Sondaggi Ixè: la Lega sotto il 30%, Iv al 3,6%

I partiti di governo ottengono insieme meno del 40%, il M5s recupera al 16,3% Pd al 20,2% e Stabili i Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni al 10,5%.

La Lega conferma la sua flessione scendendo sotto il 30%, al 29,9 – prima volta per le rilevazioni dell’istituto di ricerca Ixè, che aveva registrato un precedente al 30,6. Ma calano anche M5S al 16 dal 16,3% e Pd al 20,8% dal 20,2% mentre risale ma di poco Iv al 3,6% dal 3,3%. È quanto emerge da un sondaggio Ixè per la trasmissione Carta Bianca in onda sui Rai3. Stabile in doppia cifra Fratelli d’Italia al 10,5 dal 10,6% mentre Forza Italia scende al 7% dal 7,6%.

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A Bari con Giannelli l’affare è sempre di famiglia

Il presidente di fatto era un amministratore ombra. Che ha sempre detto la sua su qualunque dossier della Banca Popolare. Ed è nipote del suo predecessore Marco Jacobini. Ecco chi sono i personaggi coinvolti nel crac ma sfuggiti ai media.

Finora a Bari i riflettori si sono accesi, alternativamente, o sul doppio periodo in cui alla guida della Banca Popolare c’è stato Vincenzo De Bustis, o sulla famiglia Jacobini, intesa come il presidente Marco e il figlio Gianluca, che dell’istituto pugliese è stato vicedirettore generale. Sono però sfuggiti al fascio di luce dei media, almeno fin qui, altri due personaggi non certo di secondo piano.

GRANDI RESPONSABILITÀ DI LUIGI JACOBINI

Il primo si chiama anche lui Jacobini, ma di nome fa Luigi, ed è l’altro figlio di Marco. Nessuno l’ha tirato in ballo, eppure anche lui risulta vicedirettore generale, ed ha avuto molta responsabilità nell’ultima stagione della banca targata De Bustis, quella che ha portato al commissariamento. Tanto che questa vicinanza all’ormai ex amministratore delegato lo ha messo contro la sua famiglia: da mesi non parla né con il padre né con il fratello, verso il quale mostra apertamente gelosia per le sue riconosciute capacità professionali, specie nella finanza strutturata.

GIANNELLI EX CONSULENTE SUPER PAGATO

L’altro personaggio che finora ha evitato i riflettori è l’avvocato Gianvito Giannelli, che da luglio 2019 è presidente della Bpb. Non si chiama Jacobini, ma di quella famiglia fa parte a pieno titolo, visto che è il nipote (figlio della sorella) di Marco Jacobini. Da anni consulente super pagato della banca – grazie ai suoi stretti rapporti con De Bustis e Luigi Jacobini, ma anche con il direttore generale Gregorio Monachino, da sempre a capo dei crediti e per un lungo periodo anche del recupero crediti e del legale – Giannelli era già stato messo nel mirino della vigilanza della Banca d’Italia nel corso dell’ispezione del 2010, quando venne considerato ci fosse un enorme rischio potenziale, per via di fatture, trovate nel corso dell’ispezione, per oltre 2 milioni e legate al recupero crediti e a consulenze varie.

L’ex presidente della Popolare di Bari Marco Jacobini.

FORTEMENTE VOLUTO DALL’AD DE BUSTIS

Proprio in quegli anni Giannelli consolida il rapporto con De Bustis, che lo ha fortemente voluto alla presidenza della Banca battendo le resistenze dello zio Marco. Rinviato a giudizio per un concorso truccato all’Università di Taranto, Giannelli – la cui moglie Isabella Ginefra, magistrato, era diventata procuratore capo di Larino ribaltando l’esito di un voto del Consiglio superiore della magistratura, che aveva assegnato altrimenti quel posto, salvo poi essere rimossa dal Tar del Lazio – di fatto era un amministratore ombra, che ha sempre detto la sua su qualunque dossier della banca, dalla sottoscrizione di 51 milioni con il fondo lussemburghese Naxos Capital alla trattativa, poi arenata, con il fondo Futura Fund per il riacquisto del mini bond emesso nel 2013 per il gruppo Fusillo ed evitarne il fallimento.

Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.

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Perché le voci di un asse Salvini-Renzi convengono a entrambi

Italia viva bolla come «gossip» l'ipotesi di un governissimo con la Lega. Eppure i rumors su una possibile alleanza tornano utili a entrambi: all'ex premier per mantenere la pressione sul governo e al leader della Lega per non restare escluso dai giochi di Palazzo.

