Non è una Libia per Putin

Il rifiuto da parte di Haftar della tregua chiesta da Mosca e Ankara dice molto del conflitto. Sicuramente che il Cremlino, sebbene supporti il generale, nel Paese non ha la stessa influenza che ha in Siria. E soprattutto che il vero obiettivo di Egitto, Arabia Saudita ed Emirati è quello di annientare la Fratellanza Musulmana.

Nella logica che ha portato Khalifa Haftar a rifiutare sdegnosamente la tregua dei combattimenti a Tripoli proposta da Vladimir Putin e Recep Tayyp Erdogan si leggono con nettezza tutte le dinamiche della crisi.

Innanzitutto si comprende che la tregua non è stata rifiutata dal leader della Cirenaica, ma dai suoi sponsor dei quali è solo l’obbediente terminale: Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti

Il Cairo, Riad ed Abu Dhabi non intendono affatto recedere dalla strategia -per loro peraltro già costosissima – intrapresa nell’aprile scorso: controllare tutta la Libia e, nel farlo, distruggere letteralmente i Fratelli Musulmani, che sono il baricentro politico sul quale si regge il governo di Fayez al-Serraj, in una logica che va ben al di là del contesto libico ma che guarda alla egemonia politica in tutta la Umma.

IL VERO OBIETTIVO È ANNIENTARE LA FRATELLANZA MUSULMANA

Sbaglia chi legge nella crisi libica solo uno scontro sul petrolio. Al Sisi, Mohammed bin Salman e l’emiro Khalīfa Āl Nahyān intendono annientare ovunque possono la Fratellanza Musulmana anche e soprattutto per ragioni di politica interna. Per loro è vitale impedire che la Libia segni una sua resurrezione, tanto più dopo il golpe di al Sisi del 2013 che ha spodestato Mohammed Morsi. Il Cairo non può letteralmente sopportare che ai suoi confini governi un esecutivo che attraverso porosissimi confini dia fiato ai Fratelli Musulmani egiziani sconfitti e perseguitati con durezza, ma non domi. Posizione fieramente supportata dai sauditi come dagli emiratini.

PER PUTIN LA LIBIA NON È LA SIRIA

Ma il rifiuto della tregua da parte di Haftar ci spiega anche – come previsto da chi scrive giorni fa – che il peso della Russia e di Putin nella crisi libica non è neanche lontanamente paragonabile con quello consolidato dal Cremlino in Siria. Il generale della Cirenaica può impunemente far fare una pessima figura a Putin, quasi irriderlo, senza timore di pagarne il prezzo, per la semplice ragione che il Cremlino lo appoggia, ma con discrezione, senza esporsi (con l’assenso all’azione dei mercenari della organizzazione Wagner) e quindi non ha armi forti di pressione. Il grosso delle forze militari di Haftar è composto dall’azione della aviazione emiratina e dai 2.000 e più mercenari nordafricani finanziati con le centinaia di milioni di dollari arrivati a Bengasi da Riad e dal Cairo. Questa relativa marginalità di Putin spiega perché sbaglia chi nei giorni scorsi ha ipotizzato uno scenario di divisione delle aree di influenza in Libia tra Mosca ed Ankara. Perché Putin conta poco e Erdogan non conta ancora abbastanza nella partita libica.

L’INCOGNITA TURCA

Infine, ma non per ultimo, il rifiuto della tregua da parte di Haftar ci indica che l’esito della esiziale battaglia per Tripoli dipende ora solo e unicamente dalla rapidità e dalla efficacia dell’arrivo sul terreno della potenza di fuoco e della strategia militare dell’esercito e della aviazione turca. È questa a oggi un’incognita, perché non ci sono precedenti di operazioni militari turche a centinaia di chilometri dai propri confini, ma tutto indica che Erdogan intenda non solo ingaggiarsi con forza nella battaglia di Tripoli, ma anche schierare da subito un contingente che la vinca e vinca l’avventurismo di Haftar. Si deve tenere conto dei numeri, della limitatissima massa critica dei combattenti sul campo: 2-3.000 per ogni fronte. Non è difficile per il contingente turco sbarcare in Libia con un impatto e una massa offensiva sufficienti a contrastare e anche a sbaragliare poche migliaia di avversari.

LEGGI ANCHE: Conte e Di Maio scelgano da che parte stare in Libia

Erdogan infatti ha motivazioni speculari, opposte, a quelle di Riad, del Cairo e di Abu Dhabi. Se gli riuscirà di imporre il salvataggio in extremis del governo di al-Serraj (e quindi il rafforzamento definitivo dei Fratelli Musulmani libici) e di battere militarmente Haftar e i suoi alleati, segnerà una vittoria determinante, pesantissima, per l’egemonia politica nel campo sunnita (1 miliardo di fedeli) in tutto il Mediterraneo, il Medio Oriente e anche l’Asia. Inoltre conseguirebbe un enorme vantaggio – come ben si vede dal suo accordo sulle acque territoriali con al Serraj – nella spartizione degli immensi giacimenti metaniferi del Mediterraneo. Altra, cruciale ragione che rende la battaglia in corso esiziale e non componibile per i due fronti di Paesi musulmani oggi l’un contro l’altro armati. In questo contesto infine, poco sollievo ci viene dal registrare la piena sintonia tra il dilettantismo e le gaffe del governo italiano con quelli della Ue e delle capitali europee.

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Conte e Di Maio scelgano da che parte stare in Libia

L'equidistanza di Roma tra al Serraj e Haftar non porterà a nulla. L'Italia potrebbe mediare solo se avesse una posizione di forza. Visto che non ce l'ha, si schieri senza ambiguità.

È impresa ardua e faticosa inanellare tutte le incredibili gaffe inanellate da Luigi Di Maio e da Giuseppe Conte – e quindi, ahimé, dall’Italia – nella gestione della crisi libica. Innanzitutto, il nostro ministro degli Esteri e il nostro presidente del Consiglio non hanno ancora capito che il loro compito non è enunciare principi astratti ispirati ad un pacifismo dozzinale, ma intervenire concretamente nella realtà per difendere gli interessi nazionali dell’Italia. E la realtà è che in Libia si combatte una guerra, dichiarata unilateralmente da Khalifa Haftar che dall’aprile scorso ha lanciato le sue truppe «alla conquista di Tripoli». In una guerra o si sta da una parte o dall’altra. Tertium non datur.

L’INUTILE RICERCA DELL’EQUIDISTANZA DI ROMA

Ma sono passati nove mesi e Di Maio e Conte continuano a dimostrare “equidistanza” tra Bengasi e Tripoli alla ricerca di un ruolo di mediazione che si basa semplicemente sul nulla. Al Serraj (ed Erdogan) avranno tutte le ragioni per sostenere che questa equidistanza fa solo il gioco di Haftar.

L’ITALIA NON È IN POSIZIONE DI MEDIARE

L’Italia potrebbe mediare solo e unicamente se avesse una posizione di forza, argomenti pesanti da mettere sul tavolo per obbligare Haftar o al Serraj a sospendere il fuoco. Ma non ne ha oggi nessuno. Tranne vacui appelli di principio tipo quello tragicomica enunciato da Di Maio che ha proclamato: «Bisogna smetterla di vendere armi, bisogna fermare ogni interferenza esterna in Libia». Chi la ferma? E come? Qui si arriva al tragicomico perché l’ineffabile Di Maio ha dichiarato: «A proposito di quanto riportato da alcuni organi di stampa, in sede europea non si è mai parlato di riattivare Sophia, al contrario». Immediatamente e clamorosamente smentito dal mister Pesc dell’Ue Josep Borrel che ha dichiarato esattamente il contrario: «La missione Sophia ha, fra gli altri, il compito di sorvegliare il rispetto dell’embargo sulle armi su mandato dell’Onu. Ridare alla missione Sophia di nuovo gli elementi operativi è sempre stato sul tavolo e sicuramente ne parleremo». Palesemente Di Maio non legge neanche i dossier.

L’APPELLO DI MINNITI A SOSTENERE AL SARRAJ

Giustamente, Marco Minniti, che a suo tempo aveva pieno controllo della crisi libica e sa come comportarsi di fronte a una guerra guerreggiata, ha invitato Italia ed Europa a «definire insieme un unico interlocutore per la Libia». In trasparenza, l’ex “Lord of Spies” auspica quindi che l’Italia e Bruxelles si schierino con al Serraj e con Tripoli, non certo con gli assalitori. Tertium non datur.

PUTIN NON È LA SPALLA GIUSTA DA CERCARE

Ma non basta, non finiscono qui i fumosi strafalcioni di Di Maio e Conte. Franco Frattini ha rivelato martedì scorso di essere stato contattato da Di Maio nella prospettiva di proporre a Vladimir Putin la sospensione delle sanzioni europee in cambio di un suo allentamento radicale dell’appoggio ad Haftar. Ma Putin non è determinante in Libia, non ha affatto l’egemonia sul terreno, non è in grado di operare in Libia come fece in maniera determinante in Siria. La ragione è semplice: in Siria la Russia ha operato un massiccio dispiegamento militare di terra, di mare e di aria. Ha combattuto pesantemente sotto la propria bandiera. In Libia Putin si è limitato invece ad appoggiare l’invio di qualche centinaio di mercenari dell’organizzazione privata Wagner. Haftar è grato a Putin per l’aiuto eccellente datogli da questi super combattenti russi sul terreno. Ma prende ordini – e soldi – non da Mosca, ma dal Cairo, da Riad e da Abu Dhabi che lo forniscono di centinaia di milioni di dollari coi quali paga i mercenari russi e africani, che gli forniscono mezzi pesanti e munizioni e che soprattutto gli garantiscono l’azione efficace dell’aviazione. Putin è attore secondario in Libia, tanto è vero che nell’incontro con Recep Tayyp Erdogan dell’8 gennaio non ha avuto remore o problemi nel proporre una sospensione dei combattimenti libici a partire dal 12 gennaio.

