Governo e maggioranza nel caos: dal caso Santanchè al Mes

Il livello di tensione nel governo ha raggiunto i livelli di guardia, tanto da far paventare scenari impensabili fino a pochi giorni fa. A meno di un anno dalle Politiche del 2022 torna addirittura ad aleggiare, seppure come extrema ratio, l’ipotesi delle elezioni anticipate. Giorgia Meloni, come scrive Repubblica, avrebbe addirittura “minacciato” Matteo Salvini di portare il Paese alle urne, in una sorta di Papeete in salsa Fratelli d’Italia, pur di ottenere una posizione di maggiore forza. Si tratta di un’esagerazione, si dirà: difficile immaginare un’altra estate in campagna elettorale. Intanto la notizia non è stata nemmeno smentita. E le parole della presidente del Consiglio sono un valido indicatore delle incomprensioni nella coalizione di centrodestra. Del resto la settimana che sta finendo ha portato con sé piccoli quanto significativi incidenti parlamentari: dall’assenza dei senatori azzurri Claudio Lotito e Dario Damiani al voto in commissione fino al ko del governo su un emendamento del ddl Province. Senza dimenticare l’ulteriore slittamento della nomina del commissario per l’alluvione in Emilia-Romagna, oggetto della contesa tra Meloni e Salvini. Come se non bastasse il caso Santanchè sta agitando Fdi mentre l’arresto dell’ex leghista Gianluca Pini getta un’ombra sul Carroccio.

Governo e maggioranza nel caos: dal caso Santanchè al Mes
Daniela Santanché e Ignazio La Russa (Imagoeconomica).

Il dossier Mes spacca la Lega 

I dossier bollenti sul tavolo dunque non mancano, e creano divisioni a più livelli: sia all’interno partiti della maggioranza sia nella dialettica tra alleati. Un bel rompicapo. Il Mes è il nodo più complicato. La presa di posizione del ministero dell’Economia, guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti, ha rappresentato un punto di rottura. Il leader del partito, Matteo Salvini, ha subito confermato la contrarietà all’approvazione della ratifica del fondo salva-Stati, facendo ripetere in stereofonia il concetto ai suoi fedelissimi. «Non ci metteremo in mano ai fondi stranieri», ha scandito ancora oggi il ministro delle Infrastrutture, sconfessando il Mef. «Gli italiani hanno votato un governo politico, non tecnico», ha ribadito. Insomma, non vuole mostrare cedimenti e aveva finanche pensato di votare contro in commissione, facendo infuriare la premier Meloni, consapevole che ilproblema resta e che bisogna muoversi con prudenza: il governo è pressato dall’Unione europea, che chiede una risposta – positiva – entro l’anno. E il parere tecnico di via XX Settembre ha sottratto qualsiasi argomentazione alla propaganda sovranista. Così nella Lega si sta consolidando l’ala più pragmatica, allineata a Giorgetti, con il presidente della Regione Friuli-Venezia-Giulia, Massimiliano Fedriga, uscito allo scoperto: «Spero che la valutazione, in un senso o nell’altro, venga fatta scevra di connotazioni ideologiche. In Italia stiamo ideologizzando qualsiasi cosa», ha ammesso in un’intervista a La Stampa. Ad appesantire il clima c’è stato poi l’arresto di Gianluca Pini nell’ambito dell’inchiesta che ha portato ai domiciliari Marcello Minenna. Un brutto colpo per Giorgetti, visto che l’ex deputato leghista era molto vicino alle sue posizioni. Nonostante il ministro dell’Economia sia totalmente estraneo alle indagini, è indubbio che la notizia crei un problema di immagine a tutta la Lega, non solo a un suo vicesegretario.

Governo e maggioranza nel caos: dal caso Santanchè al Mes
Giancarlo Giorgetti (Imagoeconomica).

Forza Italia cerca un equilibrio e Ronzulli ha già incassato il ridimensionamento di Fascina

Sul fronte Mes, tra gli azzurri orfani di Silvio Berlusconi, monta la convinzione di dover battere un colpo e lanciare un segnale al Ppe. «Siamo liberali ed europeisti. Il parere tecnico fornito dal Mef ha confermato che il Mes non è un problema. Perché dovremmo aderire alla battaglia ideologica degli altri partiti?», si chiede, a microfoni spenti, un deputato azzurro, immaginando uno smarcamento dagli alleati. I vertici forzisti sono posizionati sulla linea di non alimentare nervosismi. Uno scontro nello scontro in un partito che deve cercare la propria fisionomia. Superata lentamente l’onda emotiva per la morte del fondatore, il cammino verso la normalizzazione non è affatto semplice: il coordinatore Antonio Tajani sta già facendo i conti con le richieste della minoranza capeggiata dalla capogruppo al Senato, Licia Ronzulli, che sta già incassando il ridimensionamento di Marta Fascina, che ancora deve tornare a Montecitorio. Ed è solo l’inizio.

Governo e maggioranza nel caos: dal caso Santanchè al Mes
Licia Ronzulli e Antonio Tajani (Imagoeconomica).

L’affaire Santanchè e le preoccupazioni del Colle 

L’aria più pesante si respira però dalle parti di Fratelli d’Italia. L’inchiesta di Report sugli affari di Daniela Santanchè imbarazza e non poco Meloni. Un eventuale coinvolgimento del presidente del Senato Ignazio La Russa preoccupa il Colle. Insomma la crisi potrebbe diventare istituzionale e le dimissioni della ministra del Turismo potrebbero presto non essere più un tabù. La presidente del Consiglio ha capito che la questione può rivelarsi scivolosa ed evita di esporsi. Il compito di dettare la linea ufficiale è stato affidato al capogruppo alla Camera Tommaso Foti: «La sinistra chiede le dimissioni di un altro ministro», ha detto polemizzando con gli avversari. Solo che il collega della Lega, il presidente del gruppo Riccardo Molinari, è molto più tiepido su Santanchè: «Aspettiamo che il ministro spieghi le sue ragioni in Aula». Non proprio una difesa sulla fiducia.

Auto blu, piccoli Comuni e Province non mollano: i numeri

Un’auto di servizio a disposizione ogni 900 abitanti circa. Ad Avezzano, comune di oltre 40 mila abitanti in provincia de L’Aquila, di sicuro non mancano vetture pronte per l’uso dell’amministrazione: ce ne sono 47 in totale, tutte di proprietà, di cui una addirittura a «uso esclusivo con autista», l’auto blu nel suo significato pieno con autista dedicato alla guida per uno dei rappresentanti della Giunta. Quasi il triplo delle 18 auto che sono in dote alla presidenza del Consiglio. Insomma, Avezzano ha maggiori necessità rispetto a Palazzo Chigi. E così alcuni enti, come quello abruzzese a braccetto con la Provincia di Reggio Calabria, che gestisce un parco auto di 60 vetture nonostante la riduzione dei poteri, diventano l’emblema dell’immortalità di questa italica passione, che tutti dicono di voler limitare. Ma che negli anni ha resistito a ogni riforma e alle crociate di ogni ambizioso ministro, per ultimo Renato Brunetta.

Auto blu, piccoli Comuni e Province non mollano: i numeri
Renato Brunetta (Imagoeconomica).

Da San Vito al Tagliamento a Vigevano: quando l’auto blu è una passione

Secondo il censimento 2023 sulle auto in dotazione della Pubblica amministrazione, relativo al 2022, ci sono oltre 30 mila auto nella Pa, esattamente, 30.665. Confermando che negli anni scorsi non c’è stata una reale diminuzione: semplicemente molti enti non avevano risposto al dipartimento della Funzione pubblica. Nel 2021 se ne contavano 29.894, ma avevano dato le informazioni 8.142 amministrazioni, mentre nell’ultimo report è giunto un feedback da 8.328 enti, circa l’83 per cento del totale. La passione per l’auto blu, dunque, non è mai cessata: la media infatti resta intorno a 3,7 auto di servizio a disposizione di ogni amministrazione, categoria che va dalla Asl alle agenzie pubbliche, oltre ovviamente ai ministeri e governo, Regioni e Comuni. Ed è proprio tra le amministrazioni locali che si trovano i casi più singolari. Avezzano è irraggiungibile in termini assoluti, ma in questa classifica si distingue anche il Comune di San Vito al Tagliamento, 15 mila abitanti in provincia di Pordenone: il censimento registra 33 vetture di proprietà. Non ci sono problemi di spostamento nel perimetro dell’ente, insomma. Simile la situazione nel Comune di Rho, 50 mila abitanti nell’hinterland milanese, che conta 21 auto di servizio, facendo il paio con il Comune di Vigevano, oltre 60 mila residenti in provincia di Pavia. L’abitudine non conosce barriere geografiche: Battipaglia, località del Salernitano di circa 50 mila abitanti e nota per la produzione di mozzarella di bufala, ha segnalato la dotazione di ben 20 auto di servizio, stesso numero di Montalto Uffugo, 20 mila abitanti nel Cosentino. Singolare il caso di Ventasso, in provincia di Reggio-Emilia, nato dalla fusione dei comuni di Busana, Collagna, Ligonchio e Ramiseto. L’eredità è oggi di 18 veicoli per l’amministrazione di un ente che mette insieme meno di 4 mila abitanti. Tornando a Sud, Torre del Greco, popolo Comune vesuviano, raggiunge quota 16.

Province (per ora) senza poteri ma con un nutrito parco macchine

E che dire delle Province che si apprestano alla resurrezione per volere della maggioranza? Quella di Reggio Calabria, come accennato, è leader assoluta: può contare 60 auto di servizio. Per avere un’idea, sono molte di più rispetto alle 36 della città metropolitana di Roma e il doppio in confronto alle 29 della città metropolitana di Milano. Anche altri enti provinciali hanno conservato una buona dotazione. Grosseto e Pavia sono due casi significativi con 28 auto, così come meritano menzione le 24 di Lecco e Sondrio e le 20 di Arezzo. Insomma, in attesa che vengano ripristinati i poteri, le Province non rinunciano a niente. Se nelle realtà medio-piccole le auto blu abbondano, figuriamoci nelle metropoli. Spicca il Comune di Torino, guidato dal sindaco Stefano Lo Russo, che conta ben 191 veicoli (di cui 13 ncc e il resto di proprietà), che vince per distacco rispetto a ogni altra amministrazione. Sotto la Mole piace l’auto: il numero è in netto aumento rispetto alle 154 del 2021. Roma Capitale, amministrata da Roberto Gualtieri, è seconda con 109 auto, di cui 85 ncc, per una popolazione che è almeno tre volte superiore a quella del capoluogo piemontese. Il Comune di Milano ha invece “refertato” solo 41 auto, seppure con un incremento di 10 unità rispetto al censimento 2021, mentre restano a quota 91 le vetture disponibili per il Comune di Firenze, un dato nettamente superiore alle 62 di Bologna. Tre le città più importanti, la virtuosa Napoli si ferma a 12 vetture nei garage pubblici.

Auto blu, piccoli Comuni e Province non mollano: i numeri
Tra le grandi città italiane, Torino detiene il record di auto blu con 191 veicoli (Imagoeconomica).

Coni e Sport e Salute non pervenuti

Al netto del miglioramento nelle risposte nella Pa, resiste un 17 per cento di enti che non riferiscono il dato delle auto di servizio. Come il Coni di Giovanni Malagò, e la società “parallela” e “avversaria”, Sport e Salute. Magari non hanno a disposizione alcun veicolo, chissà. Solo che non è possibile saperlo. Top secret pure le informazioni su alcuni Comuni capoluogo, come Caserta, Enna e Varese e sulle città metropolitane di Napoli e Messina. Certo, non tutto è negativo. Un esempio? La cura Draghi a Palazzo Chigi stava sortendo degli effetti: nel 2022 alla presidenza del Consiglio le auto a «uso non esclusivo con autista», sono scese in un anno da 31 a 18, quasi tutti a noleggio con conducente (ncc). Anche il “Draghi boys”, Daniele Franco, al Ministero dell’Economia aveva operato un mini taglio, passando a 5 auto a disposizione rispetto alle precedenti 6. Al ministero del Turismo, per sua natura, la possibilità di spostarsi è agevole con 43 auto di servizio, anche se tra le amministrazioni dello Stato svetta il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti con un totale di 58 veicoli, segnando un paradosso: tra governo e ministeri c’è una maggiore attenzione a non abusare delle auto blu, che pure per la Capitale sfrecciano in continuazione. Ma sui territori è, forse, peggio perché alcune ferme nei garage. Perché sono troppe.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito

Forza Italia piange la morte di Silvio Berlusconi, con sincera commozione, e non potrebbe essere altrimenti. Ma oltre al dolore umano per la scomparsa del fondatore, dovrà arrivare il momento di fare i conti per capire come potrà andare avanti il partito, prima di tutto dal punto di vista economico. I soldi sono il principale punto debole degli azzurri, soprattutto ora che il Cav non c’è. Fino a quando è stato in vita, infatti, era lui a mettere le risorse a disposizione, senza andare per il sottile. L’ex presidente del Consiglio non si è mai tirato indietro, chiedendo una mano al fratello Paolo e ai cinque figli. A Silvio nessuno diceva di no.

I 700 mila euro donati coprono la maggior parte degli introiti

Tanto per rendere l’idea, nel 2023 il supporto finanziario della famiglia Berlusconi è stato fondamentale, altrimenti il piatto piangerebbe, eccome: le tabelle delle donazioni volontarie raccontano di 700 mila euro affluiti nelle casse degli azzurri grazie agli assegni staccati nella cerchia familiare e aziendale. Il fratello Paolo ha provveduto a sottoscrivere un’elargizione liberale, una delle forme di finanziamento consentite dalla legge, di 100 mila euro il 24 febbraio. Un esempio seguito dal figlio dell’ex premier, Luigi Berlusconi, con la medesima cifra e nello stesso giorno. Così tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, tutti gli altri figli, Barbara, Eleonora, Marina e Pier Silvio, hanno donato 100 mila euro alle casse di Forza Italia, come ha fatto successivamente la Fininvest, la società più nota della famiglia. Il totale è stato, appunto, di 700 mila euro che ha praticamente coperto tre quarti degli introiti degli azzurri legati alle donazioni.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito
Luigi e Paolo Berlusconi, figlio e fratello di Silvio. (Getty)

Finanziamento pubblico: arriva poco dal 2 per mille

Il dato complessivo supera di poco il milione di euro, senza i Berlusconi si parlerebbe di 250 mila euro. Roba da partitino. Ma la somma derivante dalla famiglia dell’ex presidente del Consiglio, è più alta anche rispetto ai 581 mila euro arrivati grazie al 2 per mille, destinato dai contribuenti e su cui i forzisti hanno sempre dimostrato dei limiti: tra i partiti della maggioranza è quello che ottiene meno dall’ultima forma di finanziamento pubblico. Non occorre l’indovino per comprendere il peso specifico economico del supporto dato da Berlusconi alla sua creatura. In un certo senso si trattava di un atto d’amore, un gesto dovuto per un progetto che ha coltivato dal 1994, con l’eccezione della parentesi del Popolo delle libertà. Per questo ora si addensano le nubi sul futuro, sulle reali intenzioni degli eredi.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito
Bandiere di Forza Italia. (Getty)

Forza Italia, debito di 92 milioni di euro nei confronti dei figli di B

Di fatto per i figli del fondatore il partito rischia di trasformarsi in un buco nero in cui gettare risorse, senza considerare che – bilanci alla mano – Forza Italia, come soggetto giuridico, ha contratto un debito di 92 milioni di euro nei confronti dei figli di Berlusconi. Si tratta di una questione delicata, quanto intricata, che nelle prossime settimana andrà affrontata. Ma anche se gli eredi dell’ex presidente del Consiglio non vorranno pretendere gli arretrati, dovranno decidere se hanno voglia di mettere mano alla tasca per finanziare un partito, che allo stato attuale sarà gestito da altri. E che ha prospettive di consenso non proprio esaltanti. Nell’inner circle berlusconiano giurano che la vicenda non era stata discussa, nonostante la grave malattia dell’anziano leader.

