Elezioni nel Regno Unito, l’assalto finale di Corbyn a Johnson

Il leader laburista tenta di rimontare nei sondaggi negli ultimi giorni di campagna. Mentre il premier Tory si sforza di tenere le distanze da Trump, a Londra per il vertice Nato. Lo scenario.

Al summit della Nato che si è aperto a Londra il 3 dicembre, Boris Johnson non ha in programma bilaterali ufficiali con Donald Trump.

Foto e strette di mano saranno inevitabili nella due giorni. Anche qualche scambio di battute, e un incontro alla fine probabilmente si farà: Trump pressa, il premier britannico deve fare gli onori di casa per il compleanno dei 70 anni dell’Alleanza atlantica.

Ma nella settimana che precede il voto anticipato del 12 dicembre non vuole accostarsi troppo al presidente americano. Il rivale laburista Jeremy Corbyn è in rimonta, martella da mesi l’opinione pubblica con la storia del «Trump britannico» e Oltremanica non c’è nessuno di più inviso di lui. Dicono che anche la regina Elisabetta lo odi. Troppo sbracato, il tycoon, anche per una certa destra inglese che mal digerisce gli atteggiamenti esagitati così simili di BoJo.

LA FORTEZZA BRITANNICA CHE SOGNA JOHNSON

A questo proposito, il leader dei Tories è sotto attacco anche per aver cavalcato maldestramente l’attentato sul London Bridge. Ha annunciato frontiere blindate e lo screening dei passaporti per tutti. Ma non potrebbe fare altrimenti: da tempo non si vedeva una campagna così mediatica nel Regno Unito, ognuno si gioca il tutto per tutto. Johnson, ancora davanti di 10 punti ai laburisti, fomenta l’elettorato euroscettico. L’ultima mossa è il programma di visti d’ingresso simili a quelli degli Usa, anche per cittadini dell’Ue che una volta compiuta la Brexit entro il 31 gennaio 2020 (e trascorso il periodo di transizione entro il 31 dicembre 2020) dovranno pagare per un weekend a Londra. Naturalmente, esibendo un passaporto biometrico, perché la carta d’identità facilmente falsificabile non basterà più. Schedati, nella fortezza britannica potranno restare al massimo tre mesi. «Tolleranza zero» per gli irregolari.

Regno Unito elezioni Johnson Corbyn Brexit
Il leader del Labour, Jeremy Corbyn in corsa per le Legislative anticipate del 2019. GETTY.

LA STRUMENTALIZZAZIONE DELLA TRAGEDIA DEL LONDON BRIDGE

A chi, nel Labour e tra i LibDem, gli rinfaccia che il terrorismo viene più dall’interno che da fuori confine, BoJo risponde contestando le misure troppo blande sui detenuti come nel caso dell’attentatore ucciso il 29 novembre. Un attacco allo Stato poco opportuno che, nella composta Londra capace di essere eroica oggi come ieri – contro i nazifascisti come contro l’Isis -, gli è costato l’accusa di strumentalizzare una tragedia nazionale a fini politici. Nella «totale mancanza di rispetto per le vittime e i loro famigliari», rimproverano i LibDem. Sui fatti di Londra anche lo scatenato Corbyn ha mantenuto i toni bassi, lasciando parlare il padre del 25enne Jack Merritt morto nell’attacco, e che era impegnato nella riabilitazione dei detenuti come attentatore Usman Khan. «Jack sarebbe livido nel vedere la sua morte, e la sua vita, usate per perpetuare l’agenda di odio che ha sempre combattuto», ha scritto in una lettera al Guardian che ha fatto molto scalpore. Boris Johnson

Il premier britannico Boris Johnson.

PAROLA D’ORDINE: TOLLERANZA ZERO

Per Johnson vale il detto di Oscar Wilde: «Bene o male, basta che se ne parli». In un’intervista alla Bbc aveva scaricato sul Labour la responsabilità del rilascio del 28enne Khan, condannato per terrorismo nel 2012 e in libertà vigilata dal 2018 con il braccialetto elettronico. Su detenuti pericolosi come lui, britannico di origini pakistane legato gruppi jihadisti, il premier si è impegnato ad abbandonare «il sistema di rilascio automatico a breve». «Bisogna essere realisti», ha tuonato. E quindi tolleranza zero anche sul suolo britannico per chi commette reati gravi, è il messaggio che BoJo vuol far passare nel rush elettorale per i cittadini affamati di sicurezza. Guai però a toccare il tasto della sanità pubblica, un pilastro del Regno Unito che porta o toglie milioni di voti. Proprio lì Corbyn semina il panico, sventolando ai comizi 451 pagine di dossier su presunte trattative dei premier May e Johnson per svendere il servizio sanitario agli Usa, dopo la Brexit.

IL TOTEM DELLA SANITÀ PUBBLICA

Nominato premier, per prima cosa quest’estate Johnson ha promesso quasi 2 miliardi per risanare una ventina di strutture sanitarie. E in autunno ha rincarato la dose annunciando 15 miliardi di euro di investimenti in 40 nuovi ospedali. Uno specchietto per le allodole anche per il think tank britannico Nuffield Trust specializzato in sanità, che se da un lato non rileva piani del governo per cedere degli asset alle corporation americane, dall’altro con la Brexit stima un mercato allargato per le case farmaceutiche di Oltreoceano. Per Johnson c’è un altro buon motivo per non farsi riprendere troppo accanto a Trump: anche sulla difesa del clima, diventato un trend di massa, i due leader hanno posizioni diverse. Il paradosso è che Trump, accanito fan della Brexit, non smette di cercare il premier britannico e di sbilanciarsi sul voto inglese. Un assist perfetto al Labour.

Il premier britannico Boris Johnson con il leader del Labour, Jeremy Corbyn ai funerali delle vittime dell’attentato di Londra.

L’ULTIMA DI CORBYN? RINAZIONALIZZARE BRITISH TELECOM

Il rosso Corbyn nero sondaggi veleggia tra il 33 e il 34% mentre i Tory di Johnson sul 42-43%. Ma lo «stalinista», come lo addita BoJo, è un mago delle rimonte. In campagna Corbyn, Johnson e Trump sono più simili di quanto non si creda e l’elettorato è molto fluido: nulla è ancora detto, frenano gli analisti. Sono chiaramente fuochi d’artificio da campi opposti: l’ultimo di Corbyn è il piano per «rinazionalizzare British Telecom, assicurare la banda larga gratis a tutti, tassare giganti della Rete come Google, Amazon e Facebook». Uno choc per i mercati: all’annuncio le azioni di Bt, privatizzata da Margaret Thatcher, sono crollate al 3,7%, per mezzo miliardo di valore bruciato. Ma le telecomunicazioni sono il «core business del 21esimo secolo, guai a lasciarlo alle multinazionali», ammetterebbe anche BoJo.

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Germania, assedio alla Grande coalizione di Merkel

I nuovi leader della Spd Saskia Esken e Norbert Walter-Borjans vogliono cambiare il contratto di governo con la cancelliera e ricostruire il welfare state. I conservatori dicono no e la tenuta dell'esecutivo è a rischio. Mentre l'estrema destra di AfD è pronta a cannibalizzare i moderati in un voto anticipato. Lo scenario.

Due politici sconosciuti all’estero, Saskia Esken e Norbert Walter-Borjans, ma evidentemente noti alla base in Germania come dissidenti della linea di governo, sono stati incoronati come leader dagli iscritti al partito socialdemocratico.

Uno schiaffo all’establishment della Spd che dal 2013 governa con i conservatori di Angela Merkel, e una doccia fredda per i conservatori della Cdu-Csu. Farà di tutto per non darlo a vedere, ma la cancelliera ha buoni motivi di trascorrere il Natale nel panico.

Il suo vice Olaf Scholz, ponderato e competente ministro delle Finanze, era il nuovo leader in pectore della Spd, con il braccio destro Klara Geywitz. Sapeva di raccogliere un partito in macerie, dopo le dimissioni in primavera di Andrea Nahles sopraffatta dai fallimenti. Scholz sapeva anche di essere sul filo di lana con numeri: in testa al primo turno, ma con appena il 23% rispetto al 21% di quelli che sono diventati nuovi leader. Nondimeno nessuno, neanche il duo Esken-Walter-Borjans verso l’investitura al Congresso (6-8 dicembre 2019), si attendeva un segnale così forte dagli oltre 200 mila tesserati che hanno risposto al ballottaggio.

I ROBIN HOOD DEI CONTRIBUENTI

«115 mila compagni hanno votato per i due queruli», rompiscatole, commentano in Germania. Mentre i nuovi vertici dell‘estrema destra di AfD, eletti con un tempismo inquietante insieme a Esken e Walter-Borjans, puntano da sciacalli a quel che, profetizzano, resterà dell’Unione della Cdu-Csu. Benché la solida Bundesrepublik si muova a passo lento e monotono (Merkel è cancelliera dal 2006, Helmut Kohl suo pigmalione guidò la Germania per 16 anni), in effetti i tempi potrebbero essere maturi per uno scossone che porti al voto anticipato nel 2020. Il duo Esken-Walter-Borjans ha trascorso anni nelle retrovie, dissociandosi dai tagli al welfare e dalle aperture al mercato già dell’Agenda 2010 di Gerhard Schröder. «Il peccato originale», dicono, della Spd del terzo millennio. Il loro mantra è la «rinegoziazione del contratto di Grande coalizione», chiuso a fatica nel 2018 tra la Spd e la Cdu-Csu, dopo mesi di inedito vuoto di governo per la locomotiva d’Europa. Walter-Borjans, soprannominato il «Robin Hood dei contribuenti», a Merkel chiede di alzare il reddito minimo di 12 euro e ancora più fondi per il clima.

Germania leader Spd Merkel estrema destra AfD
La cancelliera Angela Merkel (Cdu) con il vice cancelliere Olaf Scholz (Spd). GETTY.

L’ENDORSEMENT DI LAFONTAINE

Musica per le orecchie dell’eminenza grigia della Linke – ed ex presidente dei socialdemocratici – Oskar Lafontaine che vede spianarsi la strada per un’alleanza tra la sua sinistra radicale, i Verdi e una Spd tornata alle origini. «Adesso bisogna rompere con il neoliberismo», ha subito commentato il leader tradito da Schröder, «Esken e Walter-Borjans hanno avuto questa chance perché slegati dalle scelte sbagliate del passato. Possono ricostruire lo stato sociale e tornare alla politica di pace di Willy Brandt». L’attacco è anche alla politica muscolare della leader della Cdu, delfina della cancelliera, Annegret Kramp-Karrenbauer, da qualche mese ministro della Difesa, che accelera sul riarmo e auspica nuove riduzioni a un welfare, a suo avviso, «ai limiti del sostenibile». Lafontaine conosce bene la durezza di Kramp-Karrenbauer: entrambi, in tempi diversi, hanno governato la piccola Saarland afflitta dalla crisi dell’acciaio e dalla deindustrializzazione. Nei modi Merkel è più soft, ma la sostanza non cambia: il suo capo di gabinetto ha tagliato corto, di ritocchi all’accordo di governo i cristiano-democratici e sociali non vogliono saperne.

VERSO L’ALLEANZA A SINISTRA?

Difficile che il Robin Hood dei contribuenti e la co-leader si rimangino mesi di campagna e anni di militanza. Hanno anche l’appoggio dell’ala giovanile (Jusos) della Spd. A quel punto i socialdemocratici perderebbero anche il 14-15%, toccando davvero lo zero. E se si rompe il giocattolo e si spacca ancora il partito – Scholz, scosso dai risultati, esclude le sue dimissioni dal ministro dell’Eurogruppo – si possono solo anticipare le Legislative. La nuova guida dei socialdemocratici invita a non guardare come a un tabù le coalizioni con la Linke che dal 1990 inglobò i socialisti dell’ex Ddr: gli esperimenti nei governi locali, nei Comuni e nei Land sono incoraggianti. Nuovi laboratori in questa direzione stanno nascendo dalle alleanze anti-AfD delle Amministrative nel 2019. Verdi e sinistra radicale, con una Spd che inverte davvero rotta dalle grandi coalizioni, potrebbero mollare gli ormeggi per gli esecutivi nazionali. Ne sono convinti anche nell’estrema destra, intenzionata di conseguenza ad «andare al governo» con la Cdu-Csu. Per alcuni conservatori, soprattutto nell’ala bavarese della Csu, non sarebbe la fine del mondo.

L’ESTREMA DESTRA MIRA A ENTRARE NEL GOVERNO

Il regista dell’operazione Aexander Gauland ha passato quasi 40 anni nella Cdu, ed è deciso a traghettare l’AfD – con tutte le sue anime – verso l’alleanza con i moderati. Al Congresso di Braunschweig, assediato da 20 mila contestatori, ha ceduto lo scettro di portavoce a Tino Chrupalla, 44enne homo faber di AfD ed ex militante nei pulcini della Cdu, il «suo ragazzo» commentano in Germania. Come Gauland, Chrupalla viene dalla Sassonia, roccaforte di AfD e delle frange più estremiste dell’estrema destra. È un ex imbianchino e decoratore, un piccolo imprenditore che sa parlare alla gente, chiede sicurezza ed è vicino alla Russia. Da deputato, ha sferrato duri attacchi alla cancelliera Merkel. È definito un «patriota tedesco», come il braccio destro, co-presidente di AfD Jörg Meuthen. Ma ultimamente Chrupalla ha addolcito i toni schierandosi «contro gli antisemiti nel partito», si mormora su ordine di Gauland che in parlamento, fino al nuovo voto, continua a essere il capogruppo e a indicare le mosse. Convinto che presto o tardi tutta la sinistra si metterà d’accordo, e quel giorno Afd vuole essere pronta.

Germania leader Spd Merkel estrema destra AfD
Tino Chrupalla e Joerg Meuthen, alla presidenza dell’estrema destra di AfD, in Germania. GETTY.

IL MAQUILLAGE DI AFD

All’ultimo Congresso anche l’ala ultranazionalista di AfD che ha trionfato in Sassonia, la Flügel di Björn Höcke, ha abbandonato i toni neonazisti. Tutti, incluso Höcke, fanno i responsabili per scalare il Bundestag. Anche a questo servono Chrupalla e Meuthen: appartenenti alla corrente “moderata” ma dialoganti con i leader più estremi del movimento. Che la Cdu, in particolare, ceda alle lusinghe di AfD è però ancora più improbabile di un’apertura alla sinistra della Spd. Proprio i cristiano-democratici di Merkel sono vittime dell’omicidio politico di Walter Lübcke, il governatore locale che accoglieva i migranti freddato a giugno da un neonazista. Le lunghe frequentazioni di figure di AfD come Höcke in questo sottobosco sono assodate. Un sì all’estrema destra spaccherebbe l’Unione della Cdu-Csu più di quanto Esken e Walter-Borjans non dividano i socialdemocratici. E che per AfD si tratti solo maquillage è evidente: il deputato Stephan Brandner, appena destituito dalla guida della commissione parlamentare della Giustizia, per diverse affermazioni razziste e antisemite, è stato eletto vice presidente di AfD.

IL PRECIPIZIO DELLA SPD

Un fatto «mai accaduto prima» nella storia della Bundesrepublik, fanno quadrato tutte le altre forze politiche. L’altro vicepresidente di AfD, in tandem con l’ex co-leader certo non tenera Alice Weidel, è l’ex eurodeputata Beatrix von Storch, nipote dell’ultimo primo ministro di Adolf Hitler. Ricostruire una verginità ad AfD è una mission impossibile. Ma anche i due nuovi leader della Spd sono sul crinale di un precipizio. Nahles, prima donna alla guida dei socialdemocratici, fu nominata nel 2018 con il 50%, il suo mentore Martin Schulz era stato acclamato all’unanimità nel 2017, ma entrambi sono durati poco. Lo storico partito europeo ha continuato a perdere consensi ed elezioni. Al duo si rimprovera già, da una fetta minoritaria ma significativa del partito, la scarsa preparazione nazionale e di governo al cospetto, per esempio, del vice-cancelliere Scholz. Esken, 58enne informatica di Stoccarda, è stata dirigente locale del partito, prima che deputata. Walter-Borjans è un economista 67enne, già ministro delle Finanze nel Nord Reno-Westfalia. Nahles è uscita di scena da leader della Spd con un «statemi bene». Al nuovo duo intanto auguri.

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Germania, assedio alla Grande coalizione di Merkel

I nuovi leader della Spd Saskia Esken e Norbert Walter-Borjans vogliono cambiare il contratto di governo con la cancelliera e ricostruire il welfare state. I conservatori dicono no e la tenuta dell'esecutivo è a rischio. Mentre l'estrema destra di AfD è pronta a cannibalizzare i moderati in un voto anticipato. Lo scenario.

Due politici sconosciuti all’estero, Saskia Esken e Norbert Walter-Borjans, ma evidentemente noti alla base in Germania come dissidenti della linea di governo, sono stati incoronati come leader dagli iscritti al partito socialdemocratico.

Uno schiaffo all’establishment della Spd che dal 2013 governa con i conservatori di Angela Merkel, e una doccia fredda per i conservatori della Cdu-Csu. Farà di tutto per non darlo a vedere, ma la cancelliera ha buoni motivi di trascorrere il Natale nel panico.

Il suo vice Olaf Scholz, ponderato e competente ministro delle Finanze, era il nuovo leader in pectore della Spd, con il braccio destro Klara Geywitz. Sapeva di raccogliere un partito in macerie, dopo le dimissioni in primavera di Andrea Nahles sopraffatta dai fallimenti. Scholz sapeva anche di essere sul filo di lana con numeri: in testa al primo turno, ma con appena il 23% rispetto al 21% di quelli che sono diventati nuovi leader. Nondimeno nessuno, neanche il duo Esken-Walter-Borjans verso l’investitura al Congresso (6-8 dicembre 2019), si attendeva un segnale così forte dagli oltre 200 mila tesserati che hanno risposto al ballottaggio.

