Le mosse di Putin in Libia e Iran

Dopo essere volato in Siria e in Turchia, il presidente russo ha incontrato Merkel e si prepara a ospitare a Mosca l'incontro tra Haftar e al Serraj. Un iper-attivismo che condivide con Erdogan, nonostante siano spesso su fronti contrapposti. E che è convinto di poter esercitare anche con Teheran.

Dopo aver portato a casa con l’incontro con Recep Tayyip Erdogan il cessate il fuoco in Libia in cambio al non casuale via operativo al gasdotto russo-turco TurkStream, e aver visto Angela Merkel e il suo ministro tedesco degli Esteri Heiko Maas, ora Vladimir Putin si appresta a ospitare a Mosca Khalifa Haftar e Fayez al-Serraj per firmare i termini della tregua.

LO ZAR IN SIRIA POI A ISTANBUL

L’agenda di inizio 2020 del presidente russo è stata fitta: prima dell’incontro con Merkel, il 7 gennaio era volato a sorpresa in Siria, a parlare con il presidente Bashar al Assad, alleato del regime filo-iraniano. L’indomani aveva poi raggiunto Istanbul per mediare con l’omologo turco una spartizione della Libia, sulla falsariga di quanto concordato sulla Siria. Il prezzo dei negoziati politici attraverso l’hub del Cremlino è sempre economico e militare: un’arma di ricatto che i diplomatici degli altri governi e dell’Onu non hanno con gli interlocutori. Perciò sulla Libia come per il conflitto siriano, Erdogan e Putin si sono trovati immediatamente d’accordo, nonostante armino da tempo fronti contrapposti.

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Erdogan e Putin.

IL PATTO LIBICO TRA ERDOGAN E PUTIN

Per attenuare l’appoggio degli islamisti di Tripoli e di Misurata, sotto il cartello della Fratellanza musulmana, il leader turco chiede la garanzia di conservare e allargare l’influenza neo-ottomana in Libia su una fetta accettabile di territori, almeno nella Tripolitania. E, quel che più conta, di bloccare il gasdotto concorrente EastMed con il TurkStream per portare gas russo all’Europa dalla Turchia.

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L’altra pipeline è concepita per far arrivare il gas in Europa (attraverso Grecia e Cipro) dai nuovi giacimenti offshore israeliani. Una parte di mare ricca di risorse inesplorate dove, più a Ovest, opera anche Eni con concessioni di Cipro. E, più a Sud, nel maxi giacimento egiziano di Zohr.

LA CORSA TURCA AL GAS OFFSHORE

Più che qualche pozzo in Libia, il colpo azzardato da Erdogan è sfilare il gas offshore nel Mediterraneo al blocco avversario che arma il generale libico Khalifa Haftar. Arrivato all’offensiva finale contro il governo di Tripoli, Haftar ha dalla sua parte l’aviazione dell’Egitto e degli Emirati Arabi, finanziati dall’Arabia Saudita. Ma da qualche anno è anche la Russia a far avanzare l’ex comandante gheddafiano, sia con materiale bellico sia con mercenari russi della Wagner Group. Certo non prenderà bene una spartizione turco-russa della Libia, ma Haftar dipende anche dalle armi del Cremlino. E a lungo termine il metano dalla Turchia all’Ue vale più delle commesse di armi.

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Vladimir Putin e Hassan Rohani, presidenti di Russia e Iran.

IL POTERE DELLE ARMI DI RUSSIA E TURCHIA

Il potere militare di Putin e di Erdogan in Libia ha reso ininfluenti i summit con Haftar di Giuseppe Conte. Di conseguenza il premier rivale di Tripoli Fayez al-Serraj lo ha disertato. Anche Erdogan, in sfida alla Nato, negli ultimi anni è diventato un acquirente dei sistemi antimissili e di altri armamenti dalla Russia. Ma più in generale Turchia, Russia e Iran sono storici partner commerciali ed economici: non a caso, Putin ed Erdogan si sono ricompattati anche nel condannare lo strike di Donald Trump contro Qassem Soleimani. Ben più di Ankara, Teheran è un alleato dell’asse dei non allineati capeggiato da Mosca. Ma paradossalmente per Putin sarà più dura incidere sulla crisi con l’Iran.

LA DIFFICILE MEDIAZIONE CON L’IRAN

La Repubblica islamica si espande militarmente in Medio Oriente in modo autonomo dal Cremlino, attraverso le forze d’élite all’estero (al Quds) dei Guardiani della rivoluzione che erano guidate da Soleimani. Propaga nella regione un sistema religioso radicalmente diverso dal modello culturale russo. Il punto di contatto con Putin è l’autoritarismo. Quello di distacco un orgoglioso nazionalismo. L’ateismo russo è da sempre profondamente contestato dagli ayatollah sciiti, gelosi della loro sovranità. Ma Putin è convinto di avere margini di mediazione anche con Teheran, mantenendo aperto il canale dell’Iran con l’Ue che vuole evitare l’uscita annunciata dall’accordo internazionale sul nucleare del 2015.

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Iran e Libia, perché l’Italia rischia la crisi energetica

Nel 2019 l’Iraq è stato il primo fornitore di petrolio dell’Italia (circa 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei..

Nel 2019 l’Iraq è stato il primo fornitore di petrolio dell’Italia (circa 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei nostri consumi). Al contrario degli americani che con il fracking, il petrolio dal gas scisto delle rocce, stanno estraendo olio nero negli Usa, gli italiani dipendono quasi totalmente dalle importazioni straniere di greggio. La fragilità dell’Italia negli attacchi tra l’Iran e gli Stati Uniti, e nella contemporanea escalation della guerra in Libia, è prima di tutto nelle conseguenze economiche che una crisi petrolifera come quelle degli Anni 70 avrebbe sul Paese a un passo dalla recessione. Dallo strike degli Usa contro il generale iraniano Qassem Soleimani, le Borse sono in calo e il prezzo del greggio è volato sopra 70 dollari al barile. La pioggia di razzi iraniani in Iraq dell’8 gennaio, in rappresaglia, ha provocato una nuova impennata.

DIPENDENTI USA VIA DAI GIACIMENTI IN IRAQ

Dopo le basi militari, i siti petroliferi degli americani in Iraq – dove c’è anche l’Eni a Zubair, vicino a Bassora – e negli altri Stati del Golfo sono i primi target degli attacchi di Teheran. Un assaggio in questo senso è stato il raid messo a segno nel settembre scorso dagli iraniani agli impianti petroliferi più grandi al mondo, in Arabia Saudita. La regia dell’attacco con droni dall’Iran o dallo Yemen, che bloccò il 6% della produzione petrolifera globale mostrando la vulnerabilità di Raid, fu con ogni probabilità del generale Soleimani, da più di 20 anni a capo delle forze d’élite all’estero (al Quds) dei pasdaran. Dopo il suo omicidio mirato del 3 gennaio, le major americane hanno imbarcato i connazionali impiegati nei campi estrattivi del Sud dell’Iraq e del Kurdistan iracheno su voli verso gli Emirati e il Qatar, ha confermato il ministero del Petrolio di Baghdad.

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Il presidente russo Vladimir Putin e l’omologo turco President Recep Tayyip Erdogan discutono di Libia, Iran… e petrolio. GETTY.

LA MINACCIA DEL BLOCCO DELLO STRETTO DI HORMUZ

I mercati sono in fibrillazione anche per la minaccia iraniana, mai così concreta, di bloccare alle petroliere lo Stretto di Hormuz, controllato dai pasdaran, nel Golfo persico. Dalla più importante arteria di transito globale del greggio passa un terzo dell’export totale del petrolio via mare (il 29% verso l’Italia), da tutti i Paesi del Golfo esclusi lo Yemen e l’Oman; e anche tutto il gas naturale liquefatto del Qatar. La possibilità di una crisi energetica per l’Italia è aggravata dalla guerra in Libia diventata aperta tra potenze straniere. Forze rivali libiche e rinforzi arrivati dalla Turchia da una parte e da russi, emiratini ed egiziani dall’altra si dirigono verso la battaglia finale di Tripoli. In Libia gli introiti dell’export del greggio, redistribuite dalla Compagnia nazionale del petrolio (Noc) e dalla Banca centrale libica a tutte le fazioni in campo, sono il carburante del conflitto.

L’uscita o un’estromissione del Cane a quattro zampe dalla Libia è assai improbabile. Anche nel caso di una spartizione tra Russia e Turchia.

LO STOP DEL GREGGIO DA IRAN E VENEZUELA

Come in Iraq, i vertici delle compagnie rassicurano che le estrazioni proseguono ai livelli invariati del 2019 «attraverso il personale locale». In Libia, a dicembre la produzione nazionale di greggio era arrivata al massimo (1,25 milioni di barili al giorno) da sette anni. Cioè dalla precedente escalation tra il 2013 e il 2014 che sfociò nella battaglia all’aeroporto di Tripoli. Le turbolenze concomitanti in Nord Africa e in Medio Oriente cadono durante un import-export del greggio già rallentato da mesi per le sanzioni massime di Trump all’Iran e dall’embargo totale al Venezuela, maggiore riserva mondiale di petrolio. Se dal 2018 Eni e le altre compagnie occidentali sono uscite dai contratti di esplorazione e di sfruttamento appena avviati con Teheran, dopo l’accordo sul nucleare, in Libia l’uscita o un’estromissione del Cane a sei zampe è assai improbabile. Anche nel caso di una spartizione tra Russia e Turchia.

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Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’omologo greco Kyriakos Mitsotakis discutono del gasdotto EastMed. GETTY.

L’ACCORDO TURCO-LIBICO PER SPARTIRSI IL MEDITERRANEO

Eni è la prima e storica compagnia straniera a essere entrata ell’ex colonia italiana, negli Anni 50. Un partner strategico consolidato, sopravvissuto nell’Est all’avanzata del generale filorusso Khalifa Haftar e ben impiantato nella Tripoli islamista, sostenuta da anni dalla Turchia e dal Qatar. Con il Noc gestisce il complesso di raffineria di petrolio e gas a Mellitah, terminal del greenstream che porta il gas libico verso l’Italia, i contratti con le società petrolifere durano decenni, e parte del gas di Eni serve le centrali elettriche dei libici. In compenso gli italiani rischiano molto nella corsa alle riserve di gas nel Mediterraneo orientale. Con un colpo di spugna, a novembre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha stretto un accordo bilaterale e arbitrario con la Libia sulla giurisdizione delle acque che spacca in due il mare nostrum, violando il diritto marittimo internazionale.

La disputa sul gas si concentra soprattutto sulle riserve attorno all’isola di Cipro contesa dalla Turchia

TURCHIA CONTRO ITALIANI E FRANCESI A CIPRO

In cambio di armi e rinforzi a terra a Tripoli e Misurata, Erdogan intende accaparrarsi i giacimenti al largo della Grecia e di Cipro, nelle acque dell’Egitto dove l’Eni ha scoperto e sfrutta il grande campo offshore di Zohr, e più a Est in quelle del Leviathan a Sud di Israele. La disputa (anche di altre major straniere) si concentra soprattutto sulle riserve attorno al piccolo Stato dell’Ue conteso dalla Turchia: a ottobre Ankara aveva alzato il livello dello scontro, inviando una nave da trivellazione proprio in un blocco esplorativo affidato da Nicosia a Eni e alla francese Total. Un’entrata a gamba tesa anche nel progetto EastMed – la pipeline concorrente alla russo-turca TurkStream – che passando per Creta dovrebbe portare il gas in Europa. Non a caso, con l’Egitto l’Ue, Italia in testa, ha dichiarato illegittimo l’accordo marittimo turco-libico. Ma mentre l’Ue parla, Erdogan agisce.

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All’America non piace la guerra di Trump contro l’Iran

Manifestazioni in 80 città degli Stati Uniti dopo l’omicidio mirato di Soleimani. Si teme una nuova palude in Medio Oriente. Mentre i dem alla Camera annunciano una risoluzione per limitare il presidente.

In più di 80 città degli Usa si manifesta contro lo strike al generale iraniano Qassem Soleimani. Davanti alla Casa Bianca un migliaio di pacifisti ha condannato il gigantesco azzardo di Donald Trump, e tra loro come sempre da tempo è spiccata un’infervorata Jane Fonda.

DE NIRO CONTRO I PIANI DEL «GANGSTER»

L’attrice e attivista americana che negli Anni 70 si mobilitò contro la palude del Vietnam protesta per scongiurare il «nuovo Vietnam in Medio Oriente». Che milioni di americani temono e che Teheran promette giurando vendetta. Robert De Niro, che a Trump non le manda a dire, è convinto iniziare una guerra sia «l’unico modo» per il «gangster» di «farsi rieleggere».

ALTRI ATTI PER INTERDIRE THE DONALD

Guarda caso con il 2020 si è aperto al Senato il processo per l’impeachment, dove a sorpresa il falco repubblicano John Bolton si è fatto avanti per testimoniare come chiesto dai dem. Se non altro il finimondo scatenato in Medio Oriente oscura la campagna mediatica internazionale sulla messa in stato di accusa di Trump. Eppure proprio l’omicidio mirato di Soleimani in Iraq innesca altri atti per interdire il presidente.

STRIKE LEGITTIMO? DUBBI ANCHE OLTREOCEANO

Diversi esperti di diritti umani e strateghi contestano alla Casa Bianca la «liceità» dell’uccisione di un alto comandante militare, in un Paese terzo, come nel caso di Soleimani. Un «atto di guerra (non la reazione «di difesa» rivendicata dalla segreteria di Stato Usa) anche per l’ex consigliere del presidente Jimmy Carter durante la crisi degli ostaggi all’ambasciata Usa di Teheran Gary Sick, tra i massimi conoscitori americani dell’Iran. L’argomentazione di un «attacco terroristico imminente» pianificato da Soleimani contro gli Stati Uniti – dossier dichiarato coperto da segreto di Stato – lascia perplessi anche Oltreoceano. Tecnicamente gli omicidi mirati, anche di figure statali del calibro del comandante delle forze all’estero al Quds dei Guardiani della rivoluzione, sono ammessi dall’articolo 2 della Costituzione Usa sulla legittima difesa – ma in circostanze limitatissime. A patto che sia pressoché certa la minaccia imminente.

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Americani contro la guerra all’Iran di Trump, Usa. (Getty).

NANCY PELOSI TORNA ALLA CARICA

L’incaricata dell’Onu sulle esecuzioni extragiudiziali Agnes Callamard, che ha appena guidato l’inchiesta sull’omicidio di Jamal Khashoggi, chiede «trasparenza» dalla Casa Bianca, su un atto estremo – anche per conseguenze – sul quale l’Amministrazione è tenuta a rendicontare. Anche per l’esperta di intelligence, ed ex advisor dell’Onu, Hina Shamsi quanto finora affermato da Trump e dal suo accondiscendente segretario di Stato Mike Pompeo non è convincente come giustificazione: «Se ci sono più informazioni il presidente deve prendersi la responsabilità di diramarle. Non possiamo tirare a indovinare». Per i dem lo strike a Soleimani è «dinamite in una polveriera», ha esclamato l’ex vicepresidente Joe Biden. Mentre la presidente della Camera Nancy Pelosi – già promotrice dell’impeachment – ha annunciato al voto dell’assemblea a maggioranza democratica una risoluzione «sui poteri di guerra per limitare le azioni militari del presidente».

LA LETTERA SUL RITIRO AMERICANO DALL’IRAQ DIFFUSA PER ERRORE

Un testo per riaffermare la «responsabilità di supervisione del Congresso. Rendendo obbligatoria, in assenza di ulteriori azioni parlamentari, la fine entro 30 giorni delle ostilità militari contro l’Iran», ha anticipato Pelosi. Tenuto conto dell’«attacco «provocatorio e sproporzionato» che «ha messo in serio pericolo i nostri militari, i nostri diplomatici e altri, rischiando una grave escalation di tensione con l’Iran». Il riferimento è alle migliaia di rinforzi mandate dagli Usa con ponti aerei a inizio 2020, in aggiunta alle migliaia di unità già presenti in Medio Oriente. Quando ancora alla fine dell’anno la Casa Bianca premeva per smantellare questi contingenti, dopo il repentino disimpegno dalla Siria. Un clima schizofrenico: dopo lo strike di Soleimani, circola in Rete una misteriosa lettera per la Difesa irachena del Comando generale Usa sul «riposizionamento delle unità» per un «ritiro sicuro», nel «rispetto della sovranità irachena». «Diffusa per errore», ha ammesso il Pentagono, «ma esistente».

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In Times Square, a New York, contro le guerre di Trump in Medio Oriente. GETTY.

DAL PENTAGONO ALT ALLA MINACCIA VERSO I SITI CULTURALI

La Germania e altri Paesi europei hanno iniziato a «snellire» i contingenti in Iraq, l’Italia a «riposizionare» le sue unità fuori dalle basi Usa attaccate a colpi di mortaio. La Nato in sé si è distaccata pubblicamente dall’operazione contro Soleimani «decisa solo dagli Usa». Mentre anche Oltreoceano il Pentagono ha smentito platealmente la minaccia di rappresaglia, diffusa e rilanciata via Twitter dal presidente americano, di «colpire i siti culturali», contraria alle leggi internazionali sui conflitti armati. Tutto il mondo si è levato contro i raid su Persepoli e sulla ventina di siti persiani patrimonio dell’umanità dell’Unesco: un crimine di guerra in base alla Convenzione dell’Aia del 1954. Ma le migliaia di americani in piazza chiedono di più per le Presidenziali del 2020: «Stop alle bombe in Iraq» e «militari fuori da tutto il Medio Oriente», prima che l’Iran e le sue milizie sciite alleate li caccino col sangue. Il 2 gennaio negli Usa era in programma una trentina di cortei nel weekend, per l’impeachment di Trump.