Pier Silvio Berlusconi, dopo una visita al padre, ricoverato in terapia intensiva da mercoledì, si è lasciato andare ad alcune affermazioni
Pier Silvio Berlusconi. (Getty Images)

Quanti morosi tra i parlamentari: pure Bergamini e Cannizzaro

In mezzo c’è un’altra questione, non affatto secondaria: il recupero delle cifre dei “morosi”, un’operazione che era stata avviata da qualche settimana con discreti risultati. Ogni eletto, tra Camera e Senato, è chiamato a restituire 900 euro al mese. Una pratica che però non è seguita da tutti i parlamentari. Anzi, quasi la metà non rispetta i tempi. Nell’elenco dei donatori, da inizio 2023, non si ritrovano peraltro dei nomi parlamentari in vista di Forza Italia, come i due vicepresidenti del gruppo alla Camera, Deborah Bergamini e Francesco Cannizzaro, che tuttavia in passato hanno fatto dei versamenti più sostanziosi dei 900 euro mensili. Solo che di recente c’era stato un appello per recuperare le somme, a cui non risultano risposte.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito
Silvio Berlusconi e Deborah Bergamini.

Chi è disposto a foraggiare un progetto ormai morente?

Stessa situazione caratterizza il vice capogruppo al Senato, Adriano Paroli, e altri colleghi azzurri a Palazzo Madama, come Claudio Fazzone (l’ultimo versamento è di 20 mila e risale all’agosto del 2022, in piena campagna elettorale), Dario Damiani, Mario Occhiuto e Daniela Ternullo. In realtà non figura nell’elenco nemmeno il capogruppo a Montecitorio, Paolo Barelli, che però ha spiegato che si tratta di un errore della registrazione delle donazioni, a cui comunque non è stato posto rimedio. Sempre a Montecitorio non sono registrate sui documenti da parte dei deputati Tommaso Calderone e nemmeno di Annarita Patriarca. Per tutti l’arretrato è minimo, sebbene moltiplicata la quota mensile per in cinque mesi si arrivi a 4.500 euro, e può essere saldato con un’unica operazione, anche se l’azione di recupero per i morosi è più vasta e coinvolge molti ex parlamentari. Ma, al netto dell’assiduità dei versamenti, c’è un punto focale: chi è davvero intenzionato a foraggiare un partito con prospettive tutt’altro che rosee? Qui torna alla mente la frase di un parlamentare pronunciata negli ultimi giorni di vita del leader. «Forza Italia è Silvio Berlusconi, Silvio Berlusconi è Forza Italia». Che significa che senza di lui non esiste nemmeno più il partito.

BASILICATA | www.basilicataonline.com,Versamenti e restituzioni: i conti dei partiti

Con lo Spazzacorrotti le donazioni sono pubbliche. Anche quelle dei parlamentari. Ma tra polemiche, scissioni e cambi casacca non tutti sono puntuali con i pagamenti. E spesso si tratta di big: da Renzi a Bossi. Il Movimento 5 stelle ha chiuso l’anno con la polemica sulle restituzioni. Tra chi si è messo in regola all’ultimo istante e chi invece sarà sottoposto al giudizio dei probiviri, il tema tiene banco. «L’85% dei parlamentari è in regola con le restituzioni ai cittadini», hanno fatto sapere i capigruppo cinque stelle di Camera e Senato Davide Crippa e Gianluca Perilli, annunciando l’avvio dei procedimenti per chi non è in regola. Ma la questione non riguarda solo i pentastellati: anche gli altri partiti fanno spesso i conti con le somme che i parlamentari dovrebbero versare alle rispettive tesorerie. E talvolta in primo piano ci sono nomi di peso, come insegna la vicenda dell’ex presidente del Senato, Pietro Grasso, che si è scontrato con il Pd, suo ex partito: a fine 2017 l’allora tesoriere Francesco Bonifazi gli aveva fatto notificare un decreto ingiuntivo per recuperare oltre 80 mila euro. Ma ci sono esempi più recenti, da Matteo Renzi a Umberto Bossi.  LEGGI ANCHE: Le sfide del 2020 su cui il governo si gioca la sopravvivenza Lettera43.it ha infatti esaminato i documenti sui sostenitori delle forze politiche: con il cosiddetto Spazzacorrotti ogni partito deve pubblicare i nomi, parlamentari compresi, di chi fa una donazione maggiore di 500 euro. E qualsiasi partito chiede almeno quella cifra.

IL PD CHIEDE 1.500 EURO AL MESE

Le situazioni più critiche sono legate a strappi politici. Da quanto si legge sul sito del Pd, alla sezione “trasparenza“, Renzi ha fatto un solo versamento nel 2019: è di 6.500 euro e risale al 25 febbraio. Il Pd chiede ai suoi parlamentari di destinare alle casse del partito 1.500 euro al mese: l’ex presidente del Consiglio, almeno fino a novembre (e da quanto risulta sul file pubblico), ha quindi saldato poco più di quattro quote, nonostante fosse un esponente dem fino ad agosto. Nel documento, poi, il nome di Maria Elena Boschi ricorre una sola volta per un contributo, dell’11 settembre scorso, pari a 6 mila euro, un quadrimestre esatto. L’ex ministra ha però sempre ribadito di essere «in regola con i pagamenti».
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Matteo Renzi, leader di Italia viva.

ITALIA VIVA…GIÀ AD AGOSTO

Nell’agosto del 2019, quando Italia viva non era stata lanciata ufficialmente, Renzi ha versato 10 mila euro sul conto della nascente creatura politica. Anche Boschi, con due diverse donazioni (una da mille euro e un’altra da 500) ha dato un contributo di partenza a Iv per un totale di 1.500. Una quota che ha coperto un intero trimestre: il minimo di versamento richiesto dal partito renziano è infatti di 500 euro. Singolare è invece il caso accaduto con l’attuale viceministra dell’Istruzione, Anna Ascani: continua a destinare con precisione la sua quota al Pd, ma ad agosto ha optato per una doppia contribuzione. Una ai dem e un’altra, sempre da 1.500, proprio a Iv. Ascani è tra le renziane che hanno preferito non lasciare il Pd: così dall’estate scorsa non risultano altri versamenti a Italia viva.
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Matteo Salvini.

I CONTI DELLE DUE LEGHE

I parlamentari della Lega danno un sostegno importante: 3 mila euro. Cifra decisamente alta che, secondo quanto si è lasciato sfuggire il senatore Ugo Grassi (ex M5s), servirebbe «per contribuire alla progressiva restituzione dei 49 milioni di euro». Per risalire alle donazioni occorre consultare due diversi documenti: quello della Lega Nord e l’altro della Lega per Salvini Premier. Il vecchio Carroccio conta pochi aficionados tra i deputati e senatori: nei vari mesi ricorrono nomi di peso come l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, il senatore di lungo corso, Roberto Calderoli, e l’ex sottosegretario all’Economia, Massimo Garavaglia. Sono loro, insieme a un altro sparuto gruppo di sostenitori, a rimpinguare le casse della vecchia Lega. Un’ampia maggioranza di leghisti, invece, contribuisce al rafforzamento economico del nuovo partito, quello tutto a trazione salviniana. In entrambi i casi, stando a quanto pubblicato ufficialmente sui siti, il leader storico, Umberto Bossi, non figura tra i contributori. C’è solo il suo omonimo, il senatore Simone Bossi.

LE DIFFICOLTÀ DI FORZA ITALIA

Da tempo Forza Italia è alle prese con ristrettezze economiche, tanto che il tesoriere, Alfredo Messina, ha dovuto far sentire la propria voce lo scorso anno. «Pagare è un obbligo morale, chi non paga deve capire che è un inadempiente, non si deve sentire un furbo», ha tuonato, spiegando di dover stare dietro a tutti per ottenere la quota mensile che nel caso degli azzurri ammonta a 900 euro al mese. Il documento sui contributi, che si ferma a novembre, riporta che l’ex ministro Renato Brunetta ha fatto un solo bonifico, ad aprile, di 3.600 euro, a copertura del primo quadrimestre. Plausibile che arrivi un altro maxi pagamento a saldo del resto, visto che predilige soluzioni “uniche”. Anche l’ex leader dell’Ugl ed ex presidente della Regione Lazio Renata Polverini è ferma al primo ottobre con un contributo che però ha coperto il mese di settembre, in cui non figurano versamenti. Il deputato Osvaldo Napoli ha invece dato il suo ultimo contributo il 30 luglio (per coprire agosto), mentre la collega a Montecitorio Daniela Ruffino è ferma al 27 giugno. Un altro deputato, Sestino Giacomoni, ha versato in totale per il 2019 solo due quote, entrambe a ottobre. Un quadro complicato per gli azzurri, che però fa in parte tirare un sospiro di sollievo: secondo Messina solo una parte residuale è indietro con i versamenti. Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Le sfide del 2020 su cui il governo si gioca la sopravvivenza

Il nodo prescrizione. Il voto sulla Gregoretti. Le Regionali. Ma anche la questione banche, i decreti Sicurezza (che una parte del Pd vuole cancellare) e il Reddito di cittadinanza, nel mirino di Renzi. I dossier che metteranno a dura prova la tenuta della maggioranza.

C’è Giuseppe Conte che guarda a «una maratona» fino al 2023 e c’è Nicola Zingaretti che con più cautela parla di agenda per il 2020, invocando «crescita e giustizia fiscale». In mezzo ci sono Luigi Di Maio e Matteo Renzi che giurano lealtà, ma devono districarsi tra reciproche diffidenze e problemi di varia natura. Ed è proprio il rapporto tra Movimento 5 Stelle e Italia Viva ad aumentare i pericoli di una crisi, con Palazzo Chigi spettatore interessato delle scintille tra gli alleati-nemici. Il nuovo anno del governo non si annuncia affatto tranquillo. E più che un progetto annuale, se non addirittura triennale come vaticinato dal presidente del Consiglio, la realtà racconta di una navigazione sempre più a vista. 

Pensare a una scadenza a lungo tempo è complicato

Fonti di maggioranza

L’ottimismo professato da Conte non trova grandi riscontri nei fatti. «Pensare a una scadenza a lungo tempo è complicato», ammette un parlamentare della maggioranza. Fin dai prossimi primi giorni ci saranno degli ostacoli da saltare, aggirare. O, come è avvenuto nelle ultime settimane, da spostare qualche mese più in avanti, cercando di rinviare e temporeggiare. Dal voto su Matteo Salvini per il caso Gregoretti alle elezioni regionali, l’inizio del 2020 sarà ricco di insidie, con le varie forze di maggioranza che devono accorciare distanze siderali. Ma il principale problema resta la tenuta del Movimento 5 Stelle: non trascorre giorno senza le voci di possibili transfughi, in qualsiasi direzione. E principalmente verso la Lega.

I MALUMORI DI ITALIA VIVA SULLA PRESCRIZIONE

A parole nessuno vuole creare l’incidente sulla Giustizia, in particolare sulla cancellazione della prescrizione prevista dalla riforma del ministro Bonafede. Ma la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, così il Partito democratico ha piantato un paletto: senza un accordo di maggioranza, sarà portata in Aula una proposta di legge alternativa che non elimina la prescrizione, ma la regolamenta con una sospensione massima di tre anni e sei mesi. Come se non bastasse Italia Viva ha ribadito che è pronta anche a votare il testo di Forza Italia, presentato dal deputato Enrico Costa. Questa proposta punta a neutralizzare la norma voluta dal Guardasigilli. Una mossa che spalanca le porte a un’eventuale, ulteriore, spaccatura tra i cinque stelle. Una retromarcia sulla prescrizione, infatti, potrebbe essere la scusa buona per i malpancisti del Senato a lasciare il Movimento. Senza dimenticare il dossier sulla revoca della concessione ad Autostrade, che potrebbe provocare la stessa dinamica tra i dissidenti M5s. 

IL REFERENDUM CHE PUÒ AVVICINARE LE ELEZIONI

Pochi giorni e gli italiani sapranno se ci sarà un referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. Il 12 gennaio scade il termine per le firme sulla richiesta del referendum: al Senato il quorum è stato raggiunto, ma qualcuno potrebbe decidere di ritirare la firma, facendo saltare la consultazione (che si terrebbe in primavera). Il passaggio è molto delicato: intorno a questa decisione c’è un interesse di Palazzo, ossia la possibilità di far terminare anticipatamente la legislatura per tornare subito al voto ed eleggere, per l’ultima volta, 945 parlamentari invece di 600 come previsto dalla riforma approvata. A questo si aggiunge un’altra atavica questione: la legge elettorale, su cui la maggioranza fatica a trovare un’intesa. Ma c’è una certezza: nelle prossime settimane la Corte costituzionale si esprimerà sull’ammissibilità del referendum proposto dalla Lega; l’obiettivo è quello di introdurre un maggioritario puro, cancellando la quota proporzionale prevista dal Rosatellum.

IL VOTO SU SALVINI ALIMENTA LE TENSIONI

Il 20 gennaio ci sarà il voto su Salvini e la vicenda giudiziaria relativa alla nave Gregoretti: i magistrati chiedono di poter processare il leader della Lega. La vicenda accresce gli imbarazzi dei cinque stelle, che sul caso della Diciotti avevano respinto la richiesta della magistratura. Ma quella era l’epoca del Salvini alleato di Di Maio, ora la fase politica è diversa. E anche l’orientamento sembra cambiato. I leghisti scrutano perciò le intenzioni di Italia Viva, che non si è sbilanciata sulla decisione. L’aria che tira nei corridoi parlamentari è che il dialogo tra i “due Mattei”, Renzi e Salvini, potrebbe manifestarsi proprio il 20 gennaio. Facendo esplodere ulteriori tensioni. 

LE REGIONALI COME PUNTO DI SVOLTA

Le Regionali in Emilia-Romagna e Calabria, in calendario il 26 gennaio, hanno una valenza nazionale. Al di là delle smentite di rito, l’eventuale sconfitta di Stefano Bonaccini provocherebbe uno smottamento nel Pd, rischiando seriamente di trascinare con sé l’intero governo. Facile prevedere pure le accuse rivolte al Movimento che ha voluto presentare un proprio candidato. Nelle ultime settimane, il barometro segnala un moderato ottimismo: il centrosinistra è dato in vantaggio nei sondaggi sull’alleanza di centrodestra, guidata dalla leghista Lucia Borgonzoni. Ma c’è un altro tornante fondamentale nel voto per l’Emilia-Romagna. Un risultato molto deludente di Simone Benini, candidato del M5s, aprirebbe l’ennesimo fronte polemico interno nei confronti di Di Maio. Con la messa in discussione della sua leadership e l’aumento del malcontento tra i parlamentari pentastellati. Sull’esito del voto in Calabria, invece, l’attenzione è al momento minore.