«Salvini lo abbiamo mandato a casa mentre ballava al Papeete», ma «c’è un interesse nazionale e sui temi istituzionali è bene che tutti i partiti trovino il modo di dialogare». A dirlo è il presidente di Italia Viva, Ettore Rosato, in un’intervista al Corriere della Sera in cui bolla come «fantasie» l’apertura di Matteo Renzi a Matteo Salvini per un governissimo, ammettendo tuttavia la possibilità di un dialogo.

IL «GOSSIP DA OSTERIA» CHE IN FONDO PIACE

«Lavoriamo per governare, non per andare al voto. Quando eravamo in maggioranza approvammo la legge elettorale anche con le opposizioni, Lega compresa. E se si va verso un proporzionale, la soglia del 5% non ci spaventa», assicura Rosato, «Italia viva è compatta e cresce, il resto è gossip da osteria». Eppure, questo gossip evidentemente non dispiace che circoli.

RENZI TIENE SOTTO PRESSIONE IL GOVERNO, SALVINI NON VIENE ESCLUSO

«La letteratura fiorita sul loro rapporto e attorno all’idea di un’alleanza bellicosa, fondata sul desiderio di prendersi una rivincita, si scontra con le leggi della politica e si consuma nel sospetto che nutrono l’uno verso l’altro», spiega sempre sul CorSera Francesco Verderami, «“io di lui non mi fido perché è inaffidabile”, ha risposto Salvini ad alcuni dirigenti del Carroccio, riferendosi a Renzi. Ed è un sentimento ricambiato. Tuttavia le voci che alimentano questa liaison dangereuse sono utili a entrambi: è una “tarantella” che serve a Renzi per tenere sotto pressione il governo, garantendosi un po’ di visibilità; e serve a Salvini per non restare ai margini dei giochi di Palazzo».

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Il problema della sinistra è la sua classe dirigente

Fino a che i leader appariranno quelli di sempre, lì nelle stanze del potere, non ci sarà speranza. Serve un Big Bang. Ma cacciarli non è compito delle sardine.

Leggo che qualche renziano, di fronte a sondaggi disastrosi, stia pensando di tornare indietro. Può essere. Le scissioni non pagano quasi mai. Anche la sinistra che fondò Articolo uno scoprì, col voto, che aveva pochi seguaci e si è spaccata in mille pezzi, alcuni dei quali rientrati nel Partito democratico.

I RITORNI RENZIANI INTERESSANO SOLO AI GIORNALISTI

Possiamo discuterne quanto vogliamo, ma il nodo del discorso non sta nel fallimento di una prospettiva di rifondazione renzista o radicale, e neppure nel fatto che vi sia chi, pentito/a, voglia tornare alla casa madre. Il nodo sta nel fatto che questa vicenda interessa solo noi giornalisti.

L’ELETTORATO ORMAI SI È STANCATO

Se osserviamo i sondaggi del Pd, e guardiamo contemporaneamente i dati dei renziani o dei radical, si resta colpiti come tutto questo vocio su scissioni e ritorni lasci indifferente l’elettorato di sinistra. Mentre quello di destra si smuove da antiche certezze e, per esempio, sta premiando Giorgia Meloni e mostrando una certa stanchezza verso Matteo Salvini, quelli che votavano a sinistra se ne sono andati definitivamente. Se ne sono andati gli elettori dei quartieri poveri, ma se ne stanno andando anche quelli della “borghesia rossa”.

DIRIGENTI RASSEGNATI, A PARTE ZINGARETTI E CUPERLO

È come se, malgrado gli sforzi generosi di alcuni dirigenti, e fra questi metto indubbiamente Nicola Zingaretti e Gianni Cuperlo, molti ritengano che il gioco non vale più la candela. Lascerei persino perdere le discussioni se siamo di fronte alla morte della sinistra, tema caro a chi è sempre stato più a sinistra di Mao Tze Tung, per soffermarmi sul fatto che tantissimi italiani credono che queste formazioni politiche di sinistra sono ormai inutili persino per contrastare l’avanzata di una destra che fa un po’ paura.

IN PUGLIA NON HANNO RISOLTO UN SOLO PROBLEMA

La cronaca politica, infatti, non regala messaggi di buon umore o di fiducia. Se in Calabria il candidato governatore è un ottimo industriale che prima tifava per la destra, se in Puglia l’intera filiera dei candidati è al governo da una vita e non è riuscita neppure ad affrontare un solo problema, dal caporalato, all’Ilva, alla Xylella, alla Banca popolare di Bari, a La Gazzetta del Mezzogiorno, è facile capire come sia difficile avere fiducia nel futuro.