L’INTERVENTO TURCO SARÀ DETERMINANTE

Tregua che difficilmente Haftar accetterà perché ne può approfittare unicamente al Serraj per consolidare gli aiuti militari turchi che stanno arrivando copiosi a Tripoli (e probabilmente anche ad Algeri, che può accettare la sua richiesta di ospitare aerei ed elicotteri da guerra di Ankara che possono rovesciare le sorti del conflitto). Tregua più che incerta quindi. Infine, ma non per ultimo: Di Maio – e Conte – non hanno la minima cognizione militare (come ampiamente dimostrato in tutti gli strafalcioni che hanno fatto e continuano a fare) e non si rendono conto che sul terreno l’intervento militare turco cambierà radicalmente le sorti della guerra in Libia. I militari turchi, soprattutto se arriveranno ad essere i 3.500 promessi da Erdogan, hanno una professionalità e una capacità operativa bellica incomparabile a quella delle eterogenee forze militari messe in campo da Haftar. Hanno l’esperienza di 36 anni di guerriglia e contro guerriglia nel Kurdistan iracheno nel quale del 1984 ad oggi hanno lasciato non meno di ben 8.000 caduti nei conflitti a fuoco e negli attentati del Pkk.

LA PARTITA INTERNA ALLA GALASSIA SUNNITA

Non si vede la ragione per la quale Erdogan – e il suo alleato al Serraj – non sfruttino l’occasione di infliggere ora una sonora lezione e una sconfitta militare e politica cogente a Haftar (e quindi all’Egitto, all’Arabia Saudita e agli Emirati). In Libia è in gioco una partita determinante per l’egemonia all’interno del mondo sunnita (1 miliardo di fedeli nel mondo), pro o contro i Fratelli Musulmani e sarebbe bene che anche l’Italia ne prendesse finalmente atto perché è la chiave di volta per comprendere il perché di tanti e tali «aiuti militari esterni». Speranza vana, vista la bassissima caratura e l’inesperienza del nostro governo.

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L’uccisione di Soleimani è un colpo al riformismo iraniano

L'attacco degli Usa spinge ulteriormente il Paese tra le braccia dei Pasdaran. Anche in vista delle elezioni per il rinnovo del parlamento. Dallo stretto di Hormuz all'Iraq: le possibili risposte di Teheran.

«Esportare la rivoluzione islamica ovunque, passando per Baghdad»: Qassem Soleimaini è, era, l’incarnazione di questa formidabile consegna, di questo ordine imperativo dell’ayatollah Khomeini del 1982. Le strategie di Soleimaini , la sua tattica, la sua rete personale di relazioni internazionali -a iniziare da un rapporto strettissimo con Vladimir Putin– si sintetizzano in quella consegna. E i suoi successi nell’allargare a tutto il Medio Oriente l’influsso e l’egemonia rivoluzionaria del khomeinismo, dal Mediterraneo sino ai confini del Pakistan sono stati enormi. Da quella consegna bisogna dunque ora partire per tracciare i possibili scenari della obbligata risposta iraniana alla sua clamorosa, geometrica, esecuzione.

A partire da un dato di fatto: l’Iran degli ayatollah, del “clero combattente”, l’Iran di quei Pasdaran che controllano direttamente il 40% dell’economia iraniana, è tenuto ora, innanzitutto di fronte a se stesso, a dare una risposta all’altezza dell’affronto, del danno immenso che ha subito. Deve dimostrare che l’atto di potenza -di onnipotenza- inferto dal “diavolo americano” sarà punito con pari o maggiore danno. E proprio Soleimaini ha messo a punto un formidabile dispiegamento di forza militare perfettamente adeguato a questa risposta, che può colpire da più fronti. Può colpire Israele con il lancio dei 15 mila missili a corto-medio raggio installati dai Pasdaran in Siria. Può bloccare -tentare di bloccare – con gli insidiosi barchini d’attacco lo stretto di Hormuz, la giugulare da cui passa il 40% del petrolio (anche saudita) del pianeta. Può incendiare con la Jihad islamica, al diretto comando di Teheran, il fronte di Gaza. Può rendere caldo, rovente, il confine tra Libano e Israele. Può infine, ma non per ultimo, anzi, continuare a sviluppare l’ultima strategia messa in atto da Soleimaini, che ha diretto e ordinato non a caso il recentissimo assalto all’ambasciata americana a Baghdad.

UNA ESCALATION ANNUNCIATA

Colpire dove si è stati colpiti è quasi una scelta obbligata e la crisi politica innescata dalle enormi manifestazioni anti sciite e anti iraniane delle ultime settimane in tutto l’Iraq offre ora a Teheran e ai Pasdaran l’occasione per perseguire due obiettivi contemporanei in quell’Iraq che Soleimaini considerava una provincia iraniana: vendicarsi dell’affronto subito colpendo duramente i militari americani -e i civili- sul suolo iracheno e contemporaneamente ribadire il comando politico assoluto e rigido della rivoluzione sciita sui destini di Baghdad, dell’Iraq. Le prossime ore saranno dunque cruciali in Iraq, come hanno ben compreso i vertici militari Usa che hanno deciso l’escalation dell’esecuzione di Soleimaini ben consci dell’enorme offesa inferta e quindi della certezza di una risposta iraniana simmetrica e parimenti -se non di più- violenta.

A Trump toccherà ora rivestire la divisa del “Comandante in capo” belligerante e sarà interessante vedere come saprà indossarla

Rimane lo stupore per l’assenso pieno dato da Donald Trump a questa mossa che ha una sola risposta logica -ammesso che Trump abbia una logica- nella scelta a freddo di sviluppare una campagna presidenziale all’insegna non più del rigido disimpegno militare all’estero sinora perseguito, ma del suo opposto, della risposta dura agli altrettanti duri attacchi degli ayatollah. Di un nuovo, intenso, impegno militare bellico degli Usa in Medio Oriente. Sia come sia, a Trump toccherà ora rivestire la divisa del “Comandante in capo” belligerante e sarà interessante vedere come saprà indossarla. Ma l’esecuzione di Soleimaini ha anche un risvolto immediato nella scena interna dell’Iran.

Qassem Soleimani.

Soleimaini infatti dentro i confini iraniani era il simbolo di quel assetto di “un Paese, due sistemi” che l’ayatollah Khomeini ha costruito ben prima di Deng Tsiao Ping in Cina. L’Iran infatti si regge sull’equilibrio tra due missioni: la prima, la più importante e strategica è, appunto, “esportare la rivoluzione islamica”. La seconda missione, parallela e subordinata alla prima e che con quella non deve interferire, è l’amministrazione di una normale politica interna basata sul welfare Islamico: la distribuzione immediata dei proventi del petrolio, sotto forma di reddito personale, a decine di milioni di iraniani. Le elezioni politiche e presidenziali iraniane riguardavano e riguardano solo il secondo ambito, tanto che spesso è stato possibile avere presidenti soi distant “riformisti”. Ma la strategia di fondo del regime iraniano era ed è “esportare la rivoluzione”, a Teheran non si è mai parlato di “rivoluzione in un Paese solo”. Per gli ayatollah messianici figli di Khomeini sarebbe un controsenso, un tradimento.

VERSO LE ELEZIONI LEGISLATIVE

Soleimaini era appunto il leader indiscusso e onnipossente della applicazione di questa strategia a cui tutto il “sistema Paese” iraniano è stato piegato; basti pensare che si calcola che le campagne dei Pasdaran in Iraq, Siria, Yemen, Libano e Gaza siano costate negli ultimi cinque anni non meno di 10 miliardi di dollari. Per questo è stata feroce nelle ultime settimane la repressione, sempre ad opera dei Pasdaran, delle enormi manifestazioni popolari che hanno scosso tutto l’Iran, che protestavano appunto contro gli enormi costi di quella “esportazione della rivoluzione”. Ora, con il Paese in guerra virtuale e materiale contro gli Usa, lo spazio politico per le proteste popolari iraniane si chiude. E questa chiusura si riverbererà sulle imminenti elezioni per il rinnovo del Majlis, il parlamento di Teheran. C’è da scommettere quindi che si imporranno i candidati legati ai Pasdaran (anche perché ad altri verrà semplicemente impedito di correre). Nel nome appunto del “martire” Qassem Soleimaini. Solo l’Europa continuerà a perdersi nell’illusione di un percorso riformista dell’Iran rivoluzionario. Questa illusione è ormai preclusa al popolo iraniano.

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L’uccisione di Soleimani è un colpo al riformismo iraniano

L'attacco degli Usa spinge ulteriormente il Paese tra le braccia dei Pasdaran. Anche in vista delle elezioni per il rinnovo del parlamento. Dallo stretto di Hormuz all'Iraq: le possibili risposte di Teheran.

«Esportare la rivoluzione islamica ovunque, passando per Baghdad»: Qassem Soleimaini è, era, l’incarnazione di questa formidabile consegna, di questo ordine imperativo dell’ayatollah Khomeini del 1982. Le strategie di Soleimaini , la sua tattica, la sua rete personale di relazioni internazionali -a iniziare da un rapporto strettissimo con Vladimir Putin– si sintetizzano in quella consegna. E i suoi successi nell’allargare a tutto il Medio Oriente l’influsso e l’egemonia rivoluzionaria del khomeinismo, dal Mediterraneo sino ai confini del Pakistan sono stati enormi. Da quella consegna bisogna dunque ora partire per tracciare i possibili scenari della obbligata risposta iraniana alla sua clamorosa, geometrica, esecuzione.

