Marta Cartabia è la prima donna presidente della Consulta

Originaria della provincia di Milano, con i suoi 56 anni è anche tra i più giovani presidenti della Corte Costituzionale. Ma il suo mandato sarà breve: nove mesi appena.

La Corte Cistituzionale ha eletto la prima presidente donna della sua toria. La scelta dei giudici è caduta su Marta Cartabia, che con i suoi 56 anni è anche tra i più giovani presidenti che la Consulta abbia mai avuto. È sposata ed è madre di tre figli.

Originaria della provincia di Milano, approdata alla Corte nel 2011 su nomina dell’allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano e vicepresidente dal 2014, Cartabia è docente di diritto costituzionale e ha un profilo internazionale per studi e pubblicazioni.

È stata eletta presidente all’unanimità: 14 voti a favore e una sola scheda bianca, la sua. Ma il suo mandato sarà breve, nove mesi appena. Scadrà infatti il 13 settembre 2020, visto che la nomina alla Consulta risale nel 2011 e l’ufficio di giudice costituzionale non può durare più di nove anni.

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Marta Cartabia è la prima donna presidente della Consulta

Originaria della provincia di Milano, con i suoi 56 anni è anche tra i più giovani presidenti della Corte Costituzionale. Ma il suo mandato sarà breve: nove mesi appena.

La Corte Cistituzionale ha eletto la prima presidente donna della sua toria. La scelta dei giudici è caduta su Marta Cartabia, che con i suoi 56 anni è anche tra i più giovani presidenti che la Consulta abbia mai avuto. È sposata ed è madre di tre figli.

Originaria della provincia di Milano, approdata alla Corte nel 2011 su nomina dell’allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano e vicepresidente dal 2014, Cartabia è docente di diritto costituzionale e ha un profilo internazionale per studi e pubblicazioni.

È stata eletta presidente all’unanimità: 14 voti a favore e una sola scheda bianca, la sua. Ma il suo mandato sarà breve, nove mesi appena. Scadrà infatti il 13 settembre 2020, visto che la nomina alla Consulta risale nel 2011 e l’ufficio di giudice costituzionale non può durare più di nove anni.

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I mafiosi detenuti possono avere benefici anche se non collaborano con la giustizia

Ecco perché la Consulta ha dichiarato incostituzionale l'articolo 4 bis, primo comma dell'ordinamento penitenziario.

Il detenuto per un reato di mafia può essere premiato se collabora con la giustizia, ma non può essere punito ulteriormente – negandogli benefici riconosciuti a tutti, come i permessi premio – se non collabora. La Consulta ha infatti dichiarato incostituzionale l’articolo 4 bis, primo comma dell’ordinamento penitenziario. Le motivazioni della sentenza sono state pubblicate il 4 dicembre.

Per la Corte costituzionale se il mafioso detenuto non parla, si continua a presumere che sia socialmente pericoloso. Ma questa presunzione non va intesa in senso assoluto e può essere superata se il Tribunale di Sorveglianza raccoglie elementi tali da escludere che il detenuto stesso abbia ancora collegamenti con l’organizzazione criminale o che sussista il pericolo di ripristinarli.

Non bastano quindi la buona condotta o la mera partecipazione al percorso rieducativo, né tantomeno una semplice dichiarazione di dissociazione. La presunzione di pericolosità – non più assoluta ma relativa – può essere superata solo in presenza di elementi concreti che dimostrino il venir meno del vincolo mafioso.

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La Consulta colma il vuoto legislativo sul suicidio assistito

Pubblicate le motivazioni della sentenza sul caso dj Fabo. Finché il parlamento non interverrà, saranno valide le stesse norme che regolano il testamento biologico. Per i medici nessun obbligo.

La Corte costituzionale ha chiarito che saranno le strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale a verificare l’esistenza delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio e le relative modalità di esecuzione.

Condizioni che ricorrono quando l’aiuto è prestato a una persona tenuta in vita da idratazione e alimentazione artificiali, affetta da una patologia irreversibile fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Un organo collegiale terzo, cioè il Comitato etico territorialmente competente, garantirà la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità. Ma in ogni caso nessun obbligo di prestare l’aiuto al suicidio ricadrà sui medici. Verrà infatti affidato «alla coscienza del singolo scegliere se esaudire la richiesta del malato».

