Il M5s ruba al Pd l’imbarazzante idea della sitcom politica

I senatori Taverna e Castaldi protagonisti di una grottesca messinscena in cui elogiano la manovra fingendosi a Camera Café. Un format mutuato dal Partito democratico. Con gli stessi risultati tragicomici.

Il M5s ha preso in prestito dal suo nuovo alleato di governo, il Pd, un formato di dubbio gusto estetico: la sitcom politico-elettorale. Trattasi di una vera e propria messinscena in cui i politici di turno si improvvisano attori in un siparietto che vorrebbe dare l’illusione dell’autenticità (generando nello spettatore il risultato opposto, oltre che un certo imbarazzo). La clip regalata dal Movimento 5 Stelle agli italiani per Natale vede la vice presidente del Senato Paola Taverna e il sottosegretario per i Rapporti con il parlamento Gianluca Castaldi discutere animatamente delle novità per le famiglie passate con la manovra.

Nel botta e risposta, cui fa da sottofondo un’allegra canzone natalizia, il sottosegretario assume il ruolo dell’ingenuo che si chiede candidamente come mai una legge di Bilancio così perfetta non sia stata votata dall’opposizione. E in particolare dalla «madre del popolo», un chiaro riferimento a Giorgia Meloni. «Quella i soldi ce l’ha, ma che vuoi che ne sappia delle famiglie che non arrivano a fine mese. Altrimenti questa manovra, vedevi come la votava», la risposta della pasionaria pentastellata (che sottintende, tra l’altro, l’idea per cui chi «c’ha i soldi» se ne dovrebbe fregare della famiglie). Il tutto si chiude con risate di dubbia spontaneità e un bicchierino di caffè con la scritta “Parlamento Cafè” e il simbolo del M5s.

L’IDEA MUTUATA DAL PD

L’idea della sitcom come mezzo politico per attaccare un avversario non è però marchio originale Movimento 5 Stelle. I primi ad adottarla nel formato della messinscena erano stati i rappresentanti del Partito democratico nel settembre 2018, quando ancora erano all’opposizione del governo Conte I.

I tre deputati Alessia Rotta, Alessia Morani e Franco Vazio, seduti su un divanetto, si mostrano indignati per una festa del Carroccio a base di porchetta nella sede del Ministero dell’Interno. Anche qui il meccanismo è quello di uno degli attori che finge di chiedere agli altri spiegazioni per un fatto increscioso. Anche qui il risultato era grottesco, ma evidentemente è piaciuto al M5s tanto da replicarlo.

LA CRITICA DI LUCA BIZZARRI

Il tentativo pentastellato di rifarsi a Camera Café è stato subito criticato proprio da uno dei protagonisti della fortunata sitcom, Luca Bizzarri. L’attore ha stroncato su Twitter il video mettendone in luce i difetti. D’altronde ben visibili anche ai non addetti ai lavori.

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Il voto nel Regno Unito e le ricadute sulla Brexit

Il conservatore Johnson favorito: se vince ottenendo la maggioranza assoluta, l'uscita britannica dall'Ue è in discesa. Un (improbabile) successo del laburista Corbyn porterebbe invece a un nuovo referendum. Orari, exit poll, sondaggi e scenari: le cose da sapere.

Il Regno Unito torna al voto due anni e mezzo dopo le elezioni politiche del giugno 2017 per quello che a tutti gli effetti è un secondo referendum sulla Brexit. Il 12 dicembre 2019, a seconda delle preferenze destinate ai diversi partiti, i cittadini britannici devono decidere se e quanto velocemente uscire dall’Unione europea (addio in programma il 31 gennaio 2020 dopo l’ennesimo rinvio).

EXIT POLL E POI RISULTATI PARZIALI

Le urne sono aperte dalle 7 alle 22 locali (dalle 8 alle 23 in Italia). Alla chiusura sono previsti exit poll per le prime indicazioni e due ore dopo i primi risultati parziali. Per la prima mattinata di venerdì 13 è atteso il responso: chi ha vinto e chi ha perso.