I ROBIN HOOD DEI CONTRIBUENTI

«115 mila compagni hanno votato per i due queruli», rompiscatole, commentano in Germania. Mentre i nuovi vertici dell‘estrema destra di AfD, eletti con un tempismo inquietante insieme a Esken e Walter-Borjans, puntano da sciacalli a quel che, profetizzano, resterà dell’Unione della Cdu-Csu. Benché la solida Bundesrepublik si muova a passo lento e monotono (Merkel è cancelliera dal 2006, Helmut Kohl suo pigmalione guidò la Germania per 16 anni), in effetti i tempi potrebbero essere maturi per uno scossone che porti al voto anticipato nel 2020. Il duo Esken-Walter-Borjans ha trascorso anni nelle retrovie, dissociandosi dai tagli al welfare e dalle aperture al mercato già dell’Agenda 2010 di Gerhard Schröder. «Il peccato originale», dicono, della Spd del terzo millennio. Il loro mantra è la «rinegoziazione del contratto di Grande coalizione», chiuso a fatica nel 2018 tra la Spd e la Cdu-Csu, dopo mesi di inedito vuoto di governo per la locomotiva d’Europa. Walter-Borjans, soprannominato il «Robin Hood dei contribuenti», a Merkel chiede di alzare il reddito minimo di 12 euro e ancora più fondi per il clima.

Germania leader Spd Merkel estrema destra AfD
La cancelliera Angela Merkel (Cdu) con il vice cancelliere Olaf Scholz (Spd). GETTY.

L’ENDORSEMENT DI LAFONTAINE

Musica per le orecchie dell’eminenza grigia della Linke – ed ex presidente dei socialdemocratici – Oskar Lafontaine che vede spianarsi la strada per un’alleanza tra la sua sinistra radicale, i Verdi e una Spd tornata alle origini. «Adesso bisogna rompere con il neoliberismo», ha subito commentato il leader tradito da Schröder, «Esken e Walter-Borjans hanno avuto questa chance perché slegati dalle scelte sbagliate del passato. Possono ricostruire lo stato sociale e tornare alla politica di pace di Willy Brandt». L’attacco è anche alla politica muscolare della leader della Cdu, delfina della cancelliera, Annegret Kramp-Karrenbauer, da qualche mese ministro della Difesa, che accelera sul riarmo e auspica nuove riduzioni a un welfare, a suo avviso, «ai limiti del sostenibile». Lafontaine conosce bene la durezza di Kramp-Karrenbauer: entrambi, in tempi diversi, hanno governato la piccola Saarland afflitta dalla crisi dell’acciaio e dalla deindustrializzazione. Nei modi Merkel è più soft, ma la sostanza non cambia: il suo capo di gabinetto ha tagliato corto, di ritocchi all’accordo di governo i cristiano-democratici e sociali non vogliono saperne.

VERSO L’ALLEANZA A SINISTRA?

Difficile che il Robin Hood dei contribuenti e la co-leader si rimangino mesi di campagna e anni di militanza. Hanno anche l’appoggio dell’ala giovanile (Jusos) della Spd. A quel punto i socialdemocratici perderebbero anche il 14-15%, toccando davvero lo zero. E se si rompe il giocattolo e si spacca ancora il partito – Scholz, scosso dai risultati, esclude le sue dimissioni dal ministro dell’Eurogruppo – si possono solo anticipare le Legislative. La nuova guida dei socialdemocratici invita a non guardare come a un tabù le coalizioni con la Linke che dal 1990 inglobò i socialisti dell’ex Ddr: gli esperimenti nei governi locali, nei Comuni e nei Land sono incoraggianti. Nuovi laboratori in questa direzione stanno nascendo dalle alleanze anti-AfD delle Amministrative nel 2019. Verdi e sinistra radicale, con una Spd che inverte davvero rotta dalle grandi coalizioni, potrebbero mollare gli ormeggi per gli esecutivi nazionali. Ne sono convinti anche nell’estrema destra, intenzionata di conseguenza ad «andare al governo» con la Cdu-Csu. Per alcuni conservatori, soprattutto nell’ala bavarese della Csu, non sarebbe la fine del mondo.

L’ESTREMA DESTRA MIRA A ENTRARE NEL GOVERNO

Il regista dell’operazione Aexander Gauland ha passato quasi 40 anni nella Cdu, ed è deciso a traghettare l’AfD – con tutte le sue anime – verso l’alleanza con i moderati. Al Congresso di Braunschweig, assediato da 20 mila contestatori, ha ceduto lo scettro di portavoce a Tino Chrupalla, 44enne homo faber di AfD ed ex militante nei pulcini della Cdu, il «suo ragazzo» commentano in Germania. Come Gauland, Chrupalla viene dalla Sassonia, roccaforte di AfD e delle frange più estremiste dell’estrema destra. È un ex imbianchino e decoratore, un piccolo imprenditore che sa parlare alla gente, chiede sicurezza ed è vicino alla Russia. Da deputato, ha sferrato duri attacchi alla cancelliera Merkel. È definito un «patriota tedesco», come il braccio destro, co-presidente di AfD Jörg Meuthen. Ma ultimamente Chrupalla ha addolcito i toni schierandosi «contro gli antisemiti nel partito», si mormora su ordine di Gauland che in parlamento, fino al nuovo voto, continua a essere il capogruppo e a indicare le mosse. Convinto che presto o tardi tutta la sinistra si metterà d’accordo, e quel giorno Afd vuole essere pronta.

Germania leader Spd Merkel estrema destra AfD
Tino Chrupalla e Joerg Meuthen, alla presidenza dell’estrema destra di AfD, in Germania. GETTY.

IL MAQUILLAGE DI AFD

All’ultimo Congresso anche l’ala ultranazionalista di AfD che ha trionfato in Sassonia, la Flügel di Björn Höcke, ha abbandonato i toni neonazisti. Tutti, incluso Höcke, fanno i responsabili per scalare il Bundestag. Anche a questo servono Chrupalla e Meuthen: appartenenti alla corrente “moderata” ma dialoganti con i leader più estremi del movimento. Che la Cdu, in particolare, ceda alle lusinghe di AfD è però ancora più improbabile di un’apertura alla sinistra della Spd. Proprio i cristiano-democratici di Merkel sono vittime dell’omicidio politico di Walter Lübcke, il governatore locale che accoglieva i migranti freddato a giugno da un neonazista. Le lunghe frequentazioni di figure di AfD come Höcke in questo sottobosco sono assodate. Un sì all’estrema destra spaccherebbe l’Unione della Cdu-Csu più di quanto Esken e Walter-Borjans non dividano i socialdemocratici. E che per AfD si tratti solo maquillage è evidente: il deputato Stephan Brandner, appena destituito dalla guida della commissione parlamentare della Giustizia, per diverse affermazioni razziste e antisemite, è stato eletto vice presidente di AfD.

IL PRECIPIZIO DELLA SPD

Un fatto «mai accaduto prima» nella storia della Bundesrepublik, fanno quadrato tutte le altre forze politiche. L’altro vicepresidente di AfD, in tandem con l’ex co-leader certo non tenera Alice Weidel, è l’ex eurodeputata Beatrix von Storch, nipote dell’ultimo primo ministro di Adolf Hitler. Ricostruire una verginità ad AfD è una mission impossibile. Ma anche i due nuovi leader della Spd sono sul crinale di un precipizio. Nahles, prima donna alla guida dei socialdemocratici, fu nominata nel 2018 con il 50%, il suo mentore Martin Schulz era stato acclamato all’unanimità nel 2017, ma entrambi sono durati poco. Lo storico partito europeo ha continuato a perdere consensi ed elezioni. Al duo si rimprovera già, da una fetta minoritaria ma significativa del partito, la scarsa preparazione nazionale e di governo al cospetto, per esempio, del vice-cancelliere Scholz. Esken, 58enne informatica di Stoccarda, è stata dirigente locale del partito, prima che deputata. Walter-Borjans è un economista 67enne, già ministro delle Finanze nel Nord Reno-Westfalia. Nahles è uscita di scena da leader della Spd con un «statemi bene». Al nuovo duo intanto auguri.

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Germania, la crisi dell’acciaio che ferma anche l’Italia

Al siderurgico legata anche la crisi dell’auto. Per i dazi di Trump, la concorrenza dalla Cina e la conversione green dell’Ue. Il cuore della Ruhr è malato: migliaia di cassintegrati agli altiforni.

Anche i grandi soffrono. La crisi dell’acciaio mette a rischio migliaia di posti di lavoro, anche in Germania, soprattutto nei bacini siderurgici della Saarland e della Ruhr contesi nella Prima guerra mondiale per le risorse minerarie e per le industrie pesanti. Ma il cuore europeo delle acciaierie soffre di una «pressione immensa» allertano i vertici dei metalmeccanici (Ig Metall) del Nord Reno-Vestfalia. Le condizioni di mercato, per diversi fattori concomitanti, sono reputate «molto difficili» anche dai vertici del gruppo Nirosta che entro la fine del 2021 programma di abbattere 373 posti di lavoro, in primo luogo negli stabilimenti della Saarland. Nel 2012 Thyssenkrupp cedette il ramo Nirosta ai finlandesi di Outokumpu, che evidentemente non ritengono più redditizio produrre in Germania. Ma non è una questione di stranieri: anche Dillinger e il gruppo Saarstahl, aziende con secoli di storia nel Land, hanno annunciato 1500 esuberi in tre anni.

MENO 4% DI PRODUZIONE DI ACCIAIO

Monta aria di smantellamento tra gli altiforni tedeschi: un comparto di 80 mila addetti siderurgici, 22 mila dei quali nella Saarland, 45 mila in Nord Reno-Vestfalia, diverse altre migliaia in Land come l’Assia. Le acciaierie più grandi reggeranno, ma cambiando radicalmente impianti e lavorazioni. Al costo di miliardi di euro di riconversione e di migliaia di posti di lavoro persi. Nel 2019 in Germania si è prodotto il 4% dell’acciaio in meno dello stesso del 2018. E da settembre parte dei lavoratori della Saarstahl sono in cassa integrazione, come da marzo in Assia alla Buderus Edelstahl che ha cancellato 150 posti di lavoro. Il comparto non migliorerà nel 2020: per l’anno fiscale da settembre 2019 a settembre 2020, l’ammiraglia Thyssenkrupp ha preannunciato una perdita netta «significativamente più elevata», considerato che il bilancio di quest’anno si è chiuso con 304 milioni di euro di perdita netta, rispetto ai 62 milioni del 2018.

Germania crisi acciaio auto Italia
Il monumento alle miniere della Saarland. GETTY.

DALLA SIDERURGIA IL 6% DI EMISSIONI CO2

Così per il 3 dicembre è annunciata in Nord Reno-Westfalia una mobilitazione dei lavoratori di Thyssenkrupp. Contro il «circolo vizioso», dicono, che si trascina dietro anche la grave crisi dell’auto. La tagliola dei dazi di Donald Trump sull’acciaio dall’Ue (con la minaccia di dazi ancora più pesanti sulle auto, e ogni auto ha circa un quintale di acciaio) ha aggravato la contrazione. Già in atto a causa dell’import di acciaio a basso costo – soprattutto dalla Cina -, e del processo di automazione anche nell’industria pesante. Non ultimo, grava l’adeguamento agli obiettivi dell’Ue di emissioni zero e di decarbonizzazione entro il 2050 dell’Ue: alla lunga, l’onere più grande per la siderurgia che da sola in Germania causa il 6% delle emissioni Co2 (il 2,5% gli altiforni di Duisburg, nella Ruhr). Angela Merkel ci punta molto: ha appena approvato un piano per il clima di 100 miliardi entro il 2030, che se da un lato dà incentivi anche alle acciaierie per pulirsi, dall’altro ne uccide il comparto e gli indotti.

Per diventare a emissioni zero Thyssenkrupp stima una spesa di 10 miliardi di euro, anche nella ricerca

PRODURRE ACCIAIO GREEN COSTA MOLTO

Thyssenkrupp è il primo della branca a cavalcare la rivoluzione green lanciata dall’ultimo governo della cancelliera: entro il 2050 il gruppo intende dichiararsi clima neutrale. Ma per ridurre a zero l’impatto delle emissioni nocive per l’ambiente, nel siderurgico bisogna sostituire tutti gli altiforni a carbone con altiforni a idrogeno, facendoli lavorare con fonti di energia rinnovabili. Il colosso di Essen stima una spesa di 10 miliardi di euro, anche nella ricerca, per la trasformazione: senza aiuti statali impossibile anche per multinazionali del suo calibro. Tanto più che per Paesi come la Germania attingere dal solare per smantellare le centrali a carbone è più difficile e costoso. Produrre acciaio internamente resterà poi sempre oneroso anche per il costo del lavoro, più alto che negli stabilimenti in Cina sempre più grandi e numerosi. E come se non bastasse nel 2019 si è arrivati a un surplus di acciaio nel mondo, anche per il calo di produzione delle auto a causa delle minori richieste.

Germania crisi acciaio auto Italia
Le scorie durante la produzione dell’acciaio Thyssen negli altiforni di Duisburg. GETTY.

ANCHE LE TUTE BLU DELL’AUTO IN SCIOPERO

La Saarland è pronta a diventare una «regione modello per la produzione di acciaio a emissioni zero». Ma il governo locale guidato dalla Cdu di Merkel chiede che una «protezione del settore a livello nazionale», anche attraverso un pressing nell’Ue per una riesame delle clausole di salvaguardia a freno delle importazioni di acciaio a basso costo. L’agitazione cresce anche nel settore dell’auto: a novembre a Stoccarda, nella capitale tedesca dell’auto, hanno dimostrato in 15 mila dai colossi Daimler, Audi, Bosch e dagli altri gruppi dell’indotto. Ig Metall stima piani di ristrutturazione per 160 aziende del ramo, solo nel Baden-Württemberg: il governo (Verdi e Cdu) del Land – ricco ma legato all’export di auto – ha convocato a settembre i rappresentanti di categoria e il governo. Anche per ridiscutere i parametri della cassa integrazione e per chiedere aiuto al ministero del Lavoro. E se si ferma l’indotto tedesco dell’auto e dell’acciaio, si blocca anche l’indotto italiano.

PIÙ TASSE  E MENO AUTO E ACCIAIO. ANCHE IN ITALIA

Tutte le case automobilistiche investono massicciamente in auto elettriche e a guida autonoma. Il contraltare, come nel siderurgico, è tagliare il costo del lavoro in stabilimenti dove gli operai sono sostituiti da robot. D’altronde i 100 miliardi della Grande coalizione vanno in premi all’acquisto di veicoli elettrici, in riduzioni nei biglietti dei mezzi pubblici meno inquinanti come i treni, e in investimenti per spingere l’energia da fonti rinnovabili, che in Germania sono soprattutto parchi eolici. Tutte spese finanziate dai rincari alle tariffe per le emissioni Co2 nei trasporti e nell’edilizia (per i quali saranno introdotte certificazioni) e dagli aumenti sul consumo di benzina e diesel. Mentre ai costruttori si impongono quote obbligatorie di auto elettriche e sul territorio si piantano stazioni di ricarica. Tempi più verdi, ma molto più grigi per l’industria pesante tedesca che produrrà magari dell’acciaio più pulito. Ma che di sicuro produrrà meno acciaio.

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La galassia delle influencer di estrema destra

Donne, estremiste di destra, qualcuna pronta ad armarsi o armata. Quasi tutte molto attive sui social. Ha fatto il giro..

Donne, estremiste di destra, qualcuna pronta ad armarsi o armata. Quasi tutte molto attive sui social. Ha fatto il giro del mondo l’immagine della “Miss HitlerFrancesca Rizzi, 26enne del Milanese, rappresentante dell’Italia al raduno di neonazisti di Lisbona dello scorso agosto. La biondissima militante di Autonomia nazionalista, nel sottobosco lombardo dell’estrema destra, con aquila e svastica tatuati sulla schiena ed esibiti in Rete, era stata proclamata «l’ariana più bella del mondo» a un concorso del Facebook russo, Vk. Contenitore e valvola di sfogo della galassia internazionale nazifascista. Francesca non aveva peli sulla lingua sui «giudei maledetti», «subumani che devono sparire dalla faccia della terra».

LA SERGENTE HITLER

Come la “sergente maggiore HitlerAntonella Pavin, madre e impiegata incensurata della rete sgominata dalla Digos e dall’antiterrorismo intenzionata a ricostituire il Partito nazionalsocialista italiano dei lavoratori. Pavin, 48enne del Padovano, afferma convinta che «non esistevano le camere a gas» e che «ad Auschwitz e negli altri campi di concentramento c’erano le piscine». Sui social postava di dar fuoco ai nomadi. E sempre su Vk se la prendeva con i «froci» del gay pride, «la cosa più schifosa è che ad appoggiare questi rifiuti c’erano anche famiglie. E poi la gente mi critica perché sono nazista» vergava. «Lo sarò fino alla morte perché quando morirò sarò contenta di aver ripulito il mondo. Sempre Heil Hitler e rogo per gli infami».

Estreme destre donne influencer
Annika Stahn, alias Franziska, cover girl dei neonazi tedeschi.

«SOLO FRASI IN LIBERTÀ»

Ora quei post sono cancellati. Gli account di Francesca, Antonella e degli altri 19 neonazisti indagati bloccati. Le loro case perquisite, uno di loro arrestato per detenzione di un fucile a pompa e munizioni da guerra. Nell’armamentario di Pavin c’era un volantino di minacce contro il deputato del Pd Emanuele Fiano, ebrei figlio di un deportati ad Auschwitz, tra i bersagli con Liliana Segre e Laura Boldrini degli anatemi deliranti delle fan di Hitler. Dicono adesso, «soltanto frasi scritte in libertà, che non fanno male a nessuno». In realtà, traspare dalle intercettazioni, ben consce ai tempi di poter essere attenzionate e prudenti nel fare apparire quelle foto e quelle frasi su Facebook. Le due donne di punta della rete si consignavano su come non essere oscurate.

Franziska è il volto da copertina della rivista tedesca dell’estrema destra è Arcadi

LE GRANATE E LE ROSE

Come altre donne delle cosiddette nuove destre, Francesca e Antonella avevano un ruolo mediatico o di coordinamento. Una minoranza che, anche nel sottobosco europeo e dei suprematisti bianchi americani, cresce per visibilità alle sfilate, accanto agli uomini, e nel reclutamento e nela propaganda in Rete. In Germania il fenomeno è diventato evidente con le coppie di neonazi apparse insieme alle recenti parate nell’Est, e tra i cortei di ragazzi identitari dell’estrema destra austriaca. Il volto da copertina della rivista tedesca dell’estrema destra è Arcadi, rivolta ai giovani, è la 22enne Annika Stahn, studentessa di Germanistica e patriota. Franziska sui social network e sul suo blog Radikal feminin che ha come logo una granata e una rosa.

