Così i prezzi alle stelle delle case nelle metropoli hanno trasformato la scena musicale: il racconto della settimana

Nell’ultimo mese mi è capitato di entrare due volte in una famosa libreria in centro a Milano che per i nostalgici dei pomeriggi di una volta era tappa fissa anche per l’approvvigionamento di musica tra dischi, spartiti, pianoforti e chitarre elettriche dai colori sgargianti. La prima volta in diffusione suonava l’ultimo album dei Rolling Stones, Hackney Diamond, e una parete vicino all’entrata era interamente dedicata alla band con in esposizione una sfilza di vinili, cd e libri con in copertina le facce di Keith Richards, di Mick Jagger and company. La seconda volta, tre settimane più tardi, la stessa parete era stata riempita con album dei Beatles, in occasione dell’uscita di Now and Then (la nuova canzone della resuscitata band di Liverpool ottenuta anche grazie al lavoro dell’intelligenza artificiale), e in diffusione suonavano uno dopo l’altro i brani del Red e del Blue Album, le due celebri raccolte, recentemente ridate alle stampe in una nuovissima riedizione extralarge, pubblicate 50 anni fa che in realtà s’intitolavano 1962-1966 e 1967-1970. Considerate da tutti, probabilmente, i due più significativi greatest hits di tutta la storia della musica.

«Quando vedi nel Village al posto di un liutaio che vendeva le chitarre a Keith Richards, a Eric Clapton, a Jimi Hendrix, un negozio di Manolo che vende scarpe di merda, capisci dove siamo arrivati. E questo influisce in maniera determinante sulla creatività delle persone anche nella musica»

Vinili, Beatles e Stones, le loro canzoni in diffusione nei negozi, la gente in fila alle casse con i loro dischi sottobraccio: di colpo sembrava di essere stati catapultati in un pomeriggio degli Anni 60. Passano due giorni e sull’iPhone mi arrivano due whatsapp di Seriosound, il ragazzo che per anni è stato il terzo componente della band di PopUp, nonché insostituibile regista della trasmissione, che mi segnala due strepitosi live in programma nei prossimi mesi a Milano: quello di Kruder & Dorfmeister da Base a dicembre e quello degli Air che rifaranno dopo 25 anni Moon Safari al Fabrique a febbraio. Che dire? Per quanto riguarda Kruder & Dorfmeister basta sottolineare che il loro triplo album in compact disc, K&D Sessions, quando uscì negli Anni 90 divenne un vero e proprio oggetto di culto che ha venduto più di un milione di copie nel mondo. Un disco pazzesco zeppo di infinite contaminazioni che vanno dal funk al jazz, dall’house all’hip hop, con l’aggiunta di inserti dub, reggae, ambient e fusion, brasiliana. Su Moon Safari ogni commento ancora oggi appare superfluo, perché fu il disco, quando uscì nel 1998, che trasformò un semisconosciuto duo di musica elettronica francese in autentiche star, una versione 2.0 dei Velvet Underground. Dolce eppure terribilmente intossicante come una dose di morfina. Sul finire degli Anni 90, era tutta una questione di beat, e sicuramente sia i viennesi K&D, che il duo nato alla corte di Versailles, Nicolas Godin e Jean-Benoit Dunckel (che si fecero chiamare appunto Air in onore del grande architetto svizzero Le Corbusier) furono tra i maggiori esponenti di quella scena che compì nel mondo della musica un vero e proprio golpe rivoluzionando tutto e dando una nuova vita alla musica da dancefloor.