IMPEACHMENT E IRAN: PROTESTE A CATENA

I razzi del 3 gennaio contro Soleimani e il leader degli Hezbollah iracheni Abu Mahdi al Muhandis hanno moltiplicato le contestazioni. Numeri che in America non si vedevano dalla guerra in Iraq del 2003. A Times Square a New York, davanti alla Trump Tower a Chicago, a Memphis, Miami, San Francisco: contro il flagello di Trump il popolo dei pacifisti – e non solo – è in moto come ai tempi del Vietnam. Un caos anche Oltreoceano, dove lo choc mondiale provocato da Trump sull’Iran si somma alle acque agitate per l’impeachment. È doppio combustibile per le sessioni infuocate del Congresso. Non casuale, in proposito, è il sì di Bolton a parlare per la messa in stato di accusa del presidente: i dem considerano un loro trionfo il passo dell’ex advisor (silurato) di Trump alla Sicurezza nazionale. E nessuno, anche tra i repubblicani, converrebbe come la Casa Bianca che con la morte di Soleimani gli americani «sono più sicuri». Tranne probabilmente Bolton, ma neanche la guerra all’Iran di Trump lo ha placato.

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Libia, lo scacco della Turchia all’Ue

L’Ue fuori gioco nel Mediterraneo. Dopo il via libera di Ankara all'invio di truppe, nell'ex colonia italiana si va verso una spartizione tra Erdogan e Putin. Come a Damasco e dintorni.

L’accordo sugli armamenti di Ankara con il governo di Tripoli a fine 2019 e, come primo atto del 2020, l’ok del parlamento turco a un contingente in Libia è l’istituzionalizzazione di una proxy war iniziata nel 2011, con le Primavere arabe. Segnata dall’accelerazione del 2014, che portò gli islamisti al governo nella capitale libica, e dalla volata di queste settimane imposta dalla marcia del nemico Khalifa Haftar su Tripoli. I rinforzi sul campo dei contractor russi alle milizie di mercenari del generale libico fanno la differenza, rendendo possibile la battaglia finale contro gli islamisti fallita da mesi da Haftar. Alla minaccia concreta i turchi, che un rapporto dell’Onu ha certificato violare «regolarmente e a volte apertamente» l’embargo sulle armi verso la Libia, sono costretti a uscire allo scoperto. Svelando come la guerra per procura sia anche, se non prima di tutto, una guerra del gas nel Mediterraneo.

ISLAMISMO CONTRO AUTORITARISMO

Da una parte scorre il corridoio di armi e di vari rifornimenti che parte dalla Turchia e, soprattutto attraverso i porti e lo scalo di Misurata, raggiunge Tripoli e il governo di unità nazionale (Gna) guidato dagli islamisti. Aiuti, militari ed economici, pagati soprattutto dal ricco Qatar verso i gruppi di ribelli sponsorizzati nelle Primavere arabe contro i regimi autoritari, e a capo all’esecutivo di Fayez al Serraj legittimato dalla comunità internazionale (in seguito ai negoziati dell’Onu del 2015), ma sempre più circoscritto a Tripoli. Un governo caotico, frammentato, corrotto e composto da milizie anche violente. Dall’altra, ricorda lo stesso report sulla Libia del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del novembre scorso, c’è il fronte dei regimi sopravvissuti alle Primavere arabe che armano Haftar e conducono raid per lui: l’Egitto (finanziato dai sauditi) e gli Emirati arabi contrastano le mire neo-ottomane dei turchi in Libia, in asse con la Russia amica dei regimi.

Libia Turchia missione Tripoli
Il parlamento turco approva la missione in Libia. GETTY.

ERDOGAN SI IMPOSSESSA DEL MEDITERRANEO

Il Leitmotiv è riportare la stabilità dell’era Gheddafi. Barattare il miraggio della democrazia con l’autoritarismo, nel nome di una sicurezza perduta e inseguita, è una tentazione ormai dalla maggioranza dei libici. Nell’ultimo anno Haftar ha raccolto simpatie anche in zone governate dagli islamisti (inclusi alcuni quartieri di Tripoli) dove da anni le aziende turche ricostruiscono strutture e infrastrutture – rilevando talvolta anche vecchi cantieri italiani. A questi grossi interessi geopolitici, che comprendono anche il Mediterraneo, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, un po’ come con i curdi nel Nord della Siria, non intende rinunciare, quand’anche come si profila le Primavere arabe dovessero soccombere alle forze di restaurazione. Il memorandum di novembre tra la Turchia e la Libia sulla giurisdizione dei due Stati nelle acque mediterranee (allegato all’accordo di cooperazione militare) è un’entrata a gamba tesa di Erdogan anche nei dossier energetici.

Complice il vassallo al Serraj, Erdogan ha diviso arbitrariamente il Mediterraneo tra Turchia e Libia

A GAMBA TESA NEL DOSSIER ENERGETICO

Egitto, Grecia, Israele, per non parlare di Cipro in contenzioso storico con la Turchia, sono insorte alla demarcazione unilaterale dei confini marittimi di Erdogan e al Serraj. Un colpo di spugna che dà mano libera ad Ankara alle esplorazioni di gas e petrolio nel Mediterraneo, per le quali i turchi si erano fatti largo nel Mediterraneo orientale già nella scorsa estate, al solito senza chiedere il permesso alla Grecia e a Cipro, lambendo anche la zona economica esclusiva egiziana e i minando i progetti dei gasdotti dei tre Paesi con Israele. Complice il vassallo al Serraj, Erdogan ha diviso arbitrariamente il Mediterraneo per scongiurare  «l’emarginazione della Turchia» a terra. Anche gli accordi militari e di spartizione delle acque territoriali con la Libia furono ratificati a tambur battente dal parlamento di Ankara, in «aperta violazione del diritto di navigazione e dei diritti sovrani della Grecia e di altri Paesi», commentò il titolare della Farnesina Luigi Di Maio.

Libia Turchia missione Serraj
Il premier libico Fayez al Serraj riceve a Tripoli il ministro turco Mevlut Cavusoglu. GETTY.

IL VIA LIBERA ALLE TRUPPE DEL PARLAMENTO TURCO

I memorandum dell’autunno erano l’antipasto della mozione per l’invio di truppe turche a sostegno del governo di Tripoli, approvata il 2 gennaio dai deputati di Ankara (325 favorevoli, 184 contrari) in un parlamento riaperto eccezionalmente dopo Capodanno, in anticipo dalla ripresa dei lavori l’8 gennaio. Curiosamente Erdogan, corso in soccorso alla battaglia finale libica, fa leva sul pretesto della «minaccia alla stabilità anche della Turchia»: con la Libia senza un «governo legittimo» si favorirebbero «gruppi terroristici come l’Isis e al Qaeda», che proprio le violazioni all’embargo anche della Turchia hanno fatto proliferare per anni, in reazione ai regimi autoritari e per sottrarre loro territori con ogni mezzo e scontri anche cruenti. Sebbene l’invio di rinforzi navali, aerei e a terra non si preveda immediato, l’escalation turca favorirà gli scontri in Libia e le tensioni nel Mediterraneo. Mentre l’Italia, e con Roma buona parte dell’Ue, staranno a guardare.

LA SPARTIZIONE TRA ERDOGAN E PUTIN

Alla condanna degli accordi «illegittimi» tra la Turchia e la Libia non seguiranno fatti. I progetti di no fly zone ventilati in un’operazione di Francia, Germania e Italia sono irrealistici, considerati il disastro dell’intervento nel 2011 contro Gheddafi e le manovre francesi inconfessabili di oggi con Haftar. E poi per difendere i libici da chi? L’Ue riconosce il governo filoturco di al Serraj a Tripoli (l’Italia ha una missione di assistenza agli islamisti a Misurata) non quello del generale nell’Est, con il quale tuttavia tiene aperti canali. Gli alt a Erdogan non possono tradursi in azioni, pena l’appoggio degli europei a regimi autoritari quali l’Arabia Saudita e i suoi satelliti (Emirati ed Egitto) e alla Russia di Vladimir Putin. Dalla Conferenza di Berlino sulla Libia di metà gennaio (se si terrà) non si attendono risultati ed è probabile che, nell’impotenza europea, mostrando i muscoli come in Siria Erdogan si ritaglierà la sua fetta di Libia – e di Mediterraneo – in accordo con Putin.

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Perché l’uccisione di Soleimani è un boomerang per gli Usa

Il generale era l’architetto degli equilibri in Libano, Iraq e Siria. E aveva trattato più volte con gli americani. Senza di lui in Iran e nella regione avranno mano libera gli ultraconservatori. Un rischio enorme, anche per i contingenti occidentali. Intervista a Nicola Pedde.

Un colpo grosso per le Presidenziali Usa del 2020, ma ben presto un altro boomerang in Medio Oriente per gli americani. L’omicidio mirato del generale iraniano Qassem Soleimani in Iraq, da parte delle forze statunitensi che per decenni avevano negoziato (non solamente sull’Iraq) con lo stratega e comandante dei pasdaran, è per Donald Trump l’ultimo asso da calare nella campagna elettorale. «L’operazione può portare internamente dei vantaggi agli Stati Uniti, ma solo a breve termine e in particolar modo al presidente americano» spiega a Lettera43.it il direttore dell’Institute of global studies (Igs) Nicola Pedde, a lungo capo-analista della Difesa e tra i più profondi conoscitori dell’Iran

ASSIST AGLI ULTRACONSERVATORI

Per il resto la decapitazione dei vertici delle milizie sciite irachene, e prima di tutto l’uccisione della mente iraniana dietro le forze sciite sparse dal 1979 in Medio Oriente, crea – in un momento di grave vuoto politico a Baghdad – un vuoto organizzativo e militare «subito colmato da Teheran con un comandante più allineato con i vertici ultraconservatori dei pasdaran». A dispetto della retorica sull’ineffabile comandante che tutto o quasi poteva in Medio Oriente, «Soleimani era un pragmatico, non certo un radicale, abituato a trattare anche con gli Stati Uniti», precisa Pedde. Cade con lui un’architrave, a garanzia della «tenuta di Paesi chiave in Medio Oriente come l’Iraq e il Libano dove operano importanti contingenti italiani».

Iraq Iran morte Soleimani Usa Trump guerra
L’Iran sciita a lutto per la morte del generale Soleimani. GETTY.

DOMANDA. Soleimani, dal 1998 a capo delle forze all’estero al Quds dei Guardiani della rivoluzione (pasdaran) è stato ucciso dopo una lunga coabitazione tra americani e iraniani in Iraq, i governi sciiti di Baghdad erano appoggiati da entrambi. Un atto di guerra di Trump?
RISPOSTA. La conseguenza è quella. Anche se certo l’Iran non potrà vendicarsi con un’aggressione diretta. Bensì con una guerra asimmetrica con gli Stati Uniti e con i suoi alleati regionali, radicalizzando ancor di più la contrapposizione. Così monterà l’antiamericanismo nel modo più violento possibile, e salterà la tenuta del Medio Oriente.

L’Iraq ha un premier dimissionario per le proteste popolari, esplose anche contro il legame politico e militare soffocante con Teheran. Trump avrà forse cercato di approfittare del momento di debolezza dell’Iran, per spezzare il predominio sciita nell’era post-Saddam.
Ma otterrà l’esatto opposto. Soleimani aveva costruito degli equilibri regionali non solo combattendo, ma trattando più volte anche con gli americani. Non era un estremista e non la pensava sempre come gli altri vertici dei pasdaran. La sua morte dà un grande vantaggio agli ultra-conservatori iraniani: tra i Guardiani della rivoluzione si consoliderà la loro linea, annullando ogni possibilità di dialogo.

All’azzardo di Trump ha contribuito l’escalation dell’ambasciata americana in Iraq, di regia iraniana?
Il climax di questi giorni a Baghdad, nel crescendo di ostilità riaperte dalla Casa Bianca con l’Iran, ha favorito il raid contro Soleimani. Che, attenzione, serve anche come vittoria mediatica per l’imminente campagna presidenziale di Trump. Internamente, come in Iran, il colpo porta vantaggi a Trump in risposta anche all’impeachment. Ma solo a breve termine.

La radicalizzazione andrà di pari passo con l’antiamericanismo, non solo in Iraq

Come nel 2003 contro Saddam Hussein, gli Stati Uniti seminano instabilità. Tanto più in territori appena liberati dai terroristi islamici, con pericolosi vuoti di potere e popolazioni martoriate.
Senza Soleimani si apre un vaso di Pandora in tutto il Medio Oriente, con rischi enormi. Intanto in Iraq l’uccisione nel raid anche di Abu Mahdi al Muhandis, leader degli Hezbollah iracheni, fa saltare la convivenza tra i militari americani e le milizie filo-iraniane. Quest’evoluzione pericolosissima trasforma la sicurezza irachena e più in generale la politica irachena.

GLI ITALIANI IN LIBANO

I contingenti Usa sono ormai sotto attacco anche delle milizie sciite, parte integrante della Difesa irachena,  che avevano lottato con loro contro l’Isis. Aumenteranno? L’Iraq si incendierà?
La radicalizzazione andrà di pari passo con l’antiamericanismo, e non solo in Iraq. Le architetture del generale Soleimani, per esempio attraverso le milizie e il partito politico Hezbollah, erano erano diventate fondanti anche in Libano.

Dove si è aperta un’altra grave crisi politica, a ridosso di Israele e della Siria dove gli Hezbollah siriani e iracheni dell’Iran hanno riconquistato i territori dall’Isis…
Territori, dall’Iraq al Libano, dove anche l’Italia ha uomini sul terreno, con contingenti importanti. Per i quali, vista la situazione, sarebbe opportuno il governo si ponesse qualche domanda.

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Il 2019 attraverso gli avvenimenti nel mondo

L'effetto Greta sul dibattito climatico. L'ondata di proteste, dal Sudamerica a Hong Kong. Le elezioni europee e quelle britanniche. L'impeachment di Trump e la cattura di al Baghdadi. I 10 fatti dall'estero che hanno segnato quest'anno.

Greta Thunberg e la questione climatica. Le proteste a Hong Kong, in Medio Oriente e in Sudamerica. Ma anche l’impeachment di Donald Trump, le elezioni britanniche che blindano la Brexit, le elezioni nell’Ue e la frenata della Germania. I 10 fatti esteri cruciali del 2019.

1 – LA QUESTIONE CLIMATICA ESPLOSA CON GRETA

Sull’onda dei cambiamenti climatici è esploso il movimento globale di Greta Thunberg. Milioni di adolescenti hanno manifestato ai Fridays for future nelle metropoli del mondo, Roma e le altre capitali europee, a New York, New Delhi, Istanbul, per salvare il pianeta. Quest’estate in Groenlandia sono scorsi torrenti di acque sciolte dai ghiacci, all’Artide sono divampati incendi a catena, nel Mediterraneo si sono scatenate trombe d’aria mentre l’Europa continentale soffriva la siccità. Greta ha attraversato l’Atlantico in barca a vela, per parlare del riscaldamento globale all’Assemblea dell’Onu a New York evitando le emissioni Co2 degli aerei. E a dicembre l’attivista ha visitato i Fridays for future di Torino.

2 – IL FIUME UMANO DI HONG KONG IN MARCIA PER LA DEMOCRAZIA

Da marzo 2019 Hong Kong marcia per la democrazia. Le proteste nella regione amministrativa speciale della Cina sono rimontate per le modifiche tentate sull’isola alla legge sull’estradizione, che avrebbe permesso i trasferimenti di ricercati anche verso la Cina (al momento priva di accordo per l’estradizione). Una manovra, si è temuto, che avrebbe dato margine a Pechino di azione sui dissidenti rifugiati a Hong Kong. Milioni di cittadini dell’ex colonia britannica chiedono le dimissioni del governo filocinese, un’inchiesta sulle repressioni della polizia (due uccisi e più di 2600 feriti dalla primavera), il rilascio dei 4.500 arrestati, libertà di  manifestazione del pensiero e la difesa dell’autonomia.

3 – LA TEMPESTA DELL’IMPEACHMENT SULLE PRESIDENZIALI USA

A dicembre 2019 la Camera, a maggioranza democratica, del Congresso americano ha dato il via libera all’impeachment contro Donald Trump, per abuso di potere e di ostruzione all’Assemblea legislativa. A inizio 2020 partirà il processo davanti al Senato del terzo presidente della storia degli Usa incriminato per gravi reati contro la Costituzione. Trump conta di aggirare l’impeachment perché la maggioranza dei senatori sono repubblicani. Ma la procedura, aperta a settembre dalla presidente della Camera Nancy Pelosi dopo la notizia circostanziata di pressioni sull’Ucraina di Trump, per far indagare il candidato democratico Joe Biden,  è la tempesta perfetta sulle Presidenziali del 2020.

4 – LA CATTURA DI AL BAGHDADI GRAZIE AI CURDI ABBANDONATI

La notte del 27 ottobre 2019 il capo dell‘Isis Abu Bakr al Baghdadi si è fatto saltare in aria nell’assalto delle forze speciali americane al suo fortino nel Nord della Siria, a circa 5 chilometri dalla Turchia. I resti del sedicente califfo sono stati dispersi in mare; la  sua morte, a 48 anni, è stata confermata anche dall’Isis, che ha nominato successore Abu Ibrahim al Qurayshi e promesso attentati. L’operazione degli americani contro al Baghdadi è andata a segno soprattutto grazie alle informazioni passate loro dalle forze curdo-siriane (Ypg) che avevano combattuto e liberato i territori occupati dall’Isis. Clamorosamente abbandonate nel 2019 dai militari Usa che, su ordine di Trump, si sono ritirati dal Rojava presto invaso dalla Turchia.