EX ILVA, MA NON SOLO: LE VERTENZE CHE SCOTTANO

La «maratona» di tre anni annunciata da Conte parte quindi con un primo chilometro durissimo. Tutto in salita. Oltre al rapporto tra i partiti, sul tavolo ci sono questioni che tirano in ballo il destino di decine di migliaia di lavoratori. In questo caso spetterà al ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, dirimere le problematiche più delicate. Il futuro dell’ex Ilva e di Alitalia è incerto: lo stabilimento di Taranto è al centro di una complicata trattativa con ArcelorMittal, mentre la compagnia aerea ha ricevuto l’ennesimo prestito-ponte. Ma all’orizzonte non si delinea una soluzione definitiva. Tra le vertenze ci sono anche quelle della Whirpool, dell’ex Embraco e della Bosch di Bari. Sempre nel capoluogo pugliese c’è un’altra criticità: la Popolare di Bari. Il salvataggio in extremis dell’istituto non ha risolto la questione. Anzi.

DALLE BANCHE A QUOTA 100: GLI ALTRI FRONTI DELICATI

La questione banche è pronta ad acuire le divisioni. I lavori della commissione di inchiesta dovranno comunque partire nel 2020: non è immaginabile un ulteriore slittamento. E le scintille tra Movimento 5 Stelle e Italia Viva sono facilmente prevedibili. Un altro terreno di scontro è rappresentato dai decreti Sicurezza: una parte del Pd chiede la totale cancellazione dei provvedimenti voluti da Salvini nel corso della precedente esperienza di governo. Conte ha detto di voler conservare l’impianto normativo, prevedendo solo ritocchi. Zingaretti sarà costretto a battere i pugni sul tavolo e comunque dovrà accettare una mediazione, rischiando di alimentare le polemiche interne. Sempre tra i dem c’è la volontà di rilanciare la battaglia sullo Ius Culturae, sfidando il niet di Di Maio. Tra i tanti dossier aperti e quelli da aprire, si inserisce l’attivismo di Renzi, che ha bisogno di ritagliarsi uno spazio per aumentare i consensi della sua creatura politica. Italia Viva al momento non sfonda nei sondaggi. Così l’ex presidente del Consiglio, attraverso i suoi fedelissimi, ha già annunciato una campagna contro Reddito di cittadinanza e Quota 100, cavalli di battaglia del M5s. Una provocazione che non è passata inosservata. Insomma, all’ordine del giorno delle criticità del Conte 2 c’è un ricco capitolo di “varie ed eventuali”.

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Le sfide del 2020 su cui il governo si gioca la sopravvivenza

Il nodo prescrizione. Il voto sulla Gregoretti. Le Regionali. Ma anche la questione banche, i decreti Sicurezza (che una parte del Pd vuole cancellare) e il Reddito di cittadinanza, nel mirino di Renzi. I dossier che metteranno a dura prova la tenuta della maggioranza.

C’è Giuseppe Conte che guarda a «una maratona» fino al 2023 e c’è Nicola Zingaretti che con più cautela parla di agenda per il 2020, invocando «crescita e giustizia fiscale». In mezzo ci sono Luigi Di Maio e Matteo Renzi che giurano lealtà, ma devono districarsi tra reciproche diffidenze e problemi di varia natura. Ed è proprio il rapporto tra Movimento 5 Stelle e Italia Viva ad aumentare i pericoli di una crisi, con Palazzo Chigi spettatore interessato delle scintille tra gli alleati-nemici. Il nuovo anno del governo non si annuncia affatto tranquillo. E più che un progetto annuale, se non addirittura triennale come vaticinato dal presidente del Consiglio, la realtà racconta di una navigazione sempre più a vista. 

Pensare a una scadenza a lungo tempo è complicato

Fonti di maggioranza

L’ottimismo professato da Conte non trova grandi riscontri nei fatti. «Pensare a una scadenza a lungo tempo è complicato», ammette un parlamentare della maggioranza. Fin dai prossimi primi giorni ci saranno degli ostacoli da saltare, aggirare. O, come è avvenuto nelle ultime settimane, da spostare qualche mese più in avanti, cercando di rinviare e temporeggiare. Dal voto su Matteo Salvini per il caso Gregoretti alle elezioni regionali, l’inizio del 2020 sarà ricco di insidie, con le varie forze di maggioranza che devono accorciare distanze siderali. Ma il principale problema resta la tenuta del Movimento 5 Stelle: non trascorre giorno senza le voci di possibili transfughi, in qualsiasi direzione. E principalmente verso la Lega.

I MALUMORI DI ITALIA VIVA SULLA PRESCRIZIONE

A parole nessuno vuole creare l’incidente sulla Giustizia, in particolare sulla cancellazione della prescrizione prevista dalla riforma del ministro Bonafede. Ma la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, così il Partito democratico ha piantato un paletto: senza un accordo di maggioranza, sarà portata in Aula una proposta di legge alternativa che non elimina la prescrizione, ma la regolamenta con una sospensione massima di tre anni e sei mesi. Come se non bastasse Italia Viva ha ribadito che è pronta anche a votare il testo di Forza Italia, presentato dal deputato Enrico Costa. Questa proposta punta a neutralizzare la norma voluta dal Guardasigilli. Una mossa che spalanca le porte a un’eventuale, ulteriore, spaccatura tra i cinque stelle. Una retromarcia sulla prescrizione, infatti, potrebbe essere la scusa buona per i malpancisti del Senato a lasciare il Movimento. Senza dimenticare il dossier sulla revoca della concessione ad Autostrade, che potrebbe provocare la stessa dinamica tra i dissidenti M5s. 

IL REFERENDUM CHE PUÒ AVVICINARE LE ELEZIONI

Pochi giorni e gli italiani sapranno se ci sarà un referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. Il 12 gennaio scade il termine per le firme sulla richiesta del referendum: al Senato il quorum è stato raggiunto, ma qualcuno potrebbe decidere di ritirare la firma, facendo saltare la consultazione (che si terrebbe in primavera). Il passaggio è molto delicato: intorno a questa decisione c’è un interesse di Palazzo, ossia la possibilità di far terminare anticipatamente la legislatura per tornare subito al voto ed eleggere, per l’ultima volta, 945 parlamentari invece di 600 come previsto dalla riforma approvata. A questo si aggiunge un’altra atavica questione: la legge elettorale, su cui la maggioranza fatica a trovare un’intesa. Ma c’è una certezza: nelle prossime settimane la Corte costituzionale si esprimerà sull’ammissibilità del referendum proposto dalla Lega; l’obiettivo è quello di introdurre un maggioritario puro, cancellando la quota proporzionale prevista dal Rosatellum.

IL VOTO SU SALVINI ALIMENTA LE TENSIONI

Il 20 gennaio ci sarà il voto su Salvini e la vicenda giudiziaria relativa alla nave Gregoretti: i magistrati chiedono di poter processare il leader della Lega. La vicenda accresce gli imbarazzi dei cinque stelle, che sul caso della Diciotti avevano respinto la richiesta della magistratura. Ma quella era l’epoca del Salvini alleato di Di Maio, ora la fase politica è diversa. E anche l’orientamento sembra cambiato. I leghisti scrutano perciò le intenzioni di Italia Viva, che non si è sbilanciata sulla decisione. L’aria che tira nei corridoi parlamentari è che il dialogo tra i “due Mattei”, Renzi e Salvini, potrebbe manifestarsi proprio il 20 gennaio. Facendo esplodere ulteriori tensioni. 

LE REGIONALI COME PUNTO DI SVOLTA

Le Regionali in Emilia-Romagna e Calabria, in calendario il 26 gennaio, hanno una valenza nazionale. Al di là delle smentite di rito, l’eventuale sconfitta di Stefano Bonaccini provocherebbe uno smottamento nel Pd, rischiando seriamente di trascinare con sé l’intero governo. Facile prevedere pure le accuse rivolte al Movimento che ha voluto presentare un proprio candidato. Nelle ultime settimane, il barometro segnala un moderato ottimismo: il centrosinistra è dato in vantaggio nei sondaggi sull’alleanza di centrodestra, guidata dalla leghista Lucia Borgonzoni. Ma c’è un altro tornante fondamentale nel voto per l’Emilia-Romagna. Un risultato molto deludente di Simone Benini, candidato del M5s, aprirebbe l’ennesimo fronte polemico interno nei confronti di Di Maio. Con la messa in discussione della sua leadership e l’aumento del malcontento tra i parlamentari pentastellati. Sull’esito del voto in Calabria, invece, l’attenzione è al momento minore.

EX ILVA, MA NON SOLO: LE VERTENZE CHE SCOTTANO

La «maratona» di tre anni annunciata da Conte parte quindi con un primo chilometro durissimo. Tutto in salita. Oltre al rapporto tra i partiti, sul tavolo ci sono questioni che tirano in ballo il destino di decine di migliaia di lavoratori. In questo caso spetterà al ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, dirimere le problematiche più delicate. Il futuro dell’ex Ilva e di Alitalia è incerto: lo stabilimento di Taranto è al centro di una complicata trattativa con ArcelorMittal, mentre la compagnia aerea ha ricevuto l’ennesimo prestito-ponte. Ma all’orizzonte non si delinea una soluzione definitiva. Tra le vertenze ci sono anche quelle della Whirpool, dell’ex Embraco e della Bosch di Bari. Sempre nel capoluogo pugliese c’è un’altra criticità: la Popolare di Bari. Il salvataggio in extremis dell’istituto non ha risolto la questione. Anzi.

DALLE BANCHE A QUOTA 100: GLI ALTRI FRONTI DELICATI

La questione banche è pronta ad acuire le divisioni. I lavori della commissione di inchiesta dovranno comunque partire nel 2020: non è immaginabile un ulteriore slittamento. E le scintille tra Movimento 5 Stelle e Italia Viva sono facilmente prevedibili. Un altro terreno di scontro è rappresentato dai decreti Sicurezza: una parte del Pd chiede la totale cancellazione dei provvedimenti voluti da Salvini nel corso della precedente esperienza di governo. Conte ha detto di voler conservare l’impianto normativo, prevedendo solo ritocchi. Zingaretti sarà costretto a battere i pugni sul tavolo e comunque dovrà accettare una mediazione, rischiando di alimentare le polemiche interne. Sempre tra i dem c’è la volontà di rilanciare la battaglia sullo Ius Culturae, sfidando il niet di Di Maio. Tra i tanti dossier aperti e quelli da aprire, si inserisce l’attivismo di Renzi, che ha bisogno di ritagliarsi uno spazio per aumentare i consensi della sua creatura politica. Italia Viva al momento non sfonda nei sondaggi. Così l’ex presidente del Consiglio, attraverso i suoi fedelissimi, ha già annunciato una campagna contro Reddito di cittadinanza e Quota 100, cavalli di battaglia del M5s. Una provocazione che non è passata inosservata. Insomma, all’ordine del giorno delle criticità del Conte 2 c’è un ricco capitolo di “varie ed eventuali”.

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La spesa militare non sta diminuendo neanche col governo Pd-M5s

I tagli erano un cavallo di battaglia dei due partiti. Ma ora il ministro della Difesa Guerini porta avanti i progetti degli F-35. Rischiando persino un ingorgo di acquisti in campo aeronautico. Così l'Italia è pronta a sborsare 3,5 miliardi nei prossimi anni. Sotto il pressing della Nato. Il quadro.

Cacciabombardieri di tutti i tipi. Con un’accelerazione sui programmi militari registrata nelle ultime settimane del 2019. E addirittura il rischio di creare un ingorgo di acquisti in campo aeronautico. Sulla spesa militare, insomma, il “governo della svolta” non ha affatto svoltato: è in continuità rispetto a quanto fatto (o non fatto) nelle ultime legislature.

DIREZIONE GIÀ PRESA CON LA MINISTRA TRENTA

Un deputato del Movimento 5 stelle con cui Lettera43.it ha interloquito sorride amaro: «Già con la ministra della Difesa Elisabetta Trenta si stava andando in quella direzione, ma ora col suo successore Lorenzo Guerini è meglio non parlarne proprio degli ideali di una volta…». Una spia del malumore celato in Transatlantico. Sì, perché tra i tanti temi scomodi sul tavolo c’è il capitolo della spesa militare. La cui riduzione un tempo era cavallo di battaglia del M5s e della sinistra, almeno quella più radicale.

ANCORA GLI F-35: VIA LIBERA DELLA CAMERA

L’ultimo tassello è arrivato con l’approvazione dell’esecutivo alla seconda fase del programma degli F-35, i caccia della Lockheed osteggiati da tutti a parole. Ma nei fatti mai bloccati dai vari governi che si sono susseguiti. Anche Matteo Renzi, quando soggiornava a Palazzo Chigi, era orientato a dimezzare il programma. Ma dietro le buone intenzioni non c’è stato nulla, né allora né adesso. Le avvisaglie c’erano state già a ottobre 2019, a sole poche settimane dall’insediamento di Guerini: il ministro della Difesa, in un’intervista, aveva scandito: «Avanti con gli F-35» perché c’è un «bisogno oggettivo e non rinviabile» e soprattutto «va garantita efficienza operativa dello strumento militare». Messaggio chiaro, seguito dalla prudente mozione proposta alla Camera dalla maggioranza. Che di fatto ha concesso il via libera, seppure con un giro di parole improntato alla cautela.

L’ESBORSO: 3,5 MILIARDI, 130 MILIONI PER AEREO

L’iter degli F-35 è diviso in tre fasi: la prima è stata una sorta di pre-serie e ha portato l’Italia ad acquistare 28 caccia (sui quali, come si sa, non possiamo tornare indietro); la seconda è la prima parte della produzione di serie; la terza è la ultima fase della full-rate production. Il sì alla seconda fase vuol dire acquistare il “blocco” di 27 aerei previsti per questo step: in totale saranno 55 gli F-35 acquistati. Insomma, nonostante i dubbi e le battaglie politiche, l’Italia spenderà nei prossimi anni oltre 3,5 miliardi di euro con un costo medio per aereo di 130 milioni.

ALTERNATIVA NAUFRAGATA: ED ERA MADE IN ITALY

Ma non è l’unico paradosso. Qualche strada alternativa, durante il Conte I gialloverde, era stata pure tentata dal M5s. Ma, a quanto pare, ogni ipotesi è naufragata. Nei mesi precedenti alla conferma della fase 2, secondo quanto risulta a Lettera43.it, sarebbe stato realizzato dai pentastellati un documento sottoposto al ministero della Difesa in cui si ragionava sull’opportunità di optare sui caccia M-346FA (Fighter Attack) al posto degli F-35. Le ragioni, a detta dei tecnici, sono molteplici: risultato più affidabili degli F-35, costano un quinto e sono già a disposizione perché non bisogna svilupparli. Con un altro “piccolo” particolare: essendo totalmente Made in Italy, ci sarebbero stati benefici esclusivi per le casse italiane.