LE INFLUENCER NERE

I suoi account – seguitissimi dalle community – su Facebook e Twitter sono stati bloccati. Il blog delle granate e delle rose non è aggiornato dal 2018, ma i post e i video del credo restano disponibili. Franziska mantiene un aspetto esteriore più puro della miss Hitler italiana: niente tatuaggi e trucco leggerissimo. Il modello proposto è di «femmine anti-femministe». Radicali perché attratte da famiglie antiche, con molti figli, e da ambienti bucolici da Arcadia, ripuliti dagli immigrati e da altre contaminazioni. Le “influencer nere” sono religiose, parlano degli autori e del genere fantasy nel pantheon delle estreme destre. E di come entrare nell’esercito. Di guerra agli immigrati e a quelle che chiamano teorie del gender.

Estreme destre donne influencer
Brittany Pettibone, fan di Salvini, e il fidanzato Martin Sellner, leader degli identitari austriaci.

LA FAN ALT RIGHT DI SALVINI

Tra Twitter e Instagram conserva più 150 mila follower l’americana trapiantata a Vienna Brittany Pettibone, 27enne eroina dell’alt right e gran fan del rosario di Matteo Salvini what a man»). Pettibone resiste su Twitter, perché modera abbastanza i toni nonostante sia l’esempio della trasversalità delle estreme destre: reti locali, o nazionali, che si frequentano e si intrecciano in un sottobosco internazionale in espansione grazie al sommerso del deep web. Pettibone, l’influencer californiana «pro bianchi» e pro Steve Bannon, che si è costruita un nome negli Usa, è la compagna del leader del Movimento identitario austriaco (Ibö) Martin Sellner, 30enne viennese, frequentatore di ambienti neo-nazisti dall’adolescenza.

Far uscire allo scoperto, nei video e ai comizi, le militanti femminili è parte del marketing del Movimento identitario

Tra Twitter e Instagram conserva più 150 mila follower l’americana trapiantata a Vienna Brittany Pettibone, 27enne eroina dell’alt right e gran fan del rosario di Matteo Salvini what a man»). Pettibone resiste su Twitter, perché modera abbastanza i toni nonostante sia l’esempio della trasversalità delle estreme destre: reti locali, o nazionali, che si frequentano e si intrecciano in un sottobosco internazionale in espansione grazie al sommerso del deep web. Pettibone, l’influencer californiana «pro bianchi» e pro Steve Bannon, che si è costruita un nome negli Usa, è la compagna del leader del Movimento identitario austriaco (Ibö) Martin Sellner, 30enne viennese, frequentatore di ambienti neo-nazisti dall’adolescenza.

LE MILITANTI IN PRIMA LINEA

Anche Sellner, studente di filosofia, attraverso Brittany ha intessuto relazioni con l’alt right dei suprematisti americani. Nonostante da quest’anno, come dal 2018 nel Regno Unito, gli sia stato vietato l’ingresso negli Usa, a causa di trascorsi ammessi e reiterati: le svastiche, da 17enne, disegnate sulle sinagoghe, poi i pellegrinaggi ai memoriali della Wehrmacht con i neonazi e gli scontri con gli attivisti di sinistra. Non ultima, nel 2019, la perquisizione dell’appartamento e il sequestro di pc e telefoni, per le indagini su una sospetta organizzazione terroristica. Eppure Sellner continua a essere la star dei giovani identitari nell’area tedesca: far uscire allo scoperto, nei video e ai comizi, le militanti femminili è parte del marketing del suo movimento.

“REBELLANIE” E CASAPOUND

La pagina Facebook in tedesco “Donne e ragazze identitarie” – bloccata – contava più di 6 mila iscritte alle discussioni. Ma su Vk amico, sui gruppi Whatsapp e sulle piattaforme video continuano ad attrarre audience identitarie come la tedesca Melanie Schmitz, alias Rebellanie, 25enne fotografata con davanti a una bandiera di CasaPound, o come l’austriaca Alina Wychera ,che sotto lo pseudonimo Alina von Rauheneck ha diffuso il video “Proteggere l’Europa” per il presidente della Repubblica. Come il Movimento identitario, in Italia anche CasaPound manda avanti delle militanti: le donne sono circa il 21% degli esponenti, tra loroMaria Bambina Crognale è stata una leader del progetto di sindacato. Carlotta Chiaraluce, 35enne coordinatrice romana di CasaPound è una delle donne più in vista del movimento, come l’alter ego milanese Angela De Rosa.

LE AUSILIARIE PRO EVA BRAUN

Da anni Forza Nuova, a cui erano vicino o legati Pavin e altri indagati sul tentato Partito nazionalsocialista italiano, ha una sezione femminile. Tra le iscritte, appena il 12% tra i neofascisti di Roberto Fiore, spicca la candidata alla Camera Desideria Raggi (per il “reddito di maternità”). Altre reti italiane di donne di estrema destra sono, al Nord, il Servizio ausiliario femminile (dall’omonima sezione nella Repubblica di Salò), dei neonazi dei Dodici raggi (un simbolo delle Ss), dove le naziskin stampano e diffondono volantini con Eva Braun. E le sempre più aggreganti Identitarie, il ramo femminile dei giovani identitari guidato da Eleonora Pamphili. Gruppi ben collegati tra loro perché molto solidali – ma solo tra donne bianche e molto intolleranti.

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Il terremoto di Durazzo è un colpo al futuro dell’Albania

Gli effetti del sisma aggravano i problemi. Crescita rallentata, scontri di piazza, veto francese sull’ingresso nell’Ue. Per le divisioni europee e la piaga interna dei traffici criminali e dell’abusivismo. Anche edilizio.

Il terremoto è l’ultimo – e il più grave – dei colpi che in questi mesi si sono abbattuti sull’Albania. I morti e la devastazione di Durazzo non aiutano l’ex protettorato italiano mai decollato dalla rovinosa fine della dittatura di Enver Hoxha. In crescita, ma non abbastanza per un Paese ancora molto povero, rapportato all’economia dell’Ue. Fragile di infrastrutture e di strutture, come ha dimostrato il sisma a Durazzo del 26 novembre 2019 di magnitudo 6.4. Le scosse successive continuano a far crollare come cartapesta gli ammassi di cemento delle case e dei palazzi accatastati su terreni franosi. Senza le minime norme antisismiche, negli anni delle speculazioni finanziarie e dell’anarchia politica e anche dopo. L’abusivismo dell’edilizia controllata dai clan locali e stranieri è una delle piaghe combattute dal governo di Edi Rama: il premier socialista ha fatto degli sforzi, bloccando cantieri e abbattendo ecomostri. E in generale per far rispettare di più le regole. Ma non sono bastati a convincere tutti a Bruxelles a dare il via, quest’autunno, ai negoziati per ammettere l’Albania nell’Ue.

CRESCITA TROPPO BASSA PER L’UE

Tanto la Banca mondiale quanto il Fondo monetario internazionale (Fmi) rivedono al ribasso, attorno al 3% anziché al 3,7%, le previsioni di crescita dell’Albania per il 2020, tenuto conto della contrazione nel 2019. Un ritmo reputato dal Fmi «troppo basso per una convergenza tangibile con gli standard di vita nell’Ue, considerato che il reddito pro capite pari degli albanesi è pari a un quarto della media nell’Ue». Per l’organizzazione internazionale che sprona Tirana a una «migliorare governance» pesano ancora le «debolezze delle infrastrutture e delle istituzioni economiche che impediscono un miglioramento ampio e duraturo degli standard di vita». Queste perplessità hanno bloccato la Francia, il Belgio e la Danimarca dal sì all’allargamento, al Consiglio europeo di fine ottobre, all’Albania dell’Ue. «Un duro colpo» per il premier Rama «molto deluso», come diversi altri leader europei. Sperava nel passo, slittato già due volte dal 2017. Aveva l’appoggio deciso di Italia e Germania, ma la Francia poi ha tirato il freno a mano anche con la Macedonia del Nord.

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Le vittime di un edificio collassato per il terremoto di Durazzo, in Albania. GETTY.

IL VETO FRANCESE SU ALBANIA E MACEDONIA

Emmanuel Macron si è scontrato, ancora una volta in questi mesi, con la cancelliera Angela Merkel per una questione di fondo che divide da sempre la leadership franco-tedesca dell’Ue, e che stavolta si riflette nelle procedure da adottare con gli Stati balcanici. Parigi chiede una maggiore integrazione tra gli Stati già membri dell’Ue, attraverso anche la revisione di alcuni meccanismi decisionali interni, prima di includerne altri. Anche per evitare di ripetere lo squilibrio di un’Europa a tre velocità (la seconda è nei Pigs del Sud), creato dall’ingresso nell’Ue degli Stati satellite dell’ex Urss, un bacino di manodopera interna a bassissimo costo. Con un’Albania dentro, ma  fuori dall’euro, accadrebbe lo stesso o forse peggio: dai dati dell’Istituto nazionale statistico (Instat) del 2018, il salario minimo nel Paese delle aquile è di circa 190 euro lordi al mese, oltre la metà degli albanesi guadagna meno di 315 lordi, solo il 10% più di 750. Non a torto poi Macron lamenta riforme giudiziarie inadeguate a Tirana per contrastare corruzione e criminalità organizzata

Rama si è messo a disposizione dell’Ue, stringendo accordi di cooperazione con sui migranti

ITALIA E GERMANIA PER L’INGRESSO NELL’UE

Parigi chiede un processo di allargamento dell’Ue «riformato», con un accesso «graduale» alla politiche europee e un iter «rigoroso» e soprattutto «reversibile». Mentre la politica della Germania, che nell’Est e nei Balcani ha come l’Italia interessi commerciali e ramificazioni bancarie, è quella di includere nuovi Stati. Forse proprio per alimentare l’economia di un’Ue a più velocità. Il clima di scontro politico tra il premier socialista e la destra del predecessore Sali Berisha, sfociato nelle gravi violenze alle manifestazioni di quest’anno, è un altro elemento di instabilità che rende l’Albania scivolosa per i partner europei. Eppure Rama si è messo a disposizione dell’Ue, stringendo accordi di cooperazione con sui migranti, attraverso l’agenzia europea Frontex per la difesa dei confini esterni e per il contrasto del traffico di esseri umani. E a denti stretti è pronto a ingoiare il tradimento di fiducia, per riprendere le trattative con Bruxelles in primavera, «perché non ci sono alternative a un’Albania europea, lo dobbiamo alle nuove generazioni».

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Il premier albanese Edi Rama. GETTY.

I TRAFFICI DEL BALCANI E L’ESCA RUSSA

Per venire incontro all’Ue, nel 2019 la Macedonia ha concordato con la Grecia il difficile cambio di nome in Macedonia del Nord, chiudendo un contenzioso storico. La porta blindata dalla Francia, con motivazioni anche sensate, frustra le popolazioni (anche della Serbia e del Montenegro in fila con la Bosnia per entrare), riaccende i nazionalismi e sposta i Balcani verso l’area russo-turca. Una situazione molto complicata: per reazione anche i grossi traffici di droga e armi – mai stroncati – della regione possono aumentare. Il gioco d’azzardo legale, abolito da Rama dall’inizio del 2019, è tra le cause che riducono la crescita in Albania. Oltre al calo di produzione di elettricità, nel Paese delle aquile ricco di acqua e di centrali, per le ricadute della congiuntura internazionale e per le turbolenze interne. Il terremoto aggrava non poco le carenze strutturali e infrastrutturali dell’Albania, che è priva anche di una vera rete ferroviaria. E può frenare il turismo: nel 2019 i visitatori stranieri erano cresciuti dell’11% (dati Instat), migliaia di loro erano italiani.

Il nuovo stop dell’Ue allontana l’accesso di Tirana ai fondi strutturali europei

ITALIA PRIMO PARTNER COMMERCIALE

L’Italia è storicamente il primo partner commerciale, per un interscambio di 1,2 miliardi di euro nel primo semestre del 2019. Soprattutto nell’export, che equivale al 30% delle merci in ingresso in Albania. Banca Intesa poi, attraverso le filiali dell’ex Veneto Banca, è la quarta banca presente sul territorio. E centinaia sono anche le imprese, molte delle quali volatili, registrate dai connazionali nel Paese delle aquile: gli italiani restano tra i primi investitori nel commercio, nell’industria, anche nell’energia e nelle costruzioni. In un territorio ancora difficile, nel 2017 e nel 2018 l’interscambio con l’estero dell’Albania era cresciuto dell’11%, ricorda un rapporto della Farnesina. Il nuovo stop dell’Ue, a un processo che sarebbe comunque durato del tempo, allontana l’accesso di Tirana ai fondi strutturali europei che sarebbero stati molto d’aiuto alla ricostruzione dopo il sisma. Ma la ressa dei terremotati per pane e per le derrate nelle tendopoli a Durazzo è anche conseguenza della «repubblica delle betoniere», ricorda l’attivista albanese Mirela Jorgo.

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Bloomberg, il miliardario giusto al momento sbagliato

Il sindaco che fece risorgere New York dopo l'11 settembre, prova a sfidare Trump. Ma i tempi sono cambiati. I valori dell'élite sono meno dominanti. E il magnate potrebbe riuscire solo nell'impresa di spaccare ancora di più i dem.

Una battaglia tra miliardari è quello che per l’oramai corposa sinistra dem americana proprio non ci vuole alle Presidenziali del 2020. Michael Bloomberg ha soldi, tanti. Oltre 50 miliardi di dollari in più del patrimonio stimato di Donald Trump (3 miliardi), dice Forbes. Con una propaganda che solo l’ex sindaco di New York si può permettere, e l’attestato degli enormi successi da esibire per gli States, Bloomberg conta di spianare il tycoon che dal 2017 mette a soqquadro la Casa Bianca. Con la sua potenza di fuoco è convinto di essere l’unico a poterlo battere: certo non Joe Biden 77enne come lui, che da ex vice di Barack Obama non avrebbe la spinta della novità. Men che meno l’ala radicale può attrarre la maggioranza di capitalisti tra i democratici, perciò Bloomberg è corso in loro soccorso candidandosi. Ma i capitalisti sono davvero ancora la maggioranza tra i dem?

L’ANATEMA DI SANDERS

Bernie Sanders sentenzia «disgustato» che «i multimiliardari non andranno lontano in queste elezioni». Che in una settimana Bloomberg abbia iniettato 34 milioni di dollari in video, manifesti e altre pubblicità a tappeto inorridisce il senatore indipendente del Vermont. Trenta milioni (il doppio delle risorse finora accumulate da Biden) Sanders li ha raccolti in un anno, attraverso le piccole donazioni di circa 4 milioni di elettori sparsi negli States che, è sicuro, non lo tradiranno. «Questa è la democrazia, i miliardari non hanno il diritto di comprarsi le elezioni», sostiene il vecchio socialista che da affiliato dem ha radunato e tirato su una schiera di agguerrite liberal al Congresso. Tra loro, la senatrice Elizabeth Warren, ironia della sorte un’ex repubblicana come Bloomberg, è la candidata più agguerrita, e più apprezzata, tra i dem per la Casa Bianca.

Donald Trump saluta Michael Bloomberg all’anniversario delle stragi dell’11 settembre. GETTY.

WARREN SCAVALCA TUTTI

Anti-trumpiana di ferro, da quando ha svoltato radicalmente dal libero mercato propone welfare e istruzione pubblica per tutti e tasse per le multinazionali come la Bloomberg. E a sorpresa è una trascinatrice: la sua campagna, si dice, è quella che va meglio; nei sondaggi a ottobre è balzata davanti a Biden (25%) per gradimento. «Le elezioni non sono in vendita, né per i miliardari né per gli ad delle corporation», ha sbottato Warren a un comizio dopo aver saputo della discesa di Bloomberg. Chiaro che né Warren, né Biden – tantomeno Bloomberg fermo per ora a un magro 3% – con questi numeri possono vincere le prossime Presidenziali, ma l’ostacolo maggiore per il Paperone di New York arriva dalla selva di competitor interni e detrattori tra i dem. Non da Trump che di questo passo trarrà solo vantaggio dalle divisioni degli avversari.

UN PAPERONE DEMOCRATICO

L’establishment dei dem non è ancora pronto a candidati radicali. Bloomberg è un vincente di idee centriste deciso a scuotere e infiammare l’area dei Clinton: per la corsa alla Casa Bianca si stima metterà in campo fino a 100 milioni di dollari, soprattutto dalle primarie di marzo in grandi Stati come la California. Con l’esperienza negli affari e nell’amministrazione il magnate promette di salvare gli States dai quattro anni di amministrazione Trump. In fondo soldi e successo hanno sempre fatto presa negli Usa, sono il grande sogno del popolo americano che dai politici esige anche rigore. E infatti Bloomberg – ex democratico passato ai repubblicani, diventato indipendente e infine tornato tra i dem – giura che da presidente degli Usa non intascherà un dollaro. E investe milioni nelle campagne per l’ambiente e contro la diffusione delle armi.

Presidenziali Usa Bloomberg democratici Trump
Bloomberg è impegnato e finanzia le battaglie sul clima. GETTY.

L’EPOPEA DI BLOOMBERG

Suona strano ma il capo supremo, proprietario e fondatore del colosso della finanza e dei media con 19 mila dipendenti (2700 giornalisti) nel mondo odia anche le gerarchie. La sua scrivania ai piani alti della Bloomberg, si racconta, è ancora in mezzo a quelle di semplici impiegati. Un democratico, multimiliardario grazie all’inventiva e a una robusta preparazione: ingegnere elettronico, specializzato anche ad Harvard in Economia aziendale, a Bloomberg non si possono certo negare competenze e capacità anche eccezionali che Trump solo millanta: l’idea di una rete di terminali informatici per aggiornare Wall Street e il mondo della finanza in tempo quasi reale fu pionieristica negli Anni 80. E nell’era di Internet quei video-terminali sono ancora irrinunciabili per gli operatori di Borsa e rappresentano l’ossatura del sistema dei media creato da Bloomberg. Per la corsa a primo cittadino di New York questo appeal funzionò.