5 – VON DER LEYEN E LE ALTRE ALLA GUIDA DELL’UE

Tra il 23 e il 29 maggio 2019 i cittadini dell‘Ue hanno eletto il nuovo parlamento di Strasburgo. L’accordo tra popolari (Ppe, 37 seggi), socialisti (Se, 32 seggi) e liberali (Alde, 37 seggi) è sfociato a luglio nell’elezione di Ursula von der Leyen, ex ministro tedesco della Difesa, alla presidenza della Commissione Ue. L’intesa tra forze ha compreso la nomina della francese Christine Lagarde, ex capo del Fondo monetario internazionale (Fmi), ai vertici della Banca centrale europea (Bce) al posto di Mario Draghi. Per la prima volta due donne siedono al comando dei principali organi decisionali europei – e l’economista bulgara Kristalina Georgieva, già commissario e vicepresidente della CommIssione Ue, del Fmi.

6 – LE SOCIETÀ MEDIORIENTALI CONTRO I CLAN POLITICI

Il 2019 è stato l’anno delle nuove proteste di massa nel Nord Africa e nel Medio Oriente. Dal 22 febbraio in Algeria un fiume umano di manifestanti pacifici si è riversato nelle strade, pretendendo una transizione democratica dopo aver bloccato la rielezione farsa dell’ex presidente Abdelaziz Bouteflika. Dall’autunno anche in Libano e in Iraq la popolazione è insorta contro i governi corrotti, per il ricambio della vecchia classe politica. Un’onda lunga, come per le Primavere arabe del 2011, che ha toccato anche il Kuwait, dove come in Libano l’esecutivo in carica si è dimesso per venire incontro alla volontà popolare. In Iraq, invece, si è sparato sulla folla: oltre 400 morti in due mesi, migliaia i feriti e gli arrestati tra i civili.

7 – L’IRAN SCATENATO DALLE SANZIONI MASSIME DI TRUMP

Ancor più cruenta è stata la repressione delle rivolte dilagate in Iran, a 10 anni dall’Onda verde del 2009, contro raddoppio del prezzo della benzina. Per Amnesty international «almeno 106 morti in 21 città» in tre giorni, sulla base di «filmati verificati e testimonianze sul terreno». Internet e le reti mobili sono state oscurate il secondo e il terzo giorno delle proteste  contro il regime: una crisi innescata dal grave avvitamento economico dell’Iran a causa delle massime sanzioni degli Usa, in vigore da aprile 2019. Proprio in quel mese si votava in Israele: un regalo inutile di Trump al premier Benjamin Netanyahu, costretto senza maggioranza a tornare alle urne a settembre e ancora a marzo 2020. Intanto l’Iran brucia.

8 – IL TRIONFO DI JOHNSON CHE SPINGE LONDRA FUORI DALL’UE

Il 2019 si chiude con la tormentata Brexit del Regno Unito. Il trionfo Oltremanica di Boris Johnson alle Legislative anticipate del 12 dicembre segna il divorzio dall’Ue, entro il 31 gennaio 2020. Con una maggioranza netta, decade l’ostruzionismo del parlamento verso il leader conservatore che preme l’acceleratore sul leave. Il nuovo accordo di Johnson con Bruxelles – dopo i flop della premier Theresa May e le sue dimissioni – prevede una transizione fino al 31 dicembre 2020, per un’uscita soft e guidata dai trattati europei e per la rinegoziazione dei rapporti economici e commerciali con l’Ue. Grandi interrogativi si aprono in compenso sul remain della Scozia e dell’Irlanda del Nord nel Regno Unito.

9 – IL SUDAMERICA SCOSSO DALLE DISEGUAGLIANZE

Anche diversi Stati sudamericani sono diventati turbolenti nel 2019, a causa dell’aumento delle diseguaglianze. Se in Venezuela era prevedibile l’auto-investitura a presidente, a gennaio, di un leader dell’opposizione come Juan Guaidó, molto meno lo erano le proteste violente del Cile (15 morti) contro i rincari, che a ottobre hanno riportato il coprifuoco a Santiago come ai tempi di Pinochet. Anche in Argentina si è manifestato contro i tagli alla spesa. In Brasile, contro l’ultradestra di Jair Bolsonaro. In Ecuador contro lo stop ai sussidi per il carburante. A novembre, altra sorpresa, sull’onda delle proteste contro la sua rielezione il presidente indigeno Evo Morales ha lasciato la Bolivia, governata ad interim dall’ultradestra.

10- LA FRENATA DELLA LOCOMOTIVA D’EUROPA

Nel 2019, last but not least, ha frenato la Germania, la locomotiva d’Europa. Per la guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina, i dazi di Trump imposti (sull’acciaio) e minacciati (sulle auto) all’Ue, non ultima l’incertezza sulla Brexit i tedeschi hanno rallentato l’export (-8% rispetto al 2018) e, di conseguenza la produzione industriale, soprattutto nella siderurgia e dell’automotive. Il rallentamento ha ricadute sui distretti industriali collegati, in primis gli italiani, e aggrava le crisi politiche: nel 2019 a Roma è caduto il governo gialloverde ma si è evitato di tornare al voto. Non ci è riuscita la Spagna che nel 2019 ha votato due volte e resta senza maggioranza, mentre in Germania vacilla di nuovo la Grande coalizione.

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I 10 luoghi più belli (e meno banali) per il Natale 2019

San Candido, nelle Dolomiti, per i romantici. In Norvegia con l'aurora boreale. Nella provincia di Rieti dove nacque il primo presepe. E poi Sutri, Bruges, Mar Baltico: idee alternative su dove trascorrere le festività.

1. MATERA: NATALE DI SASSI E CULTURA

Matera è città europea della Cultura del 2019 e un presepe naturale vivente. Anche questo Natale è la scenografia di una grande rievocazione, nelle date del 7-8 dicembre, del 14-15 dicembre, 21-22 dicembre e del 27-28-29 dicembre. Un itinerario tra figuranti e case di sassi del presepe di circa un’ora e mezzo dal centro storico al rione Sasso Barisano. Immancabile una visita per le festività nella provincia lucana, anche per vivere gli ultimi eventi di arte e cultura delle celebrazioni del 2019.

2. BETLEMME, LA CITTÀ DEL NATALE

Betlemme, in Palestina, è la città del Natale più lungo al mondo. Le festività cristiane nei luoghi di Gesù iniziano ogni anno con l’Avvento (il primo dicembre) e si chiudono il 19 gennaio con il Natale armeno (dopo Natale dei cattolici e protestanti il 25 dicembre il Natale degli ortodossi il 6 e 7 gennaio). Liturgie, sfilate e feste di piazza, visite alle falegnamerie e ai luoghi sacri come la Basilica della Natività restaurata dagli italiani che contiene la cripta della grotta: un clima unico, da vivere a fine anno. Si raggiunge con voli low-cost per Tel Aviv.

3. SAN CANDIDO PER I PIÙ ROMANTICI

San Candido, nelle Dolomiti, è molto più che una meta per mercatini natalizi: è la porta per il Parco naturale delle Tre cime di Lavaredo e tra i luoghi più incantevoli delle Alpi. L’atmosfera è fiabesca sin dalle settimane dell’Avvento: una settimana bianca per Natale nel borgo tirolese dell’Alta Val Pusteria è immancabile per le coppie romantiche. E per chiunque voglia sciare tra i panorami delle montagne più suggestive d’Europa.

4. A TROMSO VIGILIA CON L’AURORA BOREALE

Una meta alternativa alla casa finlandese di Babbo Natale, in Lapponia, è Tromsø, in Norvegia, il centro culturale del Circolo polare artico dalle luminose estati e dai Natali avvolti nell’oscurità. All’apparenza: la città del Sole a mezzanotte, casa di ispirati scrittori e musicisti, d’inverno è la terra dei bagliori delle aurore boreali, di lunghe traversate in slitte, interminabili nevicate e nottate di storie di troll ed elfi. Un luogo remoto, ma accessibile: dall’Italia si raggiunge in aereo con uno scalo.

5. GRECCIO, DOVE NACQUE IL PRIMO PRESEPE

Alzi la mano chi sa che il primo presepe al mondo fu opera di san Francesco, nell’Alto Lazio. Nel 1123 il santo dei poveri era appena rientrato dalla Palestina. Visitando Greccio (dal 2016 tra i borghi più belli d’Italia) ritrovò l’atmosfera della città della Natività e ordinò al cappellano di scegliere una grotta e di costruirvi dentro una mangiatoia. Da allora il borgo medievale della provincia di Rieti (gemellato con Betlemme) è famoso per la rievocazione del presepe nei luoghi originari e con i dialoghi del santo.

6. BRUGES: UN NATALE DI LUCI E PRALINE

Una meta europea più classica, ma di nicchia, per vivere l’atmosfera intima delle festività è la città fiamminga di Bruges, in Belgio. Meno assaltato per i mercatini delle città tedesche e austriache, il capoluogo delle Fiandre conta anche 55 cioccolaterie. Un Natale tra le praline, oltre che tra i presepi e gli eleganti addobbi tra le strade e i canali medievali. Volendo, per i cultori a Bruges c’è anche il museo del cioccolato Choco Story.

Natale 2019 10 luoghi Amalfi
La Calata della stella cometa, Amalfi.

7. AD AMALFI DOVE SCENDE LA COMETA

D’inverno la Costiera amalfitana regala il Natale più mediterraneo e coreografico. La vigilia del 24 dicembre tra Atrani, il borgo più piccolo d’Italia, e Amalfi, nel litorale patrimonio dell’Unesco va in scena la spettacolare Calata della stella cometa: da più di 140 anni una palla infuocata con centinaia di fiaccole viene fatta scivolare dai monti per 300 metri su un cavo d’acciaio fino alle terrazze panoramiche. Un clima magico tra le luminarie di borghi incastonati come gioielli e fuochi d’artificio.

Natale 2019 10 luoghi Dubai
Natale a Dubai. GETTY.

8. AL CALDO A DUBAI O SUL MAR ROSSO

Per staccare dalla tradizione, le ferie natalizie sono un periodo ottimo anche per svernare una settimana al caldo, tra il Mar Rosso e Dubai. Con pacchetti low cost si può volare in un resort di Sharm el Sheik, da Natale fino a Capodanno: le prenotazioni dall’Italia per l’Egitto di queste festività sono in aumento del 39% rispetto al 2018. Un altro Natale esotico sempre più gettonato è a Dubai, negli Emirati: più costoso, ma con delle offerte. E un fine 2019 col botto.

9. SUTRI, IL VILLAGGIO ETRUSCO DI BABBO NATALE

La casa italiana di Babbo Natale è a Sutri, nel cuore della Tuscia. Tra le mura etrusche e medievali in tufo, per le festività della fine dell’anno viene creato un villaggio di Natale tra i più caratteristi d’Italia, a una trentina di chilometri da Roma. Il borgo del Viterbese, nel club dei borghi più belli della penisola, è assaltato da famiglie con bambini, impazienti di entrare nelle stanze dei balocchi Santa Claus e della Befana. Tra i luoghi che furono celebrati anche dal Petrarca.

10. SUL BALTICO DOVE NACQUE L’ALBERO DI NATALE

Più incerto è il primato sulla tradizione dell’albero di Natale. Le tre capitali baltiche si litigano la palma di città del primo albete addobbato, e tengono molto al clima natalizio. Queste festività sono in ogni caso il periodo più caratteristico per visitare Tallin (Estonia), Vilnius (Lituania) e Riga (Lettonia), dove una targa in otto lingue ricorda il “primo albero di Capodanno” del 1510. Spostarsi tra le tre Repubbliche baltiche è facile anche in autobus, dopo un volo low cost dall’Italia.

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Come l’impeachment mette il turbo alla campagna elettorale di Trump

O con lui o contro di lui: la contrapposizione aiuta i repubblicani nella corsa alle Presidenziali 2020. The Donald pronto alla grande battaglia mediatica. Mentre i dem restano senza leader carismatici. E quattro di loro si sfilano dall'incriminazione.

«L’assalto all’America». «Una vergogna e una disgrazia per il Paese». Anzi di più, un «colpo di Stato» della «sinistra radicale dei democratici nullafacenti». Nei 45 tweet scaricati a caratteri cubitali sul web al via libera all’impeachment della Camera, a Donald Trump è bastato scrivere «pregate per me» perché il repubblicano Barry Loudermilk, deputato per lo Stato della Georgia, lo paragonasse a Gesù: «Nel processo farsa di Ponzio Pilato gli furono concessi più diritti di quanti i democratici non ne abbiano lasciati al presidente americano», ha commentato. La potenza di fuoco del tycoon contro la «messinscena» e la «follia politica assoluta» contro di lui – terzo presidente degli Stati Uniti con l’onta del processo al Senato – è l’arma migliore dei repubblicani per le Presidenziali del 2020.

THE DONALD FISSO AL CENTRO DELL’ATTENZIONE

Si può dire che la corsa di Trump al secondo mandato sia scattata con i 230 sì dei deputati democratici «consumati dall’odio» all’incriminazione per abuso di potere del presidente della (197 i no). Dal 19 dicembre tutta la campagna elettorale del 2020 per la Casa Bianca sarà incentrata sulla «minaccia costante per la sicurezza nazionale», come ha definito Trump la presidente della Camera Nancy Pelosi. Per la controparte, il presidente è il più perseguitato dai nemici democratici. L’inquilino della Casa Bianca più eccentrico della storia degli Usa sarà in ogni caso al centro dell’attenzione, e tutto il resto in secondo piano. Anche come presidente, dal 2017 Trump ha brillato solo per pressapochismo e megalomania: se c’è una cosa che sa far bene, l’unica, è insomma mettersi in mostra.

FARLO MARTIRE È STATO UN REGALO

Anche nella campagna del 2016 il tycoon dell’Apprentice vinse grazie alla spregiudicatezza nella comunicazione: la competizione è il suo ambiente ideale. Farlo martire dell’impeachment è, anche per alcuni democratici, il regalo più grande che gli si potesse fare. Non a caso i repubblicani puntano ad aprire e chiudere il processo al Senato (a maggioranza repubblicana) prima possibile, tra gennaio e febbraio 2020, in modo da procedere come vincitori nella corsa contro il «partito dell’odio». Mentre Trump, che quando ne vale la pena rilancia sempre la posta, vorrebbe trascinare l’impeachment di alcuni mesi, citando in Senato come testimoni proprio Hunter Biden e il padre Joe. Cioè lo sfidante dem alle Presidenziali e la famiglia cuore delle accuse dell’impeachment

Alla Camera i dem si sono dimostrati compatti in larghissima maggioranza, ma non granitici. Al contrario dei repubblicani

LO SCONTRO AIUTA I REPUBBLICANI

Imbastire una campagna mediatica e svergognare i democratici è il programma elettorale di Trump. Un terreno molto scivoloso per i democratici: la stessa ex first lady di Barack Obama, Michelle, è parecchio scettica sulla scelta di Pelosi – pressata dalla maggioranza dei democratici alla Camera – di avviare l’impeachment. Alla votazione, i deputati dem si sono dimostrati compatti in larghissima maggioranza, ma non granitici. Al contrario dei repubblicani che, seppur da sempre in diversi perplessi verso il loro ultimo presidente, hanno fatto tutti quadrato su Trump: un altro vantaggio del clima di contrapposizione creato. Tre deputati democratici si sono invece sfilati dal sì alla prima accusa di abuso di potere, due di loro anche dalla seconda per ostruzionismo al Congresso; un terzo dem dalla seconda accusa.

PER QUALCHE DEM È UN’ESAGERAZIONE

I dissidenti si contano sulle dita: non abbastanza per intaccare la maggioranza semplice che bastava per l’impeachment, ma niente affatto edificanti. Jeff Van Drew, dem per il New Jersey, è stato molto franco: «Così le chance di Trump alle Presidenziali del 2020 si alzano ancora». E dirlo da democratico proprio non aiuta. Un altro campanello d’allarme è il no di Collin Peterson, moderato, rappresentante del Minnesota nel 2016 andato a Trump, sconfitto in passato dai repubblicani: ebbene per Peterson «Trump non ha commesso alcun crimine». Quanti la pensano come lui nel Minnesota, e prima del voto il 3 novembre 2020 oscilleranno tra democratici e repubblicani? L’ex soldato d’élite Jared Golden, deputato per il Maine, ritiene per esempio esagerata l’accusa di ostruzionismo, e non quella di abuso di potere.

Impeachment Trump Usa Presidenziali 2020
Tulsi Gabbard, democratica filorussa, con Bernie Sanders alla campagna presidenziale del 2016. (Getty).

GABBARD, LA DEMOCRATICA PIÙ AMATA DAL CREMLINO

Un’astensione molto imbarazzante, per i democratici privi di un leader carismatico, è arrivata (su entrambi e capi di accusa) dalla giovane deputata e militare Tulsi Gabbard, eletta alle Hawaii. Figlia di un repubblicano, ex soldatessa in Iraq, per welfare e istruzione universali, prima super delegata donna a sostenere Bernie Sanders nel 2016, Gabbard è considerata una stalinista tra i dem: pro Bashar al Assad in Siria, filorussa in politica estera, ora isolata anche nella sinistra radicale per l’impeachment, il soldato Gabbard corre da solo. Ma soprattutto, come ha annunciato, correrà per una nomination alle Presidenziali del 2020. Di lei Hillary Clinton aveva detto che la Russia sta facendo tra i dem quello che fece con Trump tra i repubblicani, aprendo una lite prima con l’interessata poi con Sanders.

