La cronistoria della crisi in Libia dal 2011 a oggi

Dalle rivolte contro il regime alla caduta di Gheddafi, fino alle lotte tribali, i tentativi falliti di transizione democratica e gli interessi di potenze straniere. I nove anni di guerra dell'ex Jamahiriya.

Gli ultimi nove anni di crisi libica testimoniano che il Paese nordafricano, nonostante il lungo regno di Muammar Gheddafi, di fatto non sia mai esistito.

Una debolezza storica, che attira ora le mire espansionistiche turche e russe, intenzionate a spartirsi il territorio e a mettere fuori dalla porta europei e italiani.

Ecco una cronistoria della crisi dell’ex Jamahiriya.

16 FEBBRAIO 2011 – LA PRIMAVERA ARABA INFIAMMA LA LIBIA

I primi scontri in Libia scoppiano a febbraio 2011, a seguito delle proteste scatenate dall’arresto dell’avvocato Fathi Terbil, noto oppositore di Gheddafi, che stava curando gli interessi dei parenti di alcuni attivisti politici morti 15 anni prima nelle galere libiche. A Bengasi si riversano in piazza migliaia di persone e la repressione della polizia non si fa attendere: muoiono quattro persone e 14 restano ferite. Ventiquattro ore dopo si incendiano tutte le principali città libiche. Negli scontri del 19 febbraio muoiono oltre 80 civili.

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La Comunità internazionale biasima il pugno di ferro con cui Gheddafi gestisce la situazione. Imbarazzato il governo italiano, storico partner del Paese con noti e ingenti interessi economici in Libia. 

Muammar Gheddafi in visita a Roma nel 2010.

21 FEBBRAIO 2011 – SCOPPIA LA GUERRA CIVILE

Il 20 febbraio, quando i morti sono ormai più di 120 e i feriti superano il migliaio di unità, l’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, si limita a dichiarare: «Siamo preoccupati per quello che potrebbe succederci se arrivassero tanti clandestini. La situazione è in evoluzione e quindi non mi permetto di disturbare nessuno».

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Il 21 febbraio Gheddafi dispone l’uso dell’esercito: i tank bombardano i manifestanti, che ormai vengono definiti «ribelli» e hanno preso la città di Bengasi. La propaganda del regime sostiene che dietro le proteste ci sia Osama bin Laden. «Combatterò fino alla morte come un martire», dichiara il raìs alla televisione libica.

26 FEBBRAIO 2011 – L’ITALIA SOSPENDE IL TRATTATO DI AMICIZIA

Il 26 febbraio il nostro Paese sospende unilateralmente il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra i due Paesi siglato a Bengasi il 30 agosto 2008. Ventiquattro ore dopo il Consiglio di sicurezza dell’Onu impone all’unanimità il divieto di viaggio e il congelamento dei beni di Muammar Gheddafi e dei membri del suo clan mentre il regime viene deferito al Tribunale Corte Penale Internazionale dell’Aja.

Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi.

10 MARZO 2011 – L’UE RICONOSCE IL CNT COME NUOVO INTERLOCUTORE

Si muove infine anche l’Europa. Nel vertice straordinario dei capi di Stato e di Governo di Bruxelles si decide che Gheddafi deve abbandonare subito il potere e il Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt) è il nuovo interlocutore politico.

19 MARZO 2011 – LA FRANCIA ENTRA IN GUERRA

Parigi dà il via all’operazione Odissey Dawn. La coalizione, guidata da Parigi e Londra, coinvolge anche gli Usa, la Spagna e il Canada. Roma, per non restare esclusa dalla spartizione che seguirà e non vedere danneggiati i propri interessi, volta le spalle al Colonnello e partecipa al conflitto.

OTTOBRE 2011 – LA FINE DI GHEDDAFI

La situazione per il raìs, che in un primo tempo era sembrato avere la meglio grazie all’arrivo in Libia di migliaia di mercenari al suo servizio, precipita durante l’estate. I ribelli irrompono nella sua fortezza di Tripoli e il Colonnello anziché combattere fino alla fine «come un martire» si dà alla fuga. Viene ucciso il 20 ottobre dello stesso anno, quando cade Sirte, la sua città natale.

GENNAIO 2012 – PROTESTE CONTRO IL CNT

Non c’è però pace per la Libia. Dopo pochi mesi i cittadini tornano in piazza per protestare contro il Consiglio nazionale di transizione. A luglio si elegge il Congresso nazionale generale e ad agosto avviene l’avvicendamento alla guida del Paese dei due collegi. Ma nemmeno questo apparente ritorno alla normalità ferma la rivoluzione.

Scontri in Libia.

11 SETTEMBRE 2012 – VIENE UCCISO L’AMBASCIATORE USA IN LIBIA

Chris Stevens, ambasciatore americano in Libia, viene ucciso da un comando di miliziani islamici nei pressi del consolato Usa di Bengasi, insieme a un agente dei servizi segreti e due marines. L’allora presidente statunitense Barack Obama decide di richiamare tutto il personale diplomatico e invia altre truppe nel tentativo di pacificare un Paese sempre più dilaniato.