CHE ATTIVISMO DI GUERINI: ALTRI 2,3 MILIARDI IMPEGNATI

Il progetto, però, non è andato avanti. Anzi, se ne sono aggiunti altri, ma orientati altrove. L’attivismo strategico di Guerini è stato visibile ancor prima dell’okay agli F-35. A pochi giorni dal suo insediamento al ministero, infatti, è arrivata l’adesione definitiva al programma per il Tempest britannico, il caccia di sesta generazione: il neo ministro ha apposto la firma sul progetto, dando seguito a quanto già tracciato dalla Trenta. Difficile stabilire, oggi, quale sarà l’impegno economico per l’Italia. Le stime più plausibili (ma che, ovviamente, non tengono conto dei costi indiretti) parlano di un impegno iniziale, quantificato dai britannici, in 2 miliardi di sterline, circa 2,3 miliardi di euro. Il processo è ancora lungo e mira a rendere i nuovi aerei militari operativi non prima del 2035.

guerini spesa militare italiana 2019
Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini in visita alla base militare di Shamaa, nel Sud del Libano. (Ansa)

INCOGNITE SUI CACCIA: RISORSE ANCHE PER I “CONCORRENTI”

Restano numerosi interrogativi. Perché avviare un nuovo programma militare, nonostante per mesi abbia tenuto banco l’idea di bloccare gli F-35? È quello che si chiede, tra gli altri, il portavoce della Rete per il disarmo, Francesco Vignarca, che al di là dell’opportunità “militare”, ragiona anche su questioni prettamente economiche: «L’Italia si troverà tra qualche anno, inspiegabilmente e illogicamente, ad avere più di tre programmi militari in campo aeronautico: l’Eurofighter, l’F-35 e ora il Tempest». Con un particolare ulteriore e non secondario: «Il nostro Paese partecipa anche al programma dell’eurodrone (progetto sponsorizzato direttamente dall’Unione europea, ndr). Ma alcuni elementi di questo progetto confluiranno nel Fcas (Future Air Combat System), il caccia franco-tedesco, che è competitor diretto del Tempest. Insomma, pagheremo indirettamente anche il concorrente del nostro nuovo progetto», spiega ancora il portavoce della Rete disarmo. A conti fatti, dunque, c’è l’adesione a un programma militare, nonostante siano in piedi altri due “concorrenti” e mentre c’è la partecipazione, indiretta, allo sviluppo del competitor naturale dello stesso Tempest.

FATTORE NATO: PRESSING PER INVESTIRE IL 2% DEL PIL

Sulla spesa militare la linea è chiara: Guerini è pronto a soddisfare il “fattore Nato”. La spinta agli investimenti potrebbe rispondere anche agli impegni assunti nel 2014 in Galles, in particolare al 2% del Pil da spendere nella Difesa entro il 2024, come richiesto dall’Alleanza atlantica. Del resto «la quantità di risorse investite è oggetto di costante e sempre più attento monitoraggio» da parte della Nato, viene riferito. Finora, ha ricordato il titolare della Difesa, essere il secondo contributore alle missioni comuni «ci ha posto al riparo da più severe osservazioni». Ma con l’attenzione dell’amministrazione Trump la cosa potrebbe cambiare. La quota «dell’1,22% ci vede ancor lontani dagli obiettivi fissati», però proprio per questo, ha assicurato Guerini, «intraprenderemo tutti gli sforzi per un percorso teso a incrementare gradualmente gli investimenti con l’obiettivo di allineare il rapporto budget Difesa e Pil ad altri partner europei». Una strategia contestata dalla Rete disarmo: «Non c’è alcun documento scritto, alcuna direttiva che obbliga i Paesi a destinare alla difesa il 2% del Pil. Mi piacerebbe avere un governo che dica questo invece di cedere per accontentare i desiderata di Trump», commenta Vignarca.

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Il Terzo settore e quella riforma rimasta congelata

Il riordino degli enti che operano nel sociale e senza scopi di lucro è stato approvato da due anni. Ma mancano ancora il registro unico e i decreti attuativi su controlli e 5 per mille. Colpa di governi disattenti che hanno accumulato ritardo anche rispetto alle normative europee. Il punto.

I volontari possono attendere. E con loro tutte le realtà che operano nel sociale. La riforma del Terzo settore, tanto sbandierata nella precedente legislatura, c’è ma non si vede. A due anni dall’approvazione non può dispiegare i suoi effetti. Il motivo? Il ministero del Lavoro non ha emanato molti dei decreti attuativi necessari per dare sostegno agli attori che operano con finalità solidaristiche senza scopo di lucro.

TUTTO FERMO SUL FRONTE TRASPARENZA

Così gli enti del Terzo settore (Ets) non possono beneficiare degli incentivi fiscali presenti nel provvedimento, né tantomeno far ricorso agli altri strumenti messi, potenzialmente, a disposizione. Manca addirittura l’istituzione del registro unico del Terzo settore, indispensabile per mappare gli enti. A complicare il quadro c’è un altro elemento: non risultano attivi i decreti relativi alla disciplina dei controlli e delle funzioni di vigilanza. Quindi anche sul fronte della trasparenza è tutto fermo.

L’OBIETTIVO: UN RIORDINO NORMATIVO

La scopo della riforma è il riordino del sistema normativo sugli enti privati «costituiti con finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale che, senza scopo di lucro, promuovono e realizzano attività d’interesse generale, mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi, in coerenza con le finalità stabilite nei rispettivi statuti o atti costitutivi», ha sintetizzato il Centro studi della Camera. Insomma, un impulso al volontariato e alle organizzazioni attente al sociale.

PROMOZIONE DELL’AUTONOMIA STATUTARIA

Tra gli obiettivi pratici ci sono quelli di favorire e garantire il più ampio esercizio del diritto di associazione, il riconoscimento dell’iniziativa economica privata per il miglioramento dei livelli di tutela dei diritti sociali e la promozione dell’autonomia statutaria degli enti per accrescere il livello di trasparenza. Proprio per questo motivo è stato pensato il registro unico nazionale del Terzo settore la cui iscrizione è obbligatoria per chi chiede il riconoscimento di Ets. Ma il registro, appunto, non c’è ancora.

MANCANO ANCORA 30 DECRETI ATTUATIVI

In totale mancano all’appello circa 30 decreti, alcuni dei quali considerati pilastri della riforma. Oltre all’istituzione del registro, infatti, non è stato emanato il testo che regolamenta la possibilità di destinare il 5 per mille ai soggetti aventi diritto. In questo caso l’intrigo riguarda più dicasteri: il Tesoro ha presentato uno schema di provvedimento su cui il ministero del Lavoro si è già espresso; ora si resta in attesa della conclusione della procedura. Ma non è questo l’unico nodo da sciogliere. Per il codice del Terzo settore occorrono 24 decreti attuativi, ma solo nove risultano effettivamente adottati, mentre altri quattro sono in fase di preparazione.

IL PD RICHIAMA IL GOVERNO

Non va meglio per la parte della legge che riguarda l’impresa sociale: sono previsti 12 decreti, ma solo tre sono stati adottati, mentre uno è in elaborazione. Una serie di caselle mancanti che rendono la norma zoppa. Il deputato del Partito democratico, Stefano Lepri, illustrando un’interrogazione presentata alla ministra Nunzia Catalfo ha spiegato: «Lo stato dell’applicazione da parte del ministero è ancora piuttosto in ritardo. Troppe volte il governo è più attento all’azione legislativa piuttosto che a quella esecutiva, che è invece il primario compito di chi è chiamato a governare», ha aggiunto l’esponente dem.

LA MINISTRA CATALFO PROMETTE IMPEGNO

La Catalfo ha trovato sul tavolo questa pesante eredità. In pochi mesi ha dovuto valutare la situazione, lasciata in sospeso dal suo predecessore Luigi Di Maio, e ha tenuto un incontro al ministero, venerdì 13 dicembre, con lo scopo di tracciare una road map. «Il mio impegno, nella prima metà del 2020, sarà concentrato sulla finalizzazione di alcuni importanti provvedimenti che, allo stato attuale, sono in fase di avanzata elaborazione, quali la definizione della modulistica dei bilanci degli enti del Terzo settore, le linee guida sulla raccolta fondi, la disciplina dell’attività di vigilanza sulle imprese sociali, il decreto concernente il funzionamento del registro unico nazionale del Terzo settore», ha spiegato Catalfo rispondendo alla Camera all’interrogazione del Pd.

CONFRONTO TECNICO CON LE REGIONI

Dal ministero hanno anche riferito che «è in corso il confronto tecnico con le Regioni e conto di poter giungere all’adozione del registro unico nei primi mesi del 2020». Ci sono stati, in questa direzione, anche gli incontri con l’Agenzia delle entrate e con il Forum del Terzo settore.

RITARDO ANCHE RISPETTO ALL’EUROPA

In questo quadro c’è un altro ritardo: quello sulla procedura nei confronti dell’Unione europea, necessaria per attestare la compatibilità delle previsioni fiscali con le normative comunitarie. Al momento dal ministero del Lavoro è arrivata la garanzia di aver istituito «un tavolo tecnico con il ministero dell’Economia e delle finanze e l’Agenzia delle entrate, attualmente impegnato nella definizione di un documento da sottoporre all’attenzione della Commissione Ue». Con la promessa generale di dialogare con i soggetti interessati. Che intanto attendono la reale attuazione della riforma.

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L’Italia nell’eterno gran ballo della legge elettorale da riformare

Maggioranza e opposizioni al tavolo per trovare un'intesa. Sarebbe il quinto nuovo sistema per votare dal 1994 a oggi. L'Italicum entrato in vigore senza mai essere applicato, il Rosatellum che non vuole più nessuno e il confronto con gli altri Paesi europei: storia di una giostra caotica tutta nostrana.

Per alcuni è una questione tecnica, che «non interessa agli italiani», per altri ha il potere di far cadere governi. Fatto sta che la legge elettorale è un grande classico nel dibattito politico. A ogni legislatura c’è l’estenuante confronto per riformarla. Dal 1994 in poi si sono susseguiti quattro diversi sistemi, in attesa del quinto dato in arrivo nel 2020. Addirittura uno di questi, l’Italicum, è entrato in vigore senza mai essere applicato. Una giostra in continuo movimento, che rappresenta un caso pressoché unico tra i grandi Paesi europei.

IL ROSATELLUM: MISTO FRA UNINOMINALE E PROPORZIONALE

Per cercare una soluzione definitiva è scattato l’ennesimo confronto alle Camere, spinto in particolare dall’approvazione del taglio del numero di parlamentari (che ora però deve passare per il vaglio del referendum confermativo). Il motivo? Serve un sistema in grado di garantire rappresentanza. Le elezioni 2018 si sono svolte con la legge Rosato, meglio nota come Rosatellum, sistema misto tra collegi uninominali, che elegge il 37% dei parlamentari, collegati alla parte proporzionale, che elegge l’altro 61%, a cui si somma il 2% di eletti all’estero. Ma su questa norma pende il giudizio della Corte costituzionale, che deve pronunciarsi sui quesiti referendari promossi dalla Lega per cancellare la parte proporzionale. E rendere la legge un maggioritario puro. Quindi, si gioca su un doppio fronte: quello parlamentare e l’altro referendario.

VERTICE MAGGIORANZA-OPPOSIZIONI: SOGLIA DI SBARRAMENTO AL 4%?

Giovedì 19 dicembre maggioranza e opposizioni si sono sedute al tavolo per cercare un’intesa ampia. La proposta in campo è quella di un proporzionale corretto. Una cornice generale in cui vanno inseriti gli elementi fondamentali, a cominciare dalla soglia di sbarramento: Pd e M5s vorrebbero fissarla al 5%, mentre gli alleati preferirebbero che fosse più bassa, meglio se al 3%. «L’accordo si troverà sul 4%», è la previosione “matematica” di una fonte parlamentare della maggioranza. Il leghista Roberto Calderoli, dopo aver partecipato al vertice nello studio del presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera Giuseppe Brescia, ha spiegato: «Noi non siamo aprioristicamente contrari a nulla, l’importante è che si faccia una legge e si torni presto alle urne». Mentre Pier Luigi Bersani (oggi Articolo uno) in un’intervista a Il Fatto Quotidiano si è detto addirittura disposto a qualiasi «inciucione» pur di non votare col Rosatellum.

SPAGNA: RIPARTIZIONE PER CIRCOSCRIZIONI

Il nodo da sciogliere è la modalità per l’elezione dei parlamentari: la spinta va verso il sistema spagnolo, ossia la ripartizione dei seggi sulla base della circoscrizione. In questo ogni circoscrizione (in Spagna corrispondono alle province) è una competizione a sé. La soglia di sbarramento è fissata al 3% su base circoscrizionale, ma tende a formarsi uno sbarramento implicito in base all’ampiezza delle stesse circoscrizioni (meno sono i seggi da ripartire, meno sono le liste che li ottengono). In questo senso vengono premiate le forze con maggiore radicamento in determinate regioni: perfetto per un Paese come la Spagna.

GERMANIA: SOGLIA AL 5% E MECCANISMO MISTO

Il sistema tedesco, più volte citato nel dibattito politico italiano, prevede invece una soglia di sbarramento al 5% al livello nazionale con un meccanismo misto tra collegi uninominali e proporzionale.

REGNO UNITO: MAGGIORITARIO SECCO ALLA MATTARELLUM

L’esperienza britannica è quella che in Italia è stata in parte sperimentata con il Mattarellum: c’è un maggioritario secco, chi consegue più voti nel collegio entra in parlamento.

FRANCIA: DOPPIO TURNO PER CHI SUPERA IL 12,5%

Anche in Francia c’è un sistema maggioritario, ma a doppio turno: i candidati che superano il 12,5% al primo turno possono partecipare al secondo. Una lieve differenza rispetto alle elezioni presidenziali che mandano al ballottaggio i due candidati più votati. Insomma un quadro vario tra i vari Paesi, che però hanno un punto in comune e mettono l’Italia dietro la lavagna: le leggi elettorali non cambiano a distanza di pochi anni. E nemmeno a ridosso del voto.

DALLA SECONDA REPUBBLICA UNA GIOSTRA CONTINUA

L’alternanza di leggi elettorali è infatti da capogiro: dalla Seconda Repubblica in poi è un ballo continuo; con un sensibile peggioramento negli ultimi cinque anni. Nella Prima Repubblica l’Italia ha avuto un sistema elettorale proporzionale, con i seggi ripartiti in base alle percentuali di voto. Per quasi 50 anni è stato una certezza, anche se va conteggiata la parentesi della “legge truffa” del 1953, che istituiva un premio di maggioranza alla lista in grado di superare il 50%.

VECCHIE ACCUSE: ECCESSO DI FRAMMENTAZIONE

Dopo quelle elezioni, però, è tornata la vecchia legge, che negli Anni 90 è finita sotto accusa per eccesso di frammentazione. La rumba delle continue modifiche è iniziata nel 1994, con l’entrata in vigore del Mattarellum (l’estensore è stato Sergio Mattarella, 20 anni prima dell’ascesa al Quirinale), assecondando l’esito di un referendum del 1993. Il sistema era principalmente maggioritario con il 75% dei seggi assegnati in collegi uninominali e il restante su base proporzionale.

LA PORCATA DI CALDEROLI: USATA PER TRE ELEZIONI

La riforma ha regolato tre tornare elettorali (1994, 1996, 2001), ma dopo aver superato i 10 anni è stata cancellata. La maggioranza di centrodestra, nel 2005, ha varato il Porcellum, chiamato così perché il leghista ideatore della legge, Calderoli, aveva usato la definizione di «porcata» per descriverla. Nonostante l’etichetta tutt’altro che nobile, si sono svolte altre tre elezioni politiche (2006, 2008, 2013) con questo meccanismo che prevedeva un proporzionale con premio di maggioranza alla coalizione più votata alla Camera (mentre al Senato la ripartizione, anche dei premi, avveniva su base regionale).

LA LEGGE RENZIANA DECAPITATA DALLA CONSULTA

Dopo un ricorso alla Consulta, che ha dichiarato illegittimi alcuni punti del Porcellum, il tritacarne di sistemi elettorali ha aumentato i giri. L’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha spinto per l’approvazione dell’Italicum, una legge su base proporzionale con premio di maggioranza alla lista (ed eventuale ballottaggio in caso di mancato raggiungimento del 40% al primo turno). La riforma è entrata in vigore, ma gli italiani non hanno mai votato con questo sistema: un nuovo pronunciamento della Corte costituzionale ha di fatto decapitato l’Italicum. Così, a pochi mesi delle Politiche del 2018, il vuoto normativo è stato riempito con il Rosatellum. In attesa dell’ennesima riforma, la quinta in 25 anni. Salvo sorprese.