SEMPRE I SOLITI LEADER: BISOGNA CAMBIARE TUTTO

Si può discutere una vita attorno alle sardine, alla necessità di andare verso il popolo, di fare proposte di sinistra, ma se chi rappresenta la sinistra è di destra o sta al vertice da anni senza risultati evidenti, è normale prendersi un vaffa sui denti. Nasce da qui la ragione di Big bang, non semplicemente di un cambio di linea politica. È necessario fare quello che si fa nelle situazioni eccezionali: si cambia tutto. Fino a che i leader della sinistra, periferici e nazionali, appariranno quelli di sempre e da sempre nelle stanze del potere non ci sarà speranza.

CHE SACCENTI QUELLI CHE FANNO IL CONTROPELO ALLE SARDINE

Non penso che questo, cioè cacciarli, sia il compito delle sardine, anche se provo pena per la saccenteria con cui molti di sinistra fanno il contropelo a questi ragazzi/e coraggiosi. Le sardine stanno facendo un lavoro eccezionale riempiendo territori occupati dalla destra e proclamando idee e valori che in Italia sembravano scomparsi dal dibattito pubblico di massa. Può bastare. Se poi decideranno di diventare partito politico o no, è cosa che decideranno loro.

SERVE UN PARTITO CHE SIA UN INTERLOCUTORE CREDIBILE

Quello che un partito di sinistra, moderato o meno moderato, può fare è mostrare di essere un interlocutore credibile innanzitutto offrendo una classe dirigente capace, che sa risolvere i problemi, che preferisce lavorare invece della continua manfrina su giornali e tivù.

COSA CI VUOLE A CAPIRE CHE EMILIANO NON VA RICANDIDATO?

Ma ve lo deve dire San Nicola che in Puglia non si può andare avanti ricandidando Michele Emiliano? Lo devo spiegare io a quel deputato pugliese che si è scandalizzato perché al comizio della Meloni ha visto militanti col braccio teso che agli elettori di Bari, e non solo, sta più a cuore la sorte di una banca e che si aspettano di non veder premiati quelli che hanno portato l’istituto alla rovina?

IL PD SI RIPRENDA CHI VUOLE, MA NON LA TERRANOVA

Se le cose stanno così, che tornino indietro alcuni renziani o renziane è del tutto irrilevante. Vadano dove li porta il sogno di un nuovo seggio parlamentare. A proposito, una cosa vorrei dire a Zingaretti: riprenditi chi vuoi, ma Teresa Bellanova lasciala là dov’è. Tutti quelli che ha appoggiato si sono schiantati. E chi capisce, capisce.

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I valori di Borsa italiana e spread del 18 dicembre 2019

Piazza Affari apre piatta con il differenziale Btp Bund a 156 punti base. I mercati in diretta.

Avvio di seduta poco mosso per Piazza Affari. L’indice Ftse Mib ha iniziato le contrattazioni in progresso dello 0,06% a 23.645 punti.

LO SPREAD A 156 PUNTI BASE

Apertura con poche oscillazioni per lo spread tra Btd e Bund. Il differenziale tra il decennale italiano e quello tedesco si attesta stamani a 156,9 punti mentre il rendimento del Btp è all’1,27%.

BORSE ASIATICHE DEBOLI

Seduta debole sulle Borse asiatiche, con gli investitori che si prendono una pausa dopo la corsa dei listini verso nuovi massimi storici seguita al primo accordo parziale tra Usa e Cina sui dazi. Tokyo ha ceduto lo 0,55%, Shanghai lo 0,18%, Seul lo 0,04% mentre Hong Kong tratta in calo dello 0,18%.

In territorio negativo anche i futures sull’Europa e Wall Street mentre sono riuscite a tenere la parità le Borse di Shenzhen (+0,04%) e Sydney (+0,06%). Sul mercato valutario continua la discesa della sterlina, in calo a 1,177 sull’euro e a 1,311 sul dollaro, sui timori che la vittoria di Boris Johnson possa portare a una Brexit senza accordo.

I MERCATI IN DIRETTA

11.07 – PIAZZA AFFARI IN CRESCITA

Piazza Affari sale in avvio di seduta, con il Ftse Mib in rialzo dello 0,4%. A trainare il listino sono Hera (+1%), Exor (+0,9%) e Poste (+0,9%) mentre Fca, dopo un avvio scattante, ha ridotto il rialzo allo 0,16%. Deboli, invece, Brembo (-0,5%), Moncler (-0,3%) e Atlantia (-0,3%), in flessione dopo la corsa di ieri in scia alle indiscrezioni sulla volontà di cedere il 49% di Adr. Sostengono il listino Enel (+0,9%) e Eni (+0,8%), bene anche Tim (+0,54%), tra i bancari si mettono in luce Banco Bpm (+0,74%) e Bper (+0,7%), davanti a Unicredit (+0,65%). Poco mossa Mediaset (+0,22%) dopo il parere dell’avvocato generale della Corte Ue, secondo cui Vivendi ha il diritto di acquisire il 28% del Biscione.