PELOSI LEADER SOLO PERCHÉ È L’ANTI-TRUMP

Tutte queste divisioni indeboliscono i democratici. Mentre il Gran old party (Gop) si stringe attorno al corpo estraneo di Trump. È significativo che tra i dem emerga come leader solo la 79enne speaker della Camera: non perché prima donna e prima italo-americana a presiedere l’assemblea legislativa degli Usa, non perché deputata democratica di più alto grado mai ammessa nei Comitati di intelligence, non perché tra le donne dem – insieme a Clinton e Michelle Obama – con più accesso alle informazioni sulla Difesa e sulla Sicurezza nazionale – e tanto meno perché sfidante alle Presidenziali. Pelosi non è candidata alla Casa Bianca né lo è mai stata, è leader perché ha mosso l’impeachment a Trump. Una retorica che, finora, negli States non ha spostato consensi dai repubblicani ai democratici.

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Gli Usa e la guerra del gas a Russia e Germania

Pronta a inizio 2020, la pipeline del Baltico russo-tedesca è stata colpita dalle sanzioni americane. Democratici compatti con Trump in difesa della Nato. E dell’Ucraina. Il risiko per Berlino e l’Ue.

Per la Germania di peggiore dei dazi sull’import di auto, minacciati da Donald Trump, c’erano solo le sanzioni Usa sul gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2, e sono arrivate. Un affronto per il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, socialdemocratico (Spd), atlantista, più critico di molti altri ministri e politici europei su Vladimir Putin. Questo Natale anche in crisi con Mosca per l’espulsione reciproca di diplomatici russi e tedeschi, a causa dell’omicidio di un ceceno a Berlino, che si sospetta mirato e sul quale dal Cremlino non collaborano. Ma sulle politiche energetiche non si scherza: «Quelle europee si decidono nell’Ue, non negli Stati Uniti» ha twittato Maas all’approvazione della Camera americana di misure «inaccettabili» contro il Nord Stream 2. Licenziate definitivamente il 17 dicembre al secondo passaggio al Senato, con 86 sì e appena 8 no.

I DEMOCRATICI CON TRUMP

Appena insediato alla Casa Bianca, Trump aveva parlato chiaro con la cancelliera Angela Merkel: «Avrete del fantastico gas americano al posto di quello russo». Ma stavolta non si tratta solo del presidente: le sanzioni contro Russia e Germania – e contro tutte le aziende impegnate nel grande appalto – sono passate senza battute di ciglio alla Camera a maggioranza democratica come al Senato a maggioranza repubblicana. Nei giorni dell’impeachment, tutto il Congresso di Washington si è schierato compatto con Trump. Contro un progetto strategico che gli Usa ritengono un’invasione di campo inaccettabile dei russi nel territorio della Nato. Il guaio è che la Germania ha voluto, cercato e realizzato per anni la partnership energetica sul Nord Stream 2. Pronto nel 2020 per far arrivare il gas all’Europa continentale attraverso il mar Baltico.

L’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder nel board di Gazprom per il Nord Stream 2. GETTY.

COMPLETATO PER L’80%

L’80% del Nord Stream 2 è stato completato. A novembre anche la Danimarca ha approvato il passaggio del gasdotto, raddoppio della già contestata creatura di Gerhard Schröder: il Nord Stream che dal 2011 pompa fino a 55 miliardi di metri cubi di gas l’anno dalla Russia distribuendolo in Europa, erodendo i business delle altre pipeline che corrono attraverso i Paesi dell’Est (Polonia, Slovacchia, Bielorussia e Ucraina). Agli Stati Uniti i piani energetici della Germania non sono mai andati giù: le condutture del gas sono geopolitica, tanto più quando di mezzo c’è un partner come la Russia. Ma per i tedeschi è imprescindibile realizzare la rete del Nord Stream: un raddoppio costato quasi 10 miliardi di euro, il Nord Stream 15 miliardi. Tutti i ministri tedeschi che hanno dovuto affrontare la questione, Sigmar Gabriel prima di Maas, si sono scontrati con gli Usa «sull’interesse nazionale».

Per completare il Nord Stream 2 restano 2 mila chilometri di pipeline offshore, circa 2 mesi di lavori

LE COMPAGNIE EUROPEE A RISCHIO

I 55 miliardi di metri cubi di gas l’anno di forniture da aggiungere o da spostare con il Nord Stream 2 sono un affare per diverse compagnie energetiche europee che partecipano al progetto della sussidiaria del colosso russo Gazprom, Nord Stream 2: per il 50% finanziato da Gazprom, e per il 10% ciascuna dall’anglo-olandese Royal Dutch Shell, dalle tedesche E.On e Basf/Wintershall, dall’austriaca Omv e dalla francese Engie (ex Gdf Suez). Non solo: anche gli svizzeri di Allseas, aggiudicatari dell’appalto da Mosca per la parte offshore, saranno colpiti dalle sanzioni americane (revoca del visto e blocco delle proprietà per gli individui, multe per le aziende) se entro 30 giorni non cesseranno le loro operazioni. Alla loro nave restano da completare più di 2 mila chilometri (circa 2 mesi di lavoro) di tubature nel Baltico. Ma anche il sistema bancario tedesco, da Deutsche Bank a Commerzbank, avrebbe ricadute per le sanzioni.

«UN ATTACCO ALLA SOVRANITÀ NAZIONALE»

È questione di giorni: ci si attende il via libera di Trump alle sanzioni entro Natale, al più tardi la fine dell’anno. Poi l’Amministrazione Usa avrà 60 giorni di tempo per la lista delle compagnie e le persone fisiche coinvolte nella costruzione del Nord Stream 2. La cancelliera Merkel (Cdu-Csu) non ha ancora proferito parola, ma ha sempre difeso il pilastro delle politiche energetiche nazionali, pur senza fare sconti al Cremlino sull’Ucraina e su altri dossier. Per i conservatori ha parlato il referente della Cdu all’Onu, e deputato, Andreas Nick, preoccupato del caso di «sovranità nazionale». Rapporti commerciali ed energetici sacri, con la Russia, anche per i socialdemocratici: l’ex cancelliere Schröder, d’altronde, fu l’anima del consorzio Nord Stream; è in ottimi rapporti con Putin perciò fonte di imbarazzo per la stessa Spd, presiede il board del Nord Stream e accelera sul decollo del raddoppio.

La guerra degli Usa al Nord Stream 2 Germania Russia
Il presidente russo Vladimir Putin durante la costruzione del Nord Stream nel Mar Baltico. GETTY.

I RUSSI PER LE CONTROSANZIONI

La Camera di commercio russo-tedesca ha dichiarato «essenziale» per la sicurezza energetica dell’Europa la nuova conduttura nel mar Baltico e chiede in rappresaglia controsanzioni per gli Stati Uniti, per il Cremlino, una «concorrenza sleale che viola del diritto internazionale». In effetti, come ha fatto presente la rete di industrie tedesche che opera nell’Est, l’Ue ha concesso tutte le autorizzazioni richieste per raddoppiare il Nord Stream, che dal Mar Baltico in Germania si allaccia alla rete di distribuzione europea. La Russia avrebbe da perdere più di tutti dallo stop: con un Nord Stream 2 a regime aumenterebbe le forniture di gas al Nord Europa, il flusso di metano via mare di 110 miliardi di metri cubi all’anno superebbe i 75 miliardi trasportati attraverso l’Ucraina e la Slovacchia, la pipeline finora con la capacità maggiore.

Tutte le rotte del gas attraverso l’Europa dell’Est perderebbero forza e gli ex satelliti dell’Urss sarebbero più esposti alle pressioni russe

L’UCRAINA PUÒ RIESPLODERE

L’Ucraina più di tutti perderebbe almeno 2 miliardi di euro l’anno dalla Russia di diritti di transito. Il rinnovo dei contratti sul gas con l’Ucraina è una delle parti più spinose degli accordi che hanno tamponato precariamente la crisi russo-ucraina del 2014. Il fronte di guerra tra Mosca e Kiev potrebbe riaprirsi, e ancora una volta la Germania si troverebbe in prima linea nei negoziati, più che mai con forti interessi in gioco. Ma in generale tutte le rotte del gas attraverso l’Europa dell’Est perderebbero forza e gli ex satelliti dell’Urss sarebbero più esposti alle pressioni russe. Non caso la Polonia è tra i bastioni del no al Nord Stream 2, appoggiata a spada tratta dagli Stati Uniti che a sorpresa hanno inserito le misure sul gasdotto nel National defense authorization act per l’anno fiscale del 2020. Putin sperava anche di aggirare, con i nuovi contratti, le sanzioni per l’annessione della Crimea, ma non ci riuscirà

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L’impeachment contro Trump può essere un boomerang sui dem

La Camera presieduta da Pelosi e a maggioranza di sinistra va al voto sulla messa in stato d'accusa al presidente. Ma a gennaio tocca al Senato controllato dai repubblicani. E verso le elezioni 2020 l'asinello risulterebbe un partito battuto e indaffarato a distruggere invano l'avversario.

Dal voto alla Camera del 18 dicembre, Donald Trump sarà il terzo presidente degli Stati Uniti a finire sotto impeachment, l’incriminazione del Congresso con l’accusa di aver gravemente violato la Costituzione.

DUE PRECEDENTI PRIMA DI LUI

Il primo fu, nel 1868, il presidente Andrew Johnson, democratico e massone, quello dell’acquisto dell’Alaska dalla Russia, assolto per il voto di un repubblicano che tradì la linea del partito. Il secondo fu, nel 1998, Bill Clinton, anche lui assolto pochi mesi dopo. L’impeachment sul Watergate a Richard Nixon invece non fu mai votato: Nixon si dimise prima della sua messa in stato di accusa della Camera.

REPUBBICANI PRONTI A COMPATTARSI

I numeri del Senato, dove si svolge il processo finale degli impeachment approvati dalla Camera, sono favorevoli anche a Trump. Per rimuoverlo  servono due terzi dei voti (maggioranza qualificata) tra i 100 senatori: 53 sono repubblicani e il loro leader Mitch McConnell richiama alla compattezza, in «totale coordinamento con la Casa Bianca».

PRESSING DELLA SINISTRA SU PELOSI

Tra i democratici al contrario non tutti erano per aprire la procedura, né ancora si sono convinti. Il pressing per l’impeachment alla Camera, dove i dem sono la maggioranza (233 seggi contro 197 repubblicani) dalle elezioni di Midterm del 2018, è durato mesi sulla presidente, democratica, Nancy Pelosi. Soprattutto da parte dell’ala radicale dello squad, la squadra delle agguerrite neo-deputate cresciute nelle comunità musulmane e latine e poi alla scuola politica di Bernie Sanders, aggredite a più riprese da Trump con invettive razziste e denigranti.

Trump impeachment Usa Presidenziali 2020
La speaker della Camera americana, Nancy Pelosi, avvia la procedura di impeachment contro Donald Trump. (Getty).

WARREN SI È NETTAMENTE SCHIERATA

Alla fine anche la candidata alle Presidenziali del 2020 più quotata (e in ascesa) della sinistra dei dem, Elizabeth Warren, si è schierata per la messa in stato di accusa del presidente per il cosiddetto Kievgate. La soffiata arrivata da più gole profonde dell’intelligence sulle pressioni di Trump all’Ucraina per far indagare l’avversario dem alle Presidenziali ed ex vicepresidente Joe Biden sui business del figlio nel Paese.

A SETTEMBRE ATTIVATE COMMISSIONI E PROCEDURE

Alla Camera montava la difesa di Biden e il rigetto per Trump. Agli oltre 170 deputati dem già in pressing per l’impeachment fallito sul Russiagate (l’inchiesta giudiziaria sul sospetto di manipolazione delle Presidenziali del 2016 da parte di Mosca, attraverso Trump assolto per mancanza di prove) si sono aggiunti i sì di Warren e altri. E Pelosi, tra i più cauti sulla procedura, alla fine di settembre ha dovuto rompere gli indugi sul passo «ormai inevitabile», attivando le Commissioni e le procedure per la votazione.

I DUE WHISTLEBLOWER AL CENTRO DEL CASO

D’altronde proprio al Congresso era stata recapitata la denuncia scritta del primo whistleblower del 25 settembre 2019. Un secondo segnalatore si è fatto avanti il 5 ottobre rivelando una telefonata di Trump del 25 luglio 2019 al presidente ucraino Volodymyr Zelensky (ammessa anche dall’Amministrazione Usa) per far indagare Biden padre e figlio. Dopo aver fatto bloccare, in quelle settimane, gli aiuti militari all’Ucraina già approvati dal Congresso.

Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le elezioni 2020


Nancy Pelosi, presidente della Camera

PER I DEM PROVE SCHIACCIANTI

La dinamica è stata confermata dall’inviato diplomatico statunitense in Ucraina William Taylor Jr, da funzionari del Pentagono e della Casa Bianca e da svariati testimoni. «Prove schiaccianti e incontestabili, non ci hanno lasciato altra scelta», secondo il presidente della Commissione d’intelligence alla Camera Adam Schiff, democratico. Alla fine di ottobre la Camera di Washington ha licenziato le prassi da seguire per le udienze sull’impeachment, compatta negli schieramenti (232 sì e 196 no).

LE ACCUSE: ABUSO DI POTERE E OSTRUZIONE AL CONGRESSO

Il 13 dicembre la Commissione giustizia ha formalizzato le accuse di abuso di potere e ostruzione al Congresso. La linea di Schiff è che Trump abbia «cercato aiuto dall’Ucraina per i suoi interessi personali. Per essere rieletto e non per il bene degli Usa». Pelosi ha scandito: «Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le prossime elezioni».

OPINIONE PUBBLICA SPACCATA

Il via a procedere, per i democratici, si impone dai fatti chiari e inequivocabili ricostruiti. Non è affatto solido però il consenso per l’impeachment nell’opinione pubblica che Trump conta
di trascinare dalla sua parte, da vittima del «partito dell’odio» e  di «un’assoluta follia politica!», come ha rilanciato su Twitter. Da un sondaggio del 10 dicembre della Quinnipiac university ci sono in effetti margini di manovra: il 51% tra gli elettori interpellati pensa che il tycoon non debba essere incriminato e rimosso dalla Casa Bianca, al contrario del 45%.

METÀ ELETTORATO RITIENE LA VICENDA ECCESSIVA

Altre rilevazioni, come quella diffusa da Fox News a metà dicembre, sono più negative, con circa il 50% favorevole all’impeachment: sempre una buona metà dell’elettorato ritiene tuttavia la procedura eccessiva. Nello specifico, nell’indagine della Quinnipiac university il 99% degli elettori di Trump è contrario alla messa in stato di accusa, mentre solo l’81% di chi vota dem la appoggia.

Il presidente Trump.

PER MICHELLE OBAMA SAREBBE UN AUTOGOL

Un pezzo da novanta come l’ex first lady Michelle Obama resta scettica sul «surreale» impeachment: «Non credo che la gente sappia cosa farne», ha dichiarato da avvocato ancor prima che da democratica, sperando che «si torni indietro». Se il Senato, già a febbraio, dovesse rigettare l’accusa della Camera (come avvenne con Clinton) il boomerang è dietro l’angolo: alle Primarie che contano del super martedì del 3 marzo (California, Texas, Massachusetts e Michigan), i dem apparirebbero come un partito indaffarato solo a tentare di distruggere – invano – l’avversario.

CAMPAGNA ELETTORALE CHE SI SPOSTEREBBE DA ALTRI TEMI

Tutta la campagna del 2020 si concentrerebbe sull’impeachment piuttosto che, per esempio, sulle leggi sul welfare e per i diritti civili passate alla Camera dal 2018 nonostante Trump. Non per niente i repubblicani premono per aprire il processo al Senato già il 6 gennaio, e chiuderlo poi rapidamente senza chiamare testimoni. Per assurdo Trump rema contro puntando all’impeachment show.

TESTIMONI DA METTERE ALLA BERLINA

Prima Trump ha invitato i testimoni di punta convocati dai dem alla Camera a non comparire (l’ex advisor alla Sicurezza John Bolton e il capo di Gabinetto della Casa Bianca Mick Mulvaney hanno disertato). E sempre il presidente degli Usa e il braccio destro nelle operazioni in Ucraina, l’avvocato Rudolph Giuliani, premono per chiamare come testimoni al Senato Joe Biden e il figlio Hunter. Metterli alla berlina ribalterebbe i giochi.

UNA FRONDA NELL’ELEFANTINO NON C’È

McConnell ha decretato le accuse «terribilmente deboli», il processo al Senato sarà presieduto dal giudice capo della Corte Suprema John Glover Roberts Jr, repubblicano. La destra punta a scardinare l’equazione – immediata ma non dimostrabile – tra lo stop agli armamenti a Kiev e la telefonata anti-Biden: infatti non ci sono stati gli estremi per inserire l’accusa di «corruzione» nel testo di impeachment. Portare una fronda di senatori repubblicani contro Trump, come speravano i dem, sarà più scivoloso che convincere l’elettorato.

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L’impeachment contro Trump può essere un boomerang sui dem

La Camera presieduta da Pelosi e a maggioranza di sinistra va al voto sulla messa in stato d'accusa al presidente. Ma a gennaio tocca al Senato controllato dai repubblicani. E verso le elezioni 2020 l'asinello risulterebbe un partito battuto e indaffarato a distruggere invano l'avversario.

Dal voto alla Camera del 18 dicembre, Donald Trump sarà il terzo presidente degli Stati Uniti a finire sotto impeachment, l’incriminazione del Congresso con l’accusa di aver gravemente violato la Costituzione.