A partire da un dato di fatto: l’Iran degli ayatollah, del “clero combattente”, l’Iran di quei Pasdaran che controllano direttamente il 40% dell’economia iraniana, è tenuto ora, innanzitutto di fronte a se stesso, a dare una risposta all’altezza dell’affronto, del danno immenso che ha subito. Deve dimostrare che l’atto di potenza -di onnipotenza- inferto dal “diavolo americano” sarà punito con pari o maggiore danno. E proprio Soleimaini ha messo a punto un formidabile dispiegamento di forza militare perfettamente adeguato a questa risposta, che può colpire da più fronti. Può colpire Israele con il lancio dei 15 mila missili a corto-medio raggio installati dai Pasdaran in Siria. Può bloccare -tentare di bloccare – con gli insidiosi barchini d’attacco lo stretto di Hormuz, la giugulare da cui passa il 40% del petrolio (anche saudita) del pianeta. Può incendiare con la Jihad islamica, al diretto comando di Teheran, il fronte di Gaza. Può rendere caldo, rovente, il confine tra Libano e Israele. Può infine, ma non per ultimo, anzi, continuare a sviluppare l’ultima strategia messa in atto da Soleimaini, che ha diretto e ordinato non a caso il recentissimo assalto all’ambasciata americana a Baghdad.

UNA ESCALATION ANNUNCIATA

Colpire dove si è stati colpiti è quasi una scelta obbligata e la crisi politica innescata dalle enormi manifestazioni anti sciite e anti iraniane delle ultime settimane in tutto l’Iraq offre ora a Teheran e ai Pasdaran l’occasione per perseguire due obiettivi contemporanei in quell’Iraq che Soleimaini considerava una provincia iraniana: vendicarsi dell’affronto subito colpendo duramente i militari americani -e i civili- sul suolo iracheno e contemporaneamente ribadire il comando politico assoluto e rigido della rivoluzione sciita sui destini di Baghdad, dell’Iraq. Le prossime ore saranno dunque cruciali in Iraq, come hanno ben compreso i vertici militari Usa che hanno deciso l’escalation dell’esecuzione di Soleimaini ben consci dell’enorme offesa inferta e quindi della certezza di una risposta iraniana simmetrica e parimenti -se non di più- violenta.

A Trump toccherà ora rivestire la divisa del “Comandante in capo” belligerante e sarà interessante vedere come saprà indossarla

Rimane lo stupore per l’assenso pieno dato da Donald Trump a questa mossa che ha una sola risposta logica -ammesso che Trump abbia una logica- nella scelta a freddo di sviluppare una campagna presidenziale all’insegna non più del rigido disimpegno militare all’estero sinora perseguito, ma del suo opposto, della risposta dura agli altrettanti duri attacchi degli ayatollah. Di un nuovo, intenso, impegno militare bellico degli Usa in Medio Oriente. Sia come sia, a Trump toccherà ora rivestire la divisa del “Comandante in capo” belligerante e sarà interessante vedere come saprà indossarla. Ma l’esecuzione di Soleimaini ha anche un risvolto immediato nella scena interna dell’Iran.

Qassem Soleimani.

Soleimaini infatti dentro i confini iraniani era il simbolo di quel assetto di “un Paese, due sistemi” che l’ayatollah Khomeini ha costruito ben prima di Deng Tsiao Ping in Cina. L’Iran infatti si regge sull’equilibrio tra due missioni: la prima, la più importante e strategica è, appunto, “esportare la rivoluzione islamica”. La seconda missione, parallela e subordinata alla prima e che con quella non deve interferire, è l’amministrazione di una normale politica interna basata sul welfare Islamico: la distribuzione immediata dei proventi del petrolio, sotto forma di reddito personale, a decine di milioni di iraniani. Le elezioni politiche e presidenziali iraniane riguardavano e riguardano solo il secondo ambito, tanto che spesso è stato possibile avere presidenti soi distant “riformisti”. Ma la strategia di fondo del regime iraniano era ed è “esportare la rivoluzione”, a Teheran non si è mai parlato di “rivoluzione in un Paese solo”. Per gli ayatollah messianici figli di Khomeini sarebbe un controsenso, un tradimento.

VERSO LE ELEZIONI LEGISLATIVE

Soleimaini era appunto il leader indiscusso e onnipossente della applicazione di questa strategia a cui tutto il “sistema Paese” iraniano è stato piegato; basti pensare che si calcola che le campagne dei Pasdaran in Iraq, Siria, Yemen, Libano e Gaza siano costate negli ultimi cinque anni non meno di 10 miliardi di dollari. Per questo è stata feroce nelle ultime settimane la repressione, sempre ad opera dei Pasdaran, delle enormi manifestazioni popolari che hanno scosso tutto l’Iran, che protestavano appunto contro gli enormi costi di quella “esportazione della rivoluzione”. Ora, con il Paese in guerra virtuale e materiale contro gli Usa, lo spazio politico per le proteste popolari iraniane si chiude. E questa chiusura si riverbererà sulle imminenti elezioni per il rinnovo del Majlis, il parlamento di Teheran. C’è da scommettere quindi che si imporranno i candidati legati ai Pasdaran (anche perché ad altri verrà semplicemente impedito di correre). Nel nome appunto del “martire” Qassem Soleimaini. Solo l’Europa continuerà a perdersi nell’illusione di un percorso riformista dell’Iran rivoluzionario. Questa illusione è ormai preclusa al popolo iraniano.

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Il disastro di Conte e Di Maio all’ombra della crisi libica

Il premier e il suo ministro non si sono accorti che il quadro nel Paese è radicalmente cambiato. E lasciando strada a Russia e Turchia condannano l'Italia all'irrilevanza.

In una guerra combattuta solo chi combatte armi alla mano può trovare una soluzione politica. Purtroppo né il dilettante Luigi di Maio, né “l’avvocato del popolo” Giuseppe Conte se ne rendono minimamente conto e continuano a cercare una “soluzione politica” per il caos libico, sostanzialmente parlando d’altro, senza neanche accorgersi che il quadro libico è radicalmente cambiato. Pure, Fayez al Serraj il 17 dicembre a Tripoli è stato molto chiaro e a un Di Maio che continuava a fantasticare di una soluzione politica ha bruscamente ricordato che il suo governo ormai è in guerra –guerra vera- che non ha nessuna intenzione di soccombere. E siccome abbisogna di armi le chiede a chi gliele vuol dare: la Turchia.

PRIMA LA BATTAGLIA DI TRIPOLI, POI LA SOLUZIONE POLITICA

La “soluzione politica” verrà solo quando e se la battaglia di Tripoli sarà vinta e Khalifa Haftar se ne tornerà sconfitto a Bengasi. Non prima. E di Maio è affogato nelle sue frasi vuote. Di Maio e Conte hanno una sola scusante: la diafana inconsistenza di un’Unione europea che continua a convocare vertici inutili lasciando tutto lo spazio reale di intervento ai due nuovi “domini” della Libia: la Russia e la Turchia. Approfittando del lassismo europeo e del disinteresse europeo e italiano (Conte si occupò direttamente di Libia nel lontano dicembre 2018, poi più nulla, Di Maio se ne occupa solo ora, con quattro mesi di ritardo), Vladimir Putin e Tayyip Erdogan hanno modificato radicalmente lo scenario libico. Hanno inviato forze militari rispettivamente a Bengasi e a Tripoli che hanno chiuso la lunga fase durata otto anni che vedeva gli avversari, le etnie e le tribù libiche schierate con Bengasi o con Tripoli, in un sostanziale equilibrio. Si è aperta una fase di guerra guerreggiata con escalation da tutte le due parti garantite dai due padrini esterni: Mosca e Ankara, i veri, nuovi, protagonisti della crisi libica.

LE MOSSE DI MOSCA E ANKARA

I finanziamenti russi ad Haftar che gli permettono di assoldare 18 mila miliziani subsahariani e le centinaia di contractor russi della agenzia Wagner dell’amico personale di Putin Evgheni Prighozin –straordinari combattenti- gli hanno finalmente consentito di penetrare dentro Tripoli, dopo che la sua offensiva iniziata ad aprile si era incagliata. Di contro, il governo di Tripoli di al Sarraj ha contrastato questa escalation militare e siglato il 27 novembre un patto sulle acque territoriali con Erdogan, a seguito del quale la Turchia ha inviato efficienti droni di combattimento e un nutrito drappello di militari, comandati dal generale turco Irfan Tur Ozsert e inviato gli efficienti droni-bombardieri Bayraktar (prodotti dal genero di Erdogan).

L’escalation russo-turca si sviluppa con forza, pur senza strappi, ma a tutto vantaggio di Haftar

L’escalation russo-turca si sviluppa con forza, pur senza strappi, ma a tutto vantaggio di Haftar, che è penetrato dentro Tripoli, a soli nove chilometri dalla piazza dei Martiri, e che avanza lentamente solo perché non ha uomini sufficienti per presidiare stabilmente i quartieri conquistati. Al Sarraj per ora non ha richiesto a Erdogan l’invio dei promessi 5 mila militari turchi, ma non è escluso affatto che non lo faccia un domani prossimo a fronte di una sconfitta oggi probabile. Con tutta evidenza è in atto una trattativa politica, che però esclude drasticamente sia l’Italia che l’Europa, ed è quella in corso esclusivamente tra Putin ed Erdogan, che si parlano quasi quotidianamente e si accingono a decidere le sorti del conflitto, forse dopo una ulteriore e definitiva escalation, quella sanguinosa “battaglia per Tripoli” che lo stesso inviato dell’Onu Ghassan Salamè ha annunciato come più che possibile e imminente.