PERCHÉ SI VOTA ORA: UNA FORZATURA DOPO LO STALLO

Dopo anni di estenuante e inconcludente battaglia in parlamento e all’interno del partito conservatore al governo, nel luglio 2019 l’ex premier Theresa May ha dovuto lasciare il testimone al compagno di partito Boris Johnson (fin dal referendum del 2016 un convinto sostenitore della Brexit). Nei mesi successivi, tuttavia, il nuovo primo ministro ha subito una rivolta interna dei Tory più europeisti fino a perdere la maggioranza a Westminster, rendendo lettera morta il nuovo accordo che era riuscito a negoziare con Bruxelles. Convinto di poter ottenere una solida maggioranza per far passare il suo accordo, a fine ottobre ha forzato la mano della Camera bassa riuscendo a far indire le elezioni anticipate il 12 dicembre.

SE JOHNSON HA LA MAGGIORANZA ASSOLUTA: USCITA IN DISCESA

Per vincere (e onorare la promessa di attuare subito la Brexit), Johnson ha bisogno di assicurarsi una maggioranza assoluta di seggi (326 su 650) nella nuova Camera dei Comuni. Se questo si dovesse verificare, il premier potrebbe far passare in parlamento l’accordo che ha già raggiunto con l’Ue e far uscire definitivamente il Regno Unito dall’Unione entro la fine di gennaio. A quel punto inizierebbe una fase di contrattazioni tra Londra e Bruxelles per stabilire i dettagli commerciali e legali del divorzio. Questa seconda fase di transizione durerebbe fino alla fine del 2020, e Johnson ha promesso che non vuole prorogarla.

SENZA MAGGIORANZA ASSOLUTA: DIMISSIONI O ALLEANZE

Se i Tory non riuscissero a ottenere la maggioranza assoluta, Johnson potrebbe dimettersi o cercare di formare un nuovo governo alleandosi con altri partiti (al momento i conservatori non hanno alleati “naturali” su cui contare). Nel caso Johnson si dovesse dimettere, il tentativo di formare un esecutivo passerebbe al leader del Labour Jeremy Corbyn, il quale potrebbe portare dalla sua i LibDem e/o il Partito scozzese. Se dovesse riuscire a entrare a Downing Street, Corbyn avvierebbe negoziati con Bruxelles per arrivare a un nuovo accordo sulla Brexit. In ogni caso, ha promesso, l’ultima parola spetterebbe ai cittadini britannici attraverso un secondo referendum sull’uscita dall’Ue. Johnson potrebbe anche tentare di rimanere al governo attraverso un’alleanza, ma per convincere un altro partito dovrebbe rinunciare alle sue pretese sulla Brexit, con l’altissimo rischio di perdere la faccia davanti ai suoi elettori.

SE IL LABOUR HA LA MAGGIORANZA ASSOLUTA: NUOVO REFERENDUM

È l’ipotesi più remota, ma nel caso Corbyn riuscisse a ottenere 326 seggi ha promesso di portare il Paese subito un secondo referendum (con la speranza che dal 2016 i britannici abbiano cambiato idea). Da quel che risulta dagli ultimi sondaggi, tuttavia, questo è lo scenario più improbabile.

GLI ULTIMI SONDAGGI: BORIS A +9 PUNTI

Secondo l’ultimo sondaggio di YouGov pubblicato l’11 dicembre, Johnson avrebbe un vantaggio di 9 punti percentuali su Corbyn, con i Tory al 43% delle preferenze e il Labour al 34%. Seguono i LibDem con il 12%, il Brexit Party di Nigel Farage con il 3% e i Verdi con il 3%. L’istituto di rilevazioni calcola che, con questa percentuale, i conservatori otterrebbero 339 seggi. Si precisa, tuttavia, che la forchetta in cui si muove il partito di Johnson va dai 311 ai 367 seggi. La possibilità di avere un hung parliament (senza maggioranza) il 13 dicembre è tutt’altro che esclusa.