L’AMERICA È CAMBIATA

Nella Grande mela Bloomberg scese in campo dopo la tragedia dell’11 settembre, la ereditò dallo sceriffo Rudolph Giuliani e restò sindaco fino al 2013, «facendola risorgere dalle ceneri», afferma. I tempi però sono mutati: l’America sta cambiando pelle. Gli ideali e i valori sono sempre meno quelli dell’élite, ora meno dominante; e sempre più quelli delle moltitudini di latinos, neri, immigrati in crescita demografica. Dalla Manhattan ripulita da Giuliani e popolata da ricchi da Bloomberg – l’enclave dell’elettorato radical chic di Hillary Clinton – è sgorgata l’ondata di rivalsa popolare che nel 2014 ha eletto sindaco l’italo-americano, ex filosandinista, Bill De Blasio. Nel cuore tradito di New York ha pulsato Occupy Wall Street, e si è diffusa la rivista chomskiana Jacobin. Lì tanti guardano a Warren, ma Bloomberg, ex sindaco, non sembra accorgersene.

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L’ultimo sfregio ai tesori di Dresda, la “Firenze sull’Elba”

La rapina alla Camera del Tesoro del palazzo reale è un attacco al patrimonio culturale della città tedesca. Già ampiamente distrutto e trafugato nella Seconda guerra mondiale. Le opere e la storia.

Non sarà il «furto spettacolare di un miliardo di euro» sparato dai tabloid tedeschi, ma è un altro saccheggio per Dresda, un nuovo furto del secolo. «Una perdita di valore inestimabile, storico e artistico. Per gioielli del genere non esiste un valore finanziario», raccontano dal museo dei Tesori del Castello che fu la residenza dei principi e dei re di Sassonia. Le sue sale dalle Volte verdi (Grünes Gewölbe) dal 2006 sono tornate lo scrigno della maggiore collezione di gioielli in Europa: la volle nel 1723 Augusto II il Forte, il principe (poi re di Polonia) che rese la città “la Firenze sull’Elba“. Da una vetrina spaccata nella notte tra il 24 e il 25 novembre sono sparite proprio tre parure di diamanti e brillanti, in tutto un centinaio di pezzi, del tesoro del principe del rinascimento della Sassonia. Tra i gioielli più pregiati si è salvato il grande diamante verde da 41 carati, al Metropolitan di New York dal 18 novembre.

NELLE VOLTE VERDI 3 MILA GIOIELLI

I tesori del palazzo reale di Dresda contano più di 4 mila gioielli, circa 3 mila dei quali (non tutti esposti) nelle sale della Grünes Gewölbe, con altre opere in oro, argento e preziosi. Per la Germania, e più che mai per la città, la rapina nel museo è uno choc dopo lo choc: Dresda fu rasa al suolo durante la Seconda guerra mondiale, anche parte rilevante del castello andò distrutta e i tesori furono portati a Mosca dall’Armata rossa. Solo anni dopo i gioielli furono restituiti alla Ddr, e le sale interamente ricostruite all’inizio del 2000. Per il museo della Grünes Gewölbe sono stati spesi 45 milioni di euro: con la Pinacoteca dello Zwinger è diventata la maggiore attrazione dei visitatori di Dresda, ma la storia tormentata dei suoi tesori non ha avuto fine. Per i cristiano-democratici che governano il Land la rapina è «un attentato all’identità culturale di tutta la Sassonia».

Dresda furto gioielli arte
Il furto dei Tesori al palazzo reale di Dresda. GETTY.

I PRECEDENTI DEI MUNCH E DEI VAN GOGH RECUPERATI 

L’allarme del furto è partito all’alba, attorno alle 5. La Bild ha riportato l’indiscrezione (non confermata) di una centralina elettrica collegata al complesso sabotata nella notte. I ladri – «un gruppo di diversi sconosciuti», ha comunicato il governo del Land – sarebbero poi entrati da una finestra nel museo. Anche per la polizia criminale il caso è «grosso». Ma non è il furto più eclatante di opere d’arte, neanche negli ultimi decenni: fece scalpore, nel 2004, l’assalto al Museo Munch di Stoccolma, da parte di due uomini armati, sotto gli occhi dei visitatori. L’Urlo fu recuperato, ma i danni alla tela si sono rivelati irreparabili. Un altro furto spettacolare fu messo a segno nel 1991 al Van Gogh Museum di Amsterdam, dove un rapinatore chiuso in bagno riuscì a trafugare 20 dipinti del genio olandese, con l’aiuto di un basista. Quadri ritrovati poche ore dopo in un’auto.

La Monna Lisa di Leonardo da Vinci fu portata via dal Louvre nel 1911 dal decoratore italiano Vincenzo Peruggia

LA GIOCONDA RUBATA E RITROVATA

Altri capolavori rubati da gallerie o musei sono riemersi tempo dopo, su segnalazioni o alle aste. Accadde così anche per il furto d’arte di tutti i secoli: la Monna Lisa di Leonardo da Vinci portata via dal Louvre nel 1911. Il decoratore italiano Vincenzo Peruggia si infilò in uno sgabuzzino del museo, dopo la chiusura sfilò la Gioconda dalla cornice e se la infilò sotto il camice, scappando da una porta sul retro. Un atto di «patriottismo», dichiarò un paio di anni dopo, intercettato mentre tentava di rivenderla agli Uffizi. Un altro da Vinci, valutato 70 milioni di euro, sparì da un castello scozzese nel 2003 e fu rinvenuto in una perquisizione a Glasgow nel 2007. Altre opere non sono invece mai tornate a casa, come il Manet e il Vermeer trafugati nel 1990 al Gardner Museum di Boston. O come, a proposito di Germania, la moneta d’oro da 100 chili sparita nel 2017 dal Bode Museum di Berlino.

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Le sale delle Volte verdi, nel Castello di Dresda, contengono più di 3 mila preziosi. (Getty)

IL RINASCIMENTO SULL’ELBA

O almeno non sono ancora tornati, ma gli inquirenti dubitano di ritrovare Big Maple Leaf. I quattro autori sono stati arrestati in un mega blitz, ma è probabile che il quintale d’oro da un milione di euro sia stato fuso appena dopo il furto. Anche in questo caso, i ladri sarebbero entrati di notte da una finestra, beffando in un modo o nell’altro il sistema d’allarme: si parlò del «colpo alla moneta più grande del mondo». Quanto al palazzo reale di Dresda, ospita una collezione di gioielli meno nota, per esempio, della Camera del tesoro imperiale di Vienna. Ma come quella dell’Hofburg tra le più antiche e belle d’Europa. Lo splendore neoclassico e barocco, anche degli edifici della città, voluto da Augusto II il Forte ha molto dell’Italia: sotto il suo assolutismo la città sull’Elba visse un rinascimento. Il principe commissionò i lavori ad architetti che avevano studiato il barocco a Firenze, da Michelangelo e dal Bernini.

La Sempergalerie della pinacoteca Zwinger fu progettata ricalcando gli Uffizi, per ospitare centinaia di opere d’arte del 1400, 1550 e 1600

I PALAZZI IN STILE FIORENTINO

Per la cattedrale cattolica, che nella cripta ospita Augusto II il forte e altri membri della casata, fu incaricato l’architetto Gaetano Chiaveri che per il cantiere trasferì a Dresda tutte le maestranze. Diverse ville e palazzi della nobiltà, bombardati nei raid del 1945, furono costruiti sul modello dei palazzi fiorentini. La Sempergalerie della pinacoteca Zwinger fu progettata ricalcando gli Uffizi, per ospitare centinaia di opere d’arte del 1400, 1550 e 1600, diverse anche del Rinascimento italiano. Della collezione inestimabile di Dresda fanno parte capolavori di Tiziano, Raffaello, del Correggio e del Mantegna: opere accumulate nei palazzi, come i gioielli della Camera del tesoro, per la sete estetica anche del figlio e successore di Augusto II il forte, Augusto III. La rapina al palazzo reale è una nuova ferita per Dresda, per la Germania il «furto peggiore dalla Seconda guerra mondiale».

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Bella ciao, la nuova vita dell’inno partigiano

Alcune versioni house e pop l'oltraggiano. Ma grazie alla moda della Casa di carta la canzone è tornata il leitmotiv delle rivolte. Mai così politica come dagli Anni 70.

Nell’arco di una stagione il Professore più famoso di Netflix ha portato Bella ciao nelle piazze in rivolta. Un revival così non si vedeva dagli Anni 70. La canzone dei partigiani è diventata il leitmotiv delle proteste popolari riesplose in Medio Oriente contro i governi inefficienti e corrotti. Si canta a squarciagola anche nei cortei che attraversano l’America latina, dal Cile all’Ecuador alla Bolivia in sommossa. E naturalmente nelle piazze europee, incluse quelle delle sardine in Emilia-Romagna, si spera per altre e antiche ragioni ma non è detto. Anche le sardine, attenzione, sono un fenomeno dilagato dalla Rete, strette tra loro potrebbero stare delle tute rosse a volto coperto (dalla maschera di Salvator Dalì) che scandiscono il canto della Resistenza come migliaia di altre tute rosse nel mondo. Il Professore è il loro capo nella Casa di carta, la serie televisiva spagnola che gira su Netflix, e, con Internet, è l’ultimo sdoganatore di Bella ciao.

Azza Zarour, Bella ciao.

L’INNO DELLA CASA DI CARTA

Il contagio del 2019 si deve al successo degli ingredienti della trama ideata da Alex Pina: Bella ciao viene cantata in italiano nelle scene più salienti, dai protagonisti che irrompono nel Palazzo della zecca spagnola (la casa di carta) per stampare miliardi di euro e fuggire col malloppo, e poi nella Banca centrale per rubare l’oro. Bella ciao, spiegano al pubblico i protagonisti, era le canzone cantata dal nonno del Professore mentre da partigiano combatteva i fascisti, «tutta la vita del Professore girava intorno a un’unica idea: Resistenza». Nella serie accade anche che i rapinatori, tutti scelti con precedenti penali, non torcano un capello ai sequestrati; e che di questi tempi per le loro imprese trovino la solidarietà della popolazione. La gente in strada protesta e parteggia per i loro colpi, Bella ciao è il collante che ha reso i rapinatori Robin Hood in guerra con lo Stato. Con quest’ultima moda e la sua carica rivoluzionaria Bella ciao è sbarcata nelle rivolte vere.

Bella ciao saudita, Gedda.

In versione house Bella ciao ha oltre 30 milioni di visualizzazioni

DAI CURDI ALLA DISCO MUSIC

Ancora chi protesta in Asia magari non conosce bene la storia e non capisce il testo in italiano, ma il senso della canzone è chiaro a tutti. Un gap che si sta colmando: traduzioni in arabo e in altre lingue e servizi dei media locali ripercorrono la genesi e il significato di Bella ciao. Che in Medio Oriente è cantata dai curdi dagli Anni 70, e dal 2011 è tornata popolare nella lotta armata per scacciare l’Isis e per costruire regione autonoma socialista del Rojava. Tra la Siria e l’Iraq, insieme ai volontari stranieri uniti alla causa curda, si era ricreata una comunità partigiana che naturalmente cantava Bella ciao. Ma finché la melodia nel 2018 non è apparsa nelle puntata della Casa di carta non aveva attecchito nelle piazze, tra gli arabi. Con la serie della piattaforma online, la più vista tra quelle non di lingua inglese, Bella ciao ha avuto una eco planetaria. In versione house, Bella ciao ha più di 30 milioni di visualizzazioni, un altro adattamento disco brasiliano più di 170 milioni.

Blaya chara, Iraq.

UNA MODA ANCHE OFFENSIVA

L’autore Pina sostiene che Bella ciao sia un «inno alla resistenza come la serie» e che nel mondo finché ci «sarà resistenza ci sarà speranza», sottinteso anche con la Casa di carta. La verità è meno nobile: con la serie sono nate cover anche oltraggiose dell’inno dei partigiani. Una versione saudita è in circolazione, grazie a un accordo tra Netflix e gli studi di Gedda del cantante Amine el Berjawi: la nota dittatura conta milioni di fan della serie spagnola. In Turchia, se non altro con più coerenza, la Casa di carta è invece censurata per il sospetto di messaggi contro Recep Tayyip Erdogan; e lo è ancora di più la Bella ciao di piazza Taksim e del Pkk curdo. Diverse versioni modaiole di Bella ciao sono in compenso diventate virali in Medio Oriente: a settembre la sex symbol libanese Shiraz ha lanciato anche un clip per il karaoke, in Palestina ci ha pensato la bella cantante e attrice Azza Zarour, seguitissima in tivù e sui social. Anche in tuta rossa.

Un Bella ciao rave, Tripoli (Libano).

In Libano la Bella ciao araba è diventata la canzone più ballata a Beirut e Tripoli

POI DI NUOVO CANZONE POLITICA

Solo poi si sono propagate le contestazioni tra il Libano, l’Iraq, il Kuwait, infine l’Iran. Sempre grazie al tam tam anche spurio della Rete. Ma ne è comunque valsa la pena. Le Belle ciao rivisitate dagli attivisti e dai dimostranti in Iraq e in Libano toccherebbero i cuori dei partigiani. A Mosul un gruppo di 20enni ha confezionato un video ispirato alla serie di Netflix, ma con la versione politica Blaya chara («nessuna via d’uscita)» di Bella ciao, «in solidarietà ai manifestanti». In Libano la Bella ciao araba è diventata la canzone più ballata delle contestazioni a Beirut e Tripoli che hanno fatto dimettere il premier Saad Hariri e assediano il parlamento. Come in Cile, dove assieme al Pueblo unido  la canzone italiana è il tormentone dei cortei di Santiago, la intonano i professori e gli studenti cileni in rivolta. Alla fine la Casa di carta non ha snaturato Bella ciao, semmai è vero il contrario. È la Casa di carta a sfruttare – anche – la fortuna di Bella ciao e a farla, questo sì, di rivivere di vita propria.

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Chi sono i foreign fighters dell’Isis che la Turchia vuole rispedire in Europa

Sarebbero 1.200 i cittadini europei catturati in Siria. Molti di loro sono jihadisti che Ankara è pronta a rimpatriare nei Paesi d'origine. Che però, nella mancata comunicazione tra intelligence, non sanno gestirli. Il punto.

L’11 novembre la Turchia ha espulso il primo dei combattenti stranieri dell’Isis trattenuti sul suo suolo, un americano che alla fine sembra essere stato abbandonato sul confine con la Grecia (quindi dell’Ue), rimbalzato più volte tra le polizie. «Non è un nostro problema», ha dichiarato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Sono seguiti due rimpatri, uno verso la Germania l’altro verso la Danimarca, e nei giorni dopo effettuati decine di voli verso l’Europa. «Centinaia e centinaia ce ne saranno ancora», ha promesso Erdogan e fa sul serio. Chi invece a lungo ha declinato, e declina, le proprie responsabilità sulle migliaia di foreign fighter (gli stranieri partiti per combattere con l’Isis e al Qaeda in Medio Oriente) sono i maggiori governi europei: la Gran Bretagna, come gli Stati Uniti, disconosce questi cittadini, la Francia e il Belgio tentano di farli processare in Iraq, la Germania li accetta ma non sa ancora bene dove mettere le mani.

LE LACUNE DELLE INTELLIGENCE

Ci sono prove o sufficienti elementi per disporre custodie cautelari? È certa alle intelligence la loro identità? In alcuni casi no. Il ministero degli Esteri tedesco ha ammesso di non conoscere ancora tutti i nomi dei concittadini in partenza dalla Turchia, solo un terzo dei rientrati è sotto inchiesta. Si tratta poi di stranieri catturati (circa 2280) dalla coalizione guidata dai curdo-siriani (Ypg) durante la liberazione caotica del Nord della Siria. Combattenti jihadisti detenuti in origine nelle carceri del Rojava, regione invasa questo autunno dalle forze turco-arabe dopo l’improvviso ritiro degli americani. Nell’ultima indagine dell’Egmont Institute si stima che circa 1.200 foreign fighter dell’Europa fossero finiti nelle prigioni curde. Sarebbe stato necessario un gioco di squadra tra i dipartimenti dell’antiterrorismo per ricostruire i percorsi dei sopravvissuti: migliaia di jihadisti stranieri sono morti o dispersi in guerra, alcuni di loro erano tracciati, mentre altri in vita no. Invece i governi occidentali chiamati in causa erigono muri. 

Un foreign fighter arrestato in Italia.
Un foreign fighter arrestato in Italia.

IN ITALIA NESSUN ARRIVO

L’Italia stavolta non fa testo: era tra i Paesi dell’Ue con meno foreign fighter, anche per le dinamiche di immigrazione più recenti. Tra i circa 140 partiti dal nostro Paese, una cinquantina risultano morti, e nel totale solo 25 erano cittadini italiani: tra loro, alcuni sono rientrati in Ue e diversi sono monitorati. Non ci sarebbero italiani in arrivo dalla Turchia: anche all’estero, ha fatto notizia la storia del piccolo Elvin, identificato dall’antiterrorismo italiano nel campo dell’Isis di al Hol, in Siria, e riportato a casa grazie alla collaborazione con le forze curde attraverso un corridoio umanitario tra Damasco e il Libano. Si ha contezza anche di altri bambini italiani nel Nord-Est della Siria sotto il controllo delle Ypg, che si tentano di rimpatriare. In ogni caso le donne e i minori rappresentano un problema nel problema, anche tra i foreign fighter in Turchia: circa due terzi di questi detenuti (ovvero 700) sono bambini tratti in salvo nei combattimenti. Spesso orfani di un genitore (come Elvin della madre), quando non dell’intera famiglia.

IL DESTINO DELLE DONNE RECLUTATRICI

Alcune donne dell’Isis sono rilasciate all’arrivo in Europa, per il ruolo passivo o la mancanza di prove, seguite poi nella de-radicalizzazione come è accaduto in Germania. Altre, come un’altra tedesca subito portata in carcere a Francoforte, sono accusate di avere avuto un ruolo attivo nella rete terroristica. E, quindi, sono considerate ancora pericolose come la combattente e reclutatrice di spose per i miliziani Tooba Gondal: 25enne di origine pachistana, è cresciuta a Londra dove vorrebbe tornare dalla famiglia, ed è ben nota all’intelligence del Regno Unito che le ha vietato il soggiorno. Tooba però, più volte vedova di jihadisti e con diversi figli, ha il passaporto francese. Di conseguenza era nella lista turca di ex membri dell’Isis da rimpatriare in Francia, dove in compenso l’intelligence ha pochi elementi su di lei. Il suo caso, come quello del primo espulso americano, è emblematico del groviglio sul destino dei terroristi cittadini di Stati occidentali che non li vorrebbero indietro.