09.21 – BENE FCA E PSA DOPO LA FUSIONE

Avvio di seduta in rialzo per Fca e Psa dopo la firma dell’accordo per la fusione tra i due gruppi. Alla Borsa di Milano il titolo del Lingotto avanza dell’1,8% a 13,84 euro mentre a Parigi il produttore di Peugeot scatta del 4,2%.

08.52 – LO SPREAD APRE STABILE A 156 PUNTI

Apertura con poche oscillazioni per lo spread tra Btd e Bund. Il differenziale tra il decennale italiano e quello tedesco si attesta stamani a 156,9 punti mentre il rendimento del Btp è all’1,27%.

08.31 – LA CINA CHIUDE PIATTA

Le Borse cinesi chiudono gli scambi poco mosse: l’indice Composite di Shanghai cede lo 0,18% e si attesta a 3.017,04 punti, mentre quello di Shenzhen segna un frazionale rialzo dello 0,04%, a quota 1.709,44. Lo yuan si rafforza di appena 2 punti base sul dollaro dopo che la Banca centrale cinese ha fissato la parità bilaterale a 6,9969: a ridosso della chiusura dei listini azionari, il renminbi fa segnare uno spot rate di 7,0047 (+0,11%).

07.24 – TOKYO CHIUDE IN CALO

La Borsa di Tokyo termina la seduta col segno meno, con gli investitori che fanno scattare le prese di profitto dopo i recenti rialzi, mentre riappaiono i timori di una Brexit senza accordo dopo la possibile decisione del premier inglese Boris Johnson di non prolungare oltre il 31 gennaio il periodo di transizione concordato con l’Ue. Il Nikkei cede lo 0,55% a quota 23.934,43, con una perdita di 131 punti. Sul mercato dei cambi lo yen si apprezza sul dollaro a 109,40, e a 121,80 con l’euro.

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Blitz contro i centri sociali No Tav: arresti a Torino e nel Nord Est

Quattordici misure cautelari contro gli attivisti antagonisti per, tra le altre cose, resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamenti.

Blitz della Polizia contro storici antagonisti torinesi e del
nordest, impegnati da sempre nella battaglia contro il Tav.
Colpiti leader e militanti del centro sociale Askatasuna e di
esponenti di altri centri sociali di Modena, Vicenza e Padova.
Le accuse ipotizzate nei confronti degli antagonisti sono
resistenza aggravata a pubblico ufficiale, danneggiamento,
travisamento, inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità.

14 MISURE CAUTELARI

L’indagine della Polizia, coordinata dalla procura di Torino, riguarda in particolare l’ala più oltranzista del movimento No Tav. Sono 14 in totale le misure cautelari emesse dal gip e riguardano, oltre agli appartenenti allo storico centro sociale torinese, anche diversi esponenti del centro sociale Guernica di Modena e del centro sociale Bocciodromo di Vicenza. Gli uomini delle Digos di Torino, Padova, Modena e Vicenza stanno eseguendo anche 16 perquisizioni nei riguardi di altri antagonisti e di alcuni militanti di Askatasuna indagati nella stessa inchiesta.

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Stretto di Messina, arrestato il sindaco di Villa san Giovanni e i vertici della Caronte

Il primo cittadino e il presidente e l'amministratore delegato della società dei traghetti fermati per corruzione.

Ci sono il sindaco di Villa San Giovanni Giovanni Siclari, oltre che Antonino Repaci e Calogero Fimiani, rispettivamente presidente del Cda e amministratore delegato della società di navigazione “Caronte & Tourist Spa”, tra le persone arrestate dai carabinieri di Reggio Calabria. Gli investigatori avrebbero accertato come i manager indagati hanno promesso di elargire utilità ad amministratori comunali che in cambio hanno asservito la loro pubblica funzione agli interessi privati della società di navigazione.

AFFIDAMENTI ALLA SOCIETÀ DEI TRGHETTI

In particolare, secondo l’accusa Repaci – manager della società di traghettamento dello stretto di Messina – si è mosso anche con il vertice dell’amministrazione comunale, individuando il suo principale interlocutore nel sindaco Siclari – eletto con una lista civica e fratello del senatore di Forza Italia Marco – con l’obiettivo di assicurarsi l’affidamento di un’area sulla quale la società aveva progettato la realizzazione di alcuni lavori.

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Via libera ufficiale alla fusione tra Fca e Psa

I due cda hanno raggiunto l'accordo sul Memorandum. Elkann presidente e Tavares ceo. Dividendo da 5,5 miliardi agli azionisti di Fiat Chrysler. La nuova società sarà il quarto costruttore di auto al mondo.