IL DISASTRO DELL’ITALIA (E DELL’EUROPA)

Insomma, vi sono tutti i segni del fatto disastroso che ormai l’Italia non conta più nulla in Libia –per responsabilità diretta di Conte e anche di Di Maio- che sempre più i giochi verranno decisi solo ed esclusivamente tra Mosca e Ankara. Con buona pace dell’imbelle Europa. Un disastro epocale che matura peraltro nel tombale silenzio complice di un Pd che pure solo due anni fa aveva in Marco Minniti il “dominus” della crisi libica.

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Il disastro di Conte e Di Maio all’ombra della crisi libica

Il premier e il suo ministro non si sono accorti che il quadro nel Paese è radicalmente cambiato. E lasciando strada a Russia e Turchia condannano l'Italia all'irrilevanza.

In una guerra combattuta solo chi combatte armi alla mano può trovare una soluzione politica. Purtroppo né il dilettante Luigi di Maio, né “l’avvocato del popolo” Giuseppe Conte se ne rendono minimamente conto e continuano a cercare una “soluzione politica” per il caos libico, sostanzialmente parlando d’altro, senza neanche accorgersi che il quadro libico è radicalmente cambiato. Pure, Fayez al Serraj il 17 dicembre a Tripoli è stato molto chiaro e a un Di Maio che continuava a fantasticare di una soluzione politica ha bruscamente ricordato che il suo governo ormai è in guerra –guerra vera- che non ha nessuna intenzione di soccombere. E siccome abbisogna di armi le chiede a chi gliele vuol dare: la Turchia.

PRIMA LA BATTAGLIA DI TRIPOLI, POI LA SOLUZIONE POLITICA

La “soluzione politica” verrà solo quando e se la battaglia di Tripoli sarà vinta e Khalifa Haftar se ne tornerà sconfitto a Bengasi. Non prima. E di Maio è affogato nelle sue frasi vuote. Di Maio e Conte hanno una sola scusante: la diafana inconsistenza di un’Unione europea che continua a convocare vertici inutili lasciando tutto lo spazio reale di intervento ai due nuovi “domini” della Libia: la Russia e la Turchia. Approfittando del lassismo europeo e del disinteresse europeo e italiano (Conte si occupò direttamente di Libia nel lontano dicembre 2018, poi più nulla, Di Maio se ne occupa solo ora, con quattro mesi di ritardo), Vladimir Putin e Tayyip Erdogan hanno modificato radicalmente lo scenario libico. Hanno inviato forze militari rispettivamente a Bengasi e a Tripoli che hanno chiuso la lunga fase durata otto anni che vedeva gli avversari, le etnie e le tribù libiche schierate con Bengasi o con Tripoli, in un sostanziale equilibrio. Si è aperta una fase di guerra guerreggiata con escalation da tutte le due parti garantite dai due padrini esterni: Mosca e Ankara, i veri, nuovi, protagonisti della crisi libica.

LE MOSSE DI MOSCA E ANKARA

I finanziamenti russi ad Haftar che gli permettono di assoldare 18 mila miliziani subsahariani e le centinaia di contractor russi della agenzia Wagner dell’amico personale di Putin Evgheni Prighozin –straordinari combattenti- gli hanno finalmente consentito di penetrare dentro Tripoli, dopo che la sua offensiva iniziata ad aprile si era incagliata. Di contro, il governo di Tripoli di al Sarraj ha contrastato questa escalation militare e siglato il 27 novembre un patto sulle acque territoriali con Erdogan, a seguito del quale la Turchia ha inviato efficienti droni di combattimento e un nutrito drappello di militari, comandati dal generale turco Irfan Tur Ozsert e inviato gli efficienti droni-bombardieri Bayraktar (prodotti dal genero di Erdogan).

L’escalation russo-turca si sviluppa con forza, pur senza strappi, ma a tutto vantaggio di Haftar

L’escalation russo-turca si sviluppa con forza, pur senza strappi, ma a tutto vantaggio di Haftar, che è penetrato dentro Tripoli, a soli nove chilometri dalla piazza dei Martiri, e che avanza lentamente solo perché non ha uomini sufficienti per presidiare stabilmente i quartieri conquistati. Al Sarraj per ora non ha richiesto a Erdogan l’invio dei promessi 5 mila militari turchi, ma non è escluso affatto che non lo faccia un domani prossimo a fronte di una sconfitta oggi probabile. Con tutta evidenza è in atto una trattativa politica, che però esclude drasticamente sia l’Italia che l’Europa, ed è quella in corso esclusivamente tra Putin ed Erdogan, che si parlano quasi quotidianamente e si accingono a decidere le sorti del conflitto, forse dopo una ulteriore e definitiva escalation, quella sanguinosa “battaglia per Tripoli” che lo stesso inviato dell’Onu Ghassan Salamè ha annunciato come più che possibile e imminente.

IL DISASTRO DELL’ITALIA (E DELL’EUROPA)

Insomma, vi sono tutti i segni del fatto disastroso che ormai l’Italia non conta più nulla in Libia –per responsabilità diretta di Conte e anche di Di Maio- che sempre più i giochi verranno decisi solo ed esclusivamente tra Mosca e Ankara. Con buona pace dell’imbelle Europa. Un disastro epocale che matura peraltro nel tombale silenzio complice di un Pd che pure solo due anni fa aveva in Marco Minniti il “dominus” della crisi libica.

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Di Maio non vede che Tripoli sta per cadere in mano russa

La crisi libica mette in risalto tutta l'inadeguatezza del ministro degli Esteri. Troppo preso dalle grane interne al M5s per accorgersi che l'Italia si sta condannando all'ininfluenza.

L’inesperienza e l’insipienza di Luigi di Maio – e del premier Giuseppe Conte – hanno ormai espulso l’Italia da un qualsiasi ruolo nella crisi libica. Il ministro degli Esteri infatti si muove all’insegna di un dogma: «Non esiste soluzione militare: rinnoviamo l’impegno dell’Italia per una soluzione pacifica». Ma il punto è che invece proprio la soluzione militare si sta imponendo con l’imminente conquista armata di Tripoli da parte del generale Khalifa Haftar. L’allarme non è nostro, ma è stato lanciato con toni drammatici dallo stesso inviato dell’Onu Ghassam Salamé che ha dato per certa la caduta di Tripoli, non grazie alla abilità militare di Haftar (che non ha mai vinto né una guerra né una battaglia), ma come conseguenza ovvia della decisione strategica della Russia di Vladimir Putin di gettare nella battaglia attorno alla capitale libica la potente forza d’urto di 1.400-2.000 mercenari della Organizzazione Wagner –una macchina da guerra efficientissima- che stanno facendo capitolare le difese delle milizie di Misurata.

L’ANNUNCIO DI ERDOGAN E LA MINACCIA DI HAFTAR

L’imporsi imminente di una drammatica soluzione militare è tale che immediata e speculare è stata la reazione del presidente turco Tayyp Erdogan che ha annunciato che –su richiesta del governo legittimo di Fayez al Serraj– è pronto a inviare a Tripoli una forza di 5 mila militari per garantirne la difesa. Il governo di al Serraj ha immediatamente accolto con favore questa opzione. Anche Haftar ha preso sul serio questa opzione, tanto che ha minacciato «di affondare tutte le navi turche che portino soldati in Libia». Tuoni crescenti di guerra. Dunque, lo stallo della guerra civile libica che dura da anni, ha avuto una improvvisa accelerazione bellica dovuta alla decisione di Putin di applicare il “modulo ucraino”: un forte e determinante impegno militare russo affidato non già a truppe regolari (come in Siria), ma grazie agli “uomini verdi”, ex membri delle Forze speciali russe –formidabili combattenti reduci dal conflitto ceceno- inquadrati in una organizzazione privata, ma funzionale alla politica di Putin e coordinata col Cremlino.

DI MAIO SI GUARDA BENE DAL VOLARE A MOSCA E AD ANKARA

Il governo italiano non ha minimamente preso atto di questo drammatico cambiamento di scenario e ha rifiutato di compiere l’unica mossa indispensabile se vuole continuare a giocare in Libia: un intervento diplomatico diretto sulla Russia (e sulla Turchia). Ma Di Maio –preso come è dalle grane interne al M5s– si guarda bene dal volare a Mosca e ad Ankara. Pure, vi sarebbe un ampio spazio di manovre diplomatica per il nostro Paese. Putin ed Erdogan, infatti, hanno ampiamente dimostrato in Siria che –pur con interessi a volte divergenti- sono in grado di mediare le proprie strategia. Sono in contatto telefonico sulla crisi libica e si apprestano ad un vertice l’8 gennaio. L’Italia ha (avrebbe) tutti i titoli per inserirsi in questa dinamica di trattativa su Tripoli. Ma dà segno di non essersi nemmeno accorta che la propria visione del conflitto è scaduta, che i vertici non servono a nulla quando è la forza delle armi che determina i rapporti di forza. Un esempio raro e drammatico di dilettantismo.

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Di Maio non vede che Tripoli sta per cadere in mano russa

La crisi libica mette in risalto tutta l'inadeguatezza del ministro degli Esteri. Troppo preso dalle grane interne al M5s per accorgersi che l'Italia si sta condannando all'ininfluenza.

L’inesperienza e l’insipienza di Luigi di Maio – e del premier Giuseppe Conte – hanno ormai espulso l’Italia da un qualsiasi ruolo nella crisi libica. Il ministro degli Esteri infatti si muove all’insegna di un dogma: «Non esiste soluzione militare: rinnoviamo l’impegno dell’Italia per una soluzione pacifica». Ma il punto è che invece proprio la soluzione militare si sta imponendo con l’imminente conquista armata di Tripoli da parte del generale Khalifa Haftar. L’allarme non è nostro, ma è stato lanciato con toni drammatici dallo stesso inviato dell’Onu Ghassam Salamé che ha dato per certa la caduta di Tripoli, non grazie alla abilità militare di Haftar (che non ha mai vinto né una guerra né una battaglia), ma come conseguenza ovvia della decisione strategica della Russia di Vladimir Putin di gettare nella battaglia attorno alla capitale libica la potente forza d’urto di 1.400-2.000 mercenari della Organizzazione Wagner –una macchina da guerra efficientissima- che stanno facendo capitolare le difese delle milizie di Misurata.