«Beatles, Stones, Air, Kruder & Dorfmeister… perché nella musica c’è questo continuo e reiterato ritorno al passato?», domando, seduto al bar del Palace in Piazza della Repubblica, inviato dal Messaggero, per intervistare un tizio che nella New York degli Anni 80 e 90 da corrispondente Rai ha dato del tu a tutte le leggende del rock in circolazione. «È soprattuto un problema sociale», mi risponde, «perché un tempo le città, come New York ad esempio, erano un formidabile crogiolo di persone e idee. Oggi è cambiato tutto e le grandi metropoli, innanzitutto per i prezzi delle case che sono saliti alle stelle, non sono più luoghi dove si vive, al massimo sono diventati posti dove ci si incontra. Quando vedi nel Village al posto di un liutaio che vendeva le chitarre a Keith Richards, a Eric Clapton, a Jimi Hendrix, un negozio di Manolo che vende scarpe di merda, capisci dove siamo arrivati. E questo influisce in maniera determinante sulla creatività delle persone anche nella musica».

Probabilmente, la soluzione per ricominciare a progredire e abbandonare il passato è questa: perdersi completamente, annullare la forza di gravità e ricominciare a inseguire una farfalla in giardino

Mezz’ora più tardi mentre slego la mia bici da un palo davanti all’hotel, stretto nella mia giacca di velluto con le mie college ai piedi, e rifletto sulle sue parole il sole sta tramontando su Piazza della Repubblica. La risposta a questo problema forse l’ha data Andre 3000, ex componente degli Outkast, che dopo 17 anni di silenzio è tornato con un nuovo album, New Blue Sun, un disco completamente strumentale di jazz sperimentale, composto con Carlos Nino nei seminterrati di Los Angeles. «Quando ho fatto ascoltare i nuovi brani ad alcuni colleghi più giovani, come Tyler the Creator e Frank Ocean, che probabilmente si aspettavano da me un disco rap, Tyler mi ha detto: “Ascoltando questo pezzo ho avuto la sensazione che tu stessi inseguendo una farfalla in giardino”». E infatti, probabilmente, la soluzione per ricominciare a progredire e abbandonare il passato è questa: perdersi completamente, annullare la forza di gravità e ricominciare a inseguire la nostra personale farfalla.

La mia maturità, Dumbo e i dj set: il racconto della settimana

Dato che ormai a mettere i dischi ci sto prendendo sempre più gusto ho accettato l’invito dei regaZ di Upcycle, un locale dal sapore nordico dalle parti di via Ampére frequentato per lo più da realtà vicine al mondo della bicicletta milanese, che per l’occasione hanno chiuso la strada e organizzato una mega festa per festeggiare i loro 10 anni. Per cui eccomi qui in veste di disc-jockey dell’apocalisse, che tra l’altro è il ruolo che preferisco recitare in assoluto, con l’iPad poggiato su una cargo bike adibita a consolle, mentre scorro le varie playlist che mi sono diligentemente preparato per questo lunghissimo dj-set di oltre sei ore che comprende tutta la musica immaginabile e partendo da roba ultra radiofonica estiva passa dal jazz dal funk e dall’hip-hop, si ferma dalle parti del rock e del punk, e si conclude con dell’elettronica ballabilissima con cui intendo mandare tutti fuori di testa. Abbastanza sodisfatto del lavoro svolto tra le mure domestiche penso a quanto scritto da Claudio Coccoluto nel suo mitico libro, Io, Dj, all’interno del quale sosteneva che la serata non la fai dietro la consolle ma a casa, mentre prepari la borsa dei dischi, il che equivale oggi a prepararsi preventivamente delle playlist esattamente come ho fatto io. In definitiva è tutto un grande successo, un sacco di gente viene a salutarmi e sono come al solito strette di mano, abbracci, pacche sulle spalle e bacibacini, anche con il sindaco che oltretutto avevo intervistato diverse volte ai tempi di Radio Pop, accolto in pompa magna e ospite d’onore dell’evento.