I gruppi Fca e Psa hanno raggiunto l’accordo per la fusione. La nuova società sarà il quarto costruttore automobilistico al mondo in termini di volumi e il terzo in base al fatturato, con vendite annuali di 8,7 milioni di veicoli e ricavi congiunti di quasi 170 miliardi di euro. Il gruppo genererà sinergie annuali che a regime sono stimate in circa 3,7 miliardi di euro, senza chiusure di stabilimenti in conseguenza dell’operazione e con un flusso di cassa netto positivo già nel primo anno. Il perfezionamento dell’aggregazione tra i gruppi Fca e Psa è previsto in 12-15 mesi.

DIVIDENDO DA 5,5 MILIARDI DA FCA

Prima del closing, Fca distribuirà ai propri azionisti un dividendo speciale di 5,5 miliardi di euro mentre Psa distribuirà ai propri azionisti la quota del 46% detenuta nella società di componentistica Faurecia.

ELKANN PRESIDENTE, TAVARES CEO

Il nuovo gruppo avrà John Elkann alla presidenza e Carlos Tavares ceo. «Avrà forte supporto da parte degli azionisti di lunga data (Exor, famiglia Peugeot, Stato francese) che avranno una rappresentanza nel consiglio», si legge nella nota congiunta. Il cda avrà 11 membri, con una maggioranza di consiglieri indipendenti. Sarà consigliere anche Tavares che avrà un mandato iniziale di cinque anni.

LA NUOVA SEDE IN OLANDA

La nuova capogruppo della società che nascerà dalla fusione tra Fca e Psa avrà sede in Olanda sarà quotata su Euronext (Parigi), Borsa Italiana (Milano) e al New York Stock Exchange e beneficerà della sua forte presenza in Francia, Italia e negli Stati Uniti.

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L’impeachment contro Trump può essere un boomerang sui dem

La Camera presieduta da Pelosi e a maggioranza di sinistra va al voto sulla messa in stato d'accusa al presidente. Ma a gennaio tocca al Senato controllato dai repubblicani. E verso le elezioni 2020 l'asinello risulterebbe un partito battuto e indaffarato a distruggere invano l'avversario.

Dal voto alla Camera del 18 dicembre, Donald Trump sarà il terzo presidente degli Stati Uniti a finire sotto impeachment, l’incriminazione del Congresso con l’accusa di aver gravemente violato la Costituzione.

DUE PRECEDENTI PRIMA DI LUI

Il primo fu, nel 1868, il presidente Andrew Johnson, democratico e massone, quello dell’acquisto dell’Alaska dalla Russia, assolto per il voto di un repubblicano che tradì la linea del partito. Il secondo fu, nel 1998, Bill Clinton, anche lui assolto pochi mesi dopo. L’impeachment sul Watergate a Richard Nixon invece non fu mai votato: Nixon si dimise prima della sua messa in stato di accusa della Camera.

REPUBBICANI PRONTI A COMPATTARSI

I numeri del Senato, dove si svolge il processo finale degli impeachment approvati dalla Camera, sono favorevoli anche a Trump. Per rimuoverlo  servono due terzi dei voti (maggioranza qualificata) tra i 100 senatori: 53 sono repubblicani e il loro leader Mitch McConnell richiama alla compattezza, in «totale coordinamento con la Casa Bianca».

PRESSING DELLA SINISTRA SU PELOSI

Tra i democratici al contrario non tutti erano per aprire la procedura, né ancora si sono convinti. Il pressing per l’impeachment alla Camera, dove i dem sono la maggioranza (233 seggi contro 197 repubblicani) dalle elezioni di Midterm del 2018, è durato mesi sulla presidente, democratica, Nancy Pelosi. Soprattutto da parte dell’ala radicale dello squad, la squadra delle agguerrite neo-deputate cresciute nelle comunità musulmane e latine e poi alla scuola politica di Bernie Sanders, aggredite a più riprese da Trump con invettive razziste e denigranti.

Trump impeachment Usa Presidenziali 2020
La speaker della Camera americana, Nancy Pelosi, avvia la procedura di impeachment contro Donald Trump. (Getty).

WARREN SI È NETTAMENTE SCHIERATA

Alla fine anche la candidata alle Presidenziali del 2020 più quotata (e in ascesa) della sinistra dei dem, Elizabeth Warren, si è schierata per la messa in stato di accusa del presidente per il cosiddetto Kievgate. La soffiata arrivata da più gole profonde dell’intelligence sulle pressioni di Trump all’Ucraina per far indagare l’avversario dem alle Presidenziali ed ex vicepresidente Joe Biden sui business del figlio nel Paese.