SI PUÒ AVERE 326 SEGGI SENZA LA MAGGIORANZA ASSOLUTA DEI VOTI

L’elezione dei deputati avviene con un voto diretto, a turno unico e maggioritario, a cui partecipano tutti i cittadini maggiorenni del Regno Unito e del Commonwealth, risiedenti in Gran Bretagna e Nord Irlanda e iscritti nel registro elettorale. Questo sistema elettorale (maggioritario puro e uninonimanale secco) favorisce il Partito laburista e il Partito conservatore, penalizzando le formazioni minori. Inoltre, permette a un partito di arrivare a 326 seggi alla Camera senza aver ottenuto la maggioranza assoluta dei voti. È sufficiente, infatti, che i candidati di un partito vincano in 326 circoscrizioni. Come avviene negli Stati Uniti, si può verificare la situazione in cui un partito ottiene la maggioranza dei voti in assoluto, senza però riuscire a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi.

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«Il Pd in psichiatria», bufera sull’assessore leghista Icardi

Il responsabile alla Sanità della Regione Piemonte: «Ricoverare i residuati bellici della Sinistra torinese». I dem in rivolta: «Parole deliranti».

Una «torre psichiatrica», nella quale «ricoverare i residuati bellici della Sinistra torinese». L’assessore alla Sanità della Regione Piemonte, il leghista Luigi Icardi, replica così alle critiche del Pd in materia di edilizia sanitaria. Parole messe nero su bianco in un comunicato, che scatena l’immediata reazione dei democratici, con tanto di richiesta di intervento immediato da parte del governatore, Alberto Cirio, e minacce di denunce. Dopo le foto davanti alla tomba del Duce dell’addetto stampa dell’assessora Chiara Caucino, anche lei della Lega, la giunta di centrodestra guidata da Alberto Cirio si trova a dover gestire un’altra polemica.

«RICOVERIAMO LA SINISTRA IN UNA TORRE PSICHIATRICA»

«Sto pensando di modificare il Piano di edilizia sanitaria con la costruzione di una torre psichiatrica, nella quale ricoverare i residuati bellici della Sinistra torinese», scrive Icardi, cui evidentemente non sono andate giù le critiche dell’opposizione sul Parco della Salute di Torino e sugli altri progetti di edilizia sanitaria. Un invito, quello dell’assessore Icardi, «a riportare l’attenzione alla realtà dei fatti», che ha suscitato la pronta reazione del Pd.

IL PD IN RIVOLTA

«Il presidente Cirio prenda immediatamente le distanze da queste dichiarazioni deliranti», scrive su Facebook il segretario metropolitano, «mentre noi continuiamo a lavorare per sostenere un progetto fondamentale per il futuro della sanità e della città di Torino, loro fanno battutacce da bar. Abbiamo superato ogni limite, daremo mandato ai nostri legali per verificare se sussistono le condizioni per una denuncia». Si dice «sconcertato» dalle frasi «gravemente offensive» di Icardi anche il capogruppo Pd al Consiglio regionale del Piemonte, Domenico Ravetti.

GLI APPELLI AL PRESIDENTE CIRIO

«Facciamo fatica a credere che possano essere pronunciate da un assessore regionale», sostiene parlando di «una reazione volgare nei confronti di consiglieri regionali che pongono domande e formulano critiche nell’esercizio delle loro prerogative». Un comportamento «senza giustificazioni», conclude, «chiederemo a Cirio di intervenire a tutela del Consiglio regionale. Forse Icardi non è adatto a ricoprire il suo ruolo».

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Mose, Bettin: «L’unico modo di salvare Venezia è sollevarla»

Secondo l'esponente del Verdi, l'innalzamento dei mari e la maggiore frequenza di fenomeni estremi hanno reso l'impianto obsoleto. «La soluzione? Sollevare Venezia».

Sono passati 35 anni dalla nascita del progetto Mose e Venezia resta ancora in balia delle mareggiate. Le paratie della diga mobile non entreranno in funzione prima del 2022, con un drammatico ritardo di sei anni rispetto al termine previsto del 2016.

Dal 1984, anno di fondazione del consorzio a tutela della Laguna, il mondo è cambiato e l’aqua granda che ha sommerso la città nel 1966 (record di 194 cm) è diventata l’innalzamento globale del livello del mare.