Mettere la musica in strada è diverso dal farlo in qualche club o in qualche locale, devi essere molto bravo ad accontentare tutti e spaziare a 360 gradi. Da quello che vedo, tra le bariste che lanciano ululati di approvazione e un gruppo di ragazze che hanno già intasato la pista vestite solamente con bikini alla brasiliana e stivali alla moschettiera, tutto sta filando per il verso giusto. Tutto, se non fosse che a un certo punto ho incontrato una mia ex collega che mi ha fatto talmente innervosire con la sua faccia di cazzo che se non fosse stata una ragazza le avrei tirato una testata. «Ma lavori ancora alla Belle Aurore? E Ofelia è ancora al Polpetta DOC?», mi ha chiesto ridendomi in faccia. «Sì, cogliona», le ho risposto, «e non vedo che cazzo ci sia da ridere, sfigata di merda», prima di girarle le spalle e mandarla affanculo. Ultimamente, come dicevo ieri al mio psycho, sono piuttosto nervoso e parecchio suscettibile e forse è questo il motivo per cui la vista di questa troglodita mi ha irritato così tanto. Anche se a dirla tutta, se mi fermo un attimo a osservarmi dall’esterno, con le cuffie in testa, i miei shorts Anni 70 della Nike e la mia t-shirt bianca con sopra scritto DUMBO, sono olfattivamente magnifico, oltreché indiscutibilmente stiloso. E che cazzo!

La faccia più ruvida e indigesta di questo movimento era rappresentata da un manipolo di fuorilegge il cui obiettivo unico era quello di scrivere ovunque il proprio nome, esclusivamente in contesti non consentiti, quindi illegali, in modo che lo potessero leggere il maggior numero di persone possibili. Tra questi il king assoluto era Dumbo

Ed è per questo motivo che anche il giorno dopo al lavoro, dietro al banco del bar, indosso la stessa maglietta con sopra scritto DUMBO e un paio di pantaloni a righe bianche e azzurre del pigiama con dei piccoli Woodstock strafatti disegnati ovunque, portati con nonchalance sotto il grembiule blu dei miei amici OLDER che uso tutti i giorni durante i miei turni all’avamposto chic ma radicale. La tanto citata maglietta è parte di una collezione appena uscita nata da una collabo tra Ivano Atzori aka Dumbo e il marchio Iuter di cui tutti stanno parlando e che è stata presentata ufficialmente domenica scorsa in Piazza Vetra, dove tutto è cominciato, in un magniloquente evento street al cui ho avuto il piacere di partecipare essendo stato invitato da Dumbo in persona. MILANO IMPERFECTA. Per capire cosa significhi esattamente il nome di Dumbo per i ragazzi della mia generazione bisogna fare un salto indietro agli Anni 90, all’epoca della golden age dell’hip-hop italiano e più in particolare del writing milanese. Nel decennio che va dall’1987 al 1998 Milano è stata la indiscussa capitale del writing, unanimemente riconosciuta in ambito italiano come la casa dello stile, o degli stili. La faccia più ruvida e indigesta di questo movimento era rappresentata da un manipolo di fuorilegge il cui obiettivo unico era quello di scrivere ovunque il proprio nome, esclusivamente in contesti non consentiti, quindi illegali, in modo che lo potessero leggere il maggior numero di persone possibili. Tra questi il king assoluto era Dumbo, un essere mitologico, che aveva letteralmente scarabocchiato tutta la città con la sua tag e che qualche curatore, anni dopo, paragonò come importanza per l’immaginario milanese addirittura a Giorgio Armani. Il suo nome era dappertutto, ti giravi e leggevi Dumbo ovunque. In qualsiasi posto, a qualsiasi ora.

La mia maturità, Dumbo e i dj set: il racconto della settimana
Il dj set in piazza Vetra (foto Lorenzo Villa).