L’ANNUNCIO DI ERDOGAN E LA MINACCIA DI HAFTAR

L’imporsi imminente di una drammatica soluzione militare è tale che immediata e speculare è stata la reazione del presidente turco Tayyp Erdogan che ha annunciato che –su richiesta del governo legittimo di Fayez al Serraj– è pronto a inviare a Tripoli una forza di 5 mila militari per garantirne la difesa. Il governo di al Serraj ha immediatamente accolto con favore questa opzione. Anche Haftar ha preso sul serio questa opzione, tanto che ha minacciato «di affondare tutte le navi turche che portino soldati in Libia». Tuoni crescenti di guerra. Dunque, lo stallo della guerra civile libica che dura da anni, ha avuto una improvvisa accelerazione bellica dovuta alla decisione di Putin di applicare il “modulo ucraino”: un forte e determinante impegno militare russo affidato non già a truppe regolari (come in Siria), ma grazie agli “uomini verdi”, ex membri delle Forze speciali russe –formidabili combattenti reduci dal conflitto ceceno- inquadrati in una organizzazione privata, ma funzionale alla politica di Putin e coordinata col Cremlino.

DI MAIO SI GUARDA BENE DAL VOLARE A MOSCA E AD ANKARA

Il governo italiano non ha minimamente preso atto di questo drammatico cambiamento di scenario e ha rifiutato di compiere l’unica mossa indispensabile se vuole continuare a giocare in Libia: un intervento diplomatico diretto sulla Russia (e sulla Turchia). Ma Di Maio –preso come è dalle grane interne al M5s– si guarda bene dal volare a Mosca e ad Ankara. Pure, vi sarebbe un ampio spazio di manovre diplomatica per il nostro Paese. Putin ed Erdogan, infatti, hanno ampiamente dimostrato in Siria che –pur con interessi a volte divergenti- sono in grado di mediare le proprie strategia. Sono in contatto telefonico sulla crisi libica e si apprestano ad un vertice l’8 gennaio. L’Italia ha (avrebbe) tutti i titoli per inserirsi in questa dinamica di trattativa su Tripoli. Ma dà segno di non essersi nemmeno accorta che la propria visione del conflitto è scaduta, che i vertici non servono a nulla quando è la forza delle armi che determina i rapporti di forza. Un esempio raro e drammatico di dilettantismo.

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La Nato litiga anche sulla definizione di terrorismo

Le divergenze in seno all'Alleanza ne testimoniano lo stato semi-comatoso. Mancano leadership e strategie condivise. E l'Ue continua a farsi notare solo per la propria indecisione.

Una Nato senza leadership, senza strategie condivise. La conferenza di Londra che avrebbe dovuto celebrare il 70esimo anniversario della Alleanza Atlantica conferma in pieno la crudele diagnosi di Emmanuel Macron: elettroencefalogramma piatto. La scenetta registrata a loro insaputa di Justin Trudeau, Boris Johnson e Macron che dileggiano Donald Trump («Ai suoi collaboratori cade la mascella quando parla…») la dice lunga sulla fine della egemonia americana sulla Nato. Trudeau peraltro si è beccato dell’«ipocrita» da Trump richiesto di commentare la scenetta.

Ma a Londra è soprattutto emerso chiaramente che, tramontata Washington, Bruxelles non si è fatta avanti: l’Europa divisa e anche confusionaria non è in grado di elaborare uno straccio di strategia e men che meno una egemonia politica alternativa a quella americana. Non solo, la minaccia di Trump di imporre nuovi dazi ai Paesi europei nel caso applicassero una digital tax alle major americane della rete ha trovato una risposta sfumata. Di fatto, la conferenza si è spezzettata in una serie di bilaterali di Trump, gli unici che hanno dato il senso dello stato dell’arte, al di là del solito comunicato finale di mediazione che si ferma a ribadire l’impegno per aumento delle risorse destinate alla difesa da parte dei Paesi europei.

UN COLPO AL CERCHIO E UNO ALLA BOTTE

Sul tema scabroso dei rapporti con la Russia (aperturista Macron, negativo Trump), il comunicato finale dà un colpo al cerchio e uno alla botte, segno del permanere delle divergenze sul tema focale: «La Nato rimane disponibile al dialogo e a un rapporto costruttivo con la Russia, quando le azioni della Russia lo renderanno possibile, ma le azioni aggressive della Russia rappresentano una minaccia alla sicurezza euro-atlantica». Per quanto riguarda il bilaterale tra Trump e Giuseppe Conte un piccolo e significativo giallo ha dato il senso della pasticciata politica estera dell’esecutivo italiano. Trump infatti ha dichiarato di avere avuto assicurazioni circa il disimpegno dell’Italia dall’utilizzo della tecnologia cinese Huawei per il 5G: «Ho parlato con l’Italia e non sembra che vadano avanti con questo». Da parte sua però “Giuseppi” ha negato di aver preso questo impegno: «Non ho trattato questo tema con Trump».

LE DIVISIONI SU TURCHIA E TERRORISMO

Lo stato semi-comatoso dell’Alleanza è infine –ma non per ultimo- emerso con chiarezza a fronte della pressante richiesta di Tayyp Erdogan affinché la Nato dichiari formalmente «terroristi» i curdi siriani dello Ypg. Richiesta più che giustificata perché infinite sono le prove della collusione e della collaborazione attiva tra lo Ypg e il Pkk curdo-turco nello sviluppare quegli attacchi e quegli atti di terrorismo che dal 2015 a oggi hanno fatto non meno di 4.500 vittime in Turchia. Da parte sua, Trump, dopo il bilaterale con Erdogan, ha apprezzato molto quelle operazioni militari turche per creare una zona di sicurezza in Siria che all’opposto l’Unione Europea condanna: «Nel Nord della Siria la zona di sicurezza sta funzionando molto bene. Riconosco per questo molto credito alla Turchia. Abbiamo discusso di tutto io ed Erdogan, abbiamo discusso di Siria, di curdi. Il cessate il fuoco sta reggendo molto, forse un giorno me ne riconosceranno il merito, ma probabilmente no».

Non è stato possibile raggiungere un consenso con la Turchia sulla definizione di terrorismo

Emmanuel Macron

Ma sul tema del terrorismo curdo-siriano Macron ha fatto muro, si è rifiutato di condannare lo Ypg, ha anzi accusato la Turchia di «collaborare con gruppi siriani alleati dell’Isis» e ha tagliato netto: «Non è stato possibile raggiungere un consenso con la Turchia sulla definizione di terrorismo». Una Nato che non riesce neanche ad accordarsi sulla definizione di terrorismo a 18 anni dall’11 settembre è drammaticamente nel caos.

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Sulla Nato ha ragione Macron, Merkel difende solo gli interessi tedeschi

Sull'ormai logora alleanza atlantica il presidente francese è realista: non esistono più rapporti condivisi e strategici tra Usa e Europa. La cancelliera tedesca si dimostra invece una miope opportunista che guarda esclusivamente agli interessi della Germania.

Volano gli stracci tra Emmanuel Macron e Angela Merkel e non è un problema personale.

Giorni fa, durante un banchetto in occasione della caduta del Muro la Kanzlerin ha detto al presidente francese, avendo cura di essere ben sentita dai commensali: «Capisco che tu desideri una politica di rottura. Ma io sono stanca di raccogliere i pezzi, sempre e sempre, ad essere io che devo incollare insieme le tazze che tu rompi in modo che possiamo sederci a bere insieme una  tazza di tè».

Parole dure, durissime che rimandano ad una frattura radicale tra Francia e Germania in apparenza sulla Nato, ma in realtà sulla strategia complessiva di politica estera dell’Unione Europea.

ALLEANZA ALTANTICA ORMAI AL LIMITE DELLA ROTTURA

In estrema sintesi, Macron ha semplicemente preso atto che ormai gli Stati Uniti puntano a consolidare una rotta di collisione con l’Europa, considerata un «concorrente sleale e fastidioso» e non più, sempre e comunque, un alleato strategico. Un cambiamento di rotta già iniziato con Barack Obama e ora consolidato da Donald Trump.

Su tutti i fronti ormai gli Usa considerano l’area dell’euro un concorrente fastidioso e inaffidabile

Non è solo questione di dazi, dell’accusa all’Europa di non farsi carico delle sue spese per la difesa (addossandole impropriamente agli Usa) e di disimpegno totale di Washington dalle aree di crisi mediorientale a fronte del quale l’Europa si trova sguarnita e incapace di reagire. Su tutti i fronti ormai gli Usa considerano l’area dell’euro un concorrente fastidioso e inaffidabile e puntano chiaramente alla sua destabilizzazione acuta. Tutto questo logora sino al limite di rottura la ratio stessa della Alleanza Atlantica che ha ragione d’essere dalla sua fondazione in poi solo su una compatta e solida condivisione strategica di “compagni di strada”.