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Le sfide delle Sardine dopo la manifestazione di Roma

Decine di migliaia di persone in piazza San Giovanni. Un successo che però apre nuovi interrogativi sul futuro del movimento. Il reportage di L43.

L’entusiasmo, la voglia di partecipazione, e tra, un selfie e l’altro per attestare la presenza in piazza, l’impegno per dare un messaggio alla politica italiana. E cambiarla nel segno dell’accoglienza e dell’empatia, quasi una parola d’ordine per le Sardine ritrovatesi a Piazza San Giovanni, a Roma, tempio della sinistra in Italia. Un cambiamento che, stando a quanto raccolto tra i più giovani, deve accettare l’idea di creare un partito o comunque prendere una posizione fin dalle prossime elezioni.

«VALORI DI SINISTRA»

«Certo, dipende dai valori che si vogliono portare avanti in un eventuale partito delle Sardine. Ora è un movimento molto eterogeneo. Ma in generale spero che le persone qui presenti, alle prossime elezioni, si riconoscano in un partito di sinistra, che si impegna contro odio, razzismo e il ritorno del fascismo», sintetizza Martina, una giovanissima scesa in piazza fin dall’inizio della manifestazione. E, tra quanto raccolto da Lettera43.it sono proprio i più giovani a chiedere un processo politico che possa mettere al centro le istanze poste dalle Sardine. Sia con la nascita di un soggetto autonomo, sia come una forza movimentista capace di condizionare i partiti tradizionali. L’importante è che «continui a portare aria fresca alla politica» è uno dei mantra.

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DECISIONI IMMINENTI

Eppure in mezzo alla marea di sentimenti positivi, “buonisti” potrebbero dire i detrattori, ci sono anche molte incognite. Tante contraddizioni, nodi da sciogliere. Su tutti le decisioni da assumere fin dalle prossime settimane. Proprio sulla relazione con le forze politiche già in campo. «Sono qui con molto entusiasmo e voglia di dare una mano alle Sardine», spiega Maria Chiara, emiliana di origine e residente a Roma da pochi mesi. «Ma se potessi votare alle Regionali in Emilia, non avrei dubbi a sostenere Bonaccini», ammette senza tentennamenti. Insomma, niente bandiera di partito in piazza, ma un’attenzione a quello che c’è intorno. Anche se si parla del Pd contrapposto al Carroccio. 

CONTRO L’ODIO SALVINIANO

L’empatia, evocata dai fondatori delle Sardine, si costruisce infatti su un altro perno: il rifiuto «dell’odio diffuso da Salvini». Il “non legarsi” è il tratto distintivo delle manifestazioni delle Sardine e di tanti striscioni visti a Piazza San Giovanni. Certo, il tutto portato con un bon ton inedito rispetto ai toni della comunicazione contemporanea, tranne qualche scivolone verso lo slogan del passato. Come la presenza di frange di sinistra anticapitalista. Il punto debole, però, resta sempre quello della proposta. Le persone interpellate non hanno saputo fornire una spiegazione esaustiva, celandosi dietro frasi di comodo: «Siamo un’energia per smuovere la politica», ha sostenuto Fabrizio, attivista dei diritti per la casa. Sull’ipotesi di fare un partito, la sua risposta è secca: «Sarebbe un errore, dobbiamo restare un’energia esterna». Visione opposta a quella di altri gruppi di giovanissimi interpellati: sono loro a spingere affinché questo movimento diventi «un partito nuovo». Con quali obiettivi? «Cambiare tutta la classe dirigente, facendo cose di sinistra. A cominciare dallo Ius Soli e da tante altre cose come la capacità di cogliere i cambiamenti nel mondo del lavoro», dice Alessandro, anche lui under 18.

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L’IMPOPOLARITÀ DEI PARTITI

Un problema da affrontare è quindi la direzione che devono prendere le Sardine nel futuro. C’è chi come Giacomo preferisce attendere: «Non dimentichiamo che tutto questo è nato spontaneamente in poche settimane. Prima di dare risposte affrettate, è meglio aspettare l’incontro che ci sarà nelle prossime ore». Un auspicio di un partito, quindi? Non proprio. Alcune delle persone intercettate da Lettera43.it su questo tema si irrigidiscono: niente bandiere, niente partiti è il leitmotiv, che nei fatti è un modo per evitare una risposta concreta. Un comportamento comune soprattutto tra chi non è più giovanissimo e ha maggiore sfiducia nei partiti, denotando una differente percezione generazionale del fenomeno. Ma è anche un modo per comprendere l’impopolarità di qualsiasi cosa venga ricondotta a un partito politico, almeno tra chi li ha visti da vicino. «Siamo un gruppo di amiche che combattono il razzismo e il fascismo. Ma un partito delle Sardine, no: sarebbe sbagliato. Questo movimento deve cambiare la vita politica del Paese», scandisce Luigina, una donna romana presente in piazza.

LA PIAZZA E IL POPULISMO


Un’altra critica mossa alle Sardine è quella della proposta populista, respinta con forza. «Ci dicono che siamo populisti? Non mi sembra che i partiti di oggi lo siano di meno… la verità è che questo movimento è un qualcosa di nuovo», osserva Giorgio, romano, tra i più accalorati quando viene adombrato questo sospetto. «Non è che si scende e si diventa populisti. Questo movimento è una boccata d’aria a fresca per reagire a questa violenza fascista. C’è una reazione e della piazza parte la richiesta di una nuova politica. Le nuove generazioni hanno preso iniziativa da sole», rileva Andrea. Non mancano le ammissioni di problemi: «L’organizzazione potrebbe essere migliore, senza dubbio. Ora aspettiamo la riunione dei vari organizzatori. Ma dalle Sardine è arrivata la risposta allo strapotere mediatico della destra, questo va sottolineato», dice Paolo, arrivato da Firenze appositamente per partecipare alla manifestazione.

UN NUOVO SPIRITO SESSANTOTTINO

Sergio, pensionato romano, propone un altro parallelo, anche stimolante: quello con il ’68. «Sono sempre stato comunista», premette. «Ho seguito tutti i movimenti di protesta e negli ultimi anni ho faticato ad avere punti di riferimento politici. Ho votato Pd quando è stato fondato, ma alle ultime elezioni non c’e l’ho fatta. Questi ragazzi si fanno sentire a modo loro, anche perché parliamo di un’altra epoca. Mica bisogna per forza fare sempre tutto con i metodici sessantottini?», aggiunge. Ma la riduzione allo spirito del ’68 assomiglia più a un’operazione nostalgica. Mentre il progetto della Sardine vorrebbe guardare avanti, forte di una partecipazione popolare dirompente. Ma nemmeno dal raduno di Piazza San Giovanni emerge una proposta lineare: cosa scaturirà da questo magma e dalla voglia di «aria fresca», non è chiaro. Almeno per ora.

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Cosa c’è dietro l’abuso di colpi di fiducia del governo

Lavori in Aula compressi e parlamentari ridotti a spettatori votanti delle leggi. Così il Conte II reagisce all'aumento di attriti in maggioranza fra Pd, M5s e Italia viva. Ma anche gli esecutivi precedenti hanno fatto allo stesso modo. Rischio di esercizio provvisorio e proteste delle opposizioni: il quadro.

In attesa del chiarimento tra le forze di maggioranza e del conseguente cronoprogramma di legislatura, il governo va avanti a colpi di fiducia. A conferma che il livello di scontro politico tra i partiti è molto alto e bisogna mettere un freno alle liti. L’esito è sotto gli occhi di tutti: i lavori in Aula vengono compressi sempre di più e i parlamentari sono spesso ridotti a spettatori votanti dei provvedimenti. La fiducia infatti, solitamente usata per compattare la maggioranza ed evitare l’ostruzionismo dell’opposizione, fa decadere tutte le proposte di modifica alla legge che deve essere quindi votata così come è stata presentata.

GIÀ OTTO QUESTIONI DI FIDUCIA IN QUATTRO MESI

Entro fine 2019, infatti, potrebbero salire a otto le questioni di fiducia poste fin dal giuramento del Conte II. Una media di due al mese. Ufficialmente sono già cinque, ma «ne arriveranno altre», ha previsto il navigato parlamentare di Forza Italia, Simone Baldelli. E per le «altre» si intende la doppia fiducia sulla legge di bilancio, prima al Senato e poi alla Camera, e quella sul decreto fiscale, che entro Natale deve essere licenziato da Palazzo Madama, pena la decadenza.

IL FRENO DI FICO: «SONO TROPPE»

Il presidente della Camera, Roberto Fico, si è sentito in dovere di sollevare la questione: «Ci sono troppe fiducie», ha scandito, ricordando di aver già scritto al presidente del Consiglio per rimarcare questo problema. La tendenza è addirittura peggiorata rispetto al precedente esecutivo: anche in quel caso si era arrivati a fine anno con otto fiducie, ma il giuramento c’era stato a giugno, tre mesi prima. E soprattutto è la sequenza a destare perplessità: da fine ottobre in poi, il Conte II ha fatto ricorso a questo strumento in maniera sistematica, a partire dall’approvazione del dl imprese. Un segnale dell’aumento degli attriti tra Movimento 5 stelle, Partito democratico e Italia viva.

SI RISCHIA L’ESERCIZIO PROVVISORIO

Dopo la fiducia posta sul decreto fiscale è toccato al dl clima il 9 dicembre. In entrambi i casi alla Camera. E il numero, come preconizzato dalle opposizioni, è destinato a salire, altrimenti si rischia l’esercizio provvisorio. Da qui la necessità di contingentare i tempi. Sempre che per la manovra si riesca a evitare una terza lettura: c’è il pericolo di qualche lieve modifica, leggasi incidente, nel percorso a Montecitorio. A quel punto il testo dovrebbe per forza tornare a Palazzo Madama: l’approvazione slitterebbe tra le festività natalizie e il Capodanno (come è avvenuto nel 2018) con fiducia aggiuntiva.

L’OBIETTIVO: CHIUDERE ENTRO NATALE

L’obiettivo del governo è comunque quello di evitare ulteriori rallentamenti, chiudendo la partita in due letture e quindi prima di Natale. È una necessità tecnica, ma soprattutto politica: prima del vertice del nuovo anno, fondamentale per stabilire l’agenda, si punta a evitare inciampi. Che potrebbero risultare fatali. Un cosa è comunque certa: «Sulla manovra non toccheremo palla», ammettono i deputati, senza peraltro grosse sorprese.

TENSIONI CHE HANNO FRENATO I LAVORI

Le tensioni a mezzo stampa alla fine si sono riversate sui lavori in parlamento. Nonostante i tentativi di confronto costruttivo in Commissione, le forze di maggioranza hanno dovuto prendere atto delle divisioni interne, allungando i tempi per la preparazione dei provvedimenti più attesi. L’iter della legge di bilancio è stato accidentato, per usare un eufemismo.

GIOVEDÌ IL TESTO NELL’AULA DEL SENATO

Non da meno, però, è stato il decreto fiscale con continui vertici e mediazioni. Le cronache hanno riportato le lacerazioni. E anche nelle ultime ore si è andati a avanti a fatica. Solo giovedì il testo arriva nell’Aula al Senato per essere approvato venerdì, come ha riferito il capogruppo del Partito democratico, Andrea Marcucci.

I PRECEDENTI: HA FATTO PEGGIO GENTILONI

Il tema della fiducia ha sempre surriscaldato gli animi. Il primo governo Conte vi ha fatto ricorso in totale 15 volte in poco più di 14 mesi di vita. L’ultimo caso è stato il voto sul decreto sicurezza. Un percorso decisamente migliore, finora, rispetto al Conte II. La magra consolazione è che c’è chi ha fatto di peggio: l’esecutivo guidato da Paolo Gentiloni, l’ultimo della precedente legislatura, ha chiesto in totale 28 volte la fiducia con la media 2,5 volte al mese.

PER MONTI TRE FIDUCIE AL MESE

Mentre il dato dell’attuale governo è in linea con quello presieduto da Matteo Renzi, che ha fatto ricorso a questo strumento in 66 casi con una media di circa due al mese. E per trovare ancora di peggio bisogna tornare all’esperienza di Mario Monti a Palazzo Chigi: il suo governo aveva posto la questione di fiducia, in media, tre volte al mese.

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Workers Buyout, quando il riscatto è frenato dalla burocrazia

Dalla Italcables a Birrificio Messina fino ad Ar.Pa Lieviti. Sono una settantina le aziende in crisi salvate dai dipendenti. Ma i ritardi nell'erogazione della Naspi in un'unica soluzione a chi ne fa richiesta resta un problema.

I lavoratori salvano l’azienda. Diventandone titolari attraverso la creazione di una cooperativa. E così mandano avanti l’attività, trasformandosi di fatto in imprenditori, spesso di successo.

Non è una storia da film, ma le realtà realizzata in decine di casi in Italia. Dalla cartiera Pirinola di Cuneo alla Estesa di Catania, fino alla Ar.pa Lieviti di Bologna.

Talvolta sono nomi noti, come la Ideal Standard di Pordenone o la Birra Messina, in altri casi si tratta di piccole e medie imprese come la Ceramica Noi di Città di Castello, in Umbria, o la 3Elle di Imola. Certo, il risultato non è mai scontato ed è frutto di sacrificio e impegno.

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Solitamente i lavoratori ricorrono a questa soluzione quando l’azienda ha difficoltà a stare sul mercato a causa dei conti in rosso, oppure quando dopo l’uscita di scena del capo, manca un successore o un erede. Così i lavoratori non si danno per vinti e assicurano la continuità produttiva o il risanamento. C’è un dato che colpisce: quasi l’80% di queste realtà registra buoni risultati; solo il 20% non riesce a rilanciarsi. 

IN CINQUE ANNI SALVATI PIÙ DI 1.200 POSTI DI LAVORO

Tutto bene, quindi? Non proprio. I casi sono ancora troppo pochi rispetto alla potenzialità. In Italia sono state mappate almeno 70 workers buyout (Wbo), con più di 1.200 posti di lavoro salvati negli ultimi cinque anni dai diretti interessati. Si potrebbero avere ben altre cifre, visto che purtroppo ci sono migliaia di imprese che falliscono ogni anno. I motivi del percorso a rilento delle Wbo sono sostanzialmente la frammentazione legislativa e alcune volte la lentezza burocratica sulla liquidazione della Naspi in un’unica soluzione – come prevede una norma del Jobs Act – per chi vuole costituire una cooperativa

DA ZANARDI A MANCOOP, LE STORIE DI RISCATTO

E dire che sono numerosi i case history di successo. C’è la veneta Zanardi editoriale, per esempio. Nel 2014 il titolare dell’impresa si è tolto la vita, lasciando la società in grave difficoltà per debiti. La sfida è stata vinta grazie a 24 dipendenti che hanno investito nel progetto la loro mobilità e la cassa integrazione per una somma totale di 400 mila euro. Con il sostegno di altri finanziatori hanno tenuto in piedi l’impresa. Nel primo anno il fatturato è stato di 360 mila euro. Storie del genere non accadono solo al Nord, nonostante esistano delle disparità territoriali. La Mancoop di Latina è nata quattro anni fa quando 52 dipendenti hanno deciso di salvare la fabbrica di imballaggi passata, prima di andare in rosso, da una multinazionale a un fondo lussemburghese e quindi a un’altra multinazionale.