Bè, il King è tornato, e me lo trovo davanti in una piccola via dietro Piazza Vetra domenica pomeriggio, appena saltato giù dalla barca a vela, corso in fretta e furia a Milano per non perdermi la presentazione della sua nuova linea di abbigliamento. «Andrea!», mi dice, prima di abbracciarmi, «sono molto contento che tu sia venuto», e così entriamo in piazza assieme, uno di fianco all’altro, mentre mi racconta com’è nata questa idea e i motivi che lo hanno spinto a scegliere Iuter come partner dell’iniziativa. «Tutto è iniziato durante il lockdown, un giorno sono uscito a pranzo con una rockstar, Ghali, che mi ha letteralmente preso a ceffoni risvegliandomi da una specie di torpore. Mi ha guardato in faccia e mi ha detto: “Ivano se non fai qualcosa ora le nuove generazioni non sapranno mai quanto sei stato importante per questa città”. Così ho iniziato a pensare a Milano Imperfecta, e ho trovato Iuter, un brand secondo me che, al pari di Margiela e Commes des Garçon, negli ultimi anni è riuscito ad entrare nel sistema in maniera eversiva con un’attitudine, come puoi immaginare, a me molto cara». «Hai visto quanta gente c’è? Sei contento?», gli ho chiesto poi, prima di salutarlo. «Sì, molto», mi ha risposto, «perché dopo la presentazione della collezione alla stampa e tutta la fatica che ho fatto, adesso, c’è la parte più importante, ovvero l’incontro con la comunità. Spero vengano un sacco di giovani, anche». Tutti tengono in mano lattine di birra con sopra scritto “Loop Vetra”, c’è odore di hashish e marijuana ovunque e sono come di consueto bacibacini, abbracci, strette di mano e pacche sulle spalle, tra art director di agenzie pubblicitarie, ex writer, musicisti seminoti, curatori di gallerie d’arte indipendenti e fotografi di fama mondiale, oltre a stuoli di ragazze ultratatuate con gonne cortissime e sneaker ultracolorate ai piedi. Come ho già scritto da qualche parte ci tenevo parecchio ad essere qui questo pomeriggio perché nonostante il tempo che passa resto molto affezionato a Ivano e a quello che ha rappresentato, come se attraverso la sua storia, in qualche modo, riuscissi ogni volta a entrare in contatto con il me ragazzo.

Ricordo come fosse ieri che provai un sentimento di svuotamento misto a incredulità, più che di gioia. La stessa sensazione che mi prende ancora oggi quando mi capita di passare davanti al Parini e alzare gli occhi verso il terrazzo dal quale telefonai a mia zia quel giorno di mezza estate del 2002

Lo stesso me ragazzo che mi torna in mente, sfogliando i giornali e leggendo i titoli dei temi della maturità, che in questi stessi giorni nell’estate del 2002 sosteneva gli esami al Civico Liceo Serale Gandhi, ospitato nelle aule del prestigioso liceo classico Giuseppe Parini di Milano. Ricordo con esattezza il momento in cui, finiti gli orali, con indosso la mia Fred Perry bordò madida di sudore, uscivo nel terrazzo del Parini affacciato su via Goito e, tremante, telefonavo a mia zia Pia dicendole: «Zia, mi hanno promosso!», concludendo così un infinito e tormentatissimo periodo della durata di otto anni di carriera liceale, durante il quale avevo collezionato quattro bocciature e avevo girato otto istituti venendo quasi sempre cacciato, tra scuole statali, private, diurne e serali. «Ti hanno promosso Frateff», mi disse il professor Bonelli, alla fine degli orali dandomi un buffetto sulla guancia, «ti hanno dato 61, perché sei bravo in italiano». E ricordo come fosse ieri che provai un sentimento di svuotamento misto a incredulità, più che di gioia. La stessa sensazione che mi prende ancora oggi ogni qual volta mi capita di passare davanti al Parini e alzare gli occhi al cielo verso il terrazzo dal quale telefonai a mia zia quel giorno di mezza estate del 2002.