Il cambiamento climatico e lo scioglimento dei ghiacci non erano certo previsti negli Anni 80, e secondo molti l’idea stessa del Mose è diventata obsoleta nel frattempo. «Si è cominciato a discuterne negli Anni 80, a progettarlo negli Anni 90 e a costruirlo all’inizio degli anni 2000», ha detto a Lettera43 Gianfranco Bettin, ex deputato ed esponente dei Verdi, «nel frattempo è cambiato il mondo e bisogna attrezzarsi per un’alternativa più duratura». Attualmente presidente della Municipalità di Porto Marghera, Bettin è sempre stato portatore delle istanze ambientaliste contrarie al Mose.

Gianfranco Bettin.

DOMANDA: La marea record a Venezia ha riportato subito i fari sul Mose, che doveva essere in funzione già dal 2016. Come mai non è ancora operativa?
RISPOSTA: Al netto di tutti i discorsi relativi alla corruzione e alla storia giudiziaria che hanno circondato l’opera, sono subentrati problemi tecnici imprevisti come il continuo logoramento delle paratie, la corrosione e lo stato delle cerniere. Mentre si fanno gli ultimi sforzi per finire il lavoro ci si accorge di carenze che mettono in discussione la tenuta dell’opera, al di là del problema principale.

Ovvero?
Il Mose è stato studiato per fronteggiare le maree eccezionali, quelle sopra 1,10 metri, per qualche ora e qualche giorno all’anno. Ma tra gli Anni 80 e oggi ci sono di mezzo il riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacci, l’innalzamento del livello del mare e l’aumento di fenomeni climatici estremi. La frequenza delle maree eccezionali a Venezia è aumentata in maniera imprevedibile, così come il generale innalzamento del livello del mare.

Quindi è diventata un’opera inutile?
Oggi l’urgenza è di capire se è possibile adeguare la struttura rispetto al progetto originario – che prevedeva di alzare le paratie solo in casi eccezionali – impiegandola decine di volte all’anno. Intanto bisogna riparare i guasti alla struttura e evitare che il giorno in cui lo si accenderà venga su solo a metà o crolli.

mose venezia situazione funziona

La domanda che sorge spontanea è: quali potrebbero essere le alternative al Mose?
La strada da seguire comprende la protezione del litorale, ma soprattutto quella che è l’unica vera soluzione a un problema destinato a peggiorare: il sollevamento di Venezia.

Detta così sembra un’ipotesi fantascientifica.
È un’opera faraonica, ma è l’unica veramente necessaria a contrastare l’esposizione costante della struttura della città al mare. Una serie di sollevamenti delle isole della città era già stata tentata ed era la via maestra che molti suggerivano. Poi tutte le risorse sono state dirottate nel Mose.

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Sciopero all’ex Ilva: si fermano tutti gli stabilimenti

Dalle 7 di questa mattina i lavoratori incrociano le braccia: «Inaccettabile il disimpegno di ArcelorMittal e il piano di esuberi, il governo non deve fornire alibi». Assemblea anche a Genova.

È in corso dalle 7 di questa mattina lo sciopero di 24 ore indetto da Fim, Fiom e Uilm nello stabilimento siderurgico di Taranto e negli altri siti del Gruppo ArcelorMittal. Decine di lavoratori dell’appalto sono in presidio nei pressi della portineria imprese. Presenti anche lavoratori diretti e rappresentanti sindacali. I metalmeccanici chiedono «all’azienda l’immediato ritiro della procedura di retrocessione dei rami d’azienda e al governo di non concedere nessun alibi alla stessa per disimpegnarsi, ripristinando tutte le condizioni in cui si è firmato l’accordo del 6 settembre 2018 che garantirebbe la possibilità di portare a termine il piano Ambientale nelle scadenze previste». Fim, Fiom e Uilm sostengono che «la multinazionale ha posto delle condizioni provocatorie e inaccettabili e le più gravi riguardano la modifica del Piano ambientale, il ridimensionamento produttivo a quattro milioni di tonnellate e la richiesta di licenziamento di 5 mila lavoratori, oltre alla messa in discussione del ritorno a lavoro dei 2 mila attualmente in Amministrazione straordinaria».

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