GLI USA SONO ORMAI TOTALMENTE DISIPEGNATI

Preso atto delle ritorsioni Usa per le sovvenzioni di Stato ad Airbus, del disimpegno americano in Siria, della guerra dei dazi e anche del fatto che ormai la Turchia (ex caposaldo Nato a oriente) è più alleata di Vladimir Putin che di Donald Trump (tanto che si arma con gli SS300 russi), Macron semplicemente constata l’evaporazione del senso stesso di mantenere in vita la Nato. La frase sulle «tazze rotte da Macron» della Merkel è stata infatti la risposta salace alla dichiarazione del presidente francese di non vedere per quale ragione debba partecipare al prossimo consiglio Nato a Londra di inizio dicembre facendo finta che Usa e Turchia si stiano comportando in Siria secondo l’interesse collettivo degli alleati: «Non posso sedermi lì e comportarmi come se niente fosse successo!».

MERKEL USA LA NATO SOLO PER GLI INTERESSI TEDESCHI

Ma il vero fossato profondo tra Francia e Germania – al di là delle boutades e delle contingenze – si è via via scavato a causa della visione miope della Merkel che non sa e non ha mai saputo vedere le grandi strategie internazionali, men che meno le crisi del Mediterraneo, del Medio Oriente e dell’Africa, e che considera la Nato solo e unicamente la garanzia di mantenere ben protetto il suo mercato e i suoi rapporti con un Est Europa che vede nella Nato un baluardo indispensabile nei confronti della espansione dell’area di influenza della Russia. Sulla scena internazionale la Germania della Kanzlerin continua dunque a essere sempre più un gigante economico e un nano politico.

Da sinistra, Emmanuel Macron e Angela Merkel (foto LaPresse).

Non si ricorda una, che sia una, «visione strategica» originale di Merkel sulla scena delle grandi crisi internazionali, men che meno a fronte del tema epocale delle immigrazioni sul quale ha agito solo e unicamente quando ha toccato la Germania, obbligando la Ue a versare 5 miliardi di euro a Erdogan solo e unicamente per proteggere il suo Paese. Macron, insomma, vede giustamente il logoramento ormai irreparabile delle ragioni di fondo stesse della Alleanza Atlantica, dei rapporti condivisi e strategici tra Usa e Europa, la Merkel invece, come sempre, si limita a tenere lo sguardo basso, guarda agli interessi di corto respiro dei commerci e dei bilanci dell’immport-export della Germania. Un dissidio difficilmente sanabile.

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Sulla Nato ha ragione Macron, Merkel difende solo gli interessi tedeschi

Sull'ormai logora alleanza atlantica il presidente francese è realista: non esistono più rapporti condivisi e strategici tra Usa e Europa. La cancelliera tedesca si dimostra invece una miope opportunista che guarda esclusivamente agli interessi della Germania.

Volano gli stracci tra Emmanuel Macron e Angela Merkel e non è un problema personale.

Giorni fa, durante un banchetto in occasione della caduta del Muro la Kanzlerin ha detto al presidente francese, avendo cura di essere ben sentita dai commensali: «Capisco che tu desideri una politica di rottura. Ma io sono stanca di raccogliere i pezzi, sempre e sempre, ad essere io che devo incollare insieme le tazze che tu rompi in modo che possiamo sederci a bere insieme una  tazza di tè».

Parole dure, durissime che rimandano ad una frattura radicale tra Francia e Germania in apparenza sulla Nato, ma in realtà sulla strategia complessiva di politica estera dell’Unione Europea.

ALLEANZA ALTANTICA ORMAI AL LIMITE DELLA ROTTURA

In estrema sintesi, Macron ha semplicemente preso atto che ormai gli Stati Uniti puntano a consolidare una rotta di collisione con l’Europa, considerata un «concorrente sleale e fastidioso» e non più, sempre e comunque, un alleato strategico. Un cambiamento di rotta già iniziato con Barack Obama e ora consolidato da Donald Trump.

Su tutti i fronti ormai gli Usa considerano l’area dell’euro un concorrente fastidioso e inaffidabile

Non è solo questione di dazi, dell’accusa all’Europa di non farsi carico delle sue spese per la difesa (addossandole impropriamente agli Usa) e di disimpegno totale di Washington dalle aree di crisi mediorientale a fronte del quale l’Europa si trova sguarnita e incapace di reagire. Su tutti i fronti ormai gli Usa considerano l’area dell’euro un concorrente fastidioso e inaffidabile e puntano chiaramente alla sua destabilizzazione acuta. Tutto questo logora sino al limite di rottura la ratio stessa della Alleanza Atlantica che ha ragione d’essere dalla sua fondazione in poi solo su una compatta e solida condivisione strategica di “compagni di strada”.

GLI USA SONO ORMAI TOTALMENTE DISIPEGNATI

Preso atto delle ritorsioni Usa per le sovvenzioni di Stato ad Airbus, del disimpegno americano in Siria, della guerra dei dazi e anche del fatto che ormai la Turchia (ex caposaldo Nato a oriente) è più alleata di Vladimir Putin che di Donald Trump (tanto che si arma con gli SS300 russi), Macron semplicemente constata l’evaporazione del senso stesso di mantenere in vita la Nato. La frase sulle «tazze rotte da Macron» della Merkel è stata infatti la risposta salace alla dichiarazione del presidente francese di non vedere per quale ragione debba partecipare al prossimo consiglio Nato a Londra di inizio dicembre facendo finta che Usa e Turchia si stiano comportando in Siria secondo l’interesse collettivo degli alleati: «Non posso sedermi lì e comportarmi come se niente fosse successo!».

MERKEL USA LA NATO SOLO PER GLI INTERESSI TEDESCHI

Ma il vero fossato profondo tra Francia e Germania – al di là delle boutades e delle contingenze – si è via via scavato a causa della visione miope della Merkel che non sa e non ha mai saputo vedere le grandi strategie internazionali, men che meno le crisi del Mediterraneo, del Medio Oriente e dell’Africa, e che considera la Nato solo e unicamente la garanzia di mantenere ben protetto il suo mercato e i suoi rapporti con un Est Europa che vede nella Nato un baluardo indispensabile nei confronti della espansione dell’area di influenza della Russia. Sulla scena internazionale la Germania della Kanzlerin continua dunque a essere sempre più un gigante economico e un nano politico.

Da sinistra, Emmanuel Macron e Angela Merkel (foto LaPresse).

Non si ricorda una, che sia una, «visione strategica» originale di Merkel sulla scena delle grandi crisi internazionali, men che meno a fronte del tema epocale delle immigrazioni sul quale ha agito solo e unicamente quando ha toccato la Germania, obbligando la Ue a versare 5 miliardi di euro a Erdogan solo e unicamente per proteggere il suo Paese. Macron, insomma, vede giustamente il logoramento ormai irreparabile delle ragioni di fondo stesse della Alleanza Atlantica, dei rapporti condivisi e strategici tra Usa e Europa, la Merkel invece, come sempre, si limita a tenere lo sguardo basso, guarda agli interessi di corto respiro dei commerci e dei bilanci dell’immport-export della Germania. Un dissidio difficilmente sanabile.

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L’Iran “riformista” ha mostrato il suo vero volto: le forche

Centinaia di morti e migliaia di arresti per sedare le piazze in rivolta. Proteste che contagiano anche Libano e Iraq. Ma il regime change per ora è una chimera.

Centinaia di morti, cecchini che sparano dai tetti sulla folla, 3 mila arresti, forca per i manifestanti arrestati, internet bloccato da giorni nonostante gli estremi danni all’economia interna: il “riformismo” iraniano di Hassan Rohani che tanto piace all’Europa sta dando il meglio di sé nelle piazze sconvolte da una protesta popolare spontanea che è identica a quella che sconvolge da settimane le piazze libanesi e irachene.

Il Vecchio continente non vuole prenderne atto, ma è evidente che la rivolta popolare libanese, quella irachena e quella iraniana hanno la stessa origine e lo stesso, identico avversario: il modello di potere degli ayatollah.

Tra tutti gli slogan urlati nelle piazze iraniane, risalta «Chissenefrega della Palestina!», perfetta sintesi della rivolta contro gli enormi costi sociali che ha l’impegno militare “rivoluzionario” all’estero dei Pasdaran.

L’IRAN VUOLE ESPORTARE LA RIVOLUZIONE KHOMEINISTA

Identico e uno solo, il centro di comando che ordina di sparare sulla folla a Teheran, a Beirut o a Baghdad: i Pasdaran e i paramilitari agli ordini di quel generale Ghassem Suleimaini che era volato due settimane fa nella capitale irachena promettendo sangue nelle strade «come ben sappiamo fare in Iran». Simili, se non identici, peraltro gli slogan delle piazze iraniane, irachene e libanesi: la corruzione, i soprusi, la fame, i miliardi per le spese militari a scapito del welfare. Tutti prodotti dal modello di regime che l’Iran ha esportato in Iraq e Libano: la rivoluzione khomeinista.

L’Iran ha uno e un solo obiettivo strategico: la distruzione di Israele

L’Europa non ne vuole prendere atto, ma l’Iran ha uno e un solo obiettivo strategico: esportare la rivoluzione iraniana, processo nel quale passaggio fondamentale è la distruzione di Israele. Per questo obiettivo il regime degli ayatollah ha investito decine di miliardi di dollari per foraggiare da cinque anni le Brigate Internazionali sciite che hanno mantenuto sul trono il macellaio Bashar al Assad e trasformato l’Iraq in un protettorato iraniano, per riempire gli arsenali siriani di missili destinati a Israele, per finanziare la Jihad islamica che spara razzi -iraniani- da Gaza su Israele e per sostenere i ribelli sciiti Houti in Yemen.

Le proteste in Iraq.

L’originalità del “modello iraniano” è stata di affiancare alle forze di fatto egemoni nel Paese (il blocco militare incentrato sui Pasdaran, che controlla anche l’economia iraniana) che gestiscono l’esportazione della rivoluzione khomeinista in Medio Oriente, con un apparato amministrativo di governo dalle forme, ma non dalla sostanza, riformista col volto pacioccone di Rohani. Questa duplicità non è stata colta dall’Europa, che ha assistito complice, dopo la normalizzazione della collocazione internazionale dell’Iran voluta da Barack Obama con l’accordo sul nucleare, alla espansione dell’egemonia politica e militare dell’Iran su Iraq, Siria, Yemen e Libano.