ESTATE 2013 – CROLLA LA PRODUZIONE DI PETROLIO

Mentre in parlamento i Fratelli musulmani riescono a intercettare i candidati indipendenti, ponendo fine alla laicità del governo imposta per oltre 40 anni dall’ex dittatore, le guerre tra tribù e gli attentati costringono il Paese a chiudere gli impianti principali. La produzione quotidiana di petrolio crolla dagli 1,5 milioni di barili di giugno 2013 ad appena 180 mila.

FEBBRAIO 2014 – FALLISCE IL GOLPE DI HAFTAR

Contro una Libia sempre più islamica si schiera Khalifa Haftar, generale in pensione (nel 2014 ha già 71 anni) che nel 1969 partecipò al golpe che portò al potere Muammar Gheddafi. Proprio per questo non gode del favore del governo di transizione che teme voglia diventare il nuovo raìs libico. Il militare, che gode invece dell’appoggio dell’Egitto, in febbraio attua un colpo di Stato e prova a destituire il parlamento di Tripoli, ma l’esercito filogovernativo ha la meglio.

AGOSTO 2014 – L’AVANZATA DI ALBA DELLA LIBIA

Nemmeno le nuove elezioni del giugno 2014, con la vittoria di uno schieramento più moderato, consentono al Paese di avviare l’agognata transizione democratica. In estate le milizie islamiste riescono a unirsi sotto la guida dei temuti combattenti di Misurata e fondano il gruppo al Fajr Libya (Alba della Libia), conquistando Tripoli. Si crea così un governo ombra, parallelo a quello ufficiale ma costretto all’esilio nella città di Tobruk che crea ulteriori difficoltà nei rapporti con i Paesi esteri. Sono infatti due i ministri del Petrolio. Gli Emirati arabi sostengono entrambe le fazioni (durante il dialogo con Tobruk hanno infatti finanziato tutte le guerre di Haftar) nel tentativo di far salire al potere l’ex ambasciatore di Tripoli ad Abu Dhabi, Aref Ali Nayed, rendendo ancora più difficile il ruolo delle Nazioni Unite.

OTTOBRE 2014 – NASCE IL CALIFFATO DI DERNA

Dopo il ritiro delle Nazioni Unite e mentre le due milizie combattono per Bengasi, viene fondato a Derna, in Cirenaica, il Califfato islamico di Abu Bakr al Baghdadi. La città diventa covo di jihadisti che esercitano il potere con il terrore ed esecuzioni brutali. Ventuno egiziani cristiani vengono decapitati scatenando la dura repressione militare del Cairo. Intanto l’Isis conquista Sirte e sferra una serie di colpi alle ultime rappresentanze occidentali nel Paese. Il 27 gennaio viene assaltato l’hotel Corinthia di Tripoli, dove alloggia anche il premier islamista Omar al Hasi, scampato all’attentato che però causa la morte di cinque stranieri (tra cui un americano). Il 4 febbraio viene attaccato un giacimento a Mabrouk gestito dalla francese Total.

FEBBRAIO 2015 – CHIUDE L’AMBASCIATA ITALIANA A TRIPOLI

«Siamo pronti a combattere nel quadro della legalità internazionale». Questa frase, pronunciata dall’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni è sufficiente a mettere l’Italia nel mirino dell’Isis che dichiara di essere pronta a fermare le nuove «crociate blasfeme» che partiranno da Roma. Il premier Matteo Renzi decide di chiudere l’ambasciata a Tripoli, l’ultima rimasta nel Paese. «Abbiamo detto all’Europa e alla comunità internazionale che dobbiamo farla finita di dormire», è il suo appello, «che in Libia sta accadendo qualcosa di molto grave e che non è giusto lasciare a noi tutti i problemi visto che siamo quelli più vicini».

17 DICEMBRE 2015 – L’ACCORDO DI SKHIRAT

L’accordo di Skhirat, in Marocco, stretto tra gli esecutivi di Tripoli e Tobruk, permette la nascita del governo guidato da Fayez al-Serraj e riconosciuto dall’Onu.

GENNAIO 2016 – IL GOVERNO PROVVISORIO IN TUNISIA

Le Nazioni Unite, finora rimaste sullo sfondo, provano la carta del governo provvisorio, ma la situazione in Libia è tale che deve insediarsi all’estero, in Tunisia e non viene riconosciuto né dal governo più laico di Tobruk né da quello islamista di Tripoli. Verrà fatto sbarcare in nave solo nel mese di marzo che segna il ritorno del personale delle Nazioni Unite nel Paese. 

2016-2018 – LA CACCIATA DELL’ISIS

Inizia la controffensiva nei confronti dell’Isis che durerà più di due anni. Nel luglio 2018 l’esercito di Khalifa Haftar espugna Derna, roccaforte del Califfato.

Emmanuel Macron tra Haftar e al Serraj.