Isis foreign fighter Turchia Ue
Circa 700 membri dell’Isis europei catturati in Siria sono bambini. GETTY.

LE CITTADINANZE REVOCATE

A questo proposito, negli Stati Uniti un giudice ha appena negato la cittadinanza a una donna dell’Isis, nata e cresciuta nell’Alabama, ma figlia di un diplomatico yemenita all’Onu: condizione che le è valsa l’altolà al rientro dalla Siria. Allo stesso modo il Regno Unito ha revocato la cittadinanza a diversi jihadisti (comprese alcune convertite da Gondal) per i quali si sostiene ci sarebbero gli estremi per la cittadinanza automatica nei Paesi d’origine. E sebbene anche i britannici si siano adeguati all’ultimatum («la Turchia non è un albergo»), lasciando atterrare dei sospetti terroristi, insistono affinché siano «processati nel luogo dove sono stati commessi i crimini», cioè in Siria e in Iraq. Una posizione sostenuta anche dal Belgio, costretto ad «aprire procedure bilaterali» con Ankara, ma con Baghdad si vedrà. Le resistenze sui connazionali nell’Isis restano forti anche in Francia, dove dal 2014 sono rientrati circa 250 affiliati grazie ad accordi con la Turchia. Ma i circa 400 che erano in Siria si vorrebbe fossero giudicati e detenuti in Iraq.

IL GIRO DI DENARO TRA RAQQA, LA TURCHIA E L’UE

A Baghdad c’è la pena di morte, anche le donne dell’Isis colpevoli di gravi reati sono giustiziate, mentre in Francia sconterebbero pene in media di 10 anni. Eppure gli esperti di terrorismo raccomandano di non mettere la testa nella sabbia, anche per ragioni di sicurezza: gli ultimi attacchi non sono stati compiuti da ex foreign fighter, in un modo o nell’altro, tracciati. Ma da cani sciolti come i rifiutati dagli Usa e dall’Ue, o fanatici e fanatiche apolidi o in fuga – con i figli – dai campi di prigionia verso le tante cellule sparse dell’Isis in Siria e in Iraq. E resta il fatto che più di 1000 jihadisti siano a tutti gli effetti cittadini Ue. Vero è che neanche la Turchia può fare il poliziotto buono, sottraendosi alle responsabilità sull’Isis: il dipartimento del Tesoro Usa sta sanzionando aziende turche che hanno rifornito al Baghdadi per anni. Money transfer, cambi valute e gioiellerie aperte dai jihadisti hanno operato anche dal Gran Bazar di Istabul verso Raqqa e gli altri territori dell’Isis. Con ramificazioni in Medio Oriente e fino in Belgio, nel cuore dell’Ue.

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Chi sono i foreign fighters dell’Isis che la Turchia vuole rispedire in Europa

Sarebbero 1.200 i cittadini europei catturati in Siria. Molti di loro sono jihadisti che Ankara è pronta a rimpatriare nei Paesi d'origine. Che però, nella mancata comunicazione tra intelligence, non sanno gestirli. Il punto.

L’11 novembre la Turchia ha espulso il primo dei combattenti stranieri dell’Isis trattenuti sul suo suolo, un americano che alla fine sembra essere stato abbandonato sul confine con la Grecia (quindi dell’Ue), rimbalzato più volte tra le polizie. «Non è un nostro problema», ha dichiarato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Sono seguiti due rimpatri, uno verso la Germania l’altro verso la Danimarca, e nei giorni dopo effettuati decine di voli verso l’Europa. «Centinaia e centinaia ce ne saranno ancora», ha promesso Erdogan e fa sul serio. Chi invece a lungo ha declinato, e declina, le proprie responsabilità sulle migliaia di foreign fighter (gli stranieri partiti per combattere con l’Isis e al Qaeda in Medio Oriente) sono i maggiori governi europei: la Gran Bretagna, come gli Stati Uniti, disconosce questi cittadini, la Francia e il Belgio tentano di farli processare in Iraq, la Germania li accetta ma non sa ancora bene dove mettere le mani.

LE LACUNE DELLE INTELLIGENCE

Ci sono prove o sufficienti elementi per disporre custodie cautelari? È certa alle intelligence la loro identità? In alcuni casi no. Il ministero degli Esteri tedesco ha ammesso di non conoscere ancora tutti i nomi dei concittadini in partenza dalla Turchia, solo un terzo dei rientrati è sotto inchiesta. Si tratta poi di stranieri catturati (circa 2280) dalla coalizione guidata dai curdo-siriani (Ypg) durante la liberazione caotica del Nord della Siria. Combattenti jihadisti detenuti in origine nelle carceri del Rojava, regione invasa questo autunno dalle forze turco-arabe dopo l’improvviso ritiro degli americani. Nell’ultima indagine dell’Egmont Institute si stima che circa 1.200 foreign fighter dell’Europa fossero finiti nelle prigioni curde. Sarebbe stato necessario un gioco di squadra tra i dipartimenti dell’antiterrorismo per ricostruire i percorsi dei sopravvissuti: migliaia di jihadisti stranieri sono morti o dispersi in guerra, alcuni di loro erano tracciati, mentre altri in vita no. Invece i governi occidentali chiamati in causa erigono muri. 

Un foreign fighter arrestato in Italia.
Un foreign fighter arrestato in Italia.

IN ITALIA NESSUN ARRIVO

L’Italia stavolta non fa testo: era tra i Paesi dell’Ue con meno foreign fighter, anche per le dinamiche di immigrazione più recenti. Tra i circa 140 partiti dal nostro Paese, una cinquantina risultano morti, e nel totale solo 25 erano cittadini italiani: tra loro, alcuni sono rientrati in Ue e diversi sono monitorati. Non ci sarebbero italiani in arrivo dalla Turchia: anche all’estero, ha fatto notizia la storia del piccolo Elvin, identificato dall’antiterrorismo italiano nel campo dell’Isis di al Hol, in Siria, e riportato a casa grazie alla collaborazione con le forze curde attraverso un corridoio umanitario tra Damasco e il Libano. Si ha contezza anche di altri bambini italiani nel Nord-Est della Siria sotto il controllo delle Ypg, che si tentano di rimpatriare. In ogni caso le donne e i minori rappresentano un problema nel problema, anche tra i foreign fighter in Turchia: circa due terzi di questi detenuti (ovvero 700) sono bambini tratti in salvo nei combattimenti. Spesso orfani di un genitore (come Elvin della madre), quando non dell’intera famiglia.

IL DESTINO DELLE DONNE RECLUTATRICI

Alcune donne dell’Isis sono rilasciate all’arrivo in Europa, per il ruolo passivo o la mancanza di prove, seguite poi nella de-radicalizzazione come è accaduto in Germania. Altre, come un’altra tedesca subito portata in carcere a Francoforte, sono accusate di avere avuto un ruolo attivo nella rete terroristica. E, quindi, sono considerate ancora pericolose come la combattente e reclutatrice di spose per i miliziani Tooba Gondal: 25enne di origine pachistana, è cresciuta a Londra dove vorrebbe tornare dalla famiglia, ed è ben nota all’intelligence del Regno Unito che le ha vietato il soggiorno. Tooba però, più volte vedova di jihadisti e con diversi figli, ha il passaporto francese. Di conseguenza era nella lista turca di ex membri dell’Isis da rimpatriare in Francia, dove in compenso l’intelligence ha pochi elementi su di lei. Il suo caso, come quello del primo espulso americano, è emblematico del groviglio sul destino dei terroristi cittadini di Stati occidentali che non li vorrebbero indietro.

Isis foreign fighter Turchia Ue
Circa 700 membri dell’Isis europei catturati in Siria sono bambini. GETTY.

LE CITTADINANZE REVOCATE

A questo proposito, negli Stati Uniti un giudice ha appena negato la cittadinanza a una donna dell’Isis, nata e cresciuta nell’Alabama, ma figlia di un diplomatico yemenita all’Onu: condizione che le è valsa l’altolà al rientro dalla Siria. Allo stesso modo il Regno Unito ha revocato la cittadinanza a diversi jihadisti (comprese alcune convertite da Gondal) per i quali si sostiene ci sarebbero gli estremi per la cittadinanza automatica nei Paesi d’origine. E sebbene anche i britannici si siano adeguati all’ultimatum («la Turchia non è un albergo»), lasciando atterrare dei sospetti terroristi, insistono affinché siano «processati nel luogo dove sono stati commessi i crimini», cioè in Siria e in Iraq. Una posizione sostenuta anche dal Belgio, costretto ad «aprire procedure bilaterali» con Ankara, ma con Baghdad si vedrà. Le resistenze sui connazionali nell’Isis restano forti anche in Francia, dove dal 2014 sono rientrati circa 250 affiliati grazie ad accordi con la Turchia. Ma i circa 400 che erano in Siria si vorrebbe fossero giudicati e detenuti in Iraq.

IL GIRO DI DENARO TRA RAQQA, LA TURCHIA E L’UE

A Baghdad c’è la pena di morte, anche le donne dell’Isis colpevoli di gravi reati sono giustiziate, mentre in Francia sconterebbero pene in media di 10 anni. Eppure gli esperti di terrorismo raccomandano di non mettere la testa nella sabbia, anche per ragioni di sicurezza: gli ultimi attacchi non sono stati compiuti da ex foreign fighter, in un modo o nell’altro, tracciati. Ma da cani sciolti come i rifiutati dagli Usa e dall’Ue, o fanatici e fanatiche apolidi o in fuga – con i figli – dai campi di prigionia verso le tante cellule sparse dell’Isis in Siria e in Iraq. E resta il fatto che più di 1000 jihadisti siano a tutti gli effetti cittadini Ue. Vero è che neanche la Turchia può fare il poliziotto buono, sottraendosi alle responsabilità sull’Isis: il dipartimento del Tesoro Usa sta sanzionando aziende turche che hanno rifornito al Baghdadi per anni. Money transfer, cambi valute e gioiellerie aperte dai jihadisti hanno operato anche dal Gran Bazar di Istabul verso Raqqa e gli altri territori dell’Isis. Con ramificazioni in Medio Oriente e fino in Belgio, nel cuore dell’Ue.

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L’incriminazione di Netanyahu aggrava la crisi in Israele

Tempi bui anche per il capo di Stato Rivlin. Né Bibi né l’avversario Gantz sono in grado di formare un governo. Così il premier accusato di tre reati resta in sella. Fino al voto anticipato di aprile. E forse anche dopo.

Un nuovo primato aggrava la peggiore crisi politica di Israele. Come era nell’aria, Benjamin “Bibi” Netanyahu, a 70 anni il più longevo primo ministro israeliano, è anche il primo premier incriminato durante il mandato. Nell’anno del record del bis delle Legislative, che dall’aprile del 2019 è probabile diventeranno un ter, a marzo 2020. «Giorni duri, cupi negli annali della storia di Israele», anche per il capo di Stato Reuven Rivlin che in questi frangenti dovrebbe essere una roccia. L’annuncio dell’incriminazione del leader del Likud Netanyahu, per bocca del procuratore generale Avichai Mandelblit, è piovuto all’indomani del fallimento del capo dellopposizione Benny Gantz nel tentare di formare un governo. Era stato incaricato da Rivlin, dopo il premier, ma anche il generale della coalizione Blu e Bianco ha dovuto rimettere il mandato. Dal voto anticipato di settembre è impossibile formare un esecutivo. Entro metà dicembre spetta al parlamento della Knesset proporre un candidato premier che raccolga un’improbabile maggioranza. 

LA CORSA ALL’IMMUNITÀ

Altrimenti, e sarà così, si tornerà al voto anticipato entro tre mesi. Netanyahu non sembra aver intenzione di mollare. Ha tenuto botta in tre anni di indagini, con la moglie Sara incriminata e poi condannata per appropriazione di fondi pubblici. Restare primo ministro è l’unica arma per far approvare alla Knesset leggi ad personam che gli risparmino il carcere (e può intanto attivare la procedura per l’immunità da parlamentare). In Israele un premier è tenuto a dimettersi solo alla condanna definitiva in terzo grado, per la quale occorreranno anni. Anche se certo per “Bibi” non è politicamente opportuno insistere: l’opinione pubblica è sensibile ai procedimenti giudiziari. E il Likud – con consensi in calo e dei fuoriusciti – è rimasto leale al leader. Ma il tentativo del governo Netanyahu di far passare una nuova legge sull’immunità, dopo il penultimo voto ad aprile, fece storcere il naso anche a parte dei conservatori. E fu subito abbandonato.

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit. GETTY.

LA PALUDE DI NETANYAHU E GANTZ

Grazie alla «caccia alle streghe» lamentata da Netanyahu, Gantz e l’alleato Yair Lapid drenano voti verso il cartello centrista partorito meno di un anno fa. La loro campagna era centrata sulle indagini contro Netanyahu per corruzione, frode e abuso d’ufficio, non sul conflitto con la Palestina. Sulla guerra a Netanyahu si era compattata anche la Lista unita degli arabi israeliani. Ma, come il Likud, Gantz e gli altri non hanno una maggioranza sufficiente per governare, non ancora almeno. E per molto: anche i sondaggi di novembre danno un quadro sostanzialmente invariato dalla scorsa primavera. Blu e Bianco (33) ha scavalcato il Likud (32), ma di appena un seggio: e per Gantz, senza il blocco di sostegno della destra estrema e religiosa, raggiungere gli indispensabili 61 seggi è ancora più dura che per Netanyahu. Lista araba e l’ultranazionalista sionista Avigdor Lieberman , l’ex ministro della Difesa killer di “Bibi”, sono incompatibili.

Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari

LE MANOVRE CON I TYCOON

La via d’uscita alla palude esiste: è un governo di grande coalizione tra Blu e Bianco e Likud. Impossibile però senza la testa di “Bibi”. A rigor di logica con l’incriminazione i tempi dovrebbero essere maturi: Mandelblit l’ha disposta per tutti i capi di accusa esaminati («un tentato colpo di Stato» per Netanyahu) e i reati contestati sono particolarmente odiosi. In particolare la corruzione del caso 4000 è infamante: Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari. Verso l’azienda telefonica Bezeq proprietaria anche di un sito web di news, in cambio di una copertura di notizie favorevole. La stessa manovra sarebbe stata intavolata – ma non realizzata – con il tycoon della free press Aron Mozes: non attraverso un’offerta di finanziamenti ma di modifiche legislative favorevoli. Per le quali il premier israeliano è accusato di abuso d’ufficio nel caso 2000

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (Likud). GETTY.

BIBI RISCHIA FINO A 13 ANNI 

La frode riguarda invece il caso 1000 e, nello stile, è più simile allo scandalo della moglie Sara che faceva la bella vita a spese dello Stato. Gli indizi portano la procura generale a pensare che il premier israeliano (in carica dal 2009 e già primo ministro tra il 1996 e il 1999) abbia ricevuto regalie per quasi 200 mila dollari tra sigari, gioielli e champagne: «La sua catena di fornitori», ha precisato Mandelblit. Miliardari, nel caso di “Bibi”, incluso il produttore di Pretty Woman di origine israeliana Arnon Milchan, in cambio di visti d’ingresso e altri favori. Se condannato, il leader del Likud potrebbe scontare fino a 10 anni per corruzione e un massimo di tre anni per la frode e l’abuso di potere. Come Lieberman i flop elettorali, il procuratore generale designato proprio da Netanyahu aspettava da tempo questo momento: ha comunicato le incriminazioni di fronte alle telecamere, annunciò di scavare sui casi un mese prima del voto del 9 aprile.

L’interesse pubblico ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge

Avichai Mandelblit

IL LIMBO DELL’INTERIM

Mandelblit è uno dei nemici di Netanyahu, da tempo si è distaccato dal premier sempre più spregiudicato non soltanto politicamente. «L’interesse pubblico», ha chiosato, «ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge». Per i laburisti le 63 pagine della superprocura sul premier sono «la più grave incriminazione contro un funzionario eletto nella storia di Israele». Un «giorno triste» anche per Gantz e i suoi: Blu e Bianco ha postato il video di 11 anni fa di Netanyahu di condanna contro l’allora primo ministro Ehud Olmert (nel Likud e poi in Kadima) accusato all’epoca di corruzione. Olmert si dimise, prima del verdetto e dei 16 mesi di carcere, e fu rimpiazzato proprio da “Bibi”. Ma per il successore potrebbe andare diversamente. Le tappe verso un vero governo sono una via crucis per i cittadini israeliani. Ma l’interim in mano a Netanyahu dalla crisi di fine 2018 è un limbo perfetto per restare in sella, nonostante tutto.

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L’incriminazione di Netanyahu aggrava la crisi in Israele

Tempi bui anche per il capo di Stato Rivlin. Né Bibi né l’avversario Gantz sono in grado di formare un governo. Così il premier accusato di tre reati resta in sella. Fino al voto anticipato di aprile. E forse anche dopo.

Un nuovo primato aggrava la peggiore crisi politica di Israele. Come era nell’aria, Benjamin “Bibi” Netanyahu, a 70 anni il più longevo primo ministro israeliano, è anche il primo premier incriminato durante il mandato. Nell’anno del record del bis delle Legislative, che dall’aprile del 2019 è probabile diventeranno un ter, a marzo 2020. «Giorni duri, cupi negli annali della storia di Israele», anche per il capo di Stato Reuven Rivlin che in questi frangenti dovrebbe essere una roccia. L’annuncio dell’incriminazione del leader del Likud Netanyahu, per bocca del procuratore generale Avichai Mandelblit, è piovuto all’indomani del fallimento del capo dellopposizione Benny Gantz nel tentare di formare un governo. Era stato incaricato da Rivlin, dopo il premier, ma anche il generale della coalizione Blu e Bianco ha dovuto rimettere il mandato. Dal voto anticipato di settembre è impossibile formare un esecutivo. Entro metà dicembre spetta al parlamento della Knesset proporre un candidato premier che raccolga un’improbabile maggioranza. 