LEGGI ANCHE: Che differenza c’è tra eutanasia e suicidio assistito

LA SENTENZA SUL CASO DJ FABO

Le disposizioni sono contenute nelle motivazioni della sentenza con cui il 25 settembre la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 580 del codice penale, proprio nella parte in cui non esclude l’incriminazione di chi presta aiuto al suicidio nei casi sopra richiamati. Una sentenza nata dalla vicenda di dj Fabo e da molti considerata storica, a partire dall’Associazione Luca Coscioni, ma che una parte della politica, del mondo cattolico e dei medici aveva contestato.

LA LATITANZA DEL PARLAMENTO

I giudici costituzionali, ancora una volta, si rivolgono al parlamento affinché intervenga con una «compiuta disciplina» sul fine vita, dopo la richiesta caduta nel vuoto nel 2017, quando la Corte decise di sospendere il giudizio proprio per dare il tempo alle Camere di legiferare. Ma «in assenza di ogni determinazione da parte del parlamento», l’esigenza di garantire la legalità costituzionale «deve prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore».

LA SOLUZIONE DEI GIUDICI

Per colmare il vuoto legislativo, la Consulta ha quindi deciso di fare riferimento alle Dat, le Dichiarazioni anticipate di trattamento che regolano il testamento biologico. D’ora in poi la volontà di morire con il suicidio assistito dovrà essere documentata in forma scritta o con la video registrazione; il medico dovrà prospettare le possibili alternative e prestare ogni sostegno al paziente, anche avvalendosi dei centri di assistenza psicologica; e ci dovrà essere come pre-condizione il coinvolgimento del paziente in un percorso di cure palliative.

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La Consulta colma il vuoto legislativo sul suicidio assistito

Pubblicate le motivazioni della sentenza sul caso dj Fabo. Finché il parlamento non interverrà, saranno valide le stesse norme che regolano il testamento biologico. Per i medici nessun obbligo.

La Corte costituzionale ha chiarito che saranno le strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale a verificare l’esistenza delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio e le relative modalità di esecuzione.

Condizioni che ricorrono quando l’aiuto è prestato a una persona tenuta in vita da idratazione e alimentazione artificiali, affetta da una patologia irreversibile fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Un organo collegiale terzo, cioè il Comitato etico territorialmente competente, garantirà la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità. Ma in ogni caso nessun obbligo di prestare l’aiuto al suicidio ricadrà sui medici. Verrà infatti affidato «alla coscienza del singolo scegliere se esaudire la richiesta del malato».

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LA SENTENZA SUL CASO DJ FABO

Le disposizioni sono contenute nelle motivazioni della sentenza con cui il 25 settembre la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 580 del codice penale, proprio nella parte in cui non esclude l’incriminazione di chi presta aiuto al suicidio nei casi sopra richiamati. Una sentenza nata dalla vicenda di dj Fabo e da molti considerata storica, a partire dall’Associazione Luca Coscioni, ma che una parte della politica, del mondo cattolico e dei medici aveva contestato.

LA LATITANZA DEL PARLAMENTO

I giudici costituzionali, ancora una volta, si rivolgono al parlamento affinché intervenga con una «compiuta disciplina» sul fine vita, dopo la richiesta caduta nel vuoto nel 2017, quando la Corte decise di sospendere il giudizio proprio per dare il tempo alle Camere di legiferare. Ma «in assenza di ogni determinazione da parte del parlamento», l’esigenza di garantire la legalità costituzionale «deve prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore».

LA SOLUZIONE DEI GIUDICI

Per colmare il vuoto legislativo, la Consulta ha quindi deciso di fare riferimento alle Dat, le Dichiarazioni anticipate di trattamento che regolano il testamento biologico. D’ora in poi la volontà di morire con il suicidio assistito dovrà essere documentata in forma scritta o con la video registrazione; il medico dovrà prospettare le possibili alternative e prestare ogni sostegno al paziente, anche avvalendosi dei centri di assistenza psicologica; e ci dovrà essere come pre-condizione il coinvolgimento del paziente in un percorso di cure palliative.

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