APRILE 2019 – LO SCONTRO FINALE PER TRIPOLI

Archiviata la minaccia dello Stato islamico, nell’aprile 2019 riparte la battaglia per Tripoli. E mentre in strada si combatte, in altre cancellerie si guarda già alla pacificazione. Gli Emirati Arabi non sono i soli a portare avanti la politica dei due forni. 

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2017-2019 – I MALDESTRI TENTATIVI FRANCESI DI ESCLUDERE L’ITALIA

Anche la Francia di Emmanuel Macron è protagonista di una politica assai ambigua: ufficialmente appoggia Serraj, ma ufficiosamente sembra invece puntare su Haftar, nella speranza di ribaltare a proprio favore i rapporti tra Tripoli e Roma in tema di rifornimenti energetici. Il 29 maggio 2018 l’inquilino dell’Eliseo accelera e convoca un vertice con i rappresentanti libici al fine di indire nuove elezioni il 10 dicembre.

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Non è la prima volta: il 24 luglio 2017 Macron aveva chiamato a Parigi Serraj e Haftar con la speranza di arrivare a una pacificazione benedetta dai francesi senza l’ingombrante presenza mediatrice di Roma. Particolarmente duro il ministro dell’Interno italiano, che in quel periodo è Matteo Salvini: «Penso che dietro i fatti libici ci sia qualcuno. Qualcuno che ha fatto una guerra che non si doveva fare, che convoca elezioni senza sentire gli alleati e le fazioni locali, qualcuno che è andato a fare forzature».

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Il presidente turco Recep Tayyp Erdogan.

DICEMBRE 2019 – GENNAIO 2020 – L’INTERVENTISMO DELLA TURCHIA

Le Forze armate turche a fine dicembre si sono dette pronte a un possibile impegno in Libia a sostegno del governo di Tripoli contro le forze del generale Khalifa Haftar, come richiesto dal presidente Recep Tayyip Erdogan. L’ingresso delle truppe turche, col voto del parlamento di Ankara favorevole all’invio di soldati in aiuto a Fayez Al-Sarraj, è destinato a spostare gli equilibri del conflitto libico. Una mossa che ha spiazzato l’Italia e l’Unione europea, che da tempo cercano una soluzione diplomatica, ma anche gli Stati Uniti, con Donald Trump che ha chiamato Erdogan per esprimergli la sua contrarietà all’intervento. E che ha spinto il generale Khalifa Haftar a lanciare la sua invettiva contro il presidente turco.

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Liberi, Uguali ma un po’ incazzati

Germanicum. Jobs Act. Articolo 18. Dossier Alitalia e Autostrade. Tutti i mal di pancia della sinistra, socia di minoranza del governo giallorosso.

All’improvviso, l’emergenza più impellente da risolvere in casa giallorossa nei primi giorni del 2020 è diventata trovare una nuova legge elettorale per pensionare il Rosatellum, la norma vigente che ha avuto la sua epifania alle Politiche del 2018 mentre ora viene disconosciuta da tutti, a iniziare dal Pd.

Al fotofinish il Partito democratico e il Movimento 5 stelle sono riusciti a presentare il testo alla Camera prima che la Corte Costituzionale si pronunci sull’ammissibilità del referendum leghista con l’obiettivo di disinnescare una potenzialmente insidiosa consultazione popolare finalizzata a ripristinare il maggioritario.

La bozza, però, non piace a tutti gli alleati: a puntare i piedi è Liberi e uguali, l’alleato finora più fedele e oscurato dalle continue rivendicazioni di Italia viva. Qualcosa, invece, si muove anche alla sinistra del Pd e la legge elettorale potrebbe non essere l’unico fronte che potrebbe aprirsi nel corso dell’anno.

I DUBBI SULLA LEGGE ELETTORALE

La deadline è appunto il 15 gennaio, termine entro cui è prevista la pronuncia della Consulta. Da qui la necessità di anteporre il tema su tutti gli altri che affollano l’agenda di una maggioranza ancora in cerca d’autore. L’anno è iniziato da sole 96 ore e già Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti si sono incontrati a Palazzo Chigi proprio per discutere della riforma, già ribattezzata Germanicum. Un vertice di appena 45 minuti senza renziani e senza Leu, utile a comunicare che tra i due principali azionisti del Conte bis c’è la comune volontà di disegnare assieme le future regole del gioco. Regole che rischiano di escludere però Liberi e uguali, che da mesi ribadisce la propria predilezione per un impianto spagnolo (inviso però a Italia viva) e, soprattutto, teme le conseguenze dello sbarramento al 5%.

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Un timore che lo ha portato ad addurre motivazioni peculiari. La senatrice di Leu Loredana De Petris qualche tempo fa aveva dichiarato: «L’ultima volta, con la soglia al 3%, siamo passati solo noi. Alzandola al 5, in quanti entrerebbero in parlamento? Cinque? Anche Forza Italia sarebbe a rischio…».

LAVORO: RIPRISTINO DELL’ART. 18 E SUPERAMENTO DEL JOBS ACT

Potrebbe essere stata proprio la decisione del Pd di sacrificare Leu sull’altare della speditezza dei lavori a spingere il ministro della Salute Roberto Speranza a riaprire l’annosa questione della regolamentazione del diritto del lavoro. «Al tavolo della verifica dovremo trovare il coraggio di correggere radicalmente gli errori commessi sul mercato del lavoro», ha dichiarato al Corsera.