LA CORSA ALL’IMMUNITÀ

Altrimenti, e sarà così, si tornerà al voto anticipato entro tre mesi. Netanyahu non sembra aver intenzione di mollare. Ha tenuto botta in tre anni di indagini, con la moglie Sara incriminata e poi condannata per appropriazione di fondi pubblici. Restare primo ministro è l’unica arma per far approvare alla Knesset leggi ad personam che gli risparmino il carcere (e può intanto attivare la procedura per l’immunità da parlamentare). In Israele un premier è tenuto a dimettersi solo alla condanna definitiva in terzo grado, per la quale occorreranno anni. Anche se certo per “Bibi” non è politicamente opportuno insistere: l’opinione pubblica è sensibile ai procedimenti giudiziari. E il Likud – con consensi in calo e dei fuoriusciti – è rimasto leale al leader. Ma il tentativo del governo Netanyahu di far passare una nuova legge sull’immunità, dopo il penultimo voto ad aprile, fece storcere il naso anche a parte dei conservatori. E fu subito abbandonato.

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit. GETTY.

LA PALUDE DI NETANYAHU E GANTZ

Grazie alla «caccia alle streghe» lamentata da Netanyahu, Gantz e l’alleato Yair Lapid drenano voti verso il cartello centrista partorito meno di un anno fa. La loro campagna era centrata sulle indagini contro Netanyahu per corruzione, frode e abuso d’ufficio, non sul conflitto con la Palestina. Sulla guerra a Netanyahu si era compattata anche la Lista unita degli arabi israeliani. Ma, come il Likud, Gantz e gli altri non hanno una maggioranza sufficiente per governare, non ancora almeno. E per molto: anche i sondaggi di novembre danno un quadro sostanzialmente invariato dalla scorsa primavera. Blu e Bianco (33) ha scavalcato il Likud (32), ma di appena un seggio: e per Gantz, senza il blocco di sostegno della destra estrema e religiosa, raggiungere gli indispensabili 61 seggi è ancora più dura che per Netanyahu. Lista araba e l’ultranazionalista sionista Avigdor Lieberman , l’ex ministro della Difesa killer di “Bibi”, sono incompatibili.

Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari

LE MANOVRE CON I TYCOON

La via d’uscita alla palude esiste: è un governo di grande coalizione tra Blu e Bianco e Likud. Impossibile però senza la testa di “Bibi”. A rigor di logica con l’incriminazione i tempi dovrebbero essere maturi: Mandelblit l’ha disposta per tutti i capi di accusa esaminati («un tentato colpo di Stato» per Netanyahu) e i reati contestati sono particolarmente odiosi. In particolare la corruzione del caso 4000 è infamante: Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari. Verso l’azienda telefonica Bezeq proprietaria anche di un sito web di news, in cambio di una copertura di notizie favorevole. La stessa manovra sarebbe stata intavolata – ma non realizzata – con il tycoon della free press Aron Mozes: non attraverso un’offerta di finanziamenti ma di modifiche legislative favorevoli. Per le quali il premier israeliano è accusato di abuso d’ufficio nel caso 2000

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (Likud). GETTY.

BIBI RISCHIA FINO A 13 ANNI 

La frode riguarda invece il caso 1000 e, nello stile, è più simile allo scandalo della moglie Sara che faceva la bella vita a spese dello Stato. Gli indizi portano la procura generale a pensare che il premier israeliano (in carica dal 2009 e già primo ministro tra il 1996 e il 1999) abbia ricevuto regalie per quasi 200 mila dollari tra sigari, gioielli e champagne: «La sua catena di fornitori», ha precisato Mandelblit. Miliardari, nel caso di “Bibi”, incluso il produttore di Pretty Woman di origine israeliana Arnon Milchan, in cambio di visti d’ingresso e altri favori. Se condannato, il leader del Likud potrebbe scontare fino a 10 anni per corruzione e un massimo di tre anni per la frode e l’abuso di potere. Come Lieberman i flop elettorali, il procuratore generale designato proprio da Netanyahu aspettava da tempo questo momento: ha comunicato le incriminazioni di fronte alle telecamere, annunciò di scavare sui casi un mese prima del voto del 9 aprile.

L’interesse pubblico ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge

Avichai Mandelblit

IL LIMBO DELL’INTERIM

Mandelblit è uno dei nemici di Netanyahu, da tempo si è distaccato dal premier sempre più spregiudicato non soltanto politicamente. «L’interesse pubblico», ha chiosato, «ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge». Per i laburisti le 63 pagine della superprocura sul premier sono «la più grave incriminazione contro un funzionario eletto nella storia di Israele». Un «giorno triste» anche per Gantz e i suoi: Blu e Bianco ha postato il video di 11 anni fa di Netanyahu di condanna contro l’allora primo ministro Ehud Olmert (nel Likud e poi in Kadima) accusato all’epoca di corruzione. Olmert si dimise, prima del verdetto e dei 16 mesi di carcere, e fu rimpiazzato proprio da “Bibi”. Ma per il successore potrebbe andare diversamente. Le tappe verso un vero governo sono una via crucis per i cittadini israeliani. Ma l’interim in mano a Netanyahu dalla crisi di fine 2018 è un limbo perfetto per restare in sella, nonostante tutto.

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Johnson e Corbyn in trincea, tra Brexit ed elezioni di dicembre

A sorpresa i due leader pareggiano nell’agguerrito duello tivù per le Legislative. I progressisti perdono consensi tra i Libdem. Mentre il Labour non si decide sul divorzio dalla Ue.

ll fermo immagine più esaustivo del sorprendente duello in tivù del 19 novembre tra Boris Johnson e Jeremy Corbyn è sul pubblico che ride. Più volte e a più riprese, fragorosamente. Che si ricordi in Gran Bretagna non si era mai riso tanto a un dibattito tra leader politici, come al primo duello andato in scena Oltremanica tra un primo ministro e un capo dell’opposizione. Lo scontro in vista del turbolento voto nazionale del 12 dicembre 2019 ha avuto quasi 7 milioni di spettatori incollati allo schermo (5 milioni in più dei faccia a faccia tra i leader minori) e l’inatteso risultato di un pareggio. Nei sondaggi il premier pirotecnico è in vantaggio di almeno 10 punti (42%) sul capo dei laburisti (32%), Le previsioni di YouGov sul duello erano ancora più sbilanciate verso il leader dei conservatori (37%): appena il 23% del campione si immaginava che Corbyn potesse fare meglio di “BoJo”. Invece la percentuale si è quasi ribaltata con un 49% di gradimento per Corbyn e un 51% per Johnson. 

IL NUCLEARE SULLA BREXIT

Anche la Bbc è del parere che non ci siano vincitori. Corbyn si è dimostrato aggressivo quanto il premier per la turbo Brexit: lo ha attaccato da mastino sulla sanità, proponendo al pubblico affamato una svolta. Ma la verità è che tutti sono stufi e nessuno ha un’idea di come andranno le Legislative più drammatiche della democrazia britannica: l’elettorato è mobile, disilluso, frammentato. lo dimostra anche la bufera sui Libdem, terzo partito rivelazione delle Europee di quest’anno, scatenata dalla leader Jo Swinson «pronta se necessario a usare l’atomica», ha dichiarato in tivù subito dopo il duello. E ci mancava il nucleare: Swinson aveva molti punti a suo favore (prima donna in capo ai Libdem, più giovane leader politico britannico di sempre, calamita degli anti-Brexit) per calare la carta del rinnovamento, ma si sta alienando molte simpatie per l’imprudenza nelle dichiarazioni. Dall’estate i Libdem sono scesi dal 20% al 15% nei sondaggi.

Jeremy Coryn, leader laburista.

I LIBDEM HANNO UN PROBLEMA

Swinson, europeista thatcheriana, vuol marcare le distanze dalla sinistra. Ma la scelta non paga. La leader indipendentista Nicola Sturgeon, scozzese come Swinson, è inorridita dal «test di virilità nauseante» del bottone dei Libdem sull’atomica: «La mia risposta a uccidere milioni di persone sarebbe stata no». Un fossato tra Swinson e la socialista Sturgeon, rossa governatrice di Edimburgo, significa minor compattezza nelle barricate a Westminster contro la Brexit: gli indipendentisti scozzesi sono una forza cruciale anche nel parlamento di Londra. Con “BoJo” al governo hanno anche ripreso a puntare i piedi sulla secessione: nel dibattito il premier uscente ha accusato Corbyn di volersi alleare con i nazionalisti scozzesi di Surgeon, per chiedere un referendum, e ha ammesso che «preservare il Regno Unito è più importante che compiere la Brexit». Una priorità: la deregulation nell’isola è uno dei rischi peggiori – e concreti – della Brexit.

Al duello Corbyn ha demolito il piano dei 40 nuovi ospedali promessi dal leader conservatore

LA BATTAGLIA SULLA SANITÀ

I sostenitori più accaniti del leave lo antepongono anche all’unità nazionale. Sarebbe una catastrofe e Johnson frena, ma così rischia di perdere consensi verso il Brexit Party (5%) di Nigel Farage. Viceversa, in Scozia diversi elettori conservatori – pro remain – come già dei deputati potrebbero mollare i tory. Da parte sua Corbyn nega di spalleggiare gli scozzesi, ma certo sui temi sociali è più vicino ai separatisti di Edimburgo che non ai Libdem: il suo Labour anticapitalista fa la guerra alla «società di miliardari e di persone molto povere», è per la «fine dell’austerità» e per un welfare granitico. Al duello Corbyn ha demolito il piano dei 40 nuovi ospedali promessi dal leader conservatore. Un documento (smentito da Johnson) proverebbe incontri segreti tra l’ultimo governo e investitori statunitensi pronti a entrare nel sistema sanitario britannico, con nuovi accordi commerciali bilaterali, non appena verrà archiviata la Brexit.

Brexit Irlanda del Nord Ulster Johnson
Il nuovo premier britannico Boris Johnson all’Ue per l’accordo sulla Brexit. GETTY.

ELETTORATO INSOFFERENTE

L’impopolarità di Swinson tra i progressisti è acqua al mulino del Labour, che tuttavia sull’uscita dall’Ue non riesce a inviare messaggi chiari. Neanche al faccia a faccia: incalzato da “BoJo”, Corbyn ha affermato di voler rinegoziare una Brexit migliore con Bruxelles e di sottoporla a un nuovo referendum, con l’opzione anche di restare nell’Ue. Ma non ha detto se è per leave o per il remain. Schierarsi, equivarrebbe a perdere la fronda dei laburisti euroscettici, preziosa anche per i tory. Ma allora non c’è da stupirsi se alla dichiarazione di «voler unire il Paese, non dividerlo» il pubblico è scoppiato a ridere. Come all’esclamazione di Johnson: «La verità è importante per le elezioni!». Spenti i riflettori, gli spettatori hanno commentato di non poterne più dei politici. Ben vengano le belle intenzioni, ma poi Labour, scozzesi e Libdem troveranno una sintesi per la convivenza? E le promesse di BoJo hanno fondamento, la Brexit è possibile entro il 31 gennaio? 

Un’altra insidia del voto la localizzazione dell’elettorato britannico pro e contro la Brexit

VOTO A MACCHIA DI LEOPARDO

Come David Cameron, l’ex sindaco di Londra si gioca la carriera politica sulla tabella di marcia. Battuto da Westminster, Johnson ha mandato il Paese alle urne per ricompattare i tory sul leader e crearsi un parlamento amico. È verosimile che la spunterà: anche scendendo sotto il 42% di Theresa May è molto difficile che il Labour arrivi al 40% del 2017. Ma sarà una vittoria di misura tra una popolazione sempre più lacerata: un’altra insidia è la localizzazione dell’elettorato britannico in macroaree pro e contro la Brexit. Scozia e Londra (e altre città inglesi) per il remain, come oltre la metà dell’Irlanda del Nord tornata calda. Galles e Inghilterra per il leave. E nel sistema elettorale britannico, conta il prevalere di una forza sull’altra nei collegi, non importa con quale percentuale. L’80% di un collegio vale i deputati del 51% di un altro. Il prossimo match tra “BoJo” e Corbyn è il 6 dicembre, verso le Legislative di un altro voto schizofrenico sulla Brexit.

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Cosa succede in Iran col black out sulle rivolte della benzina

Internet e telefoni bloccati. Decine di morti, secondo l’opposizione, nelle proteste contro il rincaro dei carburanti per le sanzioni di Trump. Rohani ammette: è la situazione più grave dal 1979. Ma resta d’accordo con la repressione. Il punto.

Nessuno, fuori dall’Iran, sa cosa accade in Iran. Le rivolte sono montate in tutte le città, all’impennata del costo della benzina: sono state bloccate strade e incendiate centinaia tra banche e negozi. Immagini delle devastazioni rimbalzavano sui social network, ma poi è calato il blocco di internet più massiccio in 40 anni di Repubblica islamica. Gli arrestati sarebbero migliaia, alcune decine di morti (due quelli ammessi dalle autorità), centinaia probabilmente i feriti nelle «proteste per il carburante». La Germania e la Francia invitano il regime a «rispettare le legittime manifestazioni e la libertà di espressione»: il messaggio cifrato sottende il ritorno anche da parte dell’Unione europea, in caso contrario, alle sanzioni economiche che hanno fatto riesplodere la pentola a pressione iraniana.

IRANIANI STROZZATI DA TRUMP

Da più di un anno c’è forte sofferenza per l’embargo totale di Donald Trump. Il presidente iraniano Hassan Rohani ha ammesso una «situazione difficile e complicata» come internamente non accadeva dalla rivoluzione nel 1979. Sui carburanti ha annunciato un piano di rincari nelle sovvenzioni, secondo il quale il prezzo calmierato (circa 11 centesimi di euro al litro per i primi 60 litri al mese) della benzina aumenterà del 50% a 15 mila rial, per i litri successivi del 300%. Lo scopo dichiarato è redistribuire i risparmi in sussidi per gli oltre due terzi di popolazione in difficoltà. Ma gli iraniani non gli credono: se e quando i risparmi saranno redistribuiti non varranno più nulla. Dal 2018 lo Stato fa i conti con un’inflazione al 40%, i risparmi di tante famiglie sono spariti.

Iran rivolte benzina petrolio sanzioni
Una banca incendiata in Iran nelle rivolte della benzina. (Twitter)

PEGGIO CHE NELLA GUERRA CON L’IRAQ

Anche per il Fondo monetario internazionale la crisi è peggiore che negli anni della lunga guerra tra l’Iran e l’Iraq (1980-1988). È un paradosso che la potenza dell’Opec, dove un altro maxi giacimento da 50 miliardi stimati di barili di petrolio è stato appena scoperto, non possa godere del suo oro nero. Ma in un anno l’export è crollato da circa 2 milioni e mezzo a un milione e mezzo di barili al giorno: resiste soprattutto verso Paesi asiatici amici come la Cina. Neanche l’Italia (fino ad aprile 2019 esentata con altri 8 Paesi dal blocco finanziario e commerciale Usa) può più acquistare greggio e altre merci: anche le società dei Paesi europei che continuano a rispettare l’accordo sul nucleare (Jcpoa) con l’Iran vengono colpiti dalle sanzioni secondarie americane.

Scontri con le forze dell’ordine sono stati ripresi anche nella città santa sciita di Mashhad

LA PARALISI CON L’OCCIDENTE

Il meccanismo finanziario alternativo creato dall’Ue per continuare a scambiare beni con l’Iran non funziona. Sebbene la Repubblica islamica cerchi di diversificare l’economia, riesce a esportare verso l’Occidente solo merci come lo zafferano, del quale è pressoché unica produttrice mondiale: un primato che porta le aziende del settore ad aggirare le multe. Per il resto è paralisi: il ceto medio iraniano non può permettersi spese extra, per i poveri la carne è un lusso, anche molti ricchi evitano gli spostamenti all’estero. Come negli anni bui della presidenza Ahmadinejad, la merce europea non si trova quasi più e gli affitti sono schizzati. Proteste a catena contro le banche erano esplose già due Natali fa in Iran, ma stavolta sono più violente e massicce.

LE CRITICHE CONTRO IL REGIME

Come nel Libano e nell’Iraq – dipendenti dall’Iran – la popolazione contesta anche il regime, chiede un cambiamento economico e politico. Scontri con le forze dell’ordine sono stati ripresi anche nella città santa sciita di Mashhad: sono in rivolta tanto la maggioranza sciita quanto le minoranze sunnite. Ad Ahvaz, nel Sud-Ovest arabo ricco di pozzi, le proteste si erano propagate qualche giorno prima dell’annuncio dei rincari, per la morte sospetta di un giovane poeta e attivista della minoranza. Poi l’annuncio sulla benzina è stata la miccia. Disordini sono esplosi anche all’università di Tabriz, nel Nord azero. Tra gli zoroastriani di Yazd e nella conservatrice Isfahan. Nella capitale sono state bloccate strade e attaccati benzinai e mezzi della polizia.

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Il presidente iraniano Hassan Rohani.

L’INTRANSIGENZA DEI PASDARAN

Diversi commercianti del Gran bazar di Teheran hanno chiuso i battenti. Ma per la Guida suprema Ali Khamenei sono solo «banditi manovrati dall’esterno»: la stessa spiegazione data dalla teocrazia alle mobilitazioni in piazza Tahrir a Baghdad e in piazza dei martiri a Beirut. Come in Iraq (oltre 200 civili morti dall’inizio di ottobre), in Iran sarebbero partiti dei colpi di arma da fuoco: un testimone, rimasto anonimo per ragioni di sicurezza, ha raccontato all’agenzia Reuters di aver «udito spari» ad Ahvaz. Decine di dimostranti sarebbero in ospedale in condizioni critiche nell’hinterland di Teheran. Come le loro forze sciite in Iraq e in Libano, i pasdaran iraniani minacciano «azioni decisive» per riportare l’ordine. La loro risposta è l’intransigenza.