Il disco pieno dell’astro caro ai poeti rischiarava la notte umida di quella notte di mezza estate nella villa sul lago di Varese di uno dei nostri compagni di classe dal quale eravamo andati tutti a festeggiare e io ancora, strafatto come di regola, non potevo credere ai miei occhi. Ricordo che il cuore batteva dispari mentre in un raro sprazzo di lucidità mi rendevo conto che se si voleva andare verso il futuro bisognava accettare che le cose cambiassero rapidamente e senza sosta. Fumammo con il compagno d’attacco Dichio un bong di una sostanza nuova fortemente allucinogena, che nessuno di noi aveva mai provato prima, la Salvia Divinorum e di colpo il mio sbalordimento si trasformò in un nuova forma psichedelica che scambiai per un viatico rivelatore per la condotta di una nuova vita. Avevo un colpo a disposizione, uno solo, per uccidere il demonio che mi rendeva la vita impossibile: andarmene! La mattina dopo presi i biglietti per Londra e qualche giorno dopo all’aeroporto abbracciai, come si fa con le fidanzate, il vecchio compagno d’attacco Dichio: avevamo sperimentato la stessa rabbia e la medesima mancanza, ma ormai quelle ombre di cuccioli doloranti erano svanite. Al loro posto c’erano due giovani di 22 anni che presto avrebbero dovuto fare le loro scelte. Nessuno dei due era stato capace di catturare il vento, ma a forza d’inseguirlo eravamo quasi diventati uomini. Io a Londra in realtà resistetti solo tre mesi. L’anno dopo partì anche il compagno d’attacco, che a Londra ci rimase per oltre un anno. Ma questa è un’altra storia. «Quella tenebra che vediamo davanti a noi ci angoscia, amico», mi disse quel giorno, mentre con la borsa da viaggio Yamaha stavo per imbarcarmi da Malpensa per Heathrow. «Spaventati come siamo rischiamo di scambiarla per la fine. Ma non è così». Poi posò sulla mia guancia un bacio leggero e mi disse: «È solo il futuro che arriva». Lo stesso futuro che mi si para davanti oggi mentre, oltre 20 anni dopo quel giorno, seduto sul ponte in tek di una barca a vela davanti a Portofino, osservo l’orizzonte con su i Ray-Ban per proteggere gli occhi dal sole, scalzo in bermuda, con indosso una t-shirt con sopra scritto a caratteri cubitali:  MILANO IMPERFECTA.

Carrère, Lagioia, Capote: quando la cronaca nera diventa letteratura

«Il giornalismo è letteratura», ha detto Emmanuel Carrère alla presentazione milanese del suo ultimo libro V13 edito da Adelphi. V13 è il nome dato al processo degli attentati del 13 novembre 2015 che sconvolsero Parigi e il mondo intero (130 le vittime, oltre 350 i feriti) che lo scrittore francese ha seguito quasi quotidianamente, per 10 mesi, per Le Nouvel Observateur. Quattordici imputati, 1.800 parti civili, 350 avvocati. Da settembre 2021 a giugno 2022, Carrère ha seguito questo processo fiume seduto su una panca scomoda in un imponente palazzo nel cuore di Parigi, prendendo appunti su un taccuino appoggiato alle ginocchia. Vittime, imputati e corte sono i tre blocchi in cui è diviso il libro che, pagina dopo pagina, si trasforma in un viaggio senza ritorno fatto di orrore, violenza e atrocità. Un lavoro che si differenzia da altri di questo genere anche perché per la prima volta la luce più che sugli assassini è puntata sulle vittime, sui loro familiari e sui sopravvissuti. Un po’ perché gli assassini sono tutti morti e un po’ perché, come ha spiegato lo scrittore, gli imputati del V23 «erano poco interessanti e sostanzialmente un gruppo di idioti».

Carrere, Lagioia, Capote: quando la letteratura incontra la cronaca nera carrere Emmanuel Carrère e V13.