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il ministro della Salute Roberto Speranza.

L’accondiscendenza dimostrata finora da Leu non paga e Speranza lo dice a chiare lettere: «Renzi chiede di rivedere reddito e Quota 100 e i 5 stelle non sono contenti. Io chiedo di rivedere il Jobs act. Non siamo un governo monocolore». E sono proprio i renziani, artefici della riforma, i più risentiti, come dimostra l’avvertimento arrivato, sempre dalle colonne del Corriere della Sera, dalla ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova: «La priorità è far ripartire il lavoro e l’economia, non gingillarsi con il Jobs Act che il lavoro lo ha creato. Non servono slogan, servono soluzioni».

MES, L’OLTRANZISMO SOVRANISTA DI FASSINA

C’è poi un altro tema che potrebbe tornare a tenere banco nelle prossime settimane, quando si acuirà lo scontro in vista delle Regionali emiliano-romagnole e calabresi: la nostra eventuale adesione al Meccanismo europeo di stabilità (Mes).  A dicembre la maggioranza aveva solo rinviato all’anno nuovo la decisione se continuare a fare parte o uscire dal Fondo salva-Stati. Decisione che adesso dovrà essere presa: il 20 gennaio prossimo, infatti, dovrebbe tenersi l’Eurogruppo per procedere con la ratifica dei Paesi interessati e non sembrano esserci spazi né per un ulteriore rinvio né per eventuali correzioni. Il presidente dell’organismo, l’economista portoghese Mario Centeno, era stato chiaro: «La decisione era stata presa in giugno. Il testo non si tocca, non c’è motivo per farlo, c’è già l’accordo politico». La firma potrebbe esporre il governo alle facili bordate di Lega e Fratelli d’Italia. E se il M5s potrebbe ingoiare la pillola amara, non è del medesimo avviso Leu, almeno per voce di Stefano Fassina che, è noto, negli ultimi tempi ha lavorato sodo per dare una casa, Movimento patria e costituzione, ai sovranisti di sinistra (ammesso esistano).

Su Twitter l’ex viceministro all’Economia parla di «potenziali gravi conseguenze per i lavoratori» e sostiene che la riforma «renda il default e la ristrutturazione del debito non l’eccezione ma uno strumento ordinario», spronando il Pd a essere «meno subalterno all’Europa».

SU AUTOSTRADE E ALITALIA ASSE LEU E M5S

Ci sono poi altri due possibili punti di frizione tra i dem e Leu che rischiano di avvicinare gli esponenti di Liberi e uguali ai 5 stelle: il dibattito sulla possibile revoca delle concessioni ad Autostrade e quello sul futuro di Alitalia. Quanto al primo, benché lo stesso Giuseppe Conte sembri sposare la proposta del Pd e di Italia viva – una maximulta da fare pagare alla società del gruppo Atlantia controllata dalla famiglia Benetton -, Liberi e uguali non demorde. Sempre Fassina ha definito «immorali» le concessioni vigenti, in quanto «fatte scrivere a garanzia di enormi rendite». Quindi, via Twitter, ha definito la linea, mai così vicina a quella dei pentastellati più oltranzisti: «Avanti tutta con le revoche!».

Situazione simile su Alitalia dove, seppur in formula temporanea (ma in Italia, si sa, non c’è nulla di più permanente di ciò che nasce come provvisorio), Leu batte la strada della nazionalizzazione. Fassina, intervistato da Radio Radicale, ha chiesto di «chiudere l’amministrazione straordinaria e costituire una Newco in cui partecipi allo Stato per procedere entro 24 mesi alla scelta di un partner strategico», ritenendo il piano industriale del consorzio Ferrovie dello Stato, Atlantia e Delta «un “piano biennale di fallimento”, nonostante l’enorme numero di esuberi che prevedrebbe».

I TENTATIVI DI DIALOGO DEL PD

Insomma, le convergenze tra Leu e M5s potrebbero impensierire il Pd che, da parte sua, non ha mancato di fare arrivare segnali di disgelo che non si vedevano dai tempi della fuoriuscita di Bersani & Co dalla Ditta. Come per esempio la recente partecipazione di alcuni dem di spicco (su tutti Graziano Delrio e Andrea Orlando) a un seminario su Stato e mercato organizzato da Alfredo D’Attorre. L’intenzione sembra quella di evitare che Leu si avvicini troppo ai 5 stelle, ricordando all’alleato le origini comuni. E, soprattutto, ricordandogli che ormai Matteo Renzi è uscito dal Partito democratico.

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I movimenti nella Giunta che deciderà sul caso Gregoretti

Nel collegio chiamato a votare sull'autorizzazione a procedere per Salvini gli equilibri sono molto fragili. E non sono escluse sorprese. In primis, dai tre esponenti renziani. Il punto.