DUE PRECEDENTI PRIMA DI LUI

Il primo fu, nel 1868, il presidente Andrew Johnson, democratico e massone, quello dell’acquisto dell’Alaska dalla Russia, assolto per il voto di un repubblicano che tradì la linea del partito. Il secondo fu, nel 1998, Bill Clinton, anche lui assolto pochi mesi dopo. L’impeachment sul Watergate a Richard Nixon invece non fu mai votato: Nixon si dimise prima della sua messa in stato di accusa della Camera.

REPUBBICANI PRONTI A COMPATTARSI

I numeri del Senato, dove si svolge il processo finale degli impeachment approvati dalla Camera, sono favorevoli anche a Trump. Per rimuoverlo  servono due terzi dei voti (maggioranza qualificata) tra i 100 senatori: 53 sono repubblicani e il loro leader Mitch McConnell richiama alla compattezza, in «totale coordinamento con la Casa Bianca».

PRESSING DELLA SINISTRA SU PELOSI

Tra i democratici al contrario non tutti erano per aprire la procedura, né ancora si sono convinti. Il pressing per l’impeachment alla Camera, dove i dem sono la maggioranza (233 seggi contro 197 repubblicani) dalle elezioni di Midterm del 2018, è durato mesi sulla presidente, democratica, Nancy Pelosi. Soprattutto da parte dell’ala radicale dello squad, la squadra delle agguerrite neo-deputate cresciute nelle comunità musulmane e latine e poi alla scuola politica di Bernie Sanders, aggredite a più riprese da Trump con invettive razziste e denigranti.

Trump impeachment Usa Presidenziali 2020
La speaker della Camera americana, Nancy Pelosi, avvia la procedura di impeachment contro Donald Trump. (Getty).

WARREN SI È NETTAMENTE SCHIERATA

Alla fine anche la candidata alle Presidenziali del 2020 più quotata (e in ascesa) della sinistra dei dem, Elizabeth Warren, si è schierata per la messa in stato di accusa del presidente per il cosiddetto Kievgate. La soffiata arrivata da più gole profonde dell’intelligence sulle pressioni di Trump all’Ucraina per far indagare l’avversario dem alle Presidenziali ed ex vicepresidente Joe Biden sui business del figlio nel Paese.

A SETTEMBRE ATTIVATE COMMISSIONI E PROCEDURE

Alla Camera montava la difesa di Biden e il rigetto per Trump. Agli oltre 170 deputati dem già in pressing per l’impeachment fallito sul Russiagate (l’inchiesta giudiziaria sul sospetto di manipolazione delle Presidenziali del 2016 da parte di Mosca, attraverso Trump assolto per mancanza di prove) si sono aggiunti i sì di Warren e altri. E Pelosi, tra i più cauti sulla procedura, alla fine di settembre ha dovuto rompere gli indugi sul passo «ormai inevitabile», attivando le Commissioni e le procedure per la votazione.

I DUE WHISTLEBLOWER AL CENTRO DEL CASO

D’altronde proprio al Congresso era stata recapitata la denuncia scritta del primo whistleblower del 25 settembre 2019. Un secondo segnalatore si è fatto avanti il 5 ottobre rivelando una telefonata di Trump del 25 luglio 2019 al presidente ucraino Volodymyr Zelensky (ammessa anche dall’Amministrazione Usa) per far indagare Biden padre e figlio. Dopo aver fatto bloccare, in quelle settimane, gli aiuti militari all’Ucraina già approvati dal Congresso.

Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le elezioni 2020


Nancy Pelosi, presidente della Camera

PER I DEM PROVE SCHIACCIANTI

La dinamica è stata confermata dall’inviato diplomatico statunitense in Ucraina William Taylor Jr, da funzionari del Pentagono e della Casa Bianca e da svariati testimoni. «Prove schiaccianti e incontestabili, non ci hanno lasciato altra scelta», secondo il presidente della Commissione d’intelligence alla Camera Adam Schiff, democratico. Alla fine di ottobre la Camera di Washington ha licenziato le prassi da seguire per le udienze sull’impeachment, compatta negli schieramenti (232 sì e 196 no).

LE ACCUSE: ABUSO DI POTERE E OSTRUZIONE AL CONGRESSO

Il 13 dicembre la Commissione giustizia ha formalizzato le accuse di abuso di potere e ostruzione al Congresso. La linea di Schiff è che Trump abbia «cercato aiuto dall’Ucraina per i suoi interessi personali. Per essere rieletto e non per il bene degli Usa». Pelosi ha scandito: «Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le prossime elezioni».

OPINIONE PUBBLICA SPACCATA

Il via a procedere, per i democratici, si impone dai fatti chiari e inequivocabili ricostruiti. Non è affatto solido però il consenso per l’impeachment nell’opinione pubblica che Trump conta
di trascinare dalla sua parte, da vittima del «partito dell’odio» e  di «un’assoluta follia politica!», come ha rilanciato su Twitter. Da un sondaggio del 10 dicembre della Quinnipiac university ci sono in effetti margini di manovra: il 51% tra gli elettori interpellati pensa che il tycoon non debba essere incriminato e rimosso dalla Casa Bianca, al contrario del 45%.

METÀ ELETTORATO RITIENE LA VICENDA ECCESSIVA

Altre rilevazioni, come quella diffusa da Fox News a metà dicembre, sono più negative, con circa il 50% favorevole all’impeachment: sempre una buona metà dell’elettorato ritiene tuttavia la procedura eccessiva. Nello specifico, nell’indagine della Quinnipiac university il 99% degli elettori di Trump è contrario alla messa in stato di accusa, mentre solo l’81% di chi vota dem la appoggia.

Il presidente Trump.

PER MICHELLE OBAMA SAREBBE UN AUTOGOL

Un pezzo da novanta come l’ex first lady Michelle Obama resta scettica sul «surreale» impeachment: «Non credo che la gente sappia cosa farne», ha dichiarato da avvocato ancor prima che da democratica, sperando che «si torni indietro». Se il Senato, già a febbraio, dovesse rigettare l’accusa della Camera (come avvenne con Clinton) il boomerang è dietro l’angolo: alle Primarie che contano del super martedì del 3 marzo (California, Texas, Massachusetts e Michigan), i dem apparirebbero come un partito indaffarato solo a tentare di distruggere – invano – l’avversario.

CAMPAGNA ELETTORALE CHE SI SPOSTEREBBE DA ALTRI TEMI

Tutta la campagna del 2020 si concentrerebbe sull’impeachment piuttosto che, per esempio, sulle leggi sul welfare e per i diritti civili passate alla Camera dal 2018 nonostante Trump. Non per niente i repubblicani premono per aprire il processo al Senato già il 6 gennaio, e chiuderlo poi rapidamente senza chiamare testimoni. Per assurdo Trump rema contro puntando all’impeachment show.

TESTIMONI DA METTERE ALLA BERLINA

Prima Trump ha invitato i testimoni di punta convocati dai dem alla Camera a non comparire (l’ex advisor alla Sicurezza John Bolton e il capo di Gabinetto della Casa Bianca Mick Mulvaney hanno disertato). E sempre il presidente degli Usa e il braccio destro nelle operazioni in Ucraina, l’avvocato Rudolph Giuliani, premono per chiamare come testimoni al Senato Joe Biden e il figlio Hunter. Metterli alla berlina ribalterebbe i giochi.

UNA FRONDA NELL’ELEFANTINO NON C’È

McConnell ha decretato le accuse «terribilmente deboli», il processo al Senato sarà presieduto dal giudice capo della Corte Suprema John Glover Roberts Jr, repubblicano. La destra punta a scardinare l’equazione – immediata ma non dimostrabile – tra lo stop agli armamenti a Kiev e la telefonata anti-Biden: infatti non ci sono stati gli estremi per inserire l’accusa di «corruzione» nel testo di impeachment. Portare una fronda di senatori repubblicani contro Trump, come speravano i dem, sarà più scivoloso che convincere l’elettorato.

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Israele, la palude fino a marzo 2020 (e oltre?)

Il primo pensiero, nella disillusione, corre al portafoglio. In Israele per le terze Legislative anticipate in un anno si bruceranno..

Il primo pensiero, nella disillusione, corre al portafoglio. In Israele per le terze Legislative anticipate in un anno si bruceranno altri milioni di dollari. Centinaia, per un campagna elettorale che il 2 marzo 2020 riprodurrà con ogni probabilità lo stallo del 9 aprile e del 17 settembre 2019. Altre settimane di caccia alle streghe da una parte, e di mobilitazione infuocata ad personam dall’altra. Di parti politiche che difficilmente si salderanno insieme. Sarà un altro referendum contro Benjamin “Bibi” Netanyahu: il primo ministro più longevo – e ostinato – di Israele che non si fa da parte a dispetto dei processi. Anzi proprio a causa di essi, e per l’incapacità degli oppositori di tradursi in alternativa politica. Per i quasi 6 milioni di elettori israeliani qualcosa di mai visto prima. Per ritmo di chiamate al voto e per prosciugamento della politica.

CAMPAGNA DI PROMESSE E FANGO

Yair Lapid, della coalizione Blu e bianco, ha invitato a «tenere lontano i bambini dalla campagna dell’odio, della violenza e del disgusto in televisione». Nelle ultime settimane si sono susseguiti gli incontri tra la sua lista centrista e il Likud di Netanyahu per un’intesa di governo mancata, prima dello scioglimento del parlamento. L’unica possibilità di evitare le urne era una grande coalizione tra le due grandi forze testa a testa – ma senza maggioranza -, posto che Lapid e il coleader Benny Gantz possono unire la Lista degli arabi-israeliani e l’ultradestra sionista di Avigdor Lieberman contro Netanyahu, ma mai in un loro governo. Così falliti i tentativi del Likud, e poi di Blu e bianco, di formare un esecutivo la sera del 10 dicembre Netanyahu, Lapid e il generale Gantz ancora si scapicollavano in tivù. A giurare la loro volontà eterna di mettere in piedi un governo di unità nazionale. E di non sperperare altri soldi pubblici

Israele terze elezioni 2020 Netanyahu
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (Likud) in campagna per le Legislative del 2020. GETTY.

I BLUFF DI NETANYAHU E GANTZ

Il premier e leader conservatore avrebbe chiamato a raccolta i suoi legali, valutando la possibilità di non cercare l’immunità sui tre procedimenti penali (per corruzione, frode e abuso d’ufficio) che lo riguardano. Dato che il nodo per un esecutivo bipartisan con Blu e bianco era la sua testa da premier. A meno che, era filtrato negli ultimi giorni, lo stesso non rinunciasse allo scudo legale (automatico per i parlamentari, non per i primi ministri in Israele) e sottinteso a ogni legge ad personam sulla giustizia nella nuova Legislatura. Gantz e Lapid avrebbero aperto in questo senso, come tentativo estremo: il massimo che potevano concedere senza «rinunciare ai principi fondamentali» che li avevano «portati in politica». A condurre due campagne sull’impresentabilità di Netanyahu. Non se ne è fatto ben presto di nulla: quantomeno “Bibi” bluffava, e forse non soltanto lui.

Queste terze elezioni hanno tre sole ragioni: corruzione, frode e abuso d’ufficio

Biano e blu

SUBITO IN CORSA ELETTORALE

Alla mezzanotte dell’11 dicembre, termine ultimo per approvare un nome di premier condiviso, la Knesset si è sciolta, deliberando come ultimo e indispensabile atto nuove elezioni il 2 marzo prossimo. Poche ore prima dal Likud era arrivato l’annuncio di primarie il 26 dicembre, per ricompattare il partito su Netanyahu leader. E ancora premier: da “Bibi” nessuna comunicazione sull’attesa rinuncia alla sua richiesta di immunità in parlamento. In compenso, mentre i deputati erano riuniti per indire l’ennesimo voto, Netanyahu assente rilanciava sui social l’imperativo a «vincere e vincere bene» contro la «cospirazione di Ganz e dei leader arabi a forzare per il voto». È già campagna elettorale, anche a Blu e bianco sono ripartiti alla carica sulle «sole tre ragioni per queste terze elezioni, trasformate da una festa per la democrazia a un momento di vergogna: corruzione, frode e abuso d’ufficio».

Israele terze elezioni 2020 Netanyahu
Il leader israeliano della coalizione Blu e bianco Benny Gantz. GETTY.

A MONTE ANCHE I PIANI DI LIEBERMAN

Non sbaglia – per una volta – Lieberman, l’ex ministro della Difesa arcinemico di Netanyahu e causa un anno fa della caduta del governo, quando rinfaccia ai leader del Likud (32 seggi) e a Blu e Bianco (33 seggi) di «non aver mai voluto davvero un governo di unità». E di aver portato Israele a «nuove elezioni inutili» con una «battaglia dell’ego in corso da mesi». Lieberman avrebbe voluto un governo di larghe intese – senza Netanyahu premier – tra le due principali forze, appoggiato esternamente dalla sua lista laica e ultranazionalista (otto seggi). Ma a patto che fosse tenuta fuori dal nuovo esecutivo la destra ultraortodossa (Shas e Giudaismo unito nella Torah), contraria alla leva obbligatoria chiesta insistentemente da Lieberman anche per gli ultraortodossi. Causa, questa, delle sue dimissioni da ministro, insieme alle campagne mancate su Gaza e al  suo odio per Netanyahu.

“BIBI” ARRETRA ANCORA, MA NON CEDE

Lieberman pregusta da un pezzo la caduta in disgrazia del premier dal 2009. Al terzo voto in un anno non ha perso l’occasione per scagliarsi contro di lui («io ho valori, tu solo interessi») in un velenoso post su Facebook. Ma la sua architettura non poteva compiersi: il Likud fatica non poco a disfarsi di “Bibi”, e di riflesso degli ultraortodossi alleati negli ultimi governi. Al netto di contestatori in ascesa come l’ex ministro Gideon Saar, corso a sfidare Netanyahu alle primarie, il consenso per il leader appare solido tra i conservatori . E gli ultraortodossi sono utili a Netanyahu come ministri e deputati per far passare leggi ad personam. Ne ha disperatamente bisogno: l’esecutivo ad interim che si trascina da un anno non ha i deputati per ottenere l’impunità. E “Bibi” ci spera, nonostante tutto: negli ultimi sondaggi Gantz e Lapid sono avanti a 37 seggi (33 il Likud), ma la maggioranza è lontana. Come gli elettori.

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L’accordo sulla Brexit tra l’Ue e Johnson aiuta ma non basta

Superato il voto e la scelta del divorzio, l'Ue trainata dalla Germania vuole ricostruire i rapporti economici con Londra. C'è un anno per un'intesa sul libero commercio. Von der Leyen: «Trarre il massimo dal minimo». Ma per gli economisti la separazione continuerà a pesare sul Pil.

Almeno è finita l’incertezza. Con la Brexit fissata al 31 gennaio 2020 l’Ue può cominciare a organizzarsi, «tutti uniti per costruire un’Europa più forte» spronano ora anche dalla Confindustria tedesca (Bdi), «in un mondo bilaterale, con Stati Uniti e Cina predominanti, dobbiamo combinare le nostre forze». Fino al 2016 in Germania nessun imprenditore si sarebbe mai augurato l’uscita del Regno Unito dall’Ue: l’isola dove ha trionfato il premier Boris Johnson, al voto anticipato del 12 dicembre 2019, era per la locomotiva d’Europa il trampolino di lancio verso gli Usa e verso la rete del Commonwealth. Una strettissima alleata commerciale. Dal referendum sulla Brexit la Germania ha allentato questo interscambio, dirottandolo in parte verso l’Olanda e proiettandolo verso ‘’Asia. Ma nonostante gli sforzi per riassestarsi è l’economia del’Ue che ha più sofferto per lo strappo. Tre miliardi e mezzo di euro persi solo nella prima metà del 2019 dagli esportatori tedeschi per gli effetti della Brexit.

METÀ DEL COMMERCIO BRITANNICO ÈCON L’UE

Fino alle turbolenze di ottobre, con Johnson sul precipizio di una hard Brexit, fornitori dall’Ue e importatori britannici erano paralizzati. Oltremanica si accumulavano merci, mentre nel Vecchio continente si rimandavano gli ordini, nell’eventualità concreta di un’uscita disordinata di Londra dai trattati economici e commerciali comunitari tra la fine del 2019 e il 2020 e quindi di un caos alle dogane e di merci bloccate. Per decenni circa la metà dell’interscambio del Regno Unito è avvenuto con l’Ue, il suo principale partner commerciale, a costi ridotti. Un import-export che tra il 2010 e il 2017 per un quarto del totale è stato con la Germania (Germania, Francia, Belgio e Olanda pesavano per il 60%), secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica britannico per un valore di quasi 850 miliardi di euro. Con le maggiori barriere tra il Regno Unito e l’Ue, uno studio della London School of Economics ha stimato per forza di cose una contrazione di questo flusso commerciale. Anche senza hard Brexit.

Johnson elezioni Regno Unito Brexit Ue
Il premier britannico Boris Johnson torna a al numero 10 Downing Street con pieno mandato. GETTY.