A SETTEMBRE ATTIVATE COMMISSIONI E PROCEDURE

Alla Camera montava la difesa di Biden e il rigetto per Trump. Agli oltre 170 deputati dem già in pressing per l’impeachment fallito sul Russiagate (l’inchiesta giudiziaria sul sospetto di manipolazione delle Presidenziali del 2016 da parte di Mosca, attraverso Trump assolto per mancanza di prove) si sono aggiunti i sì di Warren e altri. E Pelosi, tra i più cauti sulla procedura, alla fine di settembre ha dovuto rompere gli indugi sul passo «ormai inevitabile», attivando le Commissioni e le procedure per la votazione.

I DUE WHISTLEBLOWER AL CENTRO DEL CASO

D’altronde proprio al Congresso era stata recapitata la denuncia scritta del primo whistleblower del 25 settembre 2019. Un secondo segnalatore si è fatto avanti il 5 ottobre rivelando una telefonata di Trump del 25 luglio 2019 al presidente ucraino Volodymyr Zelensky (ammessa anche dall’Amministrazione Usa) per far indagare Biden padre e figlio. Dopo aver fatto bloccare, in quelle settimane, gli aiuti militari all’Ucraina già approvati dal Congresso.

Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le elezioni 2020


Nancy Pelosi, presidente della Camera

PER I DEM PROVE SCHIACCIANTI

La dinamica è stata confermata dall’inviato diplomatico statunitense in Ucraina William Taylor Jr, da funzionari del Pentagono e della Casa Bianca e da svariati testimoni. «Prove schiaccianti e incontestabili, non ci hanno lasciato altra scelta», secondo il presidente della Commissione d’intelligence alla Camera Adam Schiff, democratico. Alla fine di ottobre la Camera di Washington ha licenziato le prassi da seguire per le udienze sull’impeachment, compatta negli schieramenti (232 sì e 196 no).

LE ACCUSE: ABUSO DI POTERE E OSTRUZIONE AL CONGRESSO

Il 13 dicembre la Commissione giustizia ha formalizzato le accuse di abuso di potere e ostruzione al Congresso. La linea di Schiff è che Trump abbia «cercato aiuto dall’Ucraina per i suoi interessi personali. Per essere rieletto e non per il bene degli Usa». Pelosi ha scandito: «Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le prossime elezioni».

OPINIONE PUBBLICA SPACCATA

Il via a procedere, per i democratici, si impone dai fatti chiari e inequivocabili ricostruiti. Non è affatto solido però il consenso per l’impeachment nell’opinione pubblica che Trump conta
di trascinare dalla sua parte, da vittima del «partito dell’odio» e  di «un’assoluta follia politica!», come ha rilanciato su Twitter. Da un sondaggio del 10 dicembre della Quinnipiac university ci sono in effetti margini di manovra: il 51% tra gli elettori interpellati pensa che il tycoon non debba essere incriminato e rimosso dalla Casa Bianca, al contrario del 45%.

METÀ ELETTORATO RITIENE LA VICENDA ECCESSIVA

Altre rilevazioni, come quella diffusa da Fox News a metà dicembre, sono più negative, con circa il 50% favorevole all’impeachment: sempre una buona metà dell’elettorato ritiene tuttavia la procedura eccessiva. Nello specifico, nell’indagine della Quinnipiac university il 99% degli elettori di Trump è contrario alla messa in stato di accusa, mentre solo l’81% di chi vota dem la appoggia.

Il presidente Trump.

PER MICHELLE OBAMA SAREBBE UN AUTOGOL

Un pezzo da novanta come l’ex first lady Michelle Obama resta scettica sul «surreale» impeachment: «Non credo che la gente sappia cosa farne», ha dichiarato da avvocato ancor prima che da democratica, sperando che «si torni indietro». Se il Senato, già a febbraio, dovesse rigettare l’accusa della Camera (come avvenne con Clinton) il boomerang è dietro l’angolo: alle Primarie che contano del super martedì del 3 marzo (California, Texas, Massachusetts e Michigan), i dem apparirebbero come un partito indaffarato solo a tentare di distruggere – invano – l’avversario.

CAMPAGNA ELETTORALE CHE SI SPOSTEREBBE DA ALTRI TEMI

Tutta la campagna del 2020 si concentrerebbe sull’impeachment piuttosto che, per esempio, sulle leggi sul welfare e per i diritti civili passate alla Camera dal 2018 nonostante Trump. Non per niente i repubblicani premono per aprire il processo al Senato già il 6 gennaio, e chiuderlo poi rapidamente senza chiamare testimoni. Per assurdo Trump rema contro puntando all’impeachment show.

TESTIMONI DA METTERE ALLA BERLINA

Prima Trump ha invitato i testimoni di punta convocati dai dem alla Camera a non comparire (l’ex advisor alla Sicurezza John Bolton e il capo di Gabinetto della Casa Bianca Mick Mulvaney hanno disertato). E sempre il presidente degli Usa e il braccio destro nelle operazioni in Ucraina, l’avvocato Rudolph Giuliani, premono per chiamare come testimoni al Senato Joe Biden e il figlio Hunter. Metterli alla berlina ribalterebbe i giochi.