«Sento il dovere di precisare che le determinazioni assunte dal ministro dell’Interno sono riconducibili a una linea politica sull’immigrazione che ho condiviso in qualità di presidente nel Consiglio e in coerenza con il programma di governo». Lo scriveva il premier Giuseppe Conte in un documento depositato alla Giunta per l’Immunità del Senato che era stata chiamata a decidere se concedere o meno l’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini per il caso Diciotti. Era il 7 febbraio 2019. Per la velocità con cui si muove la politica italiana, che crea e disfa nuove alleanze in poco tempo, un’era geologica fa. Nemmeno 12 mesi dopo, il 20 gennaio prossimo, lo stesso organismo parlamentare sarà investito della questione Gregoretti, ma questa volta il presidente del Consiglio ha già fatto sapere che non intende difendere Salvini. In una maggioranza sempre più dilaniata questo però non si traduce automaticamente in una autorizzazione a procedere. Qualcuno dei giallorossi potrebbe votare contro. Ma andiamo con ordine.

LE ACCUSE MOSSE A SALVINI

La vicenda prende il nome dal pattugliatore della Guardia Costiera Gregoretti che lo scorso anno fu bloccato con a bordo oltre 100 migranti soccorsi in mare, durante il periodo dei «porti chiusi», a Siracusa, dalla notte del 27 al 31 luglio. La Procura a settembre aveva ufficializzato la richiesta di archiviazione, ma aveva comunque trasmesso per atto dovuto il fascicolo al Collegio per i reati ministeriali del Tribunale di Catania, che a sua volta ha inviato la richiesta a procedere all’apposita giunta parlamentare. Salvini – scrivono i magistrati – è accusato di aver «determinato consapevolmente l’illegittima privazione della libertà dei migranti, costretti a rimanere in condizioni psico fisiche critiche a bordo».

PER LA PROCURA NON C’È CONDOTTA ILLECITA

Ma, si diceva, la Procura catanese non ritiene illegittimo il blocco di 72 ore: «l’attesa di tre giorni per uno sbarco», avevano motivato i Pm nella loro richiesta d’archiviazione, «non può considerarsi una illegittima privazione della “libertà” dei migranti, visto che le limitazioni sono proseguite poi nell’hot spot di Pozzallo e nei centri di accoglienza e manca un obbligo per lo Stato di uno sbarco immediato».

DI MAIO HA VOLTATO LE SPALLE A SALVINI

Più che un caso giuridico, un caso politico, insomma, che non manca di logorare la maggioranza. Luigi Di Maio, che pure, quando era ancora vicepresidente della Camera, fu il primo tra i cinque stelle a inseguire le politiche leghiste soprannominando le Ong «taxi del mare» (era il 21 aprile 2017), ora è costretto a voltare le spalle all’ex alleato di governo: «A gennaio saremo chiamati a riconoscere l’interesse pubblico prevalente a bloccare una nave: ma stiamo parlando di una nave bloccata a luglio quando gli altri Paesi europei che venivano chiamati si offrivano per la redistribuzione dei migranti», ha recentemente dichiarato il leader M5s a Porta a Porta. Ma proprio Di Maio, nemmeno un anno fa, nella memoria a sostegno di Salvini per il caso Diciotti dichiarava: «assurge a punto cardine del programma di governo l’abbattimento della pressione migratoria alimentata da fondi pubblici spesso gestiti con poca trasparenza e permeabili alle infiltrazioni della criminalità organizzata» e, soprattutto: «il vice presidente del Consiglio Di Maio ha condiviso le modalità delle operazioni di salvataggio. […] Le decisioni assunte sono state frutto di una condivisione politica».

QUANDO CONTE SCRIVEVA: «SONO PIENAMENTE RESPONSABILE»

Lo stesso Conte, che al momento prende tempo («Mi pronuncerò a tempo debito, consulterò le carte e poi parlerò. Per ora si è espressa la Segreteria generale di Palazzo Chigi che ha dato atto che è stato un tema che non è mai stato dibattuto nel Consiglio dei ministri che si è svolto nei giorni della Gregoretti»), per la Diciotti scriveva: «Le azioni poste in essere dal ministro dell’Interno si pongono in attuazione di un indirizzo politico-internazionale, che il governo da me presieduto ha sempre coerentemente condiviso fin dal suo insediamento. Di questo indirizzo, così come della politica generale del governo, non posso non ritenermi responsabile, ai sensi dell’articolo 95 della Costituzione».