NON ESISTE UNA OPPOSIZIONE POLITICA VERA AI REGIMI

Non è la prima volta che il “riformismo iraniano” spara a zero sulla folla, l’ha fatto nel 1999, l’ha fatto conto l’Onda Verde del 2008, l’ha fatto nel 2017 e 2018 e lo rifá oggi. La novità, enorme, è che ormai la reazione contro il regime, contro il centro di comando iraniano unisce le piazze iraniane a quelle irachene e libanesi. Un fenomeno clamoroso e inedito, acuito dall’effetto delle sanzioni promosse da Donald Trump dopo la sua denuncia dell’accordo sul nucleare.

Forze politiche antagoniste all’Iran esistono solo in Iraq, ma sono a oggi minoritarie

Detto questo, non è possibile a oggi farsi illusioni sull’effetto di questa rivolta agli ayatollah contemporanea nei tre Paesi. Né in Iran, né in Libano esiste una opposizione politica, dei partiti, che sappiano e possano dare uno sbocco alla formidabile protesta popolare. Queste forze politiche antagoniste all’Iran esistono solo in Iraq, ma sono a oggi minoritarie. Dunque, nessun regime change in vista in Iran o in Libano nel breve periodo, ma comunque una situazione di estrema instabilità alla quale purtroppo il regime degli ayatollah può essere tentato di reagire affiancando alla più feroce repressione interna una situazione bellica calda contro Israele o nel Golfo.

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L’Iran “riformista” ha mostrato il suo vero volto: le forche

Centinaia di morti e migliaia di arresti per sedare le piazze in rivolta. Proteste che contagiano anche Libano e Iraq. Ma il regime change per ora è una chimera.

Centinaia di morti, cecchini che sparano dai tetti sulla folla, 3 mila arresti, forca per i manifestanti arrestati, internet bloccato da giorni nonostante gli estremi danni all’economia interna: il “riformismo” iraniano di Hassan Rohani che tanto piace all’Europa sta dando il meglio di sé nelle piazze sconvolte da una protesta popolare spontanea che è identica a quella che sconvolge da settimane le piazze libanesi e irachene.

Il Vecchio continente non vuole prenderne atto, ma è evidente che la rivolta popolare libanese, quella irachena e quella iraniana hanno la stessa origine e lo stesso, identico avversario: il modello di potere degli ayatollah.

Tra tutti gli slogan urlati nelle piazze iraniane, risalta «Chissenefrega della Palestina!», perfetta sintesi della rivolta contro gli enormi costi sociali che ha l’impegno militare “rivoluzionario” all’estero dei Pasdaran.

L’IRAN VUOLE ESPORTARE LA RIVOLUZIONE KHOMEINISTA

Identico e uno solo, il centro di comando che ordina di sparare sulla folla a Teheran, a Beirut o a Baghdad: i Pasdaran e i paramilitari agli ordini di quel generale Ghassem Suleimaini che era volato due settimane fa nella capitale irachena promettendo sangue nelle strade «come ben sappiamo fare in Iran». Simili, se non identici, peraltro gli slogan delle piazze iraniane, irachene e libanesi: la corruzione, i soprusi, la fame, i miliardi per le spese militari a scapito del welfare. Tutti prodotti dal modello di regime che l’Iran ha esportato in Iraq e Libano: la rivoluzione khomeinista.

L’Iran ha uno e un solo obiettivo strategico: la distruzione di Israele

L’Europa non ne vuole prendere atto, ma l’Iran ha uno e un solo obiettivo strategico: esportare la rivoluzione iraniana, processo nel quale passaggio fondamentale è la distruzione di Israele. Per questo obiettivo il regime degli ayatollah ha investito decine di miliardi di dollari per foraggiare da cinque anni le Brigate Internazionali sciite che hanno mantenuto sul trono il macellaio Bashar al Assad e trasformato l’Iraq in un protettorato iraniano, per riempire gli arsenali siriani di missili destinati a Israele, per finanziare la Jihad islamica che spara razzi -iraniani- da Gaza su Israele e per sostenere i ribelli sciiti Houti in Yemen.

Le proteste in Iraq.

L’originalità del “modello iraniano” è stata di affiancare alle forze di fatto egemoni nel Paese (il blocco militare incentrato sui Pasdaran, che controlla anche l’economia iraniana) che gestiscono l’esportazione della rivoluzione khomeinista in Medio Oriente, con un apparato amministrativo di governo dalle forme, ma non dalla sostanza, riformista col volto pacioccone di Rohani. Questa duplicità non è stata colta dall’Europa, che ha assistito complice, dopo la normalizzazione della collocazione internazionale dell’Iran voluta da Barack Obama con l’accordo sul nucleare, alla espansione dell’egemonia politica e militare dell’Iran su Iraq, Siria, Yemen e Libano.

NON ESISTE UNA OPPOSIZIONE POLITICA VERA AI REGIMI

Non è la prima volta che il “riformismo iraniano” spara a zero sulla folla, l’ha fatto nel 1999, l’ha fatto conto l’Onda Verde del 2008, l’ha fatto nel 2017 e 2018 e lo rifá oggi. La novità, enorme, è che ormai la reazione contro il regime, contro il centro di comando iraniano unisce le piazze iraniane a quelle irachene e libanesi. Un fenomeno clamoroso e inedito, acuito dall’effetto delle sanzioni promosse da Donald Trump dopo la sua denuncia dell’accordo sul nucleare.

Forze politiche antagoniste all’Iran esistono solo in Iraq, ma sono a oggi minoritarie

Detto questo, non è possibile a oggi farsi illusioni sull’effetto di questa rivolta agli ayatollah contemporanea nei tre Paesi. Né in Iran, né in Libano esiste una opposizione politica, dei partiti, che sappiano e possano dare uno sbocco alla formidabile protesta popolare. Queste forze politiche antagoniste all’Iran esistono solo in Iraq, ma sono a oggi minoritarie. Dunque, nessun regime change in vista in Iran o in Libano nel breve periodo, ma comunque una situazione di estrema instabilità alla quale purtroppo il regime degli ayatollah può essere tentato di reagire affiancando alla più feroce repressione interna una situazione bellica calda contro Israele o nel Golfo.

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L’Iran e i suoi missili dietro l’attacco da Gaza su Israele

È la Brigata al Qods dei Pasdaran iraniani a definire la strategia degli attacchi e a rifornire di razzi la Jihad islamica palestinese. Un'azione che rischia di riportare la guerra nella Striscia.

Jihad islamica, agli ordini diretti dell’Iran, sta sommergendo il Sud di Israele di razzi diretti da Gaza contro la popolazione civile.

Questa aggressione a freddo a Israele si inserisce non sulle tensioni israelo-palestinesi (è in atto da mesi a Gaza una tregua funzionante tra Hamas e Gerusalemme) ma nella politica di attacco che l’Iran sta dispiegando da tre anni in qua (dopo gli sciagurati accordi sul nucleare voluti da Barack Obama) installando in Siria, in Libano e a Gaza non meno di 3 mila ogive missilistiche e razzi destinati alla «Entità Sionista».

Una politica di usura aggressiva da tutti i territori confinanti con Israele a Nord, a Est e a Sud, che risponde alla strategia degli ayatollah di preparare e avvicinarsi all’obiettivo strategico principale della rivoluzione iraniana, ribadito anche dalla cosiddetta “ala riformista” di Teheran: «Cancellare Israele dalla faccia della terra».

LEGGI ANCHE: Gaza e Israele hanno trovato l’intesa per un nuovo cessate il fuoco

CENTINAIA DI RAZZI DA GAZA VERSO ISRAELE

La gravità di questi attacchi proditori è tale che lo stesso coordinatore speciale dell’Onu per il processo di pace in Medio oriente, Nickolay Mladenov, lo ha nettamente condannato: «Il lancio indiscriminato di razzi e colpi di mortaio contro centri abitati è assolutamente inaccettabile e deve cessare immediatamente. Non ci può essere giustificazione per gli attacchi contro i civili».

Una bimba israeliana di 7 anni è in gravissime condizioni a causa di un infarto evidentemente provocato dal terrore

Più di 400 razzi sono stati lanciati tra martedì 12 e mercoledì 13 novembre da Gaza verso i centri abitati delle cittadine israeliane di Ashkelon e Sderot, il 90% sono stati intercettati dal sistema anti missile israeliano Iron Dome e non si registrano al momento vittime, ma una bimba israeliana di 7 anni è in gravissime condizioni a causa di un infarto evidentemente provocato dal terrore, mentre si trovava in un rifugio.

HAMAS È ESTRANEA ALL’AGGRESSIONE

Il lancio di razzi era iniziato venerdì 8 novembre e la reazione di Israele è stata immediata: con missili guidati ha ucciso lunedì 11 nella sua abitazione a Gaza il capo della Jihad islamica della zona Nord di Gaza Au al Atta e martedì un altro dirigente, Moawad al Ferraj. È fondamentale notare che Hamas, che governa e controlla la Striscia, è estranea a questa demenziale aggressione contro Israele (nulla, dal punto di vista militare, ma devastante per gli israeliani delle zone colpite dal punto di vista umano) che è invece opera della Jihad islamica, un gruppo che è alle dirette dipendenze della Brigata al Qods dei Pasdaran iraniani comandata dal generale Ghassem Suleimaini. Gli stessi Pasdaran riforniscono tramite il Sinai questi razzi, tutti di fabbricazione iraniana, alla Jihad islamica. Israele ha risposto a questa ennesima – e del tutto gratuita – aggressione con bombardamenti di sedi della Jihad islamica nella Striscia che a mercoledì 13 novembre hanno fatto 23 morti tra i suoi militanti.