UNA FRONDA NELL’ELEFANTINO NON C’È

McConnell ha decretato le accuse «terribilmente deboli», il processo al Senato sarà presieduto dal giudice capo della Corte Suprema John Glover Roberts Jr, repubblicano. La destra punta a scardinare l’equazione – immediata ma non dimostrabile – tra lo stop agli armamenti a Kiev e la telefonata anti-Biden: infatti non ci sono stati gli estremi per inserire l’accusa di «corruzione» nel testo di impeachment. Portare una fronda di senatori repubblicani contro Trump, come speravano i dem, sarà più scivoloso che convincere l’elettorato.

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L’impeachment contro Trump può essere un boomerang sui dem

La Camera presieduta da Pelosi e a maggioranza di sinistra va al voto sulla messa in stato d'accusa al presidente. Ma a gennaio tocca al Senato controllato dai repubblicani. E verso le elezioni 2020 l'asinello risulterebbe un partito battuto e indaffarato a distruggere invano l'avversario.

Dal voto alla Camera del 18 dicembre, Donald Trump sarà il terzo presidente degli Stati Uniti a finire sotto impeachment, l’incriminazione del Congresso con l’accusa di aver gravemente violato la Costituzione.

DUE PRECEDENTI PRIMA DI LUI

Il primo fu, nel 1868, il presidente Andrew Johnson, democratico e massone, quello dell’acquisto dell’Alaska dalla Russia, assolto per il voto di un repubblicano che tradì la linea del partito. Il secondo fu, nel 1998, Bill Clinton, anche lui assolto pochi mesi dopo. L’impeachment sul Watergate a Richard Nixon invece non fu mai votato: Nixon si dimise prima della sua messa in stato di accusa della Camera.

REPUBBICANI PRONTI A COMPATTARSI

I numeri del Senato, dove si svolge il processo finale degli impeachment approvati dalla Camera, sono favorevoli anche a Trump. Per rimuoverlo  servono due terzi dei voti (maggioranza qualificata) tra i 100 senatori: 53 sono repubblicani e il loro leader Mitch McConnell richiama alla compattezza, in «totale coordinamento con la Casa Bianca».

PRESSING DELLA SINISTRA SU PELOSI

Tra i democratici al contrario non tutti erano per aprire la procedura, né ancora si sono convinti. Il pressing per l’impeachment alla Camera, dove i dem sono la maggioranza (233 seggi contro 197 repubblicani) dalle elezioni di Midterm del 2018, è durato mesi sulla presidente, democratica, Nancy Pelosi. Soprattutto da parte dell’ala radicale dello squad, la squadra delle agguerrite neo-deputate cresciute nelle comunità musulmane e latine e poi alla scuola politica di Bernie Sanders, aggredite a più riprese da Trump con invettive razziste e denigranti.

Trump impeachment Usa Presidenziali 2020
La speaker della Camera americana, Nancy Pelosi, avvia la procedura di impeachment contro Donald Trump. (Getty).

WARREN SI È NETTAMENTE SCHIERATA

Alla fine anche la candidata alle Presidenziali del 2020 più quotata (e in ascesa) della sinistra dei dem, Elizabeth Warren, si è schierata per la messa in stato di accusa del presidente per il cosiddetto Kievgate. La soffiata arrivata da più gole profonde dell’intelligence sulle pressioni di Trump all’Ucraina per far indagare l’avversario dem alle Presidenziali ed ex vicepresidente Joe Biden sui business del figlio nel Paese.

A SETTEMBRE ATTIVATE COMMISSIONI E PROCEDURE

Alla Camera montava la difesa di Biden e il rigetto per Trump. Agli oltre 170 deputati dem già in pressing per l’impeachment fallito sul Russiagate (l’inchiesta giudiziaria sul sospetto di manipolazione delle Presidenziali del 2016 da parte di Mosca, attraverso Trump assolto per mancanza di prove) si sono aggiunti i sì di Warren e altri. E Pelosi, tra i più cauti sulla procedura, alla fine di settembre ha dovuto rompere gli indugi sul passo «ormai inevitabile», attivando le Commissioni e le procedure per la votazione.

I DUE WHISTLEBLOWER AL CENTRO DEL CASO

D’altronde proprio al Congresso era stata recapitata la denuncia scritta del primo whistleblower del 25 settembre 2019. Un secondo segnalatore si è fatto avanti il 5 ottobre rivelando una telefonata di Trump del 25 luglio 2019 al presidente ucraino Volodymyr Zelensky (ammessa anche dall’Amministrazione Usa) per far indagare Biden padre e figlio. Dopo aver fatto bloccare, in quelle settimane, gli aiuti militari all’Ucraina già approvati dal Congresso.

Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le elezioni 2020


Nancy Pelosi, presidente della Camera

PER I DEM PROVE SCHIACCIANTI

La dinamica è stata confermata dall’inviato diplomatico statunitense in Ucraina William Taylor Jr, da funzionari del Pentagono e della Casa Bianca e da svariati testimoni. «Prove schiaccianti e incontestabili, non ci hanno lasciato altra scelta», secondo il presidente della Commissione d’intelligence alla Camera Adam Schiff, democratico. Alla fine di ottobre la Camera di Washington ha licenziato le prassi da seguire per le udienze sull’impeachment, compatta negli schieramenti (232 sì e 196 no).

LE ACCUSE: ABUSO DI POTERE E OSTRUZIONE AL CONGRESSO

Il 13 dicembre la Commissione giustizia ha formalizzato le accuse di abuso di potere e ostruzione al Congresso. La linea di Schiff è che Trump abbia «cercato aiuto dall’Ucraina per i suoi interessi personali. Per essere rieletto e non per il bene degli Usa». Pelosi ha scandito: «Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le prossime elezioni».

OPINIONE PUBBLICA SPACCATA

Il via a procedere, per i democratici, si impone dai fatti chiari e inequivocabili ricostruiti. Non è affatto solido però il consenso per l’impeachment nell’opinione pubblica che Trump conta
di trascinare dalla sua parte, da vittima del «partito dell’odio» e  di «un’assoluta follia politica!», come ha rilanciato su Twitter. Da un sondaggio del 10 dicembre della Quinnipiac university ci sono in effetti margini di manovra: il 51% tra gli elettori interpellati pensa che il tycoon non debba essere incriminato e rimosso dalla Casa Bianca, al contrario del 45%.

METÀ ELETTORATO RITIENE LA VICENDA ECCESSIVA

Altre rilevazioni, come quella diffusa da Fox News a metà dicembre, sono più negative, con circa il 50% favorevole all’impeachment: sempre una buona metà dell’elettorato ritiene tuttavia la procedura eccessiva. Nello specifico, nell’indagine della Quinnipiac university il 99% degli elettori di Trump è contrario alla messa in stato di accusa, mentre solo l’81% di chi vota dem la appoggia.

Il presidente Trump.

PER MICHELLE OBAMA SAREBBE UN AUTOGOL

Un pezzo da novanta come l’ex first lady Michelle Obama resta scettica sul «surreale» impeachment: «Non credo che la gente sappia cosa farne», ha dichiarato da avvocato ancor prima che da democratica, sperando che «si torni indietro». Se il Senato, già a febbraio, dovesse rigettare l’accusa della Camera (come avvenne con Clinton) il boomerang è dietro l’angolo: alle Primarie che contano del super martedì del 3 marzo (California, Texas, Massachusetts e Michigan), i dem apparirebbero come un partito indaffarato solo a tentare di distruggere – invano – l’avversario.

CAMPAGNA ELETTORALE CHE SI SPOSTEREBBE DA ALTRI TEMI

Tutta la campagna del 2020 si concentrerebbe sull’impeachment piuttosto che, per esempio, sulle leggi sul welfare e per i diritti civili passate alla Camera dal 2018 nonostante Trump. Non per niente i repubblicani premono per aprire il processo al Senato già il 6 gennaio, e chiuderlo poi rapidamente senza chiamare testimoni. Per assurdo Trump rema contro puntando all’impeachment show.

TESTIMONI DA METTERE ALLA BERLINA

Prima Trump ha invitato i testimoni di punta convocati dai dem alla Camera a non comparire (l’ex advisor alla Sicurezza John Bolton e il capo di Gabinetto della Casa Bianca Mick Mulvaney hanno disertato). E sempre il presidente degli Usa e il braccio destro nelle operazioni in Ucraina, l’avvocato Rudolph Giuliani, premono per chiamare come testimoni al Senato Joe Biden e il figlio Hunter. Metterli alla berlina ribalterebbe i giochi.

UNA FRONDA NELL’ELEFANTINO NON C’È

McConnell ha decretato le accuse «terribilmente deboli», il processo al Senato sarà presieduto dal giudice capo della Corte Suprema John Glover Roberts Jr, repubblicano. La destra punta a scardinare l’equazione – immediata ma non dimostrabile – tra lo stop agli armamenti a Kiev e la telefonata anti-Biden: infatti non ci sono stati gli estremi per inserire l’accusa di «corruzione» nel testo di impeachment. Portare una fronda di senatori repubblicani contro Trump, come speravano i dem, sarà più scivoloso che convincere l’elettorato.

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