LE INCOGNITE NELLA GIUNTA

Ma, come già si anticipava, il dietrofront del Movimento 5 stelle non significa automaticamente che la Giunta per l’Immunità del Senato darà il proprio via libera ai magistrati che indagano su Salvini. Soprattutto dopo che Francesco Urraro ha abbandonato i pentastellati per confluire nel Gruppo Lega – Partito Sardo d’Azione. Su 23 membri, la maggioranza giallorossa ora può contare su 11 componenti, tallonata dall’opposizione di centrodestra che ne ha 10. Gli ultimi due fanno capo al Misto e alle autonomie. Una composizione che potrebbe riservare più di una sorpresa, per i giallorossi. A iniziare dal fatto che la Giunta è presieduta dal forzista Maurizio Gasparri che certo non ha interesse a mettere in difficoltà Salvini, ritornato di recente nella famiglia del centrodestra. Nell’organismo, tra i banchi della maggioranza, siede inoltre Michele Giarrusso, da sempre tra i pentastellati più vicini alla causa leghista. Quando lo scorso anno la Giunta salvò Salvini, Giarrusso si affacciò sul cortile interno dell’aula e schernì i senatori dem facendo loro il gesto delle manette e dichiarando: «Almeno io non ho i miei genitori ai domiciliari», esplicito riferimento alla vicenda famigliare che nello stesso periodo stava riguardando Matteo Renzi.

UNA VARIABILE CHIAMATA RENZI

Già, e Renzi cosa fa? Il senatore toscano potrebbe servire fredda la propria vendetta e assestare un colpo alla maggioranza giallorossa. «Salvini nella sua memoria ci ha spiegato che il caso Gregoretti è identico a quello della Diciotti», ha detto il coordinatore di Italia Viva Ettore Rosato, «Salvini certamente conosce le carte meglio di noi, e se lui dice che i casi sono identici, noi ci comporteremo in modo identico, votando come per la Diciotti a favore dell’autorizzazione al processo contro Salvini».

IL M5S DUBITAVA DI ITALIA VIVA

Erano in molti, nel Movimento, a ritenere che all’ultimo Renzi avrebbe detto ai suoi uomini in Giunta (ben tre: Cucca Salvatore, che dell’organismo è anche vicepresidente, Nadia Ginetti e Francesco Bonifazi) di votare contro, con la scusa del garantismo. Del resto, viene sibilato dai cinque stelle, i due Matteo sono legati da vicende giudiziarie affini (i presunti finanziamenti illeciti del Russiagate da un lato e della Fondazione Open dall’altro). E poco importa che le sfumature esistano e siano importanti, non solo sui casi su cui indaga la magistratura, ma anche sulle condotte politiche dei due (Renzi continua tuttora a ripetere che quella dei porti chiusi è una barbarie), perché tanto basta a gettarli nel calderone degli esperti politicanti da cui i pentastellati ritengono sia bene guardarsi. Lo scorso anno l’ex premier dichiarò: «Voterò a favore della richiesta del Tribunale dei Ministri di Catania che accusa Salvini di sequestro di persona aggravato per i fatti della nave Diciotti». Solo il tempo dirà se il leader di Italia Viva rimarrà sulla propria posizione o inseguirà Di Maio e Conte nelle loro giravolte politiche e se l’esecutivo supererà la prova del prossimo 20 gennaio.

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Quando la manovra si blinda sacrificando il parlamento

Nel 2018 il Pd attaccava una legge di bilancio extra-parlamentare con cui il governo calpestava i diritti delle Camere. Ma 12 mesi dopo è successa la stessa cosa. Il 2010 di Berlusconi, il Salva Italia montiano, la scommessa (persa) di Renzi: i precedenti.

«Per la prima volta si fa una legge di bilancio completamente extra-parlamentare. Il governo ha calpestato i diritti del parlamento e nelle ultime ore è stata usata violenza». Lo gridava, ormai a tarda sera, dal suo scranno in Senato, il capogruppo del Partito democratico Andrea Marcucci. Esattamente 12 mesi fa.

TEMPI DELLA DISCUSSIONE ANCORA TAGLIATI

La votazione si concluse alle 3 del mattino del 23 dicembre 2018. Alla Camera il suo compagno di partito, Emanuele Fiano, dopo aver lanciato l’intero testo – un plico di diverse centinaia di fogli – contro i banchi del governo (colpendo il sottosegretario all’Economia, il leghista Massimo Garavaglia) andò oltre, evocando manifestazioni di piazza e l’intervento della Consulta. Il Pd si stringeva attorno alla Costituzione per difendere la centralità del parlamento. Atto più che dovuto, si dirà. Ma 12 mesi dopo è stato il governo giallorosso sostenuto da dem e Movimento 5 stelle a tagliare i tempi della discussione alle Aule. E non è nemmeno la prima volta che accade nella storia repubblicana.

IL RISCHIO DA SVENTARE: L’ESERCIZIO PROVVISORIO

Lo spettro che il governo vuole allontanare è finire nell’esercizio provvisorio. Sarebbe un paradosso dal forte sapore beffardo per un esecutivo nato sul finire dell’estate 2019 esattamente con lo scopo di disarmare le clausole di salvaguardia dell’Iva, che invece si attiverebbero automaticamente nel caso in cui il parlamento non licenziasse la manovra 2020 entro il 31 dicembre.