L’Avversario e il processo Romand

In V13 la cronaca, in questo caso giudiziaria, diventa letteratura. Lo stesso Carrère non è nuovo a questo genere di operazione. Ne L’Avversario, pubblicato nel 2000, raccontò il processo a carico di Jean-Claude Romand che nel gennaio del 1993 tentò di suicidarsi dopo aver sterminato moglie, figli e genitori. Le indagini dimostrarono in poco tempo che per quasi 20 anni Romand aveva mentito, facendo credere alla sua famiglia e ai conoscenti di essere medico mentre in realtà aveva lasciato l’università al secondo anno, non aveva un lavoro e trascorreva le giornate vagando per strade, parcheggi e bar a caso. Romand non era un semplice bugiardo, ma un soggetto affetto da mitomania, «una forma di squilibrio psichico caratterizzato da false affermazioni in cui l’autore stesso crede»; patologia che lo aveva trascinato in una spirale di follia. Implacabile riflessione sull’essere e sull’apparire, L’avversario mette il lettore di fronte al proprio lato oscuro, alle proprie piccole mitomanie e menzogne, in uno straziante gioco di specchi. Così una notizia locale di nera acquisisce una dimensione universale.

 

.Carrere, Lagioia, Capote: quando la letteratura incontra la cronaca nera carrere L’Avversario di Emmanuel Carrère.

Capote capostipite del genere con A sangue freddo

Per quanto anche Dostoevskij fosse partito da una notizia di cronaca per Delitto e castigo, ispirandosi alla storia del moscovita Gerasim Chistov che nel gennaio 1865 uccise con un’ascia due anziane, il capostipite di questo genere ibrido – il non fiction-novel – è universalmente riconosciuto essere A sangue freddo di Truman Capote. La vicenda da cui parte lo scrittore statunitense è quella di due assassini che sterminarono una tranquilla famiglia della provincia americana. Capote lesse questa notizia sulla cronaca locale, si fece mandare dal New Yorker come inviato e passò circa sei anni nella scrittura di questo reportage narrativo che, contro tutti i pronostici, fu unanimemente considerato il suo capolavoro. «Molti ritennero che fossi pazzo a sprecare sei anni vagando per le pianure del Kansas; altri respinsero la mia idea del romanzo-verità dichiarandola indegna di uno scrittore ‘serio’; Norman Mailer la definì un ‘fallimento dell’immaginazione’, intendendo, presumo, che un romanziere dovrebbe scrivere cose immaginarie e non cose reali»,raccontò lo stesso Capote.

Il delitto Varani indagato da Nicola Lagioia ne La città dei vivi

Un lavoro simile è stato fatto superbamente anche da Nicola Lagioia nel suo La città dei vivi all’interno del quale viene narrata, alla Capote, l’agghiacciante delitto Varani. In un anonimo appartamento del quartiere Collatino, periferia romana, due ragazzi di buona famiglia, Manuel Foffo e Marco Prato, nel corso di un festino a base di sesso, alcol e droga uccisero dopo averlo seviziato per ore il coetaneo Luca Varani. «Ho trascorso quattro anni in giro per Roma a raccogliere materiale e documenti, ma soprattutto a incontrare gente, a fare domande, ho incontrato gestori di locali, piccoli commercianti, travestiti, spacciatori, senatori, carabinieri, baristi, dentisti, disoccupati, prostituti, educatori, avvocati, magistrati, agenti immobiliari, assicuratori, carrozzieri, ristoratori…», ha raccontato Lagioia, quasi ossessionato da come due ragazzi avessero deciso di rovinarsi completamente la vita senza alcun motivo. Il romanzo si apre con il sangue che cola in una biglietteria del Colosseo. Un inizio da film horror all’interno del quale non c’è nulla di inventato, nemmeno il perenne clima da indulgenza che aleggiava nella Capitale: «Il fatto è che a Roma ognuno fa come cazzo gli pare, pensai. I tifosi del Feyenoord entravano ubriachi nella fontana di Trevi e prendevano a bottigliate la Barcaccia del Bernini, a Villa Borghese i vandali decapitavano le statue dei poeti, grandi buste di immondizia volavano da un palazzo all’altro, tutti pisciavano ovunque, un’indulgenza plenaria era nell’aria, e io stesso, che in un’altra città mi sarei fatto scoppiare la vescica, mi ero trovato più di una volta a inumidire le Mura Mura Serviane».