INTERNET E CELLULARI BLOCCATI

La censura è totale, anche i siti delle agenzie ufficiali sono lenti o inaccessibili. Le reti di telefonia mobile sono bloccate: chi vive in zone di confine tenta di comunicare con le schede straniere. In vista delle Legislative di febbraio 2020, i politici dell’opposizione invitano governo e parlamento ad ascoltare i manifestanti. Rohani è incalzato, le forze – di sistema – che sono fuori dall’esecutivo cavalcano la rabbia popolare. Ma sarebbe stato lo stesso Rohani, a capo del Consiglio supremo di sicurezza, a dare l’ordine del black-out. Il presidente iraniano condanna le violenze, senza ascoltare le critiche della gente per i miliardi inviati dall’apparato di Difesa a Gaza, agli Assad in Siria, agli Hezbollah in Libano e alle milizie in Iraq. Ma è probabile che anche le sollevazioni nei Paesi satellite derivino dal gap economico e di democrazia esportato dall’Iran.

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Germania, la chiamata alle armi della delfina di Merkel

Le celebrazioni per il compleanno della Bundeswehr. Il riarmo. Il pressing sul parlamento per più missioni all’estero. Un Consiglio nazionale di sicurezza. Così Kramp-Karrenbauer strizza l'occhio al militarismo.

Giusto qualche anno fa, nel 2015, l’esercito della Germania faceva notizia per imbracciare manici di scopa tinti di nero al posto dei fucili nelle esercitazioni della Nato, tanto era sguarnito. Per i training, al posto dei blindati si usavano alla bisogna dei furgoni Mercedes. Lo sgomento era così forte che qualcuno, tra i graduati, cominciò a inviare rapporti riservati a riguardo alla tivù pubblica tedesca (Ard). Un vento radicalmente cambiato dall’arrivo Annegret Kramp-Karrenbauer in capo alla Difesa, o quantomeno la delfina di Angela Merkel vorrebbe che cambiasse al più presto: per i 64 anni dalla nascita, il 12 novembre del 1955, della Bundeswehr ha dato ordine a tutti i governatori di festeggiare il «compleanno dell’esercito con parate di giuramento in tutti i Land». «All’aperto», senza vergogna, guai a ripararsi dentro le caserme.

LA PARATA A BERLINO

A Berlino il giuramento di 400 reclute è andato in scena ieratico nel grande campo davanti al Reichstag. Una cerimonia del genere, davanti alla scritta Dem deutschen Volke («al popolo tedesco») all’ingresso del parlamento, non avveniva dal 2013. E comunque mai si era cercata tanta enfasi: Ursula von der Leyen, prima alla Difesa, aveva tolto i giuramenti pubblici, avviando l’indispensabile dietro le quinte del riarmo delle truppe con una scia di inevitabili polemiche. Il passato dei Reich restava pesante: anche durante la Guerra fredda, quando la militarizzazione divenne d’obbligo per la Germania Ovest, le cerimonie militari avvenivano a testa bassa, in sordina. E dagli Anni 90, mezzi e uomini della Bundeswehr si erano assottigliati: si preferì approfittare della pax europea, anche con un esercito rinforzato delle truppe dell’Est.

INTERVENTISTA IN SIRIA

Per Kramp-Karrenbauer, Akk come la chiamano i tedeschi, è tempo di essere orgogliosi dei propri soldati, «parte e presidio della società democratica». Ed è tempo anche, ha spronato espressa sempre Akk il parlamento, che i soldati tedeschi siano più presenti nel mondo; che la Germania, con o senza la Nato, prenda l’iniziativa. Le uscite così ravvicinate sul riarmo e il piglio – molto diverso da quello di Von der Leyen – hanno valso rapidamente alla nuova titolare della Difesa la reputazione di militarista: soprattutto la proposta unilaterale di qualche settimana fa, senza consultare o informare neppure il collega degli Esteri, di una forza di peacekeeping europea in Siria, al posto degli americani, ha scatenato un’ondata di reazioni critiche. Nel governo, in parlamento e tra la popolazione tedesca. Anche le parate del 12 novembre sono state contestate da gruppi di pacifisti.

AKK È MILITARISTA?

Come la nuova presidente della Commissione Ue, Kramp-Karrenbauer è cresciuta sotto l’ala di Merkel. Entrambe devono l’ascesa alla cancelliera. Ma Akk è più a destra di Merkel e di Von der Leyen: integralista nell’etica, e sovranista in politica. Come primo provvedimento alla Difesa ha bloccato la privatizzazione, nella riorganizzazione disposta da Von der Leyen, del gruppo statale che mantiene e ripara i mezzi dell’esercito. Kramp-Karrenbauer si è anche posta da subito più vicino alle truppe: non potendo chiedere un ritorno alla leva obbligatoria, si è rammaricata che «della disaffezione alle forze armate dal suo abbandono». Ma se sulla Siria Akk ha fatto infuriare il titolare degli Esteri, il socialdemocratico (Spd) Heiko Maas, e diversi altri, dalle cerimonie per l’anniversario della Bundeswehr si è dissociata solo la sinistra radicale della Linke.

Germania riarmo Difesa Bundeswehr
AKK tra le truppe della Bundeswehr, Germania. GETTY.

IL CAMBIO DI MENTALITÀ

Si commenta che da tanto tempo i militari non erano così presenti in Germania. E non è per forza un male. Sul giuramento anche i Verdi, come i socialdemocratici, danno ragione ad Akk. La percezione della Bundeswehr, nata a Bonn con un centinaio di volontari nel 1955, è sempre meno distorta dallo spettro della Wehrmacht, soprattutto tra i giovani. Nel 1980, quando per la prima volta si tenne un giuramento delle forze armate in uno stadio, a Brema, esplosero proteste con centinaia di feriti. Ancora nel 2010 un capo dello Stato dovette dimettersi per aver affermato, come fece l’imprudente Horst Köhler (Cdu) probabilmente più da ex capo del Fondo monetario internazionale (Fmi), che un «Paese grande come la Germania avrebbe dovuto difendere i propri interessi anche commerciali, nell’emergenza, anche attraverso interventi militari».

IL CONSIGLIO DI SICUREZZA

Per Köhler si parlò di «politica da cannoniere». Come quella italiana, la Costituzione tedesca vieta azioni offensive, tanto più guerre commerciali, alle forze armate. E ogni intervento militare a scopo difensivo deve essere richiesto dal parlamento. Con Kramp-Karrenbauer si inizia a chiamare la «Germania poliziotto del mondo» e si torna a invocare il dettato costituzionale. Ma non scatta più tanta veemenza, e non se ne chiedono le dimissioni. La proposta di Akk di istituire un Consiglio nazionale di sicurezza di coordinamento tra gli apparati militari e dei ministeri dell’Economia, dell’Interno e dello Sviluppo è stata anzi apprezzata dai vertici diplomatici e dello stato maggiore. Chiusa la parata, la ministra ha annunciato il potenziamento delle forze armate con «nuovi equipaggiamenti e nuovi militari» entro il 2031. Lo chiede la Nato, ma non solo.

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Chi sono e a chi fanno comodo i terroristi di Jihad islamica

Gli estremisti della Striscia di Gaza sono manovrati da Teheran per destabilizzare Tel Aviv. Che a sua volta li sfrutta per indebolire Hamas. Gli unici sconfitti, così, sono i palestinesi.

Follow the rockets, segui i razzi. La crisi nella Striscia di Gaza è esplosa in settimane cruciali per i governi che, direttamente o indirettamente, sono coinvolti nello scontro. Hamas e l’Autorità nazionale palestinese (Anp), che dal 2007 si spartiscono conflittualmente il controllo nell’ordine dell’enclave e dei territori della Cisgiordania, concertano per tornare al voto insieme dopo anni, a febbraio 2020. In Israele si tenta fino all’11 dicembre di formare un governo, finora invano, pena la chiamata straordinaria, per la terza volta da aprile 2019, degli elettori alle urne. L’Iran, attore esterno-chiave, deve fronteggiare le improvvise rivolte a catena nei Paesi che di fatto controlla: l’Iraq e, attraverso il partito e le milizie di Hezbollah, anche il Libano ormai. Al centro del triangolo tra Israele, Palestina e Iran ci sono i razzi dei terroristi di Jihad islamica.

IL SEGNALE DI “BIBI”

L’attacco mirato israeliano che all’alba del 12 novembre ha ucciso a Gaza il capo militare di Jihad islamica della zona Nord della Striscia, Baha Abu al Ata (considerato la mente degli ultimi attacchi contro Israele) e la moglie, ha avuto il disco verde a orologeria del premier israeliano Benjamin “Bibi” Netanyahu mentre il rivale Benny Gantz tenta a fatica di comporre una maggioranza. È assai probabile che, come già “Bibi”, fallisca nell’impresa: trovare la quadra per un appoggio esterno della Lista unita araba sarà molto più difficile, dopo le centinaia di razzi piovuti su Israele in rappresaglia, e dopo gli oltre 30 morti tra i palestinesi per la risposta israeliana. Per Ganz sarà imbarazzante continuare a trattare, per la Lista araba quasi impossibile. Tanto più che Ganz per i palestinesi è l’ex comandante delle guerre su Gaza.

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Il comandante di Jihad islamica Baha Abu al Ata, ucciso da Israele nella Striscia di Gaza. GETTYT.

L’ARSENALE DI JIHAD ISLAMICA

Con l’omicidio di al Ata (e poche ore dopo da quello dell’altro comandante Moawad al Ferraj) in compenso Netanyahu ha dato un segnale forte a chi, nel suo elettorato, vorrebbe un’altra guerra contro la Striscia, e da tempo lo taccia di mollezza verso gli aggressori. Quest’anno i razzi di Jihad islamica hanno lambito Tel Aviv, beffando lo scudo antimissile. La guerra si è evitata perché anche Hamas ha cambiato strategia: per Israele il pericolo più grande ora viene dal movimento estremista minore, ma più direttamente manovrato dall’Iran. Fondato nel 1981, Jihad islamica è addestrata, finanziata e armata dai pasdaran con un arsenale che gli israeliani stimano aver raggiunto la portata di quello di Hamas: gran parte dei razzi sono piccoli e autoprodotti, ma alcuni percorrono 50 miglia. Non per niente il 12 novembre un missile israeliano ha colpito, ferendolo, anche un capo militare di Jihad islamica in Siria.

Jihad islamica è la longa manus dell’Iran in Palestina, come lo sono i ribelli sciiti houthi in Yemen

LA GUERRA PER PROCURA IRANIANA

Akram al Ajouri, considerato l’anello tra Jihad islamica e l’Iran, è di base in un quartiere di Damasco. Altri esponenti del movimento (terroristico anche per gli Usa, l’Ue e gli altri alleati occidentali) vivono a Beirut, in Libano. I quadri vanno in visita a Teheran, hanno incontrato il presidente iraniano Hassan Rohani, più volte il suo ministro degli Esteri Javad Zarif e i vertici dei pasdaran. Jihad islamica è la longa manus dell’Iran in Palestina, come lo sono i ribelli sciiti houthi in Yemen: una tattica che aumenta l’instabilità e le divisioni tra palestinesi, ma cementa l’influenza di Teheran e la sua pressione ai diretti confini con Israele, come in Libano con gli Hezbollah. La teocrazia sciita, in questo momento debole in Iraq, può così anche rilanciare la sua propaganda di difensore della Palestina in Medio Oriente.

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Gli ultimi raid israeliani nella Striscia di Gaza. GETTY.

LE DIVISIONI TRA I PALESTINESI

In verità a rimetterci più di tutti dalle proxy war sono come sempre i palestinesi. Anche Hamas, presa dalla gestione politica ed economica della Striscia (pessima quanto si vuole ma una realtà), non può più barricarsi nell’intransigenza della guerra a Israele: l’apertura concreta alle prime elezioni dallo scontro con Fatah è un’altra spina nel fianco per Netanyahu. L’iniezione mensile di milioni di dollari dal Qatar – permessa da Israele – alla Striscia è un compromesso accettato dagli islamisti anche a scopo elettorale, per allentare il blocco e migliorare le condizioni di vita dei due milioni di gazawi. Un piano di de-escalation sabotato sistematicamente da Jihad islamica, che dalla comoda collocazione all’opposizione attrae in compenso le frange più estreme e violente dei miliziani di Hamas.

L’unità della Palestina è un tabù per lo Stato ebraico e un freno per la Repubblica islamica

LA MIOPIA DI ISRAELE

Con loro un popolo di delusi, non a torto, della “politica” è richiamato dal movimento armato anti-sistema, soprattutto tra i giovani. Jihad islamica è anche il grimaldello dell’Iran per ridurre il margine di manovra sui palestinesi dell’Egitto (con gli Stati Uniti, mediatore delle crisi di Gaza con tutti i gruppi estremisti), diventato una sponda di Israele e degli arcinemici sauditi. Se il tentativo di organizzare le Legislative, e poi le Presidenziali, nei territori occupati e nella Striscia naufragherà, a gioirne saranno tanto gli israeliani quanto gli iraniani. L’unità della Palestina è un tabù per lo Stato ebraico e un freno per la Repubblica islamica. Ma Jihad islamica è un danno anche per Israele: alla fine dei conti, di questo passo a vincere davvero la guerra dei razzi sarà solo l’Iran.

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La Bolivia tra «golpe» e rischio di guerra civile dopo Morales

La neo presidente Añez promette nuove elezioni. Ma intanto giura sulla Bibbia, estromette gli indios e si circonda di falangisti come il "Bolsonaro di La Paz", Camacho. La società è spaccata, mentre c'è chi parla di colpo di Stato. Il punto.

L’autoproclamata presidente ad interim Jeanine Añez, ex vice senatrice dell’opposizione, afferma di voler essere uno «strumento di inclusione e di unità» per la Bolivia. Formalmente non è un’usurpatrice: ha assunto il ruolo in linea di successione, dopo la fuga in Messico di Evo Morales, e dopo le rinunce del vice di Morales, dei presidenti di Camera e Senato e dell’altro numero due del Senato. Ma nel gabinetto di transizione non ha incluso gli indios che sono tra il 40% e il 50% della popolazione, il 70% nelle zone rurali e più povere. Añez ha anche giurato sui Vangeli, commentando che la «Bibbia torna a Palazzo» e che il «potere è Dio». Nonostante dal 2006 al 2008 la medesima avesse fatto parte della Costituente voluta da Morales – primo presidente indigeno della Bolivia – che rese laica la Costituzione e diede più autonomia agli indigeni diseredati. Colmando così un vuoto di potere, la Bolivia si destabilizza ancora.

Bolivia Morales proteste Añez
Gli indios di Bolivia dalla parte di Morales. (Getty).

L’ÉLITE RAZZISTA DI SANTA CRUZ

Migliaia di indios protestano a La Paz in difesa dei diritti conquistati, pronti alla «guerra civile». Añez è una 52enne potente ed emancipata: avvocato, divorziata, è stata anche dirigente. Ha condotto campagne contro la violenza di genere ed ecologista, ma appartiene alla destra boliviana estrema e ultra-religiosa. Le viene attribuito un tweet razzista del 2013 (che avrebbe cancellato) dove si augurava un «Paese liberato dai riti satanici indigeni». Anche le manifestazioni esplose contro la rielezione di Morales sono cariche di tensioni sociali: su internet circolano video di manifestanti che incendiano le bandiere wiphala degli indigeni. Tra gli agitatori delle rivolte c’è il fondamentalista cristiano Luis Fernando Camacho: 40 anni, avvocato come Añez, dell’élite di Santa Cruz ostile agli indiosi, ha promesso all’opposizione che «Pachamama non tornerà al palazzo presidenziale», alludendo sprezzante alla madre terra venerata dagli andini.

La Cruz è un bastione di gruppi dichiaratamente xenofobi come la Falange socialista boliviana


Il New York Times

CAMACHO E I FALANGISTI

Come per Añez, «la Bolivia appartiene a Cristo». Camacho, milionario e massone, è emerso come il «Bolsonaro della Bolivia» leader delle proteste. Anche lui è accusato di fascismo, non a caso il Brasile è tra i primi governi con gli Usa a riconoscere la nuova presidenza, che invece ha rotto le relazioni dimplomatiche con il Venezuela. Camacho ha militato a lungo nell’Organizzazione giovanile cruceñista dell’estrema destra religiosa, un movimento falangista squadrista. Il partito di Añez, Unità democratica, è di ispirazione liberale, sulla carta più moderato. Ma ha egualmente come roccaforte Santa Cruz: il leader è il governatore locale Ruben Costas, l’elettorato è la borghesia della regione ricca di idrocarburi che nel 2008 tentò la secessione attraverso il Comitato civico di Camacho, per tornare in possesso delle risorse nazionalizzate da Morales. Il New York Times che definisce Camacho il leader delle rivolte, quegli anni descriveva Santa Cruz come «ancora un bastione di gruppi dichiaratamente xenofobi quali la Falange socialista boliviana».

Bolivia Morales proteste Añez
Jeanine Áñez giura sulla Bibbia come presidente della Bolivia. (Getty)

MORALES ATTACCATO AL POTERE

Il movimento boliviano franchista fu tra i primi in America Latina a dare rifugio a criminali nazisti come Klaus Barbie, ricollocato con l’operazione Condor della Cia per contribuire – come altri fascisti italiani – ai golpe e collaborare con le dittature sanguinarie sudamericane. Le contiguità dell’opposizione – e delle Chiese – con la Bolivia “nera” del passato sono una realtà, Morales e gli indios accusano Añez e Camacho di «golpe di polizia». Tuttavia anche l’ex presidente, in carica dal 2006, ha peccato della «tirannia» rimproverata. Nel 2016 Morales tentò – e perse – un referendum per una modifica della Costituzione che gli permettesse un quarto mandato. Ha potuto ricandidarsi alle Presidenziali del 20 ottobre 2019 grazie al via libera della Corte costituzionale a restare al potere fino al 2025. ll risultato fin troppo perfetto del primo turno (47% contro il 36,5% dello sfidante Carlos Mesa: i 10 punti in più che bastavano per evitare il ballottaggio) ha scatenato le contestazioni.