VALANGA DI 4.500 EMENDAMENTI: TUTTI CADUTI

Soltanto il 18 novembre le Camere bombardavano la finanziaria con una gragnuolata di emendamenti: 4.500 (più di mille quelli presentati dalla stessa maggioranza: 900 dal Pd, 400 dal M5s, 200 da Italia viva). Non sono stati mai discussi. Anzi, la stessa legge di bilancio è stata compattata in un maxi-emendamento di un solo articolo, da votare a scatola chiusa. Con tanto di due soli passaggi nelle assemblee, e il sacrificio inevitabile della terza lettura. Ma ecco i precedenti nella Seconda Repubblica.

2010 – PRIMA LA MANOVRA E POI LA SFIDUCIA (SVENTATA) A SILVIO

La prima volta che la discussione parlamentare fu sacrificata sull’altare della speditezza dei lavori è stato nel 2010. Il 15 novembre di quell’anno si consumò la rottura tra Gianfranco Fini, allora presidente della Camera nonché leader di Futuro e libertà e Silvio Berlusconi, che guidava il governo sostenuto dal Popolo della libertà e dalla Lega Nord di Umberto Bossi.

Gianfranco Fini.

Il 2 dicembre Fini, Pier Ferdinando Casini, Francesco Rutelli e Raffaele Lombardo chiesero a nome del Terzo polo le dimissioni del presidente del Consiglio, ma vennero prontamente richiamati all’ordine dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, che pretese di congelare la mozione di sfiducia così da dare precedenza a una lettura accelerata della finanziaria. Che fu così licenziata il 7 dicembre, la sfiducia messa ai voti il 14 dello stesso mese, mentre Roma veniva attraversata da un corteo che, tra scontri, auto incendiate e cariche della polizia, chiedeva a gran voce le dimissioni dell’esecutivo.

Silvio Berlusconi e Domenico Scilipoti.

Dimissioni che non arrivarono: nella settimana “in più” che fu concessa al governo, Berlusconi andò a caccia di voti tra gli indecisi (risaltò alle cronache soprattutto il soccorso di due ex dell’Italia dei valori, Domenico Scilipoti e Antonio Razzi, ma anche quattro finiani tradirono all’ultimo il proprio leader) e il parlamento rinnovò la fiducia al governo, regalandogli altri 11 mesi.

2011 – L’ARRIVO DEI TECNICI E IL SALVA ITALIA A PACCHETTO CHIUSO

Gli eventi del dicembre 2010 sono strettamente connessi alla seconda volta in cui il parlamento fu ridotto al ruolo di mero spettatore nell’iter di approvazione della legge di bilancio, appena 12 mesi dopo. Il governo Berlusconi IV, sopravvissuto a stento a fine 2010, terminò la sua corsa il 12 novembre dell’anno successivo, attanagliato dallo spread e dagli attacchi speculativi subiti in Borsa. Subentrarono in corsa i tecnici guidati da Mario Monti che approntarono in tutta fretta una maxi manovra da 40 miliardi (21,43 per ridurre il debito pubblico e 18,54 miliardi per la ripresa economica e le spese indifferibili). Una cifra monstre che pure non fu discussa dal parlamento. Il decreto Salva Italia fu approvato in via definitiva dal Senato con 257 sì e 41 no tre giorni prima di Natale.

2016 – LA SCOMMESSA (PERSA) DA RENZI E LA LEGGE BLINDATA

L’ultimo episodio risale infine al 2016, quando cioè l’allora premier Matteo Renzi legò la sopravvivenza del proprio esecutivo all’esito del referendum del 4 dicembre. La storia è nota: la riforma costituzionale che avrebbe dovuto scardinare il bicameralismo perfetto fu bocciata dall’elettorato e il governo arrivò a fine corsa. Non prima, però, di licenziare la finanziaria, come richiesto dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che voleva che lo Stato concludesse l’anno con i conti in ordine. Solo la Camera ebbe modo di ritoccare il pacchetto di misure da 29 miliardi nella votazione del 28 novembre antecedente alla tornata referendaria. Al Senato il testo arrivò blindato il 7 dicembre con la richiesta di approvarlo in tutta fretta. Alcuni osservatori notarono che la scelta di escludere dalla discussione la Camera Alta costituisse la prova fattuale che la riforma renziana che puntava a ridurne gli ambiti di intervento in campo legislativo fosse ormai realtà nonostante l’esito referendario.

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Radiografia delle fratture e dei riposizionamenti nel M5s

Un senatore è passato ufficialmente alla Lega. Mentre il Movimento è sempre più in balìa di correnti trasversali che si coagulano in gruppi e gruppetti a seconda del tema. Dal Mes fino all'Ilva. Chi sta con chi (fino alla prossima giravolta).

Quando in estate iniziò a concretizzarsi l’ipotesi di un governo giallorosso, in molti teorizzarono che sarebbe durato almeno fino all’implosione del Partito democratico. Il Pd, sebbene svuotato della sua componente renziana e calendiana, sta invece dando prova di una inattesa solidità. Non si può dire lo stesso del Movimento 5 stelle che, sballottato dai tanti inciampi elettorali (la perdita di 6 milioni di voti dalle politiche del 2018 alle europee del 2019 e la sconfitta a ogni tornata regionale cui si è presentato), sembra sempre più diviso in correnti.