LONDRA PERDERÀ IL DOPPIO DEL PIL DELL’UNIONE

Sempre la stessa ricerca del 2016 ha calcolato una diminuzione, per la Brexit, delle entrate di tutta l‘Unione europea. Un calo del Pil, anche se a BoJo sembra importare poco, per il Regno Unito due volte tanto (tra i 31 e i 66 miliardi di euro) la perdita di ricchezza di tutti gli altri Paesi dell’Ue messi insieme (tra i 14 e i 33 miliardi di euro). Anche di fronte a questa prospettiva, all’investitura di luglio a Strasburgo la nuova presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha parlato di «sfide da affrontare insieme, legati ai valori condivisi che ci uniscono». Anticipando di mettere in campo «tutta la flessibilità possibile del Patto di stabilità, per creare un contesto fiscale più favorevole alla crescita» anche per rispondere ai contraccolpi di frenate nell’export, e nella produzione, a causa della Brexit e del nascente asse commerciale tra gli Stati Uniti e il Regno Unito sganciato dall’Ue.

Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile

Ursula von der Leyen

DOPO LA BREXIT IL LIBERO COMMERCIO DA NEGOZIARE

Von der Leyen spinge per una «partnership ambiziosa e strategica con il Regno Unito»: ricostruire con nuovi trattati quanto più la Brexit voleva distruggere. BoJo, senza più ormeggi in parlamento (364 seggi, per una maggioranza di 326 seggi), scalpita per «fare le valigie e andarsene», «senza se e senza ma» annuncia. Ma lo stesso accordo raggiunto da Johnson con Bruxelles questo autunno prevede quasi un anno di transizione, fino al 31 dicembre 2020, per negoziare nel dettaglio i termini dei rapporti tra il Regno Unito e l’Ue dopo la Brexit. «Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile e trarremo il massimo dal minimo», ha rilanciato la super-commissaria europea alla «chiara vittoria» del premier britannico, sull’onda delle reazioni positive delle Borse e dei mercati. «Gli imprenditori riprendono a respirare, finalmente chiarezza» è il commento anche di der Spiegel. Per la Confindustria tedesca la «nebbia di Londra si dissolve»: almeno gli imprenditori sanno di che morte morire. 

Johnson elezioni Regno Unito Brexit Ue
Il primo ministro britannico Boris Johnson a un comizio sulla Brexit per le Legislative del 2019. GETTY.

IN GERMANIA COLPITI IL SETTORE DELL’AUTO E IL FARMACEUTICO

In tre anni il Regno Unito è stato declassato da quinto a settimo partner commerciale della Germania: un volume d’affari di oltre 8 miliardi di euro sfumato, secondo i calcoli di Deloitte. Il binomio tra i dazi di Trump all’Ue sull’acciaio e la paralisi per la Brexit ha colpito soprattutto il comparto tedesco dell’auto (-23% di esportazioni verso la Gran Bretagna dal 2016 per 6 miliardi di euro bruciati), per il quale il mercato britannico era secondo solo a quello statunitense. Non a caso, nei distretti tedeschi dell’acciaio e dell’automotive quest’anno migliaia di addetti sono finiti in cassa integrazione, tra la Ruhr e la Saarland, mentre le case automobilistiche si apprestano a massicci tagli del personale, e anche l’export del farmaceutico è molto penalizzato. Land ricchi e prosperosi come la Baviera e il Baden-Württemberg, ai massimi tassi di occupazione, risentono dell’effetto Brexit: gli esperti prevedono perdite ancora maggiori nel secondo semestre del 2019, con ripercussioni anche sull’indotto italiano della componentistica.

Non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza cala ma resta alta

Kiel Institute for the World Economy

TRUMP CONTRO UE: IL NUOVO BRACCIO DI FERRO

A settembre la locomotiva d’Europa ha frenato più del previsto, -0,6% della produzione industriale. La crisi delle spedizioni navali, anche per la guerra commerciale tra Usa e Cina, ha esposto nel 2019 diverse banche regionali tedesche a misure di salvataggio. Con una Brexit pianificata al via, se non altro lo stallo è superato: la «catastrofe di un no deal» temuta dall’Associazione per il commercio estero tedesca (Bga) è scongiurata, l’Europa è attrezzata e presto potrà ricominciare a investire verso il Regno Unito. Ma Trump preme molto su Johnson per sganciarsi dall’orbita Ue, gli osservatori economici avvertono che anche il 2020 non sarà una passeggiata. Per il Kiel Institute for the World Economy (IfW)«non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza è diminuita ma resta alta». Per l’IMK di Düsseldorf la «Brexit continuerà a pesare nei prossimi mesi sulla crescita britannica come su quella tedesca». Anche perché all’Istituto Ifo di Monaco sono molto scettici che «si concordi un nuovo contratto sul libero commercio entro il 2020».


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L’accordo sulla Brexit tra l’Ue e Johnson aiuta ma non basta

Superato il voto e la scelta del divorzio, l'Ue trainata dalla Germania vuole ricostruire i rapporti economici con Londra. C'è un anno per un'intesa sul libero commercio. Von der Leyen: «Trarre il massimo dal minimo». Ma per gli economisti la separazione continuerà a pesare sul Pil.

Almeno è finita l’incertezza. Con la Brexit fissata al 31 gennaio 2020 l’Ue può cominciare a organizzarsi, «tutti uniti per costruire un’Europa più forte» spronano ora anche dalla Confindustria tedesca (Bdi), «in un mondo bilaterale, con Stati Uniti e Cina predominanti, dobbiamo combinare le nostre forze». Fino al 2016 in Germania nessun imprenditore si sarebbe mai augurato l’uscita del Regno Unito dall’Ue: l’isola dove ha trionfato il premier Boris Johnson, al voto anticipato del 12 dicembre 2019, era per la locomotiva d’Europa il trampolino di lancio verso gli Usa e verso la rete del Commonwealth. Una strettissima alleata commerciale. Dal referendum sulla Brexit la Germania ha allentato questo interscambio, dirottandolo in parte verso l’Olanda e proiettandolo verso ‘’Asia. Ma nonostante gli sforzi per riassestarsi è l’economia del’Ue che ha più sofferto per lo strappo. Tre miliardi e mezzo di euro persi solo nella prima metà del 2019 dagli esportatori tedeschi per gli effetti della Brexit.

METÀ DEL COMMERCIO BRITANNICO ÈCON L’UE

Fino alle turbolenze di ottobre, con Johnson sul precipizio di una hard Brexit, fornitori dall’Ue e importatori britannici erano paralizzati. Oltremanica si accumulavano merci, mentre nel Vecchio continente si rimandavano gli ordini, nell’eventualità concreta di un’uscita disordinata di Londra dai trattati economici e commerciali comunitari tra la fine del 2019 e il 2020 e quindi di un caos alle dogane e di merci bloccate. Per decenni circa la metà dell’interscambio del Regno Unito è avvenuto con l’Ue, il suo principale partner commerciale, a costi ridotti. Un import-export che tra il 2010 e il 2017 per un quarto del totale è stato con la Germania (Germania, Francia, Belgio e Olanda pesavano per il 60%), secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica britannico per un valore di quasi 850 miliardi di euro. Con le maggiori barriere tra il Regno Unito e l’Ue, uno studio della London School of Economics ha stimato per forza di cose una contrazione di questo flusso commerciale. Anche senza hard Brexit.

Johnson elezioni Regno Unito Brexit Ue
Il premier britannico Boris Johnson torna a al numero 10 Downing Street con pieno mandato. GETTY.

LONDRA PERDERÀ IL DOPPIO DEL PIL DELL’UNIONE

Sempre la stessa ricerca del 2016 ha calcolato una diminuzione, per la Brexit, delle entrate di tutta l‘Unione europea. Un calo del Pil, anche se a BoJo sembra importare poco, per il Regno Unito due volte tanto (tra i 31 e i 66 miliardi di euro) la perdita di ricchezza di tutti gli altri Paesi dell’Ue messi insieme (tra i 14 e i 33 miliardi di euro). Anche di fronte a questa prospettiva, all’investitura di luglio a Strasburgo la nuova presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha parlato di «sfide da affrontare insieme, legati ai valori condivisi che ci uniscono». Anticipando di mettere in campo «tutta la flessibilità possibile del Patto di stabilità, per creare un contesto fiscale più favorevole alla crescita» anche per rispondere ai contraccolpi di frenate nell’export, e nella produzione, a causa della Brexit e del nascente asse commerciale tra gli Stati Uniti e il Regno Unito sganciato dall’Ue.

Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile

Ursula von der Leyen

DOPO LA BREXIT IL LIBERO COMMERCIO DA NEGOZIARE

Von der Leyen spinge per una «partnership ambiziosa e strategica con il Regno Unito»: ricostruire con nuovi trattati quanto più la Brexit voleva distruggere. BoJo, senza più ormeggi in parlamento (364 seggi, per una maggioranza di 326 seggi), scalpita per «fare le valigie e andarsene», «senza se e senza ma» annuncia. Ma lo stesso accordo raggiunto da Johnson con Bruxelles questo autunno prevede quasi un anno di transizione, fino al 31 dicembre 2020, per negoziare nel dettaglio i termini dei rapporti tra il Regno Unito e l’Ue dopo la Brexit. «Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile e trarremo il massimo dal minimo», ha rilanciato la super-commissaria europea alla «chiara vittoria» del premier britannico, sull’onda delle reazioni positive delle Borse e dei mercati. «Gli imprenditori riprendono a respirare, finalmente chiarezza» è il commento anche di der Spiegel. Per la Confindustria tedesca la «nebbia di Londra si dissolve»: almeno gli imprenditori sanno di che morte morire. 

Johnson elezioni Regno Unito Brexit Ue
Il primo ministro britannico Boris Johnson a un comizio sulla Brexit per le Legislative del 2019. GETTY.

IN GERMANIA COLPITI IL SETTORE DELL’AUTO E IL FARMACEUTICO

In tre anni il Regno Unito è stato declassato da quinto a settimo partner commerciale della Germania: un volume d’affari di oltre 8 miliardi di euro sfumato, secondo i calcoli di Deloitte. Il binomio tra i dazi di Trump all’Ue sull’acciaio e la paralisi per la Brexit ha colpito soprattutto il comparto tedesco dell’auto (-23% di esportazioni verso la Gran Bretagna dal 2016 per 6 miliardi di euro bruciati), per il quale il mercato britannico era secondo solo a quello statunitense. Non a caso, nei distretti tedeschi dell’acciaio e dell’automotive quest’anno migliaia di addetti sono finiti in cassa integrazione, tra la Ruhr e la Saarland, mentre le case automobilistiche si apprestano a massicci tagli del personale, e anche l’export del farmaceutico è molto penalizzato. Land ricchi e prosperosi come la Baviera e il Baden-Württemberg, ai massimi tassi di occupazione, risentono dell’effetto Brexit: gli esperti prevedono perdite ancora maggiori nel secondo semestre del 2019, con ripercussioni anche sull’indotto italiano della componentistica.

Non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza cala ma resta alta

Kiel Institute for the World Economy

TRUMP CONTRO UE: IL NUOVO BRACCIO DI FERRO

A settembre la locomotiva d’Europa ha frenato più del previsto, -0,6% della produzione industriale. La crisi delle spedizioni navali, anche per la guerra commerciale tra Usa e Cina, ha esposto nel 2019 diverse banche regionali tedesche a misure di salvataggio. Con una Brexit pianificata al via, se non altro lo stallo è superato: la «catastrofe di un no deal» temuta dall’Associazione per il commercio estero tedesca (Bga) è scongiurata, l’Europa è attrezzata e presto potrà ricominciare a investire verso il Regno Unito. Ma Trump preme molto su Johnson per sganciarsi dall’orbita Ue, gli osservatori economici avvertono che anche il 2020 non sarà una passeggiata. Per il Kiel Institute for the World Economy (IfW)«non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza è diminuita ma resta alta». Per l’IMK di Düsseldorf la «Brexit continuerà a pesare nei prossimi mesi sulla crescita britannica come su quella tedesca». Anche perché all’Istituto Ifo di Monaco sono molto scettici che «si concordi un nuovo contratto sul libero commercio entro il 2020».


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Perché il Mes rischia di mandare l’Italia in Serie B

La riforma del fondo salva-Stati crea un'Eurozona a due velocità. E il nostro Paese, il secondo più indebitato dell'Ue dopo la Grecia, è fuori dai parametri di sostenibilità. Così i Btp finiscono nel mirino delle speculazioni. Anche per i vincoli dei tedeschi sull'unione bancaria. I no degli esperti.

Riforma del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità per finanziare gli Stati dell’euro in gravi difficoltà in base alla sostenibilità dei loro debiti. Poi un’unione bancaria a patto che si valuti il tasso di rischio dei titoli sovrani (Btp) o con tetti alla loro detenzione. Su entrambe le manovre di politica monetaria dell’Unione europea l’Italia è esposta significativamente per il debito pubblico al 135% del Pil – molto oltre la soglia massima del 60% del Fiscal compact – e per i circa 400 miliardi di euro in Btp custoditi nelle banche del Paese, circa un quinto delle emissioni totali.

RISOLUZIONE APPROVATA DALLE CAMERE

Non a caso prima del Consiglio europeo del 12 e del 13 dicembre 2019, sulle modifiche al Fondo salva-Stati, il governo giallorosso ha messo all’approvazione di Camera e Senato una risoluzione per escludere in particolare «interventi di carattere restrittivo sulla dotazione di titoli sovrani da parte di banche e istituti finanziari, e comunque la ponderazione dei titoli di Stato».

L’APPELLO PER IL NO SU MICROMEGA

La lente del Mes sull’indebitamento (l’Italia è il secondo Paese nell’Ue per debito pubblico dopo la Grecia), e di conseguenza sui suoi mattoni dei Btp, ha fatto sobbalzare anche economisti come il governatore di Bankitalia Ignazio Visco o come Carlo Cottarelli dell’Osservatorio sui conti pubblici. Allarmati dalla possibilità, scongiurata all’ultimo vertice dell’Eurogruppo, che per accedere al nuovo Fondo salva-Stati i Paesi con un debito insostenibile (in Italia per il 70% in mano agli italiani) dovessero necessariamente ristrutturarlo. La prospettiva getterebbe le banche del Paese in pasto alle speculazioni dei mercati ben prima dell’ipotesi di salvataggio di uno Stato, incentivandolo. Scrivono 32 economisti nel loro appello su Micromega “No al Mes se non cambia la logica europea”, di non voler pensare che la «strada individuata dai nostri partner europei per forzare una riduzione del debito pubblico italiano sia quella di provocare una crisi».

Mes riforma Fondo salva-Stati Italia Draghi
Il tedesco Klaus Regling, a capo del Mes, nel 2014 con l’allora capo della Bce, Mario Draghi. (Getty).

PIÙ VULNERABILI AI MERCATI

Il pericolo di una spirale per l’Italia era noto agli ultimi governi e al mondo finanziario ben prima che il dibattito sul Mes si infiammasse, visto che i capitoli sulla riforma sono all’esame dei Paesi membri dell’eurozona dal 2018. Ma che alla fine siano spariti i passaggi sulla ristrutturazione automatica del debito non ripara dal rischio di avvitamento. Vladimiro Giacché, presidente del Centro Europa ricerche, dice a Lettera43.it: «Basta che resti la divisione tra i Paesi con i requisiti per una fast line sui finanziamenti e quelli senza, perché la vulnerabilità sia da subito molto chiara ai mercati». Un rating targato Ue istituzionalizzerebbe un’Europa a due, tre velocità. E le banche, anche quelle francesi con in pancia il 16% dei Btp, inizierebbero a disfarsi dei titoli di Stato con minori garanzie. A maggior ragione se nell’Ue prendesse corpo la proposta sull’unione bancaria del ministro alle Finanze tedesco Olaf Scholz, con garanzie e limitazioni sui titoli dei debiti sovrani.

CRISI INTERNE MA CONTAGI LIMITATI

Gli economisti della lettera sul “No al Mes” ammoniscono: «Uno strumento che dovrebbe aumentare la capacità di affrontare le crisi può trasformarsi nel motivo scatenante di una crisi». Il paradosso della riforma è che se anche «i giudizi sul debito» facessero «precipitare tutto il sistema creditizio» della terza economia dell’eurozona, cioè dell’Italia, sempre grazie al Mes le altre economie dell’euro sarebbero più protette rispetto, per esempio, agli effetti della crisi del debito sovrano della Grecia nel 2010. Il Fondo Ue salva-Stati è stato istituito nel 2012 proprio per ridurre i danni del contagio, e allo stesso scopo viene perfezionato. Giovanni Dosi dell’Istituto di economia della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, tra i firmatari dell’appello, spiega a L43: «È un meccanismo per isolare i mercati finanziari del Nord. Con questa riforma le probabilità di crisi interne in alcuni Stati dell’Ue aumenteranno, mentre diminuirà ancora il rischio sistemico per l’Europa».

I CRITERI DEL FISCAL COMPACT NEL MES

Anche uno studio del Centro Europa ricerche mette in guardia sui «nuovi strumenti di sostegno finanziario dell’Eurozona» che «si baserebbero ab origine su una distinzione fra buoni e cattivi». Le economie al momento più sensibili al monitoraggio del Mes sono nell’ordine la Grecia, l’Italia, la Spagna e il Portogallo. «Ed è evidente che il nostro Paese, al contrario di altri, non possa soddisfare a priori alcuni dei criteri inseriti per definire la sostenibilità», precisa Dosi, «oltre al tetto del debito sotto il 60% del Pil, a nostro svantaggio c’è il calcolo del saldo di bilancio strutturale pari o superiore al valore minimo di riferimento. In questo modo non si esce dalla logica dell’austerity, tanto più che con la riforma si rafforza il peso sulla politica del Mes, un organo tecnico con ai vertici economisti e banchieri centrali tedeschi e francesi». La combinazione del nuovo Fondo salva-Stati e dell’unione bancaria alla tedesca, aggiunge, sarebbe poi «esplosiva» per la tenuta dei Btp italiani.