LA PAURA DI UNA NUOVA GUERRA NELLA STRISCIA

Naturalmente, la preoccupazione maggiore è che questa aggressione irano-palestinese a Israele inneschi una nuova guerra a Gaza, ma Hamas, a oggi, ha dato segno di non avere intenzione di fare saltare la tregua siglata con Israele con la mediazione egiziana e anche se non fa nulla per impedire alla Jihad islamica di continuare la sua provocazione, anche se la “copre” politicamente, si è ben guardata dal fare atti di aggressione diretta contro Israele.

Un dimostrante palestinese.

Il governo israeliano ha per ora preso atto della prudente posizione di Hamas e non ha colpito nessun suo obiettivo a Gaza. Ma la situazione è sul filo del rasoio. Naturalmente, tutte le forze politiche israeliane hanno dato il pieno appoggio alla risposta decisa dal governo – incluse le uccisioni mirate dei dirigenti della Jihad islamica – ma è evidente il riflesso di queste tensioni nella difficile fase della formazione di un governo a Gerusalemme affidata al generale Benny Gantz, dopo il fallimento del tentativo di Bibi Netanyhau.

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L’Iran e i suoi missili dietro l’attacco da Gaza su Israele

È la Brigata al Qods dei Pasdaran iraniani a definire la strategia degli attacchi e a rifornire di razzi la Jihad islamica palestinese. Un'azione che rischia di riportare la guerra nella Striscia.

Jihad islamica, agli ordini diretti dell’Iran, sta sommergendo il Sud di Israele di razzi diretti da Gaza contro la popolazione civile.

Questa aggressione a freddo a Israele si inserisce non sulle tensioni israelo-palestinesi (è in atto da mesi a Gaza una tregua funzionante tra Hamas e Gerusalemme) ma nella politica di attacco che l’Iran sta dispiegando da tre anni in qua (dopo gli sciagurati accordi sul nucleare voluti da Barack Obama) installando in Siria, in Libano e a Gaza non meno di 3 mila ogive missilistiche e razzi destinati alla «Entità Sionista».

Una politica di usura aggressiva da tutti i territori confinanti con Israele a Nord, a Est e a Sud, che risponde alla strategia degli ayatollah di preparare e avvicinarsi all’obiettivo strategico principale della rivoluzione iraniana, ribadito anche dalla cosiddetta “ala riformista” di Teheran: «Cancellare Israele dalla faccia della terra».

LEGGI ANCHE: Gaza e Israele hanno trovato l’intesa per un nuovo cessate il fuoco

CENTINAIA DI RAZZI DA GAZA VERSO ISRAELE

La gravità di questi attacchi proditori è tale che lo stesso coordinatore speciale dell’Onu per il processo di pace in Medio oriente, Nickolay Mladenov, lo ha nettamente condannato: «Il lancio indiscriminato di razzi e colpi di mortaio contro centri abitati è assolutamente inaccettabile e deve cessare immediatamente. Non ci può essere giustificazione per gli attacchi contro i civili».

Una bimba israeliana di 7 anni è in gravissime condizioni a causa di un infarto evidentemente provocato dal terrore

Più di 400 razzi sono stati lanciati tra martedì 12 e mercoledì 13 novembre da Gaza verso i centri abitati delle cittadine israeliane di Ashkelon e Sderot, il 90% sono stati intercettati dal sistema anti missile israeliano Iron Dome e non si registrano al momento vittime, ma una bimba israeliana di 7 anni è in gravissime condizioni a causa di un infarto evidentemente provocato dal terrore, mentre si trovava in un rifugio.

HAMAS È ESTRANEA ALL’AGGRESSIONE

Il lancio di razzi era iniziato venerdì 8 novembre e la reazione di Israele è stata immediata: con missili guidati ha ucciso lunedì 11 nella sua abitazione a Gaza il capo della Jihad islamica della zona Nord di Gaza Au al Atta e martedì un altro dirigente, Moawad al Ferraj. È fondamentale notare che Hamas, che governa e controlla la Striscia, è estranea a questa demenziale aggressione contro Israele (nulla, dal punto di vista militare, ma devastante per gli israeliani delle zone colpite dal punto di vista umano) che è invece opera della Jihad islamica, un gruppo che è alle dirette dipendenze della Brigata al Qods dei Pasdaran iraniani comandata dal generale Ghassem Suleimaini. Gli stessi Pasdaran riforniscono tramite il Sinai questi razzi, tutti di fabbricazione iraniana, alla Jihad islamica. Israele ha risposto a questa ennesima – e del tutto gratuita – aggressione con bombardamenti di sedi della Jihad islamica nella Striscia che a mercoledì 13 novembre hanno fatto 23 morti tra i suoi militanti.

LA PAURA DI UNA NUOVA GUERRA NELLA STRISCIA

Naturalmente, la preoccupazione maggiore è che questa aggressione irano-palestinese a Israele inneschi una nuova guerra a Gaza, ma Hamas, a oggi, ha dato segno di non avere intenzione di fare saltare la tregua siglata con Israele con la mediazione egiziana e anche se non fa nulla per impedire alla Jihad islamica di continuare la sua provocazione, anche se la “copre” politicamente, si è ben guardata dal fare atti di aggressione diretta contro Israele.

Un dimostrante palestinese.

Il governo israeliano ha per ora preso atto della prudente posizione di Hamas e non ha colpito nessun suo obiettivo a Gaza. Ma la situazione è sul filo del rasoio. Naturalmente, tutte le forze politiche israeliane hanno dato il pieno appoggio alla risposta decisa dal governo – incluse le uccisioni mirate dei dirigenti della Jihad islamica – ma è evidente il riflesso di queste tensioni nella difficile fase della formazione di un governo a Gerusalemme affidata al generale Benny Gantz, dopo il fallimento del tentativo di Bibi Netanyhau.

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Trump è in affanno, ma i democratici Usa restano senza leader

La sconfitta nel voto del Super Tuesday non basta per decretare l'inizio di una parabola discendente del presidente americano. I dem sono estremamente frammentati e hanno candidati molto deboli.

Super Tuesday da incubo per Donald Trump che perde con un secco due a uno: il risultato più grave è la perdita, dopo ben 20 anni, della maggioranza nel parlamento della Virginia, ma scotta al Grand old party anche la perdita del governatore del Kentucky, anche se sul filo di lana.

Unica consolazione, la vittoria del governatore repubblicano in Mississippi, Tate Reeves. Detto questo, il voto di martedì 5 novembre dà scarse indicazioni reali per fare profezie sulle Elezioni presidenziali del novembre 2020.

La ragione principale della vittoria dei democratici infatti risiede nella forte caratura personale e di leadership dei loro candidati sia in Virginia sia in Kentucky, dove Andy Beshear ha vinto sia pure di strettissima misura, là dove in campo democratico a un anno dal voto presidenziale è sempre più evidente un doppio fenomeno: innanzitutto una estrema frammentazione dei candidati alle primarie.

AI DEMOCRATICI AMERICANE MANCA ANCORA UN LEADER

Con tutta evidenza non c’è al momento un “cavallo di razza”, un leader carismatico e popolarissimo di suo come è stata la grande sconfitta di Trump: Hillary Clinton. Dentro questa frammentazione del campo democratico si è poi sempre più rafforzato un fenomeno non nuovo nel campo del partito dell’asino: un radicale spostamento verso la sinistra – anche estrema – di quasi tutti i candidati ad eccezione di Joe Biden. Ma Biden, il candidato centrista più pericoloso per Trump, soffre innanzitutto di una sua leadership personale scialba (non a caso fatica molto nella fondamentale raccolta fondi) ed è anche indebolito dalle vicende legate ai rapporti tra suo figlio e l’Ucraina.

Se Trump dovrà scontrarsi con candidati oggi apparentemente col vento in poppa come Elisabeth Warren, avrà strada facile,

Non è un caso che proprio su questa debolezza si sia puntato l’arsenale di guerra mediatica di Trump al quale i democratici hanno risposto con una procedura di impeachement che non arriverà mai a successo (la deve approvare il Senato con la maggioranza dei due terzi, là dove Trump gode di una maggioranza netta e per di più solida) e che rischia fortemente l’effetto boomerang. Se Trump dovrà scontrarsi con candidati oggi apparentemente col vento in poppa come Elisabeth Warren, avrà strada facile, visto il loro programma in certi punti ancora più radicale di quello di Bernie Sanders (oggi molto appannato).

PER LE PRESIDENZIALE DEL 2020 È ANCORA TUTTO DA DECIDERE

La seconda ragione per la quale questo Super Tuesday non può dare indicazioni utili per fare pronostici sulle prossime presidenziali è insita nello stesso sistema di voto americano. Si pensi solo che Hillary Clinton perse clamorosamente nella conta dei fondamentali Grandi Elettori pur avendo ricevuto ben 2.800.000 voti in più di Trump (il 2% di vantaggio). In realtà il sistema federale rigido degli Usa sacrifica alla rappresentatività delle volontà dell’elettorato, la necessità di premiare il peso – a volte determinante – dei piccoli Stati a scapito dei più popolosi, i primi sono sovra-rappresentati quanto a Grandi Elettori, mentre i secondi sono pesantemente penalizzati. Dunque, sino a quando il quadro delle primarie non sarà definito e sarà chiaro quale sarà lo sfidante, e partiranno sondaggi attendibili, è inutile delineare scenari. Senza dimenticare che Trump arriverà al voto con successi consistenti sia nell’economia che nell’incremento dell’occupazione. Temi centrali nel voto Usa.

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