Editoria italiana, tre libri per scoprirne la storia, i protagonisti e i segreti

Secondo una mitologica statistica in Italia si pubblicano circa 70 mila libri l’anno, otto ogni ora per 365 giorni. Ciò nonostante, un recente sondaggio promosso da Bookseller racconta che più della metà degli autori (54 per cento) ammettono come la pubblicazione del libro d’esordio abbia influito negativamente sulla loro salute mentale. Infine lo scorso inverno Repubblica dedicò la copertina di un numero de Il Venerdì al precariato imperante del lavoro intellettuale, in occasione del centenario dalla nascita «del più precario di tutti, Luciano Bianciardi». Questo in sintesi il panorama del mondo culturale italiano che comprende editori, critici e naturalmente scrittori, seduti allo stesso tavolo e intenti a spartirsi la medesima torta.

Nonostante tutto, il mercato del libro tiene

Nonostante la situazione all’apparenza sembri più da psicanalisi che altro, il mercato del libro continua a crescere o per lo meno a tenere, sia in Europa, dove il settore vale 33 miliardi di euro (il 60 per cento del mercato globale), sia in Italia dove nel 2022 ha toccato i 3,5 miliardi. O perlomeno così dicono i dati dello studio dell’Associazione Italiana Editori (Aie), in collaborazione con Nielsen BookData smentendo il cliché che in Italia «tutti vogliono scrivere ma nessuno legge». Con queste cifre i libri qualcuno dovrà pur comprarli. Ma come funziona in Italia il mondo culturale? Tre testi arrivati da poco sugli scaffali delle librerie lo raccontano concentrandosi sulla storia dell’editoria italiana, sulla genesi della casa editrice più cool in circolazione, e il terzo sondando luci e ombre del premio letterario più importante d’Italia, lo Strega.

Bianciardi e l'arte di diventare intellettuale senza leggere
Luciano Bianciardi.

Alla scoperta della Storia confidenziale dell’editoria italiana

Gian Arturo Ferrari, per gli amici Gianni, per tutti gli altri semplicemente “il professore”, è stato per molto tempo l’uomo più potente, il Darth Vader, dell’editoria italiana. Per più di 10 anni a capo della Mondadori sotto il suo dominio sono stati scoperti autori come Roberto Saviano, Paolo Giordano, Antonio Pennacchi, Salman Rushdie, Dan Brown, Alessandro Piperno e Alessandro D’Avenia. Tanto per citarne alcuni. In Storia confidenziale dell’editoria italiana, edito da Marsilio, Ferrari racconta le avventure umane e culturali degli uomini e delle donne che si sono occupati di scegliere come, quando e quali libri pubblicare, e ricostruisce capitoli di storia editoriale spiegandoci come sono nate, morte e come sono state resuscitate le case editrici, o come, talvolta, si sono divorate tra loro. Seguiremo così le storie dei due grandi “fratelli” dell’editoria italiana, Arnaldo Mondadori e Angelo Rizzoli, nati entrambi poverissimi a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro e diventati due dei personaggi più importanti del panorama culturale del nostro Paese. Ci appassioneremo alle gesta del 20enne Giulio Einaudi che, prima dei tipi di Adelphi, diventò il simbolo di una certa letteratura di qualità e il punto di riferimento per un certo tipo di lettori. Seguiremo il 30enne Valentino Bompiani, lettore colto e curioso, ci immergeremo nel carattere tempestoso di Livio Garzanti e tiferemo per il progetto utopistico dell’editore rivoluzionario Giangiacomo Feltrinelli. Parteciperemo ad aste selvagge a fiere librarie e a dispute legali. «Il lavoro editoriale è un miraggio tremolante», scrive Ferrari, «l’editoria è nella sua essenza un fatto commerciale, comprare e vendere, ma di una specie superiore di commercio».

Editoria italiana, tre libri per scoprirne la storia, i protagonisti e i segreti
Storia confidenziale dell’editoria italiana di Gian Arturo Ferrari, Marsilio.