Mes riforma Fondo salva-Stati Italia Scholz lagarde
Christine Lagarde, nuova presidente della Bce, con il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz. (Getty).

CONVERGENZA SULL’UNIONE BANCARIA

Va detto che mentre sul Mes si accelera per chiudere all’inizio del nuovo anno, sull’unione bancaria l’intesa è più lontana e resta problematica. Proprio la Germania – alle prese con una serie crescente di problemi bancari (di istituti nazionali e locali) sia a causa del peso dei derivati sia per la frenata dell’economia reale nel 2019 – quest’autunno ha aperto il dibattito nell’Ue per creare un’assicurazione comune che sia di aiuto nelle crisi bancarie dell’eurozona. Proponendo però valutazioni di rischio per i titoli di Stato, piuttosto che per prodotti opachi come i derivati. Di nuovo, un concept ritagliato sulle esigenze finanziarie di Stati come la Germania, piuttosto che come l’Italia. «C’è una convergenza in una direzione. Con la riforma del Mes, la proposta di completamento dell’unione bancaria, e anche con le pressioni per lo stop al Quantitative easing, cioè l’acquisto di titoli dalle banche da parte della Bce per stimolare la crescita, si accende un faro sul debito pubblico».

Sarebbe più utile per tutti modificare le regole sul bail-in che non completare l’unione bancaria a condizioni inaccettabili o modificare il Mes


Vladimiro Giacché, Centro Europa Ricerche

I COEFFICIENTI DI RISCHIO SUI BTP

Segnali chiari per i mercati e di impatto per i risparmiatori, come lo fu nel 2016 in Italia l’introduzione del bail-in: il «salvataggio interno» alle banche imposto dalla direttiva Ue che sgrava gli Stati dai salvataggi con fondi pubblici, scaricando i dissesti sugli azionisti e sugli investitori privati. Prima del bail-in obbligazionisti e correntisti non correvano rischi particolari, perché le banche non potevano fallire: il solo via libera alla nuova legge costò al sistema bancario italiano una perdita di capitalizzazione di 46 miliardi. Lo stesso scossone si avrebbe con i coefficienti di rischio sui titoli di Stato, premessa per la loro svalutazione. «Oltretutto, anche con una cornice ideale per le banche tedesche, i salvataggi resteranno complicati anche per i tedeschi a causa delle rigidità sulle norme del bail-in» conclude il presidente del Centro Europa ricerche, «sarebbe più utile per tutti modificare le regole sul bail-in che non completare l’unione bancaria a condizioni inaccettabili o modificare il Mes».

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Perché le Presidenziali post Bouteflika in Algeria sono inutili

Elezioni il 12 dicembre, per volere del capo dell'esercito Salah. In corsa solo ex premier, ex ministri o politici parte dell’establishment. Le piazze rifiutano tutti i candidati e boicottano le urne. Ma ai giovani manifestanti pro-cambiamento manca un nuovo leader.

Un voto rimandato e infine imposto, forse l’ultimo colpo di coda dell’ancient regime algerino, di certo un punto interrogativo per tutti, fuori e dentro l’Algeria. La piazza non vuole le Presidenziali del 12 dicembre 2019 ma il pouvoir, il «potere» da spazzare via, le ha imposte entro la fine dell’anno. Così detta la Costituzione algerina, ma soprattutto così ha voluto il nuovo uomo forte, il capo di stato maggiore Ahmed Gaïd Salah.

IL POPOLO RIGETTA TUTTI E CINQUE I CANDIDATI

Dalle dimissioni dell’ex presidente ottuagenario Abdelaziz Bouteflika, destituito ad aprile dal generale Salah per «manifesta incapacità», entro 90 giorni doveva essere rieletto un capo dello Stato. A luglio il voto era stato annullato, mancando i candidati. Ma oltre l’anno non si può temporeggiare, poco importa se il fiume umano che dal 22 febbraio invade le strade dell’Algeria rigetti tutti i cinque candidati «del sistema, ex premier, ex ministri o oligarchi».

Algeria presidenziali proteste Bouteflika
Il candidato di punta delle Presidenziali in Algeria del 2019, l’ex premier Alis Benflis. (Getty)

L’IMBARAZZANTE 75ENNE BENFLIS

L’accoglienza dei comizi non è stata, per usare un eufemismo, calorosa. L’ex primo ministro (dal 2000 al 2003) Alis Benflis, 75enne naturalmente del Fronte di liberazione nazionale (Fln) di Bouteflika, suo avversario fantoccio delle Presidenziali, è il candidato di punta e tra i più imbarazzanti della rosa. Un insulto per il popolo dell’hirak, il «movimento» che chiede e pretende lo «smantellamento totale» dell’apparato di potere dell’Algeria. Il capo della campagna elettorale di Benflis nella regione della Cabilia, roccaforte delle contestazioni, si è dovuto dimettere su pressione dei familiari, per il timore di tumulti.

LE PIAZZE SEMI VUOTE PER L’EX PLURI MINISTRO

Abdelmadjid Tebboune, classe 1945, ex premier ed ex ministro praticamente di tutto, in politica dal 1975 e parente di Bouteflika, è il prediletto di Salah. E non lo aiuta: Tebboune ha dovuto cancellare il primo raduno perché la piazza era semi vuota, anche il suo manager ha mollato l’incarico.

L’ISLAMISTA MODERATO PRESO A UOVA E POMODORI

Peggio ancora è andata al candidato islamista Abdelkader Bengrina, un moderato intenzionato a rappresentare l’hirak. Meno organico, ma anche lui ex ministro, sebbene più di 20 anni fa, di un governo Bouteflika. Bengrina, 57 anni, ha promesso aiuti alle donne single e si era messo ad arringare sul cambiamento dalla piazza di Algeri delle proteste. Ma è dovuto scappare in auto, preso a uova e pomodori dai dimostranti che non lo ritengono una degna opposizione.

NON CONVINCE L’EX TITOLARE DELLA CULTURA

Alla vigilia del voto anche il Movimento della società per la pace, la maggiore rappresentanza degli islamisti nell’Algeria, ha preso le distanze da «tutti i candidati», appoggiando in linea di principio le Presidenziali ma «non in queste circostanze, senza consenso». Allo stesso modo, non convince l’ex ministro della Cultura Azzedine Mihoubi, 60 anni, già sottosegretario alla comunicazione, leader del Raggruppamento democratico nazionale (Rdn) alleato del Fln.

Algeria presidenziali proteste Bouteflika
Militari in pensione governativi manifestano ad Algeri per le Presidenziali del 2019. (Getty)

CAMPAGNA CONSIDERATA UNO SPRECO DI DENARO

Né si salva Abdelaziz Belaïd, 56enne leader del Fronte del futuro, piccolo partito considerato di sponda tattica del pouvoir. E certo Belaïd, che all’hirak assicura lotta alla corruzione, lo è stato di Bouteflika, come Benflis, alle passate Presidenziali. La società civile algerina è giovane, ostinatamente pacifica e molto consapevole dello status quo: considera la campagna «uno spreco di denaro» da parte di chi «non si è fatto ancora carico delle richieste popolari», cioè di un «vero ricambio», precondizione per «elezioni trasparenti e sane».

AI MANIFESTANTI PERÒ MANCA UN LEADER

Alle masse di manifestanti mancano però dei leader politici nuovi e preparati: dall’indipendenza il partito unico del Fln ha soffocato la fondazione di altri partiti che non fossero collaterali e funzionali al sistema. Agonizzante, come il malato Bouteflika, ma pronto anche alle Presidenziali del 2019 a giocare la carta della paura.

L’ESERCITO RESTA ARBITRO: E LA DEMOCRAZIA DOV’È?

Il potere fa leva sul bisogno di stabilità degli algerini. Si pone come rimedio al caos, lascia filtrare il rischio di disordini il giorno del voto, e intanto manda in piazza i supporter governativi. Le Presidenziali decise dal generale Salah, vice ministro della Difesa, 80enne, sono un banco di prova anche per la tenuta dell’hirak, forte ad aggirare le trappole ma continuamente insidiato. Finché l’esercito resterà arbitro autoritario della “transizione” non ci sarà democrazia in Algeria: gli arresti di questi mesi sono trasversali. Colpiscono imprenditori e funzionari corrotti del pouvoir, con retate a effetto, come esponenti della sinistra all’opposizione e dimostranti berberi per «attentato alla nazione». I cortei sono tollerati, ma i giornalisti intimiditi. I magistrati protestano contro le ingerenze, ma parte di loro sono complici. E se il voto boicottato per il presidente sarà un flop, per il pouvoir c’è sempre il secondo turno.

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Perché le Presidenziali post Bouteflika in Algeria sono inutili

Elezioni il 12 dicembre, per volere del capo dell'esercito Salah. In corsa solo ex premier, ex ministri o politici parte dell’establishment. Le piazze rifiutano tutti i candidati e boicottano le urne. Ma ai giovani manifestanti pro-cambiamento manca un nuovo leader.

Un voto rimandato e infine imposto, forse l’ultimo colpo di coda dell’ancient regime algerino, di certo un punto interrogativo per tutti, fuori e dentro l’Algeria. La piazza non vuole le Presidenziali del 12 dicembre 2019 ma il pouvoir, il «potere» da spazzare via, le ha imposte entro la fine dell’anno. Così detta la Costituzione algerina, ma soprattutto così ha voluto il nuovo uomo forte, il capo di stato maggiore Ahmed Gaïd Salah.

IL POPOLO RIGETTA TUTTI E CINQUE I CANDIDATI

Dalle dimissioni dell’ex presidente ottuagenario Abdelaziz Bouteflika, destituito ad aprile dal generale Salah per «manifesta incapacità», entro 90 giorni doveva essere rieletto un capo dello Stato. A luglio il voto era stato annullato, mancando i candidati. Ma oltre l’anno non si può temporeggiare, poco importa se il fiume umano che dal 22 febbraio invade le strade dell’Algeria rigetti tutti i cinque candidati «del sistema, ex premier, ex ministri o oligarchi».

Algeria presidenziali proteste Bouteflika
Il candidato di punta delle Presidenziali in Algeria del 2019, l’ex premier Alis Benflis. (Getty)

L’IMBARAZZANTE 75ENNE BENFLIS

L’accoglienza dei comizi non è stata, per usare un eufemismo, calorosa. L’ex primo ministro (dal 2000 al 2003) Alis Benflis, 75enne naturalmente del Fronte di liberazione nazionale (Fln) di Bouteflika, suo avversario fantoccio delle Presidenziali, è il candidato di punta e tra i più imbarazzanti della rosa. Un insulto per il popolo dell’hirak, il «movimento» che chiede e pretende lo «smantellamento totale» dell’apparato di potere dell’Algeria. Il capo della campagna elettorale di Benflis nella regione della Cabilia, roccaforte delle contestazioni, si è dovuto dimettere su pressione dei familiari, per il timore di tumulti.

LE PIAZZE SEMI VUOTE PER L’EX PLURI MINISTRO

Abdelmadjid Tebboune, classe 1945, ex premier ed ex ministro praticamente di tutto, in politica dal 1975 e parente di Bouteflika, è il prediletto di Salah. E non lo aiuta: Tebboune ha dovuto cancellare il primo raduno perché la piazza era semi vuota, anche il suo manager ha mollato l’incarico.

L’ISLAMISTA MODERATO PRESO A UOVA E POMODORI

Peggio ancora è andata al candidato islamista Abdelkader Bengrina, un moderato intenzionato a rappresentare l’hirak. Meno organico, ma anche lui ex ministro, sebbene più di 20 anni fa, di un governo Bouteflika. Bengrina, 57 anni, ha promesso aiuti alle donne single e si era messo ad arringare sul cambiamento dalla piazza di Algeri delle proteste. Ma è dovuto scappare in auto, preso a uova e pomodori dai dimostranti che non lo ritengono una degna opposizione.

NON CONVINCE L’EX TITOLARE DELLA CULTURA

Alla vigilia del voto anche il Movimento della società per la pace, la maggiore rappresentanza degli islamisti nell’Algeria, ha preso le distanze da «tutti i candidati», appoggiando in linea di principio le Presidenziali ma «non in queste circostanze, senza consenso». Allo stesso modo, non convince l’ex ministro della Cultura Azzedine Mihoubi, 60 anni, già sottosegretario alla comunicazione, leader del Raggruppamento democratico nazionale (Rdn) alleato del Fln.

Algeria presidenziali proteste Bouteflika
Militari in pensione governativi manifestano ad Algeri per le Presidenziali del 2019. (Getty)

CAMPAGNA CONSIDERATA UNO SPRECO DI DENARO

Né si salva Abdelaziz Belaïd, 56enne leader del Fronte del futuro, piccolo partito considerato di sponda tattica del pouvoir. E certo Belaïd, che all’hirak assicura lotta alla corruzione, lo è stato di Bouteflika, come Benflis, alle passate Presidenziali. La società civile algerina è giovane, ostinatamente pacifica e molto consapevole dello status quo: considera la campagna «uno spreco di denaro» da parte di chi «non si è fatto ancora carico delle richieste popolari», cioè di un «vero ricambio», precondizione per «elezioni trasparenti e sane».

AI MANIFESTANTI PERÒ MANCA UN LEADER

Alle masse di manifestanti mancano però dei leader politici nuovi e preparati: dall’indipendenza il partito unico del Fln ha soffocato la fondazione di altri partiti che non fossero collaterali e funzionali al sistema. Agonizzante, come il malato Bouteflika, ma pronto anche alle Presidenziali del 2019 a giocare la carta della paura.

L’ESERCITO RESTA ARBITRO: E LA DEMOCRAZIA DOV’È?

Il potere fa leva sul bisogno di stabilità degli algerini. Si pone come rimedio al caos, lascia filtrare il rischio di disordini il giorno del voto, e intanto manda in piazza i supporter governativi. Le Presidenziali decise dal generale Salah, vice ministro della Difesa, 80enne, sono un banco di prova anche per la tenuta dell’hirak, forte ad aggirare le trappole ma continuamente insidiato. Finché l’esercito resterà arbitro autoritario della “transizione” non ci sarà democrazia in Algeria: gli arresti di questi mesi sono trasversali. Colpiscono imprenditori e funzionari corrotti del pouvoir, con retate a effetto, come esponenti della sinistra all’opposizione e dimostranti berberi per «attentato alla nazione». I cortei sono tollerati, ma i giornalisti intimiditi. I magistrati protestano contro le ingerenze, ma parte di loro sono complici. E se il voto boicottato per il presidente sarà un flop, per il pouvoir c’è sempre il secondo turno.

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Germania, la nuova Spd contro l’establishment di Merkel

L’ala giovanile Jusos dietro i nuovi leader dei socialdemocratici Esken e Walter-Borjan. Via austerity e pareggio di bilancio, bene comune e lavoro i cardini. Ma serve un compromesso per governare con la cancelliera fino al 2021.

Vorwärts, avanti. La marcia della Spd targata Norbert Walter-Borjans e Saskia Esken è a «sinistra, come si deve». Verso il futuro, perché l’appoggio decisivo ai due nuovi leader del partito arriva dagli Jusos, l’ala giovanile dei socialdemocratici tedeschi che nel 2017,  sotto elezioni, organizzò un rumoroso tour contro una nuova grande coalizione con Angela Merkel. La ragion di stato, e dell’establishment della Spd, prevalse. Ma da allora il cuore della socialdemocrazia europea ha continuato a perdere colpi per il compromesso, precipitando sotto il 15% dei consensi. Fino al prevalere delle retrovie di sinistra, alla fine di un lungo percorso delle primarie tra gli iscritti che ha investito di oneri e onori il duo  Esken e Walter-Borjans. Un capolavoro politico, per molti in Germania, del leader degli Jusos Kevin Kühnert, volto fresco e carismatico e politico incisivo. Il vero nuovo della Spd, l’uomo che ha in mano le chiavi del partito.

Germania Spd nuovi leader sinistra
Il leader dell’ala giovanile dei socialdemocratici (Jusos) Kevin Kuehnert, sponsor e architetto della nuova leadership. ANSA.

STOP A NEOLIBERISMO E AUSTERITY

In questi mesi il 30enne berlinese ha disseminato interviste e apparizioni in tivù. Incontri, dibattiti, strette di mano e rassicurazioni. La base ha votato poi la sua linea, incarnata come per magia dagli esponenti della Spd da sempre meno in vista e più a sinistra. Come lo era una volta l’ex presidente, prima leader donna dei socialdemocratici, Andrea Nahles, dimissionaria a giugno dopo le brucianti sconfitte alle Regionali. Al contrario di Nahles, Walter-Borjans ed Esken hanno sempre rigettato le politiche annacquate dell’Agenda 2010, fuori da ogni incarico di governo. Fedeli alla linea anti-neoliberista, abbracciata dalla sezione giovanile e dalla maggioranza degli elettori Spd. Walter-Borjans, 67 anni, economista ed ex ministro delle Finanze del Nord Reno-Westfalia, il fortino rosso dove è cresciuto da figlio di un carpentiere, al Congresso ha attaccato senza peli sulla lingua l’austerity di Wolfgang Schäuble, a lungo numero due (per qualcuno numero uno) dei governi Merkel.