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IN EMILIA-ROMAGNA E TOSCANA VINCE LA CULTURA COOPERATIVA

In Umbria, altra regione flagellata dalla crisi economica, ci sono la Ternipan (ex Novelli) e la Sartoria Eugubina di Gubbio. L’ex Ceramisia di Città di Castello (Perugia) ha addirittura adottato lo slogan «tutti per uno, un sogno per tutti», cambiando il nome in Ceramica Noi. E il “sogno” è aver conservato il posto di lavoro grazie ai 180 mila euro messi insieme dai fondi per Tfr e Naspi. Da un punto di vista territoriale, Toscana ed Emilia-Romagna vantano maggiori casi di successo, potendo contare su una cultura cooperativa molto radicata. Nel primo caso le Wbo sono 10, nel secondo 19. Proprio a Bologna, di recente, c’è stata la rinascita della Ar.pa lieviti. Il proprietario Paolo Fantizzini, 78 anni, aveva deciso di vendere. Prima di rivolgere lo sguardo ad acquirenti esterni, ha avviato un percorso con i suoi lavoratori. Alla fine è rimasto come consigliere vista l’esperienza nel settore, mentre il comando è passato ai lavoratori-imprenditori. E le premesse sono ottime: per il 2019 sono stimati ricavi di 4 milioni di euro con un incremento del 10% del fatturato.

Lo staff del Birrificio Messina.

SICILIA, ISOLA FELICE DEL MEZZOGIORNO

Il divario con il Mezzogiorno è palese: la mappa delle Wbo è praticamente vuota tra Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia e Calabria. Due piccole oasi sono l’Italcables e la Nuova Ossigeno, entrambe a Napoli. Italcables, azienda siderurgica con sede a Caivano, ha superato la fase difficile grazie al coraggio dei lavoratori: ognuno ha messo a disposizione 25 mila euro, rischiando in proprio. I risultati stanno arrivando, anche se dalla cooperativa sono prudenti circa il futuro per evitare di fare il passo più lungo della gamba. La Sicilia può essere considerata un’Isola felice in questo contesto difficile: tra i sei case history c’è quello di Birra Messina, fondata nel 1923. Il marchio, finito sotto il controllo del colosso Heineken, era stato poi ceduto agli eredi della famiglia Faranda fondatrice del birrificio. Nel 2011, però, l’azienda decise di licenziare, fino a che nel 2014 un gruppo di lavoratori aprì una cooperativa. Oggi Birra Messina è distribuita anche all’estero e sono state immesse sul mercato delle varianti del prodotto.

COME NASCE IL WORKER BUYOUT

Oggi i lavoratori che intendono rilevare un’azienda in affanno devono costituire una coop (in materia stella polare è la Legge Marcora del 1985, poi modificata) e sottoscrivere le partecipazioni come soci. A loro sostegno possono esserci anche investitori istituzionali, come Cfi o Coopfond. Dal 2015 c’è un’altra possibilità: il lavoratore che ha i requisiti per la Naspi può richiedere la liquidazione anticipata, in un’unica soluzione, della cifra che gli spetta. Questa procedura è legata alla presentazione di un progetto analizzato ed eventualmente validato. In quel caso la liquidazione viene versata per intero. 

LO SCOGLIO DEI TEMPI LENTI

Ma qui c’è l’inghippo: i tempi lenti. «È necessario accelerare le procedure amministrative dell’Inps affinché sia garantita in tempi celeri l’erogazione della Naspi in un’unica soluzione ai lavoratori che ne fanno richiesta e servono nuove misure di agevolazione che prevedano la detassazione del Tfr utilizzato dai lavoratori per costituire la nuova impresa», spiega a Lettera43.it la deputata del Movimento 5 stelle, Tiziana Ciprini che ha depositato una proposta di legge sul tema, sollecitando il governo con un’interrogazione alla ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, e al titolare del Mise, Stefano Patuanelli. «Lo strumento del worker buyout», aggiunge, «è potenzialmente molto forte in quanto attua una democrazia economica. Ma si tratta di una realtà ancora troppo poco conosciuta».

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Forza Italia e Italia viva: prove tecniche di intesa

Il voto anticipato non è più un tabù. E i renziani continuano a corteggiare l'ala anti-salviniana degli azzurri. A fare da collante il no alla riforma Bonafede e la battaglia contro la plastic tax e la tassazione sulle auto aziendali. Il confronto sul ddl Costa è il punto di partenza.

Prove tecniche di intesa. Per allargare l’area di centro. Matteo Renzi guarda ormai alle elezioni, senza farne segreto: è pessimista sulla tenuta del governo e ha iniziato un’offensiva dal sapore elettorale. In questo scenario ha una sola possibilità: cercare la strada per crescere nei sondaggi. Così è scattato un serrato corteggiamento a Forza Italia, o meglio alla sua ala più scettica nei confronti della salvinizzazione del partito. E il confronto avviene sul terreno della condivisione dei contenuti. Tutt’altro che secondari. «È innegabile che ci siano più convergenze tra Renzi e Forza Italia che con il M5s», confermano a Lettera43.it fonti della maggioranza.

NO TAX E RIFORMA DELLA GIUSTIZIA: LE AFFINITÀ TRA FI E IV

Sulla riforma della Giustizia, in particolare sul capitolo della prescrizione, Italia viva e Forza Italia sembrano ben avviate verso la suggestione di “Forza Italia Viva“, evocata appena qualche settimana fa. Stesso copione sulla questione tasse. L’ex Rottamatore ha presentato il suo partito come quello dei “no tax”. Uno slogan che ai sostenitori di Silvio Berlusconi non è dispiaciuto, così come dai banchi degli azzurri è stata apprezzata la battaglia contro la plastic tax e la tassazione sulle auto aziendali. Renzi tra l’altro si è assunto il rischio di bloccare la legge di Bilancio che già prosegue a rilento, tanto che si teme un’approvazione last minute al Senato rispetto alla scadenza di fine anno. Il terreno delle convergenze si sta preparando, insomma, in ottica elettorale. Anche perché Renzi ha dato al 50% le possibilità che il governo cada. «Ed è stata una stima ottimista…», osserva un deputato di Iv, lasciando presagire il totale avvitamento della maggioranza nelle prossime settimane. Nessuno immagina che l’incidente possa arrivare sulla Manovra. Dopo, chissà. Gli attriti abbondano.

MARIA ELENA BOSCHI IN PRIMA LINEA CONTRO BONAFEDE

Nell’entourage dell’ex presidente del Consiglio le elezioni non sono lo sbocco forzato. Anzi. La scorsa estate ha insegnato che tutto è possibile. Ma nel dubbio è arrivato l’ordine di prepararsi al voto. Il garantismo è il primo collante che può unire una parte di Forza Italia e i renziani. Maria Elena Boschi, non proprio una figura di secondo piano, si è mobilitata in prima persona contro il disegno del Guardasigilli Alfonso Bonafede. I renziani sono orientati a votare la proposta di legge del deputato forzista Enrico Costa che si pone come principale obiettivo il blocco della riforma del ministro della Giustizia. E quindi lo stop alla cancellazione della prescrizione. 

LE PRIME AVVISAGLIE

Una presa di posizione che si è manifestata già nell’astensione a Montecitorio a un ordine del giorno dello stesso Costa presentato nel corso nel dibattito sul decreto fiscale. Una mossa che suona un avvertimento per le prossime settimane, quando comunque il ddl Costa sarà discusso alla Camera. La riforma della Giustizia diventa sempre più un passaggio cruciale dell’esecutivo e della legislatura. «È chiaro che se Partito democratico e Movimento 5 stelle pensano di trovare un accordo tra di loro senza coinvolgerci ne prenderemo atto», fanno sapere da Italia viva. «E sarebbe opportuno che fossero coinvolte tutte le forze di maggioranza. Perché non si può pensare di fare un intervento del genere in una settimana».

I MOVIMENTI DI CARFAGNA E DEGLI ANTI-LEGHISTI

Il leader di Italia viva, del resto, aveva parlato di «porte aperte», in riferimento soprattutto a Mara Carfagna, la più in difficoltà di fronte alla deriva leghista del suo partito. La linea resta quella di restare su un altro versante rispetto a Iv, nonostante nei giorni scorsi all’azzurra fosse sfuggita una frase sibillina: «Forza Italia Viva è una suggestione se cade il governo». Nelle ultime ore Carfagna ha criticato «il linguaggio pieno di odio che caratterizza l’Italia» e ha chiesto un chiarimento nel centrodestra sulle tentazioni no euro. «Nessuno ha intenzione di tornare a una moneta debole e svalutata che ridurrebbe il valore degli stipendi e dei conti correnti degli italiani», ha scandito Carfagna. Un doppio monito sui rapporti con la Lega. Al momento non risultano contatti ufficiali, ma il confronto sul ddl Costa è un punto di partenza. Per quale traguardo, a breve, si vedrà.

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Perché sulla prescrizione Di Maio e il governo si giocano il futuro

Trovare un'intesa o far crollare tutto: giustizia decisiva per le sorti dei giallorossi. E anche per quelle del capo M5s: in caso di elezioni sarebbe sostituito da Di Battista. Ma tra paletti renziani e scenari di asse Pd-Forza Italia l'accordo sembra lontano.

La prescrizione potrebbe essere la miccia accesa per far deflagrare il governo. La preoccupazione rimbalza da Palazzo Chigi alle Camere, attraversando le segreterie dei partiti. È il tema su cui Luigi Di Maio manifesterà le reali intenzioni sull’alleanza con Partito democratico e Italia viva. Nei fatti può tirare la corda fino a spezzarla, senza che nessuno gli possa rinfacciare alcunché: la cancellazione della prescrizione è una misura bandiera del Movimento 5 stelle.

BONAFEDE IN PRIMA FILA

Fonti della maggioranza osservano: «Nessuno potrà polemizzare sulla prescrizione. Nemmeno i suoi più tenaci detrattori». Di sicuro al fianco di Di Maio c’è il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che ha voluto questo provvedimento quando era al governo con la Lega e che lo sta difendendo anche dai rilievi del Pd.

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede all’epoca del governo gialloverde con la Lega di Matteo Salvini.

ATTESO UN GESTO DI CHIAREZZA DAI CINQUE STELLE

Dunque se il numero uno della Farnesina vuole davvero far cadere il Conte II ha l’occasione giusta: quasi irripetibile. Al contrario se dovesse mostrare disponibilità a trovare un’intesa, allora agli alleati arriverebbe un messaggio chiaro: la volontà, nonostante tutto, di proseguire con il governo. Insomma, sulla prescrizione è atteso il gesto di chiarezza invocato da più parti, qualunque sia la direzione.

DI MAIO PERÒ RISCHIA ANCHE LA SUA FINE POLITICA

La partita presenta un alto coefficiente di rischio per Di Maio: la fine di questo esecutivo sarebbe in pratica la fine della sua parabola politica. Una prescrizione delle sue ambizioni. La coalizione con i dem è tuttora sponsorizzata da Beppe Grillo: resta convinto che il Conte II sia un’opportunità per il M5s. La sola idea di staccare la spina fa virare i suoi umori verso il nero. E chissà che l’Elevato, come si è proclamato l’ex comico, in caso di crisi di governo non decida di avviare “il processo” di destituzione del capo politico, raccogliendo tutti i malumori nel Movimento. Che sono tanti e solidi, come testimonia il costante sbandamento dei gruppi parlamentari.

DA ESCLUDERE UN RITORNO CON LA LEGA

Di Maio dovrebbe avere un piano B da tirar fuori come un coniglio dal cilindro per garantirsi un futuro politico. Neppure nella più incallita professione di ottimismo può immaginare di tirare dritto, come se nulla fosse, di fronte all’eventuale showdown che porterebbe il Paese alle elezioni. Perché non ci sono altre strade percorribili. Il remake dell’alleanza con la Lega è impraticabile per varie ragioni. Prima di tutto i gruppi parlamentari del M5s sono nettamente contrari a un ritorno al passato; inoltre Matteo Salvini non avrebbe alcun motivo per tornare indietro.

DI BATTISTA PRONTO A DIVENTARE NUOVO UOMO IMMAGINE

E infine il Quirinale ha fatto filtrare più volte l’orientamento: dopo il Conte II è quasi impossibile pensare che possano esserci altri esecutivi in questa legislatura. Quindi resta solo lo scenario elettorale e l’ipotesi del tandem con Alessandro Di Battista: l’ex deputato sarebbe l’uomo immagine con il capo politico a fare da regista alle spalle. Ma si torna al punto di partenza: è una sfida spericolata, che finge di non considerare gli effetti del trauma di una rottura. E che ignora il calo nei sondaggi.

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Luigi Di Maio con Alessandro Di Battista. (Ansa)

M5S CONTRO I «PALETTI RENZIANI»

Guarda caso, però, proprio Di Battista è tornato a pestare duro sulla cancellazione della prescrizione, rinsaldando la ritrovata intesa con il leader del Movimento. «I politici del Pd, che osano mettere a rischio questa norma di civiltà, dovrebbero avere il coraggio di andare dai familiari dei morti di Casale Monferrato, guardarli negli occhi e imbastire le ormai ventennali supercazzole sul tema», ha attaccato ricordando le vittime dell’Eternit e parlando poi di «pali renziani» all’interno del Pd.

CONTE, FIUTATA L’ARIA, VUOLE MEDIARE

Praticamente in contemporanea Di Maio ha evocato un Nazareno 2.0 sulla Giustizia, una rinnovata intesa PdForza Italia, sfoderando il lessico marcatamente ostile ai dem. Giuseppe Conte ha fiutato l’aria ed è intervenuto dicendosi di sicuro che sarà «trovata una soluzione». Le ostilità sono aperte e la tensione è troppo alta: per questo il presidente del Consiglio ha cercato di stemperare la polemica.

IL PD OSSERVA E NON FA PASSI INDIETRO

A Largo del Nazareno, intanto, non c’è alcuna intenzione di giocare al ruolo di “responsabili” a ogni costo. Sul tema della prescrizione men che meno. Il segretario Nicola Zingaretti ha lanciato avvertimenti chiari: c’è stato il tweet di Pierluigi Castagnetti, figura molto vicina al Quirinale, sulla chiusura del sipario di questo esecutivo, poi l’intervista di Goffredo Bettini, in estate grande tifoso del “governo di legislatura” con il Movimento, che ha avvertito come la pazienza stia per finire. A seguire le dure prese di posizione dei capigruppo di Camera e Senato, Graziano Delrio e Andrea Marcucci, che hanno vestito i panni delle colombe durante la nascita del Conte II. Ma anche loro sono irritati. Segnali di fumo non trascurabili. Per il momento la linea politica è quella di osservare cosa accade nel Movimento, senza cedere, cercando di comprendere il progetto di Di Maio. Che continua a muoversi su un filo.

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Caos M5s, Di Maio isolato anche dai fedelissimi

Il partito naviga a vista. Anche gli uomini più vicini al capo politico sono preoccupati per la tenuta del governo. Il riavvicinamento alla linea barricadera di Di Battista basterà per restare a galla?

Un uomo solo al comando. Ma in questo caso non è Fausto Coppi e c’è veramente poco di epico. Si tratta infatti di Luigi Di Maio.

Il capo politico M5s è in una condizione di crescente isolamento: addirittura i fedelissimi cominciano a manifestare un certo scetticismo sulle fughe in avanti del ministro degli Esteri. Soprattutto quando filtra l’ipotetica rottura con il Partito democratico.

I MESSAGGI DI BONAFEDE

«Non mi piace questo continuo riferimento a far saltare il governo. Noi siamo al governo per lavorare per i cittadini. Ciascuno si prende le responsabilità politiche delle proposte che porta avanti», ha scandito il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, lanciando un messaggio al Pd (contro le ipotesi di rotture definitive sulla prescrizione), affinché Di Maio intendesse.