Le origini di Adelphi e la seduzione del libro

Oltre che una casa editrice Adelphi è un brand, una filosofia in cui da tempo si riconoscono generazioni di lettori che hanno trasformato la creatura di Bobi Bazlen e Roberto Calasso quasi in una religione da venerare. La storia è narrata magistralmente fin dalle origini nel volume intitolato semplicemente Adelphi, scritto da Anna Ferrando ed edito da Carocci. I precetti sono validi ancora oggi: i libri devono essere innanzitutto belli fisicamente, seduttivi, perché in fondo sono oggetti materiali, non puri spiriti. Da qui le copertine color pastello, la grafica ricercata e la trasformazione del prodotto in una sorta di “limited edition” che si fa feticcio, oggetto di culto. Instagrammabili prima di Instagram, sono diventati, come scrive Andrea Minuz sul Foglio, «i Prada dei libri». Soprattutto grazie a Calasso. Il lavoro di Ferrando tuttavia risulta essere particolarmente interessante perché narra l’epopea adelphiana prima di Calasso, puntando la luce soprattutto su Luciano Foà e Bobi Bazlen: «Faremo solo i libri che ci piacciono». Anche oggi, che Calasso Bazlen e Foà non ci sono più, i principi di Adelphi sono rimasti immutati insieme al suo successo. Solo i tipi di Via S. Giovanni sul Muro possono mandare un fisico come Carlo Rovelli in testa alle classifiche di vendita per settimane, valorizzare autori come Emmanuel Carrère o rendere immortali personaggi sconosciuti come Bruce Chatwin o dimenticati come lo stesso Geoges Simenon. D’altronde, per chi aveva sfidato l’opinione pubblica iniziando la propria avventura pubblicando l’opera omnia di Nietzsche, calza a pennello la definizione che proprio Gian Arturo Ferrari nel suo Storia confidenziale dell’editoria italiana sintetizza perfettamente l’intero spirito della casa editrice milanese: «La bussola adelphiana si sta trasformando nella bacchetta del rabdomante».

Editoria italiana, tre libri per scoprirne la storia, i protagonisti e i segreti
Adelphi, di Anna Ferrando (Carocci).

Caccia allo Strega, anatomia di un premio letterario 

Istituito a Roma nel 1947 dalla scrittrice Maria Bellonci e da Guido Alberti, proprietario della casa produttrice del Liquore Strega da cui prende il nome, il Premio Strega è unanimemente considerato il premio letterario più importante e ambito d’Italia. Capace di far decollare una carriera o di dopare sensibilmente le vendite di un titolo, sta alla letteratura come la Champions League sta al calcio. Gianluigi Simonetti, professore di letteratura contemporanea e critico letterario del Sole 24 Ore, nel suo Caccia allo Strega, sposta lo sguardo oltre le dinamiche elettorali e il marketing letterario concentrandosi su un aspetto decisivo: come sono fatti i libri vincitori o selezionati per la celeberrima cinquina? Perché il libro perfetto è stato M di Antonio Scurati? Quali sono i motivi che hanno portato al successo Resistere non serve a niente di Walter Siti? Come fa un’esordiente a vincere Strega e Campiello in un colpo solo e vendere un milione di copie nel suo primo anno di pubblicazione come ha fatto Paolo Giordano con La solitudine dei numeri primi? Esiste veramente una mafia delle case editrici? In cosa lo Strega si differenzia dall’altro prestigioso premio italiano, il Campiello? A tutte queste domande risponde il lavoro di Simonetti. Pur essendo un testo che sembra dedicato solamente agli addetti ai lavori è in grado di raccontare in maniera particolarmente efficace come si è evoluta la storia sociologica del clima culturale italiano.

Editoria italiana, tre libri per scoprirne la storia, i protagonisti e i segreti
Caccia allo Strega di Gianluigi Simonetti (Nottetempo).

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