Standard svedesi per il mercato del lavoro tedesco: salario minimo a 12 euro l’ora

Saskia Esken (Spd)

VIA IL PAREGGIO DI BILANCIO

La Spd ne è stata complice nella penultima grande coalizione del 2013. Ancora con il socialdemocratico Olaf Scholz alle Finanze, al posto di Schäuble, le cose non vanno. «Serve un’offensiva sociale per l’Europa e i conservatori non la vogliono», ha scandito il Robin Hood dei contribuenti, hanno ribattezzato Walter-Borjans in Germania, «pareggio di bilancio e stop a debito pubblico devono saltare se vanno contro al futuro dei nostri figli». Esken gli ha fatto eco, rilanciando il salario minimo a 12 euro all’ora, «standard svedesi per il mercato del lavoro tedesco». Lontani ancora soprattutto nell’Est (capitale inclusa), dove il divario salariale e dei contratti di lavoro con la vecchia Germania Ovest resta considerevole. Ma anche tra i giovani tedeschi pesano le tutele ridotte rispetto alla generazione dei genitori. A maggior ragione con i tagli in vista di migliaia di posti di lavoro per la frenata dell’economia e per l’informatizzazione, «è tempo di cambiare politiche del lavoro».  

Germania Spd nuovi leader sinistra
Saskia Esken e Norbert Walter-Borjans, nuovi leader dei socialdemocratici tedeschi. ANSA.

BENE COMUNE CARDINE DELLA SPD

Esken, 58 annui, rossa deputata di un Land da sempre conservatore come Merkel, resta «scettica sul futuro della Grande coalizione». Con il braccio destro Walter-Borjans non è perentoria: «Compromessi sono possibili» anzi «realistici», a patto di «non cambiare opinioni per disciplina verso la Grande coalizione». È quanto, messo alle strette, predica anche il giovane Kühnert, «la testa dietro il successo elettorale di Esken e Walter-Borjans» commenta anche der Spiegel: «Critico della grande coalizione, ma per restare nell’esecutivo». Più facile a dire che a farsi influenzare, da minoranza decisiva nel governo, la maggioranza di Merkel. Nessuno ce l’ha ancora fatta. Nonostante la consunzione della Cdu-Csu, la Spd si è imposta come sinistra di opposizione e di governo. La precondizione degli Jusos per non rompere le larghe intese è che il «bene comune» torni cardine della Spd: «Via la logica di Scholz, più Mitgefühl». Solidarietà, empatia per i bisogni sociali.

La nuova Spd conta di tenere botta fino alle Legislative del 2021, quando Merkel se ne andrà

DUE ANNI PER RICOSTRUIRSI

Così deve parlare un partito di massa di sinistra, anche per riconquistare elettori. Spira un vento nuovo, dalla platea del Congresso è un’ovazione per i favoriti di Kühnert. Esken è passata con il 76%, Walter-Borjans con l’89%, più del 66% di Nahles nel 2018. Mentre Kühnert è il lizza per la vicepresidenza della Spd. L’entusiasmo è segnale positivo, ma anche Martin Schulz fu eletto a maggioranza bulgara nel 2017: il 100% e poi fuori un anno dopo. Come Nahles, uno stillicidio. Non è però un’allegria di naufragi: la nuova leadership conta, probabilmente, di tenere botta fino alle Legislative del 2021, quando Merkel se ne andrà. L’orizzonte temporale non è dilatato, può permettere di evitare il voto nazionale anticipato senza sconfessarsi. In due anni la Spd può riprendere fiato e ricostruirsi un po’, passate le burrasche del 2019 delle Regionali e delle Europee. Sempre che il cambiamento non sia, come spesso ultimamente, più rapido di ogni previsione.

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Gli ultraconservatori cavalcano le proteste in Iran

I riformisti mollano Rohani dopo la repressione. E l'ala più oltranzista guadagna forza in vista delle Legislative a febbraio. Così l'autoritarismo vince sulle democrazie.

Non è secondario che nell’Iran sciita si voti a febbraio del 2020 per rinnovare il parlamento. Nella Repubblica islamica sono state appena stroncate le proteste di massa più grandi e violente del 1979: dalle testimonianze sfuggite al blocco della censura, centinaia di morti in pochi giorni, più delle circa 70 vittime (in 10 mesi) ricostruite nell’Onda verde del 2009. Migliaia gli arresti ammessi dalle autorità, chi ha mobilitato i cortei e dei loro famigliari sarebbero prelevati dalle forze di sicurezza dalle case porta a porta. Mentre in Iraq rivolte sanguinose scuotono santuari islamici come Najaf, a larga maggioranza sciita e storica influenza iraniana. Il Medio Oriente sciita, 40 anni fa mobilitato e tradito negli ideali democratici da Khomeini, tenta di rovesciare i regimi e i governi corrotti. Ma anche stavolta la repressione rafforza gli ultraconservatori in Iran e i militari iraniani approfittano delle turbolenze nell’area mediorientale. 

LA GRANDE MACCHIA DI ROHANI

Hassan Rohani è presidente dal 2013, grazie al consenso popolare degli alleati riformisti con i leader agli arresti domiciliari dalle proteste del Movimento verde contro il governo Ahmadinejad.  L’avvitamento economico – per le durissime sanzioni americane di Donald Trump – aggrava la crisi finanziaria di mese in mese, alimentando le contestazioni: già di per sé un guaio per lo schieramento di Rohani. I morti, i feriti, gli arresti e l’oscuramento per giorni di Internet e delle reti telefoniche (quest’ultimo disposto proprio da Rohani, si è scritto, in capo al Consiglio nazionale di sicurezza) macchiano il suo governo più del governo Ahmadinejad. Fuori dall’Iran nessuno sa quello che è davvero successo durante i disordini di metà novembre, alcuni racconti raccolti dalle Ong sono sconvolgenti. Ma a Teheran, a proposito di Legislative, ne ha un’idea anche qualche parlamentare. In una mozione urgente si chiede una commissione d’inchiesta sulle uccisioni e sugli arresti. 

Iran rivolte Iraq guerra pasdaran
Le rivolte nella città santa sciita di Najaf, in Iraq. GETTY.

MOUSAVI CONTRO KHAMENEI

Rohani sta perdendo tutti i voti dei riformisti. Il leader dell’Onda verde Mir Hossein Mousavi, costretto a casa con la moglie dal 2011, raramente parla in pubblico anche se da quest’anno gli è stato dato un cellulare e può guardare alcuni canali tivù. Ma quest’autunno ha fatto uscire su Internet frasi lapidarie contro la guida suprema iraniana Ali Khamenei: «Nel 1978 gli assassini erano i rappresentanti e gli agenti di un regime non religioso, mentre i cecchini del novembre 2019 sono i rappresentanti di un governo religioso. Allora il comandante in capo era lo scià, oggi è la guida suprema che ha autorità assoluta». Dal Majlis, il parlamento iraniano, la deputata riformista Parvaneh Salahshouri ha denunciato vittime adolescenti tra i morti nelle ultime proteste. E chiede sia fatta luce «sulle notizie unilaterali e umilianti diffuse dalla tivù sui manifestanti, arrabbiati e frustrati da numerosi problemi economici». Sulle reti di Stato le autorità hanno ammesso «spari ai teppisti facinorosi».

Il caos irradiato dalla rabbia delle popolazioni moltiplica i presidi dei pasdaran anche in Iraq

VOTO BOICOTTATO A FEBBRAIO

Le masse sono pronte a disertare il voto il 21 febbraio. Un boicottaggio che farà vincere gli ultraconservatori, i referenti politici dell’apparato di sicurezza in testa alla repressione. In prospettiva anche alle Presidenziali del 2021. Tanto più che a Rohani l’opposizione rinfaccia da sempre l’accordo sul nucleare con gli Usa, affossato da Trump ma mai decollato neanche con Barack Obama a livello economico. Mentre il caos irradiato dalla rabbia delle popolazioni moltiplica i presidi dei pasdaran iraniani anche in Iraq: dalle informazioni dell’intelligence americana le forze all’estero dei guardiani della rivoluzione di Khamenei hanno trasportato un arsenale di missili balistici in Iraq, approfittando della confusione e dei rinforzi chiesti dal governo amico di Baghdad. L’effetto paradossale della guerra americana a Saddam Hussein è stata, come per le sanzioni di Trump agli ayatollah, la penetrazione politica e militare dell’Iran nell’Iraq. Come già in Libano e in Siria.

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Paramilitari sciiti in Iraq, alle porte di Mosul. GETTY.

L’ARSENALE DI MISSILI IN IRAQ

Dal 2003 le milizie sciite irachene (cosiddette Forze di mobilitazione popolare) dei cecchini che sparano sui manifestanti sono state costruite e armate dai pasdaran. Mentre i marines addestravano l’esercito iracheno depurato dai quadri di Saddam Hussein, i governi filosciiti che si sono succeduti a Baghdad – pilotati dagli americani quanto dall’Iran – permettevano la proliferazione di paramilitari che sta prendendo il sopravvento. In Iraq i miliziani sciiti controllano strade, ponti, infrastrutture. Dove nell’ultimo anno, a un ritmo crescente, avrebbero fatto passare in segreto missili iraniani a medio raggio (circa 1000 km) che possono raggiungere Israele. O colpire i contingenti americani nel Paese, come i cinque razzi piovuti sulla base Usa di Ayn al Asad con oltre la metà dei marines in Iraq. Armi balistiche sofisticate, capaci di cambiare traiettoria e di sviare gli scudi aerei. Come è avvenuto lo scorso settembre con l’attacco alle raffinerie saudite.

Il ministero dell’Interno iraniano ha citato disordini in 29 province su 31 del Paese, inclusa la città santa di Mashad

LE RIVOLTE NELLE CITTÀ SCIITE

Un missile, per l’intelligence Usa, partito dall’Iran e virato poi a Nord sul Golfo persico. Per i fortini in Libano, Siria e Iraq, e per sempre nuovi e potenti armamenti, la Repubblica islamica investe miliardi dai budget statali prosciugati dal blocco dell’export e dall’inflazione rampante. In Iraq mancano i servizi e il territorio, da Nord a Sud, è devastato da attentati e guerre. Le proxy war in Medio Oriente dell’Iran logorano milioni di civili. Il ministero dell’Interno iraniano ha citato disordini in 29 province su 31, inclusa la città santa di Mashad. In Iraq si sono rivoltati i santuari dei pellegrinaggi sciiti di Kerbala e Najaf: un duro colpo, il doppio assalto al consolato iraniano di Najaf è un attacco anche simbolico dal cuore degli sciiti. Non a caso, a parole in Iraq i religiosi sciiti si schierano «contro la corruzione» con  i manifestanti. Ma a maggior ragione l’Iran aumenta i presidi militari e anche di religiosi in Iraq. E come in Siria, è ancora l’autoritarismo a vincere.

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La riforma del Mes e l’unione bancaria viste da Berlino

Scholz, vice di Merkel, ha un piano soft per assicurare i risparmi nell’Ue. Anche attraverso il fondo Salva-Stati. Ma restano le resistenze della Bundesbank. E, sullo sfondo, aleggia la crisi della Grande Coalizione. L'analisi.

L’Italia è il secondo Paese con il debito pubblico più alto dell‘Eurozona dopo la Grecia. Ma è anche la terza potenza dell’area dopo la Germania e la Francia.

Su questa contrapposizione si basa la dialettica tra il ministro delle Finanze italiano Roberto Gualtieri e l’omologo tedesco Olaf Scholz. Appendice della battaglia che sta portando avanti il nostro Paese per strappare più concessioni possibili sul Fondo salva-Stati Ue (il Meccanismo europeo di stabilità, Mes), come parte della riforma complessiva dell’Unione economica e monetaria per un’unione bancaria tra i gli Stati membri.

Il premier Giuseppe Conte c’è, la cancelliera Angela Merkel all’apparenza molto meno. Preferisce stare dietro le quinte, disposta molto più di anni fa a sostanziali compromessi. Ma solo se costretta e soprattutto senza darlo a vedere, per non scatenare un vespaio.

IL SILENZIO DI MERKEL

In un mese Merkel non si è espressa sulla proposta di unione bancaria del suo ministro e vice socialdemocratico Scholz, che in Italia ha fatto sollevare i vertici di Bankitalia e di Palazzo Chigi. Ma che in Germania non è mai diventata oggetto di dibattito tra i conservatori (Cdu-Csu) e i socialdemocratici (Spd) della Grande coalizione. Si attendeva, e non a torto, l’esito della consultazione tra gli iscritti del partito socialdemocratico per la nuova leadership. Al primo turno era prevalso proprio il vice-cancelliere che, anche per accendere i riflettori su di sé, con un editoriale sul Financial Times aveva presentato la proposta di unione bancaria come un modo «per sbloccare lo stallo che si ripercuote sul mercato interno e sulla fiducia dei cittadini europei». Scholz, ex ministro del Lavoro del Merkel II e sindaco di Amburgo fino alla seconda chiamata a Berlino nel 2018, tra i più borghesi e competenti della Spd, sperava di dare così prova di leadership. Aumentando sia il suo consenso interno e sia la visibilità nell’Ue.

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Angela Merkel (Cdu) con il vice cancelliere Olaf Scholz (Getty).

GLI IMPRONUNCIABILI EUROBOND

Il ricambio all’Europarlamento e a Bruxelles – determinato dal sì di Merkel al presidente francese Emmanuel Macron – permetteva a Scholz di distanziarsi dalla rigida austerity del predecessore Wolfgang Schäuble. Nell’Ue c’erano, e ci sono, i margini per compiere dei progressi. La Francia e la Commissione Ue guardano con favore all’iniziativa del ministro tedesco, sebbene il vice di Merkel non possa permettersi (né probabilmente neanche la vorrebbe) la parola eurobond – da sempre amata dall’Italia – per lo stesso motivo per il quale la cancelliera resta così cauta. Il silenzio della Germania è dovuto però a ragioni opposte rispetto a quelle che hanno scatenato il frastuono dell’Italia su Mes e unione bancaria all’Eurogruppo del 4 dicembre a cui seguirà il Consiglio europeo del 12. Il cuore finanziario protezionista della Bundesbank rema contro, come i Paesi nordici e il blocco sovranista dell’Est, anche alla proposta ponderata di Scholz, ben accolta invece a sorpresa da parte delle banche tedesche.

UN’ASSICURAZIONE DELL’UE CONTRO L’INSOLVENZA

La cancelliera deve fronteggiare il dissenso dei bavaresi (Csu) e di frange più a destra della Cdu. Ma a maggior ragione in queste settimane l’Italia può spingere l’acceleratore sulle sue pretese, di fronte a una Germania indebolita dalla frenata economica e da una Grande coalizione tornata molto fragile. La linea moderata di Scholz è sconfessata dalla maggioranza degli iscritti ai socialdemocratici, che gli ha preferito Saskia Esken e Norbert Walter-Borjans, il duo dell’ala più solidale e comunarda, probabilmente anche più favorevole agli eurobond per spalmare i debiti dell’Ue. Il vice-cancelliere, visibilmente deluso, partecipa all’Eurogruppo fresco di sconfitta mentre il quarto governo Merkel traballa: il progetto di rilancio della Spd a sua immagine è fallito. Ma se non altro l’intenzione di «riattivare un dibattito morto» nell’Ue ha avuto successo: la sua proposta di creare un sistema comunitario di assicurazione sui depositi, anche attraverso il paracadute del fondo Salva-Stati europeo, per integrare il settore finanziario dell’Eurozona a tutela dei risparmiatori degli istituti insolventi, ha un senso per tutti i 19 Stati nell’euro.

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Il premier italiano Giuseppe Conte con il ministro delle Finanze Roberto Gualtieri (Getty).

UN’UNIONE A IMMAGINE DELLA GERMANIA?

Ma è da evitare che con l’unione bancaria si ripetano i soliti squilibri dell’euro a vantaggio della Germania, per i rapporti di forza che hanno prodotto anche i vincoli del Mes attuale, in vigore dal 2012 e figlio dell’austerity di Schäuble. Scholz non è così fiscale, vuole mitigare: «Accettare un meccanismo comune di assicurazione dei depositi non è un piccolo passo per un ministro delle Finanze tedesco», ha scritto pensando a un sistema di riassicurazione che aiuterebbe i fondi nazionali a coprire i risparmi bancari fino a 100 mila euro. Il contraltare dell’unione bancaria sarebbe valutare i titoli di Stato in base al loro fattore di rischio, impiccando l’Italia (con un debito pubblico pari al 138% del Pil) e gli altri Stati dell’Eurozona esposti sui Btp come la Spagna. Allora sì, costretti a interventi di salvataggio del Mes. Comprensibile che il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco e Gualtieri siano inorriditi di fronte alla prospettiva di un possibile scaricabarile a Bruxelles sui bond statali, dati in pasto allo spread assieme alle banche italiane che ne sono piene. 

IL NODO DEUTSCHE BANK

Va poi capito quanto bisogno abbia ora anche la Germania di un’unione bancaria. Prima della crisi di Deutsche Bank e del calo interno di produzione a causa dei dazi degli Usa all’Ue e alla Cina, i fortini finanziari di Francoforte dietro i governi di Berlino respingevano piani europei che esponessero i contribuenti tedeschi ad alleggerire i crac in altri Paesi. Abbattere le barriere nazionali – con particolari garanzie – faciliterebbe però di questi tempi la fusione tra Deutsche Bank e Commerzbank, fallita per il rischio che il secondo gigante tedesco affondasse sotto il peso del primo. Tra le precondizioni per l’unione bancaria, nella proposta di Scholz non si accenna alle masse di derivati presenti in gruppi come Deutsche Bank. Mentre si chiede per esempio di ridurre sotto il 5% dei crediti totali i crediti inesigibili che affliggono gli istituti italiani in sofferenza. Non c’è da stupirsi se le reazioni della finanza su Scholz riflettono gli interessi in gioco: per Deutsche Bank «carte molto benvenute», per Commerzbank un’unione che «rafforzerebbe l’Europa». Gruppi tedeschi più sani sono molto più prudenti.

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