Luigi Di Maio con il Guardasigilli Alfonso Bonafede (Getty).

In alcune situazioni, come sullo scudo penale per l’ex Ilva, il capo politico ha pubblicamente evocato la crisi. Altre volte è stata una voce del sen fuggita, e raccolta come indiscrezione, salvo poi essere smentita. Comunque un modo per inviare segnali di fumo ai suoi e agli alleati. E alimentare sospetti.

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I MALESSERI DI SPADAFORA

La presa di posizione di Bonafede non è passata inosservata. Il Guardasigilli è un fedelissimo del leader che ha voluto confermarlo in via Arenula durante la formazione del Conte II, sfidando le resistenze del Pd. Se uno come lui dissente dalla linea della “minaccia al governo” è una spia che si accende. Le sue affermazioni fanno da sponda alle parole del presidente della Camera, Roberto Fico, che qualche giorno fa ha invitato a far lavorare il parlamento fino al 2023. Dando una prospettiva di legislatura, l’opzione che preferisce. Un malessere simile è vissuto dal ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, grande sponsor del Conte II e considerato consigliere molto ascoltato da Di Maio.

Luigi Di Maio con Vincenzo Spadafora.

«Ho ascoltato con attenzione e sono rimasto molto affascinato dal racconto dell’astronauta Maurizio Cheli e ci ho trovato molte analogie con la politica di oggi», ha detto Spadafora il 28 novembre, come riportato dalla Dire. «Per esempio è vero che non puoi scegliere sempre con chi lavorare, che devi saper sopportare delle situazioni difficili e, come sullo Shuttle, è vero che basta premere il pulsante sbagliato per far esplodere tutto. Mi sembra un po’ la situazione in cui ci troviamo anche oggi col governo».

ALLA CAMERA IL M5S ANCORA SENZA GUIDA

Per molti ministri sembra il remake del film visto con il Conte I, quello con Matteo Salvini che minacciava un giorno sì e l’altro pure la fine dell’esecutivo. In un clima del genere anche il sottosegretario alla presidenza, Riccardo Fraccaro, appare in difficoltà. Da sempre è considerato un punto fermo del Movimento a trazione dimaiana, alfiere del taglio del numero dei parlamentari: il capo politico ha fatto di tutto pur di averlo a Palazzo Chigi, compresa la minaccia di far saltare la trattativa (già allora) per la nascita del governo. Così il sottosegretario resta prudente, fedele alla linea, annotando però il malcontento generale. A cominciare dall’insofferenza dei parlamentari: l’elezione del capogruppo alla Camera è diventata una telenovela che va avanti da ottobre, quando Francesco D’Uva ha lasciato l’incarico. L’unica certezza è che il prossimo presidente dei deputati avrà posizioni divergenti dalla leadership. Nell’ultima votazione si sono sfidati Davide Crippa e Riccardo Ricciardi, entrambi non proprio etichettabili come fedelissimi di Di Maio. Intanto c’è il concreto rischio di affrontare passaggi delicati a Montecitorio, dal dibattito sul Mes alla Legge di Bilancio, senza una guida riconosciuta.

Beppe Grillo con Luigi Di Maio in un fermo immagine tratto dal Blog delle Stelle.

DI MAIO E LA RITROVATA (E FORZATA) INTESA CON DI BATTISTA

La situazione non è tornata serena nemmeno dopo l’incontro tra Di Maio e il garante Beppe Grillo. Il faccia a faccia non ha prodotto i risultati auspicati. Appena sono finiti il video e le foto di rito, tutto è tornato in un magma indistinto. Così il ministro degli Esteri, avvertito l’isolamento politico, è stato tentato dal ritorno al passato, alla linea barricadera delle origini. In questa ottica viene letta la ritrovata intesa con Alessandro Di Battista, per cui l’alleanza con il Pd resta il male assoluto. Ed ecco che è stata sposata la strategia di attacco sulle concessioni ad Autostrade, sull’Europa matrigna, che mette sul tavolo il Mes, sulla sfida a Matteo Renzi per il caso Open e la questione delle fondazioni

I RIPOSIZIONAMENTI ALL’INTERNO DEL MOVIMENTO

Continui sommovimenti che preoccupano. «Da noi non esistono correnti», giurano nel M5s. Ed è una realtà: le correnti vere hanno comunque una struttura, dei punti di riferimento. In questo caso è tutto insondabile. Un esempio è il caso del senatore Gianluigi Paragone: sembrava diventato arcinemico di Di Maio, per la sua ostilità all’intesa con i dem. La rinnovata comunanza di vedute con Di Battista modifica però il posizionamento rispetto alla leadership pentastellata. Certo, esiste un’ala riconducibile a Fico, capitanata dal deputato Luigi Gallo, ma non si può definire una rete organizzata. Talvolta, specie sulla riorganizzazione del M5s, le posizioni incrociano quelle dei frondisti, gli ex ministri ed ex sottosegretari che masticano amaro per aver perso il posto al governo. Ma che a differenza di Fico non sono proprio entusiasti del governo con Pd, LeU e Italia Viva. Così diventa difficile avere una mappa chiara degli interlocutori anche per i dem. 

Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli (Ansa).

SUGGESTIONE PATUANELLI

Di Maio, nel suo essere uomo solo al comando, è inevitabilmente sotto pressione. Tanto che circolano ipotesi di una sostituzione con il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, l’uomo delle emergenze. Da capogruppo al Senato ha risposto colpo su colpo alla Lega, quando l’alleanza era agli sgoccioli, tenendo unito il gruppo. Adesso ha sul tavolo questioni scottanti, come l’ex Ilva e Alitalia, senza subire ricadute di immagine. È pur vero che Patuanelli ha bollato come «gossip» l’ipotesi della sua ascesa alla leadership. Ma non è un mistero che molti, soprattutto i parlamentari, vorrebbero affidargli una nuova emergenza. Il destino del Movimento 5 stelle.

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Caos M5s, Di Maio isolato anche dai fedelissimi

Il partito naviga a vista. Anche gli uomini più vicini al capo politico sono preoccupati per la tenuta del governo. Il riavvicinamento alla linea barricadera di Di Battista basterà per restare a galla?

Un uomo solo al comando. Ma in questo caso non è Fausto Coppi e c’è veramente poco di epico. Si tratta infatti di Luigi Di Maio.

Il capo politico M5s è in una condizione di crescente isolamento: addirittura i fedelissimi cominciano a manifestare un certo scetticismo sulle fughe in avanti del ministro degli Esteri. Soprattutto quando filtra l’ipotetica rottura con il Partito democratico.

I MESSAGGI DI BONAFEDE

«Non mi piace questo continuo riferimento a far saltare il governo. Noi siamo al governo per lavorare per i cittadini. Ciascuno si prende le responsabilità politiche delle proposte che porta avanti», ha scandito il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, lanciando un messaggio al Pd (contro le ipotesi di rotture definitive sulla prescrizione), affinché Di Maio intendesse.

Luigi Di Maio con il Guardasigilli Alfonso Bonafede (Getty).

In alcune situazioni, come sullo scudo penale per l’ex Ilva, il capo politico ha pubblicamente evocato la crisi. Altre volte è stata una voce del sen fuggita, e raccolta come indiscrezione, salvo poi essere smentita. Comunque un modo per inviare segnali di fumo ai suoi e agli alleati. E alimentare sospetti.

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I MALESSERI DI SPADAFORA

La presa di posizione di Bonafede non è passata inosservata. Il Guardasigilli è un fedelissimo del leader che ha voluto confermarlo in via Arenula durante la formazione del Conte II, sfidando le resistenze del Pd. Se uno come lui dissente dalla linea della “minaccia al governo” è una spia che si accende. Le sue affermazioni fanno da sponda alle parole del presidente della Camera, Roberto Fico, che qualche giorno fa ha invitato a far lavorare il parlamento fino al 2023. Dando una prospettiva di legislatura, l’opzione che preferisce. Un malessere simile è vissuto dal ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, grande sponsor del Conte II e considerato consigliere molto ascoltato da Di Maio.

Luigi Di Maio con Vincenzo Spadafora.

«Ho ascoltato con attenzione e sono rimasto molto affascinato dal racconto dell’astronauta Maurizio Cheli e ci ho trovato molte analogie con la politica di oggi», ha detto Spadafora il 28 novembre, come riportato dalla Dire. «Per esempio è vero che non puoi scegliere sempre con chi lavorare, che devi saper sopportare delle situazioni difficili e, come sullo Shuttle, è vero che basta premere il pulsante sbagliato per far esplodere tutto. Mi sembra un po’ la situazione in cui ci troviamo anche oggi col governo».

ALLA CAMERA IL M5S ANCORA SENZA GUIDA

Per molti ministri sembra il remake del film visto con il Conte I, quello con Matteo Salvini che minacciava un giorno sì e l’altro pure la fine dell’esecutivo. In un clima del genere anche il sottosegretario alla presidenza, Riccardo Fraccaro, appare in difficoltà. Da sempre è considerato un punto fermo del Movimento a trazione dimaiana, alfiere del taglio del numero dei parlamentari: il capo politico ha fatto di tutto pur di averlo a Palazzo Chigi, compresa la minaccia di far saltare la trattativa (già allora) per la nascita del governo. Così il sottosegretario resta prudente, fedele alla linea, annotando però il malcontento generale. A cominciare dall’insofferenza dei parlamentari: l’elezione del capogruppo alla Camera è diventata una telenovela che va avanti da ottobre, quando Francesco D’Uva ha lasciato l’incarico. L’unica certezza è che il prossimo presidente dei deputati avrà posizioni divergenti dalla leadership. Nell’ultima votazione si sono sfidati Davide Crippa e Riccardo Ricciardi, entrambi non proprio etichettabili come fedelissimi di Di Maio. Intanto c’è il concreto rischio di affrontare passaggi delicati a Montecitorio, dal dibattito sul Mes alla Legge di Bilancio, senza una guida riconosciuta.

Beppe Grillo con Luigi Di Maio in un fermo immagine tratto dal Blog delle Stelle.

DI MAIO E LA RITROVATA (E FORZATA) INTESA CON DI BATTISTA

La situazione non è tornata serena nemmeno dopo l’incontro tra Di Maio e il garante Beppe Grillo. Il faccia a faccia non ha prodotto i risultati auspicati. Appena sono finiti il video e le foto di rito, tutto è tornato in un magma indistinto. Così il ministro degli Esteri, avvertito l’isolamento politico, è stato tentato dal ritorno al passato, alla linea barricadera delle origini. In questa ottica viene letta la ritrovata intesa con Alessandro Di Battista, per cui l’alleanza con il Pd resta il male assoluto. Ed ecco che è stata sposata la strategia di attacco sulle concessioni ad Autostrade, sull’Europa matrigna, che mette sul tavolo il Mes, sulla sfida a Matteo Renzi per il caso Open e la questione delle fondazioni

I RIPOSIZIONAMENTI ALL’INTERNO DEL MOVIMENTO

Continui sommovimenti che preoccupano. «Da noi non esistono correnti», giurano nel M5s. Ed è una realtà: le correnti vere hanno comunque una struttura, dei punti di riferimento. In questo caso è tutto insondabile. Un esempio è il caso del senatore Gianluigi Paragone: sembrava diventato arcinemico di Di Maio, per la sua ostilità all’intesa con i dem. La rinnovata comunanza di vedute con Di Battista modifica però il posizionamento rispetto alla leadership pentastellata. Certo, esiste un’ala riconducibile a Fico, capitanata dal deputato Luigi Gallo, ma non si può definire una rete organizzata. Talvolta, specie sulla riorganizzazione del M5s, le posizioni incrociano quelle dei frondisti, gli ex ministri ed ex sottosegretari che masticano amaro per aver perso il posto al governo. Ma che a differenza di Fico non sono proprio entusiasti del governo con Pd, LeU e Italia Viva. Così diventa difficile avere una mappa chiara degli interlocutori anche per i dem. 

Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli (Ansa).

SUGGESTIONE PATUANELLI

Di Maio, nel suo essere uomo solo al comando, è inevitabilmente sotto pressione. Tanto che circolano ipotesi di una sostituzione con il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, l’uomo delle emergenze. Da capogruppo al Senato ha risposto colpo su colpo alla Lega, quando l’alleanza era agli sgoccioli, tenendo unito il gruppo. Adesso ha sul tavolo questioni scottanti, come l’ex Ilva e Alitalia, senza subire ricadute di immagine. È pur vero che Patuanelli ha bollato come «gossip» l’ipotesi della sua ascesa alla leadership. Ma non è un mistero che molti, soprattutto i parlamentari, vorrebbero affidargli una nuova emergenza. Il destino del Movimento 5 stelle.

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Perché occorre una mappatura geologica contro il dissesto

Il progetto Carg avviato nel 1988 è fermo da 15 anni per mancanza di fondi. Eppure il suo completamento sarebbe necessario per prevenire disastri e tragedie. Il punto.

Alluvioni e frane provocano vittime. Distruggono case e strade. Lasciando fango e distruzione. È successo di nuovo nelle ultime ore, da Nord a Sud: dalla Liguria a Matera.

IL PROGETTO CARG BLOCCATO DA 15 ANNI

Eppure in Italia non esiste una mappatura geologica precisa. Nonostante la continua denuncia del dissesto idrogeologico che flagella il Paese, i governi che si sono succeduti non hanno pensato di completare quella che è una “risonanza magnetica del territorio” per comprenderlo a fondo. E attuare iniziative di prevenzione, utili a capire anche i pericoli connessi alla sismicità delle aree più vulnerabili. Il progetto Carg, avviato nel 1988 con lo scopo di avere un quadro puntuale della geologia del Paese, è infatti fermo. Bloccato, a meno della metà della sua realizzazione, da almeno 15 anni per mancanza di finanziamenti.

LA CONOSCENZA DEL TERRITORIO

Il progetto di cartografia geologica (Carg) punta alla «realizzazione e informatizzazione dei 636 fogli geologici e geotematici alla scala 1:50.000 che compongono il puzzle della copertura al 50.000 dell’intero territorio nazionale (su una numerazione complessiva di 652 – tenuto conto dei Fogli con numerazione multipla che contengono porzioni di altri limitrofi e di quelli con numerazione duplicata)», recita la dicitura ufficiale. Detta così sembra qualcosa di eccessivamente tecnico.

LEGGI ANCHE: L’impatto degli eventi climatici estremi nelle città italiane

«Per far capire l’obiettivo di questo progetto è necessario fare un esempio», spiegano a Lettera43.it dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) . «La conoscenza del territorio è come una visita medica specialistica approfondita. Insomma, se una persona ha mal di schiena fa degli esami adeguati e si rivolge al medico adatto. Lo stesso vale per lo studio della geologia del Paese: se abbiamo i dati precisi, appena individuato il problema siamo in grado di fornire un’indicazione tempestiva», aggiungono dall’Istituto. Ma l’iniziativa fatica ad andare avanti: i fogli geologici, attivati nell’ambito del Progetto Carg, coprono il 44% del territorio rispetto al totale. Ci sono stati anni di lavoro, a cominciare dal 1988, con varie istituzioni, da quelle locali alle Università. Poi dal 2004 c’è stato lo stop.