La polizia avrebbe sbarrato l’ingresso in parlamento ai socialisti di Morales

SENZA QUORUM DEL PARLAMENTO

Añez dichiara come «solo obiettivo» permettere nuove elezioni. E tra i ministri minori fatti giurare in un secondo tempo c’è una indios titolare del Turismo. Nondimeno la nuova presidente ha indossato la fascia di Morales senza aver raggiunto il quorum in parlamento né prestato il giuramento di rito. «Tutti gli sforzi per garantire la presenza dei parlamentari» sarebbero stati fatti, il Movimento socialista di Morales avrebbe «disertato l’aula». Contro Añez che, assunta la presidenza vacante del Senato, ha di conseguenza preso l’interim del presidente vacante per «pacificare il Paese e andare a nuove elezioni». La versione dei socialisti è diversa: all’ex presidente del Senato Adriana Salvatierra, fedelissima di Morales, la polizia avrebbe sbarrato l’ingresso in parlamento. Mentre Camacho e i suoi uomini, in un Sudamerica caldissimo, erano visti salire con Añez al palazzo presidenziale.

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I segreti dei Navy seal italiani in missione in Iraq contro l’Isis

I militari feriti erano parte di un contingente ristretto altamente selezionato. In missione per il training e l'assistenza ad azioni antiterrorismo non convenzionali. Cosa c'è dietro le operazioni contro i talebani e l'Isis e l'impenetrabilità sui loro ingaggi.

La Task force 44 degli incursori della marina (Goi) e dell’esercito (Col Moschin) colpita dall’attentato in Iraq rivendicato dall’Isis nell’area settentrionale tra le città di Kirkuk e Suleymania, è tra i contingenti italiani più enigmatici dell’estero. Al di là dell’incarico ufficiale di «mentoring e di training delle forze di sicurezza irachene impegnate nella lotta all’Isis», precisato nella nota della Difesa sull’accaduto, nulla si saprà nel dettaglio sulle operazioni affidate ai cinque italiani feriti nel Nord dell’Iraq il 10 novembre 2019. Fino a che punto in particolare l’assistenza ai militari del Paese, iracheni e curdi, si spinga a interventi sul campo e di che natura sia questa assistenza, è no comment.

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NON ADDESTRATORI DI ROUTINE

Si può ragionevolmente ipotizzare, sulla base delle missioni, che è emerso (da inchieste giornaliste o da ammissioni ex post, degli stessi governi) dalla Task force 44 in Iraq, negli anni precedenti, o della Task force gemella 45 operativa in Afghanistan contro i talebani, che i militari italiani feriti dall’ordino artigianale esploso (Ied) non fossero a sminare l’area. Un compito fin troppo elementare, come anche l’addestramento di base dei peshmerga curdi e della fanteria irachena, che l’Italia istruisce e allena con la missione Prima Parthica. Come parte della coalizione internazionale Inherent Resolve, costituita nel 2014 contro l’Isis e a guida americana.

GLI INVISIBILI DI PRIMA PARTHICA

Il centinaio di unità di elité stimate nella Task force 44 sono una parte molto ristretta dei 1.100 militari italiani (scesi poi di alcune centinaia) mandati in Iraq per contrastare l’Isis a partire dal 2014. Soprattutto sono una parte sconosciuta, non palesata all’approvazione delle missioni all’estero in parlamento. Unità impiegate semmai per formare corpi di élite antiterrorismo iracheni. Che vuol dire anche guidarli e assisterli, come avveniva nell’Operazione Sarissa in Afghanistan della Task force 45, in esplorazioni speciali, azioni talvolta dirette contro terroristi. Operazioni di cosiddetta guerra non convenzionale. Anche per trovare materiale utile per l’intelligence italiana e le alleate.

Le missioni affidate alle unità speciali italiane degli incursori sono per definizione coperte dal segreto militare

L’ASSISTENZA IN AZIONI COPERTE

Le missioni affidate alle unità speciali italiane degli incursori (anche di corpi scelti dei carabinieri e dell’aeronautica, presenti in task force di questa natura in Medio Oriente) sono per definizione coperte dal segreto militare: contingenti di élite, militari bravissimi in special modo sembra gli italiani, considerati i migliori addestratori al mondo e voluti per lavorare a stretto contatto soprattutto con i corpi scelti americani. Impegnati quest’ultimi in operazioni antiterrorismo, anche in Libia contro al Qaeda ma più platealmente e di recente in Iraq, che i loro vertici non avrebbero mai palesato se non a missione compita. Con la morte per esempio del capo dell’Isis Abu Bakr al Baghdadi.

Gli incursori del reggimento d’assalto Col Moschin (Wikipedia).

OBIETTIVO: NEUTRALIZZARE I TERRORISTI

La richiesta di una task force per l’Iraq di unità di questo tipo dall’Italia fu rivelata nel 2015 da un’inchiesta de l’Espresso che parlò di un gruppo di «pochi uomini delle forze speciali che colpiscono con discrezione ed efficacia estrema», e di «tanti istruttori, pronti però anche a combattere spalla a spalla con i soldati che addestrano». Dagli accordi di mentoring siglati – per la «neutralizzazione di bersagli di alto valore», si scriveva – , dopo l’Afghanistan che è stato un laboratorio per questo tipo di missioni antiterrorismo, erano pronte secondo indiscrezioni a essere dislocate forze simili in Somalia e in Iraq. Un anno dopo il Fatto Quotidiano tornò a raccontare della «guerra segreta dell’Italia» all’Isis.

Nel 2016 la Task force 44 fu in azione in Iraq durante le offensive contro l’Isis, allora nell’Al Anbar

L’OPERAZIONE CENTURIA

Operazioni militari condotte in Iraq dalle «forze speciali e decise dal governo all’insaputa del parlamento». Da «autorevoli fonti militari», il quotidiano aveva appreso di azioni della «Task force 44» nell’area che nel 2016 era teatro delle principali offensive anti-Isis. Un contingente selezionato, secondo le fonti, ridotto di un centinaio di unità rispetto a quello analogo in Afghanistan, come lasciava intendere anche il nome della nuova operazione Centuria. Degli italiani in azione tra Falluja e Ramadi ne parlavano allora anche i marines, per una missione inquadrata nell’intervento internazionale legittimato dall’Onu del quale è parte anche Prima Parthica. Ma «cosa ben diversa» si specificava da essa.

I NAVY SEAL ITALIANI

Del Comando interforze per le operazioni delle forze speciali (Cofs) italiane fanno parte gli incursori del 9° reggimento d’assalto della Folgore (Col Moschin), della Marina (Comsubin-Goi), del 17° stormo dell’aeronautica e il Gruppo di intervento speciale (Gis) dei carabinieri, affiancati spesso dai parà di ricognizione (185° reggimento) della Folgore e dai ranger alpini (4° reggimento). Il Gis fu creato negli Anni 70 per sconfiggere il terrorismo in Italia. In questi mesi e ancor più dalla morte di al Baghdadi, le intelligence segnalano una recrudescenza degli attacchi jihadisti nel Nord dell’Iraq, soprattutto nell’area di Kirkuk (oltre 30 solo nella prima metà di ottobre) e un aumento di cellule dell’Isis.

DINAMICA E ZONA INCERTE

I militari del commando italiano colpiti dalla bomba artigianale avanzavano a piedi: nel convoglio c’erano anche blindati, ma un pattuglia era a terra. In una zona non ancora identificata con precisione. Da fonti proprie, l’agenzia Ansa ha riportato che si tratterebbe della zona di Suleymania, dentro la Regione autonoma del Kurdistan iracheno. Altre fonti indicano invece l’area a Sud-Ovest di Kirkuk, sul confine interno con la regione, dove avrebbe ora sede la Task Force 44, proprio con il compito di addestrare corpi scelti iracheni di antiterrorismo e forze speciali curde. A la Repubblica più ufficiali dei peshmerga hanno smentito un coinvolgimento curdo nelle operazioni dell’attacco agli italiani.

Fino a che punto l’assistenza antiterrorismo a corpi scelti iracheni può diventare aiuto in scontri e battaglie?

I reparti antiterrorismo Gis dei carabinieri.

CON I CORPI SCELTI DI BAGHDAD?

I connazionali si sarebbero invece trovati in una zona dove erano attive le forze di Baghdad. Sunniti, non è escluso anche sciiti sostenuti dai reparti speciali all’estero dei pasdaran iraniani. E fino a che punto la formazione e l’assistenza antiterrorismo a corpi scelti iracheni può diventare aiuto in scontri e battaglie contro cellule o gruppi dell’Isis? Al confine con il Kurdistan iracheno sarebbe entrata in azione anche l’aeronautica. Un contingente di addestratori italiani molto specializzati, del corpo dei carabinieri, opera poi anche a Baghdad con gli agenti della polizia federale da dislocare nelle zone liberate dall’Isis. La maggioranza dei militari di Prima Parthica (circa 350) si trova invece a Erbil.

LA RIVENDICAZIONE DELL’ISIS

Nella capitale del Kurdistan iracheno si addestrano di routine i peshmerga. A scanso di equivoci, la Task force 44 non ha mai fatto parte neanche della brigata di fanteria Friuli in missione, fino al marzo 2019, a presidio della diga di Mosul dopo la liberazione della capitale irachena dei territori dell’Isis. L’attacco in Iraq agli italiani, rivendicato dall’Isis, è avvenuto alla vigilia dell’anniversario della strage di Nassiriya il 12 novembre 2003. Ma si ritiene che non avesse come target gli italiani. Piuttosto genericamente chi combatte sul campo i terroristi islamici, come il primo ottobre per la bomba al convoglio militare in Somalia. Dove opera un’altra task force speciale italiana contro gli al Shabaab.

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Gerd Leonhard: «Vi spiego perché l’uomo ringrazierà i robot»

In 20 anni cambierà tutto. Anche tanti media, di carta e online, spariranno. Con molto meno lavoro ma molti più profitti. Pure per lo Stato. La sfida nell’etica e nella redistribuzione. Il futurologo a L43.

Un mondo senza auto a carburante e call center. Dove lavorare da indipendenti per tre ore al giorno, mantenuti da un reddito minimo di base, garantito dagli introiti statali di energie potenzialmente illimitate e dai costi di produzione massicciamente abbattuti. Un mondo dove andare poi a svagarsi in locali magari con l’insegna no smartphone accanto a no smoke. O accendendo radio e tivù on demand. Navigando con la voce su una Rete molto più veloce e snella di siti web, grazie al 5G e all’intelligenza artificiale (Ai) che sbrigherà tutte le ricerche dati e i compiti di routine. Quel mondo, secondo le previsioni del futurologo tedesco Gerd Leonhard, pensatore e da anni studioso dell’impatto delle tecnologie digitali, non sarà la società mostruosa dei film sul futuro di Hollywood. Ma potrebbe diventarlo se l’etica umana non riuscirà a dominarla.

LA RIVOLUZIONE PIÙ RAPIDA

L’autore di Technology vs. Humanity (2016) non minimizza sulle distopie di un avvenire pervaso da macchine in potenza superuomini. «Potremo fare delle bombe o dei miracoli, una responsabilità tremenda», spiega a Lettera43.it dall’Internet Festival di Pisa, «il mondo cambierà più nei prossimi 20 anni che non negli ultimi 300. Il decollo concomitante di più tecnologie – dal 5G, all’Internet delle cose (Idc), all’ingegneria genetica che modificherà il genoma – porterà al più grande e repentino cambio di paradigma della storia». Per Leonhard, con alle spalle oltre 1500 speech anche tra i big del tech, settori come il bancario verranno smantellati. La gran parte dei giornali sparirà, anche online, se non diverranno un brand con più offerta digitale. «Ma l’umanità creativa» assicura «vincerà i robot e li guiderà».

Internet tecnologie futuro intervista Gerd Leonhard
Il futurolo Gerd Leonhard.

DOMANDA. Che input riceve quando raccomanda per esempio agli staff di Google o di Microsoft a restare umani, di collaborare per creare insieme i Consigli etici digitali?
RISPOSTA.
Sono fiducioso, anche loro sono esseri umani che non vogliono diventare macchine. Il problema delle tecnologie più potenti dell’uomo è che non hanno discrimine tra bene e male. Anche il Dalai Lama ritiene l’etica più importante della religione. Predico con urgenza una rete di Consigli etici digitali a livello di città, Paesi, regioni e infine del mondo, perché il gioco non sfugga di mano. Al momento sono una 20ina. Solo con questo sistema capillare e gerarchico potremo accordarci su cosa sia etico o meno. Dilemma tanto difficile quanto cruciale.

Non ci siamo riusciti nell’analogico su questioni come l’eutanasia o la maternità surrogata.
Spesso si fraintende che l’etica sia dire sempre no. Invece è discernere caso per caso. Se per esempio con le tecnologie dell’ingegneria genetica posso prevenire l’insorgere del cancro, salvando anche solo una vita umana, ho il dovere di sforzarmi come scienziato. Ma non di creare un super soldato o un dio.

È ottimista anche sulle ricadute della perdita di centinaia di professioni: davvero, come sostiene, dopo la grande contrazione torneranno a circolare soldi, tanti, che verranno distribuiti?
Per forza, i progressi saranno inevitabili, enormi e non graduali. E saranno un grosso business: comunicare diventerà come l’aria o l’acqua. L’energia pulita, solare e nucleare, sostituirà il petrolio e sarà illimitata. A basso costo come la gran parte della merce: con l’intelligenza artificiale, i computer quantistici e in 3d, le superconnessioni in 5G, si potrà produrre di più e in massa, a un costo infinitamente inferiore. I governi devono ancora incassare i soldi dai benefit: la sfida più grande, con l’etica, sarà la redistribuzione.

Ma i governi lo capiranno? Anche i partiti sono in una fase di rottura.
Ogni politico dovrebbe superare il test del futuro con patentino. Tanti vivono ancora nel passato ma se, come credo, comprenderanno i margini di guadagno del cambiamento, gli Stati potranno offrire servizi di base a tutti e un reddito minimo garantito. Basterà lavorare 2 o 3 ore al giorno, con gli stessi compensi di oggi, per tutta una serie di impieghi. Adesso lavoriamo di più proprio a causa delle nuove tecnologie, ma presto sarà l’opposto. L’idea del lavoro dovrà essere ridefinita.

Quali impieghi crolleranno drasticamente?
Le macchine faranno tutto il banking. Come parte dello scientifico e del sanitario: i robot operano già, in modo più invasivo e più economico dei chirurghi, e con più precisione. Tra 10 anni tutte le operazioni semplici, di contabilità e di routine saranno svolte dall’intelligenza artificiale in modo più efficiente e corretto: le informazioni per servizi si potranno avere in automatico parlando con le app: 20 milioni di operatori dei call center sono in estinzione. Come i contabili sostituiti da grandi calcolatori.

Lei prevede servizi pubblici più economici del 90% per i cittadini. Anche nell’informazione: libri e giornali di carta spariranno tra i media?
Toccare la carta dà piacere, nella mente si attivano circuiti diversi che quando navighiamo su Internet: sono convinto che l’80% dei libri resterà, leggeremo di più per il tempo libero. Con la gran parte dei giornali andrà diversamente: prima la stampa era un modello di business per la pubblicità, ma oggi non più. Non è affatto necessario comprare un giornale all’edicola per informarsi. Ci sono tante altre fonti.

Soprattutto sui siti Internet.
Distinguere tra carta e web è fuorviante. Tra 10 anni non ci saranno più neanche i siti web, tanto uomo  e macchina si comprenetreranno. Non servirà più digitare a mano per trovare informazioni sulle pagine online: roba di 20 anni fa. Sarà tutto disponibile a voce, on demand. E comunicheremo a distanza con audio, video, ologrammi…

Così anche il giornalismo morirà.
Affatto. Come altre professioni creative e umane sopravviverà, soprattutto nello storytelling. Il giornalismo non verrà soppiantato da macchine incapaci di comprendere e di intuire situazioni e relazioni, di indagare e di verificare dati, di creare video e immagini originali. I computer sono ottimi database e potranno anche simulare storie, ma in modo dozzinale: capire il mondo non è un dato di fatto. Certo di sicuro cambieranno i mezzi: vedremo le radio sparire dalle auto connesse a Internet. Tra i quotidiani reggeranno solo quelli molto buoni come il New York Times, l’Economist, il Guardian o der Spiegel in Germania, che da fogli di carta si stanno trasformando in brand digitali del lifestyle. Cioè in potenti società tecnologiche.

Internet tecnologie futuro intervista Gerd Leonhard
Il cervello artificiale di un umanoide. GETTY.

Due multinazionali digitali per eccellenza, Google e Facebook, cercano di fare informazione.
Ma siamo già a una crisi dei social media, per la spazzatura generata dagli algoritmi. Che di per sé sono insufficienti a fare informazione, devono incontrarsi con gli old media. Con questo abbaglio negli ultimi 10 anni sono stati persi molti soldi, molti media hanno chiuso e quel che abbiamo è un cattivo giornalismo. Ma con la redistribuzione assisteremo a un grande revival, soprattutto dei media pubblici. Anche su questo sono ottimista.

Cos’altro non diventerà mai macchina, nonostante corpi contaminati dai chip, estensioni di robot?
Ci sarà molta assistenza dell’Ai. Ma difficilmente guidare un’auto sarà totalmente automatizzato, a causa dell’imprevedibilità del traffico. Parte dei negozi resterà gestito da persone, per via delle relazioni umane indispensabili per la nostra natura. Pensiamo ai contatti in un café, al lavoro di uno chef… C’è principio paradossale nella scienza: tutto ciò che è semplice per un computer è difficile per l’uomo, e viceversa. Gli uomini hanno dei limiti logici che le macchine non hanno. In compenso riescono a comprendere e a sentire.  

Però le menti dei bambini potrebbero essere plasmate dalle tecnologie, diventando macchine: si vedono navigare negli smartphone prima di imparare a leggere e a scrivere.
È un’urgenza, come detto, proteggere la parte umana circondata da tecnologie potenti, accattivanti come le droghe. Ma c’è una strada già tracciata: i bambini per esempio non dovrebbero poter usare gli smartphone a scuola. E nei ristoranti sarebbe una bella regola il no smartphone – su base volontaria, non come obbligo per i ristoratori – oltre al no smoke.

Quali Paesi sono più avanti nella gestione responsabile delle nuove tecnologie?
Paesi nordici come Finlandia e Danimarca. In Finlandia si educano già i bambini a essere più umani in un mondo digitale: lo scontro con le nuove tecnologie si vince grazie alla cultura. Occorre capire che insegnare la meccanica ai giovani li renderà disoccupati: se diventeremo macchine saremo oscurati dai robot.


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