo della Farnesina, Luigi Di Maio (detto “Giggino”, ma lui si arrabbia se lo si chiama così) nei giorni scorsi è volato in Cina a capo della delegazione ufficiale italiana alla grande fiera del commercio di Xi Jinping.

Gli annunci che hanno preceduto questa missione cinese sono stati a dir poco mirabolanti: ecco finalmente l’occasione per mettere a frutto le intese firmate a suo tempo con Pechino – l’ormai famosa “fuga in avanti” del passato governo, che ha provocato la ferma l’opposizione del nostro principale alleato, gli Usa e praticamente di tutta l’Unione Europea – intese commerciali, export di pomodori campani, arance napoletane… e questo mondo e quest’altro!

In realtà il povero Di Maio se ne ritorna tutto triste e quatto-quatto da Shanghai con poco più di un pugno di mosche in mano: una manciata di riso e un po’ di carne da vendere in Cina. Ignorato un po’ da tutti e umiliato, tra l’altro, dal presidente francese Emmanuel Macron, che invece ha calcato da protagonista la scena degli incontri cinesi.

DI MAIO HA IGNORATO IL FASTIDIO DEGLI USA PER I RAPPORTI ITALIA-CINA

Insomma, della famosa e contestata Nuova Via della seta tra Pechino e Roma questo è quel che è rimasto? Riso e carne da vendere in Cina, un po’ di turisti cinesi da portare in Italia: nient’altro? E le migliaia di container che dovevano viaggiare pieni di merci prelibate italiane lungo il nuovo asse ferroviario Italia/Europa-Cina, e che invece tornano per il 99% vuoti verso la Cina (mentre lì arrivano strapieni di export da piazzare da noi, in Europa)? Di Maio sembra ignorare questa e molte altre realtà (o forse nessuno del suo staff gliel’ha detto…) intenzionato ad andare avanti imperterrito sulla strada degli investimenti cinesi in Italia, convinto – in modo del tutto irragionevole – di non doversi aspettare nuove tensioni con l’alleato americano.

Gi avvertimenti americani sulla Belt and Road ci sono stati, e molto decisi, a dir poco

«Trump è uno che capisce le ragioni del business», ha dichiarato ai giornalisti italiani a Shanghai, incalzato sull’argomento, «e gli americani non ci hanno mai fatto arrivare nessuna protesta per gli accordi della Via della seta», ha insistito. «La loro preoccupazione era tutta concentrata sul 5G, e ora in Italia abbiamo la normativa più restrittiva d’Europa al riguardo, che si applica a tutte le società senza discriminazioni». Sarà. Peccato però che non sia vero niente: gli avvertimenti americani sulla Belt and Road ci sono stati, e molto decisi, a dir poco. C’è da chiedersi in quale universo politico e su quale scenario internazionale viva di Maio, a questo punto.

LA CAMPAGNA ACQUISTI CINESE IN ITALIA È GIÀ INIZIATA

Sul tavolo shanghaiese di Di Maio c’era poi un altro dossier delicato, per noi: la penetrazione dei capitali cinesi in Italia e la massiccia campagna acquisti che le imprese cinesi stanno facendo nei nostri porti. L’attenzione di Washington per la presenza cinese nel Mediterraneo, infatti, è altissima. Trieste ha chiuso di recente un mega accordo con il colosso di Stato Cccc per costruire in Cina piattaforme logistiche per convogliare export made in Italy. Una buona cosa, in teoria, peccato che in realtà si tratti solo della prima fase di un progetto che prevede l’ingresso massiccio, a gamba tesa, dell’azienda statale cinese nel sistema ferroviario dello scalo triestino.

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio durante un brindisi in occasione di una cena con investitori cinesi e rappresentanti di aziende cinesi, a Shanghai.

Ma il nostro ministro degli Esteri non sembra rendersi conto dei rischi di questa massiccia campagna acquisti cinese in Italia, e invece di frenare e magari preoccuparsi, rilancia: «I progetti di investimento lungo la Via della seta marittima non finiscono qui», dice: «Il porto di Genova è abbastanza avanti e c’è un interesse anche su quello di Taranto». Ma allora dategli l’Ilva, piuttosto, per scongiurare il disastro che si sta annunciando! A questo punto, sarebbe il male minore.

PECHINO PUÒ SANZIONARE LE IMPRESE ESTERE A SUA DISCREZIONE

Del resto non bisogna mai dimenticare che quello con il colosso-Cina, per un piccolo e geopoliticamente insignificante Paese come il nostro – l’abbiamo detto e scritto molte volte – rischia sempre di trasformarsi in un abbraccio mortale. Per questo la prudenza e l’attenzione devono essere massime. Per esempio sul delicatissimo tema dei cosiddetti crediti sociali, che si sta rivelando uno dei principali ostacoli al raggiungimento dell’auspicato e molto necessario accordo sugli investimenti bilaterali, a cui Cina e Unione Europea lavorano ormai dal 2013. Il sistema dei crediti sociali, secondo i cinesi, mira a creare una società basata «sull’onestà» dispensando premi e punizioni a seconda di come i singoli e anche le aziende si comportano.

Risulta impossibile tutelare seriamente gli investimenti e le aziende straniere operanti in Cina

Ma secondo un recente rapporto della Camera di Commercio europea, in realtà espone le imprese straniere che operano in Cina a pesanti ritorsioni – fino all’espulsione dal mercato cinese – semplicemente per un commento sgradito o una scritta su una maglietta che i solerti censori pechinesi giudichino – a loro insindacabile giudizio – «lesiva dell’onorabilità e della sovranità del popolo e della nazione cinese». Risulta impossibile, insomma, tutelare seriamente gli investimenti e le aziende straniere operanti in Cina, a causa della discrezionalità con cui Pechino si arroga il diritto di sanzionare chiunque tocchi il tasto dolente dei diritti umani o metta in dubbio la sovranità cinese su Hong Kong, Xinjiang, Taiwan, Tibet, mar cinese e qualsiasi altro tema considerato sensibile dai burocrati del Partito comunista. E Dolce e Gabbana, Tiffany, la Nba (per citarne solo alcuni, la lista delle “vittime” si allunga ogni giorno di più) lo sanno bene.

Questa è la triste storia di Giggino che se ne torna tutto solo sulla via della Seta. Nel suo fagotto sulla spalla porta un manciata di riso è un po’ di carne, molte dichiarazioni sbagliate e una serie di gaffe a dir poco imbarazzanti. L’ultima quando a Shanghai gli è stato chiesto di esprimersi sulle proteste pro-democrazia di Hong Kong: «Abbiamo un approccio di non ingerenza nelle questioni di altri Paesi», ha risposto. Il vuoto assoluto.

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