PER SBLOCCARE IL LAVORO SERVONO 200 MILIONI

Per sbloccare l’impasse e ultimare il lavoro servirebbero poco più di 200 milioni di euro. In alternativa, per consentire la ripresa del progetto, sarebbero sufficienti 20 milioni all’anno per il prossimo triennio. Quest’anno è arrivato un segno di vita: un emendamento alla legge di Bilancio per destinare 30 milioni di euro al progetto Carg. La proposta è del Movimento 5 stelle, a firma di Vilma Moronese. La parola passa adesso alla maggioranza. «L’emendamento è un passo per andare avanti su un tema che riguarda tutti. Purtroppo si parla di dissesto idrogeologico solo quando ci sono i disastri», dice il pentastellato Mauro Coltorti. «È importante dare un segnale al Paese, la questione si intreccia con le conseguenze dell’emergenza climatica. Perché se da una parte c’è il clima, dall’altra c’è la vulnerabilità del territorio, che va curato nei minimi dettagli. E quale strumento migliore di una cartografia geologica?», sottolinea il senatore geologo. L’approvazione dell’emendamento sarebbe una boccata di ossigeno per il progetto: consentirebbe di realizzare circa 60 fogli geologici, il cui singolo costo si aggira sui 550 mila euro.

L’UTILIZZO IN CONTESTI DI CRISI

L’evoluzione della tecnologia favorirebbe l’impiego della carta geologica in contesti di crisi, come quelli visti nelle ultime ore. «La carta geologica è una infrastruttura preliminare che serve a realizzare le infrastrutture», mettono in chiaro dall’Ispra. «E in caso di richiesta potremmo fornire i dati anche mentre li stiamo realizzando. Se ci dovessero essere delle emergenze, per una zona in particolare, garantiremmo infatti la disponibilità di fornire le informazioni necessarie sulla porzione di territorio interessata da alluvioni o terremoti».

MOLTE REGIONI SENZA COPERTURA

Allo stato attuale, per capire il quadro, Piemonte, Veneto, Toscana, gran parte della Sardegna, ma anche la Calabria non hanno quasi copertura dei fogli. E sono zone ad alto rischio. Con la conoscenza del territorio ci sarebbe così la possibilità di scongiurare disastri, evitando la costruzione di edifici laddove non è geologicamente sicuro. Un esempio drammatico, ma lampante, è la frana di Sarno, che provocò la morte di 137 persone nel 1998. L’area è caratterizzata da terreno vulcanico che assorbe molta acqua, su una roccia calcarea: quando il terreno si è appesantito è venuto giù tutto, causando una tragedia. In presenza di una mappatura puntuale, il pericolo sarebbe stato di dominio pubblico.

ITALIA FANALINO DI CODA

L’Italia ha un primato di cui non andare fieri: è tra i fanalini di coda in Europa sulla conoscenza del territorio. In alcuni Paesi la carta geologica è già alla quarta edizione, con aggiornamenti continui. Eppure l’Italia un tempo era all’avanguardia: la prima carta geologica è stata finanziata nel 1861 da Quintino Sella. Il motivo? Da quegli studi era possibile capire dove reperire le risorse attraverso le estrazioni minerarie. Ma era anche una progettazione orientata alla necessità di studiare le opere pubbliche, come ferrovie e dighe. Proprio come ora.

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Perché occorre una mappatura geologica contro il dissesto

Il progetto Carg avviato nel 1988 è fermo da 15 anni per mancanza di fondi. Eppure il suo completamento sarebbe necessario per prevenire disastri e tragedie. Il punto.

Alluvioni e frane provocano vittime. Distruggono case e strade. Lasciando fango e distruzione. È successo di nuovo nelle ultime ore, da Nord a Sud: dalla Liguria a Matera.

IL PROGETTO CARG BLOCCATO DA 15 ANNI

Eppure in Italia non esiste una mappatura geologica precisa. Nonostante la continua denuncia del dissesto idrogeologico che flagella il Paese, i governi che si sono succeduti non hanno pensato di completare quella che è una “risonanza magnetica del territorio” per comprenderlo a fondo. E attuare iniziative di prevenzione, utili a capire anche i pericoli connessi alla sismicità delle aree più vulnerabili. Il progetto Carg, avviato nel 1988 con lo scopo di avere un quadro puntuale della geologia del Paese, è infatti fermo. Bloccato, a meno della metà della sua realizzazione, da almeno 15 anni per mancanza di finanziamenti.

LA CONOSCENZA DEL TERRITORIO

Il progetto di cartografia geologica (Carg) punta alla «realizzazione e informatizzazione dei 636 fogli geologici e geotematici alla scala 1:50.000 che compongono il puzzle della copertura al 50.000 dell’intero territorio nazionale (su una numerazione complessiva di 652 – tenuto conto dei Fogli con numerazione multipla che contengono porzioni di altri limitrofi e di quelli con numerazione duplicata)», recita la dicitura ufficiale. Detta così sembra qualcosa di eccessivamente tecnico.

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«Per far capire l’obiettivo di questo progetto è necessario fare un esempio», spiegano a Lettera43.it dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) . «La conoscenza del territorio è come una visita medica specialistica approfondita. Insomma, se una persona ha mal di schiena fa degli esami adeguati e si rivolge al medico adatto. Lo stesso vale per lo studio della geologia del Paese: se abbiamo i dati precisi, appena individuato il problema siamo in grado di fornire un’indicazione tempestiva», aggiungono dall’Istituto. Ma l’iniziativa fatica ad andare avanti: i fogli geologici, attivati nell’ambito del Progetto Carg, coprono il 44% del territorio rispetto al totale. Ci sono stati anni di lavoro, a cominciare dal 1988, con varie istituzioni, da quelle locali alle Università. Poi dal 2004 c’è stato lo stop.

PER SBLOCCARE IL LAVORO SERVONO 200 MILIONI

Per sbloccare l’impasse e ultimare il lavoro servirebbero poco più di 200 milioni di euro. In alternativa, per consentire la ripresa del progetto, sarebbero sufficienti 20 milioni all’anno per il prossimo triennio. Quest’anno è arrivato un segno di vita: un emendamento alla legge di Bilancio per destinare 30 milioni di euro al progetto Carg. La proposta è del Movimento 5 stelle, a firma di Vilma Moronese. La parola passa adesso alla maggioranza. «L’emendamento è un passo per andare avanti su un tema che riguarda tutti. Purtroppo si parla di dissesto idrogeologico solo quando ci sono i disastri», dice il pentastellato Mauro Coltorti. «È importante dare un segnale al Paese, la questione si intreccia con le conseguenze dell’emergenza climatica. Perché se da una parte c’è il clima, dall’altra c’è la vulnerabilità del territorio, che va curato nei minimi dettagli. E quale strumento migliore di una cartografia geologica?», sottolinea il senatore geologo. L’approvazione dell’emendamento sarebbe una boccata di ossigeno per il progetto: consentirebbe di realizzare circa 60 fogli geologici, il cui singolo costo si aggira sui 550 mila euro.

L’UTILIZZO IN CONTESTI DI CRISI

L’evoluzione della tecnologia favorirebbe l’impiego della carta geologica in contesti di crisi, come quelli visti nelle ultime ore. «La carta geologica è una infrastruttura preliminare che serve a realizzare le infrastrutture», mettono in chiaro dall’Ispra. «E in caso di richiesta potremmo fornire i dati anche mentre li stiamo realizzando. Se ci dovessero essere delle emergenze, per una zona in particolare, garantiremmo infatti la disponibilità di fornire le informazioni necessarie sulla porzione di territorio interessata da alluvioni o terremoti».

MOLTE REGIONI SENZA COPERTURA

Allo stato attuale, per capire il quadro, Piemonte, Veneto, Toscana, gran parte della Sardegna, ma anche la Calabria non hanno quasi copertura dei fogli. E sono zone ad alto rischio. Con la conoscenza del territorio ci sarebbe così la possibilità di scongiurare disastri, evitando la costruzione di edifici laddove non è geologicamente sicuro. Un esempio drammatico, ma lampante, è la frana di Sarno, che provocò la morte di 137 persone nel 1998. L’area è caratterizzata da terreno vulcanico che assorbe molta acqua, su una roccia calcarea: quando il terreno si è appesantito è venuto giù tutto, causando una tragedia. In presenza di una mappatura puntuale, il pericolo sarebbe stato di dominio pubblico.

ITALIA FANALINO DI CODA

L’Italia ha un primato di cui non andare fieri: è tra i fanalini di coda in Europa sulla conoscenza del territorio. In alcuni Paesi la carta geologica è già alla quarta edizione, con aggiornamenti continui. Eppure l’Italia un tempo era all’avanguardia: la prima carta geologica è stata finanziata nel 1861 da Quintino Sella. Il motivo? Da quegli studi era possibile capire dove reperire le risorse attraverso le estrazioni minerarie. Ma era anche una progettazione orientata alla necessità di studiare le opere pubbliche, come ferrovie e dighe. Proprio come ora.

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Collaboratori parlamentari, l’ennesimo gap tra Italia e Ue

Il caso Nicosia riporta alla luce l'annosa battaglia dei portaborse. Che, nonostante le promesse, sono ancora sottopagati e spesso irregolari. A differenza dei colleghi europei. Lo scenario.

Spesso mal pagati, con contratti di vario tipo e senza alcuna tutela. Anzi: nei casi peggiori c’è il rischio di essere retribuiti in nero. È questa la vita del collaboratore parlamentare, figura chiave per il funzionamento di Camera e Senato, ma che si muove tra i Palazzi con poche garanzie. In questa instabilità una cosa è certa: a Montecitorio basta avere un contratto, indipendentemente dall’ammontare dello stipendio. «La nostra è una situazione da far west che mortifica la funzione parlamentare e alimenta il sentimento di antipolitica e antiparlamentarismo. Quanti casi Nicosia nelle Camere? Quanti ‘Nicosia’ può ancora sopportare l’istituzione parlamentare?», dice a Lettera 43 il presidente dell’Associazione italiana collaboratori parlamentari (Aicp), Josè De Falco.

LEGGI ANCHE: I collaboratori parlamentari e l’omertà

CONTRATTI DA 50 EURO AL MESE

La vicenda di Antonello Nicosia, ex collaboratore della deputata di Italia Viva (eletta con Liberi e uguali), Giuseppina Occhionero, arrestato per mafia è proprio quella che ha acceso un faro sulla situazione. Una luce sinistra che ha fatto emergere come siano cambiati i tempi rispetto a quando l’incarico di “portaborse” rappresentava un trampolino di lancio della carriera politica. Da quanto è emerso, Nicosia era infatti considerato a pieno titolo un collaboratore, munito di tesserino, con un contratto da 50 euro al mese. Ed era tutto regolare. 

mafia arrestato radicale antonello nicosia
Antonello Nicosia.

PER IL QUESTORE DEL SENATO DE POLI È TUTTO REGOLARE

Per il senatore, Antonio De Poli, questore a Palazzo Madama, non ci sono problemi dal punto di vista retributivo rispetto ad altri lavori. Il motivo? Il regolamento del Senato fissa il minimo a 375 euro per 25 ore e quindi con «40 ore di lavoro il compenso mensile è di 2.400 euro, se le ore sono 36 è di 2.160 euro», ha scandito il senatore, durante il dibattito sul bilancio di Palazzo Madama. «Sto parlando», ha aggiunto De Poli, «di retribuzioni minime, poi chiaramente se ne possono avere di ben più importanti. Ma si tratta di cifre superiori alle retribuzioni odierne previste ad esempio per le qualifiche più alte dei dipendenti degli studi professionali, secondo i contratti nazionali del lavoro vigenti». Quindi «rientriamo nei parametri europei», ha concluso, pur condividendo la necessità di «trovare una soluzione» condivisa.

L’AICP: «CI DICANO QUANTI SONO I COLLABORATORI CONTRATTUALIZZATI»

Una versione che ha fatto saltare dalla sedia i vertici dell’Aicp. «Sono dichiarazioni fantasiose. Nessun collaboratore guadagna tanto», replica Josè De Falco. «Dalla lettura di una delibera che disciplina l’accesso dei collaboratori al Senato», incalza il presidente dell’Aicp, «il senatore De Poli trae delle conclusioni sconcertanti. Parla come se non fosse uno dei questori di Palazzo Madama e non conoscesse i contratti depositati negli uffici. Quella documentazione descrive un mondo totalmente diverso da quello raccontato in Aula. Tanti hanno co.co.co o partite Iva, e anche chi ha contratti di lavoro subordinato non raggiunge 2.400 euro». Da qui la richiesta dell’Aicp: «Serve una fotografia della realtà. Il Collegio dei Questori e il consiglio di presidenza del Senato pubblichino quanti sono i collaboratori contrattualizzati e descrivano i tipi di contratto, così da poter calcolare la retribuzione media. Sarebbe il primo passaggio da fare».

IL CONFRONTO CON L’EUROPA

Documenti alla mano il quadro normativo europeo è diverso dalla situazione italiana. A Bruxelles i collaboratori definiti “assistenti parlamentari accreditati” sono assunti direttamente dal parlamento europeo. La retribuzione ha 19 livelli, da un minimo di 1.680 a un massimo da 7.740 euro. Mentre il servizio studi della Camera ha spiegato, in un dossier, che in Italia «deputato e collaboratore possono regolare tale rapporto secondo le diverse tipologie contrattuali previste dall’ordinamento, in quanto compatibili (in sintesi: rapporto di lavoro subordinato, di collaborazione a progetto, di lavoro autonomo)». E soprattutto tra la Camera e il collaboratore non si instaura alcun rapporto, è il parlamentare a retribuire il collaboratore all’interno delle spese per l’esercizio del mandato.

Un manifestazione dell’Associazione italiana collaboratori parlamentari a Montecitorio.

Con una delibera dell’Ufficio di Presidenza del 30 gennaio 2012, è stato infatti reso possibile ammettere la retribuzione del collaboratore tra le spese a rimborso, dietro la presentazione del contratto di lavoro. In altri Paesi europei ci sono meccanismi diversi e meno incerti per i lavoratori. In Germania «ogni deputato può assumere collaboratori a carico dell’amministrazione del Bundestag fino a un importo massimo determinato sulla base della legge di bilancio, attualmente pari a 15.798 euro» e «i deputati, che assumono i propri collaboratori sulla base di contratti di diritto privato», riporta il documento predisposto dal centro Studi di Montecitorio. In Francia vige un meccanismo simile, ma il budget per i collaboratori è di 9.504 euro. Tuttavia, «nel bilancio dell’Assemblea nazionale, la voce relativa alla retribuzione dei collaboratori (a oggi, circa 2.100) è molto alta e supera anche la voce relativa al pagamento delle indennità ai deputati», spiega ancora il dossier della Camera.

LA PROMESSA DI FICO E I SILENZI DI CASELLATI

L’annosa battaglia per cambiare le cose in Italia ha quindi ripreso vigore con l’esplosione del caso-Nicosia. I collaboratori parlamentari hanno però avviato da tempo un’interlocuzione con le istituzioni. Nelle scorse legislature non si è arrivati ad alcuna soluzione. In questa, invece, qualcosa sembrava muoversi fino a qualche mese fa. Il presidente della Camera, Roberto Fico, ha incontrato due volte, a febbraio e a luglio, i rappresentanti dell’Aicp. Il numero uno di Montecitorio ha garantito la volontà di impegnarsi. La promessa è che entro la fine del 2019 la delibera sarà discussa nell’Ufficio di presidenza. A Palazzo Madama la situazione è più complessa. La presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, ha organizzato un incontro tra il suo staff e l’Aicp. Al termine del confronto c’è stato l’impegno a regolamentare la posizione dei collaboratori. Dopo le promesse, però, il silenzio: le sollecitazioni, attraverso almeno tre lettere indirizzate alla presidente, sono cadute nel vuoto. 

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