Le scissioni sono tante e tali che si potrebbe persino dire che «l’uno vale uno» delle origini sia diventato «ciascun per sé»

Difficile presentare una mappa di ciò che sta avvenendo all’interno dei 5 stelle, galassia giorno dopo giorno più nebulosa. Le scissioni sono tante e tali che si potrebbe persino dire che «l’uno vale uno» delle origini sia diventato «ciascun per sé». Del resto, anche le correnti sono, per usare due termini cari ai grillini, “post ideologiche e trasversali” e si coagulano in gruppi e gruppetti a seconda del tema e, soprattutto, del mal di pancia. E se Luigi Di Maio derubrica tutto alle solite «sparate contro il Movimento» dei «giornaloni», è innegabile che sia proprio la sua leadership uno dei motivi principali delle innumerevoli divisioni. Ma, come vedremo, ricondurre tutto a un confronto serrato tra chi spinge perché l’alleanza con il Pd arrivi fino a fine legislatura e chi invece spera che Di Maio strappi sarebbe riduttivo.

DA FRACCARO A SILVESTRI: I FEDELI A DI MAIO

Anche nel M5s è possibile rinvenire, come nei grandi partiti, un cerchio magico. File che, però, si assottigliano giorno dopo: per un Riccardo Fraccaro (già scivolato nel gruppo dei governisti) che ripete che «la leadership non è in discussione» c’è chi, come Michele Gianrusso, attacca: «Non è vero che solo 10 parlamentari sono contro Di Maio. Semmai in 10 sono rimasti con lui. E se ricomincia a fare coppia con Di Battista, ne resteranno cinque». Si posizionano tra gli ultimi fedelissimi Pietro Dettori (braccio destro di Davide Casaleggio e ciò fa pensare che lo stesso Casaleggio appoggi Di Maio, contrariamente a Beppe Grillo che supporta invece i governisti), la viceministra Laura Castelli, il sottosegretario Manlio Di Stefano e Francesco Silvestri (in bilico tra dimaiani e nuova guardia) che Di Maio voleva capogruppo alla Camera come successore di Francesco D’Uva, così da porre fine al rebus che sta rendendo plateali i disaccordi interni. Ma i deputati si sono rifiutati. Ora Silvestri potrebbe diventare tesoriere.

Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.

GIARRUSSO E TIZZINO: GLI OPPOSTI TRA I CRITICI DI DI MAIO

Ben più variegata la fronda di chi si posiziona contro Di Maio. Solo tra i rappresentanti siciliani si va dal già citato Giarrusso, da sempre considerato vicino alla Lega, a Giorgio Trizzino, che negli ultimi giorni oltre ad avere chiesto che il Movimento sia guidato da un organo collegiale, ha più volte fatto sentire la propria voce chiedendo compattezza nell’alleanza con i dem («Il vero nemico nostro e del Paese», ha detto il deputato, «è la destra sovranista»). Insomma, il leader pentastellato prende schiaffi sia da chi contesta la sua linea filo-governativa sia da chi lo accusa di mettere a rischio la tenuta dell’esecutivo.

DI PIAZZA, RICCARDI E QUELLI CHE VOGLIONO UN’ASSEMBLEA

Trizzino non è il solo a chiedere che al vertice di M5s venga istituito un organo corale. Tra questi anche Steni Di Piazza e Riccardo Ricciardi (fichiano) che va oltre e chiede l’«assemblea deliberante». Di Maio dovrebbe insomma sottostare alle decisioni prese dalla maggioranza di deputati e senatori. Ricciardi sarà candidato a vice dell’ex sottosegretario al Mise Davide Crippa nella corsa al posto dei questori alla Camera.

PARAGONE GUIDA LA PATTUGLIA DEGLI ANTI-MES

Sul fronte del Meccanismo europeo di stabilità combattono Elio Lannutti, Gian Luigi Paragone e Raphael Raduzzi. Dalla battaglia sembra invece essersi ritirato Stefano Patuanelli, che lo scorso 19 giugno in Aula oltre a chiedere la riforma del Mes tuonava: «È giusto andare con la schiena dritta a rappresentare le esigenze del nostro Paese, con la forza di un governo che ha una grande maggioranza e ha capito che, soltanto attraverso il cambiamento, si salva non solo l’Italia, ma anche l’Europa». Il tema ha spaccato il M5s, tanto che alcuni senatori hanno minacciato di fare le valigie per passare alla Lega e uno di loro, Ugo Grassi, ha ufficialmente lasciato il gruppo grillino per trasferirsi nel Carroccio.

Alessandro Di Battista.

GRILLO E I GOVERNISTI CONTRO L’ASSE DI MAIO-DI BATTISTA

Tutto ciò accadeva ben prima che Patuanelli ereditasse da Di Maio la poltrona del Mise. Particolare che ha determinato un sostanziale riposizionamento. Oggi, infatti, è tra i governisti assieme a big quali il collega Alfonso Bonafede (Guardasigilli) e all’ultimo arrivato in questo club, il sottosegretario alla Presidenza Fraccaro. Si tratta della compagine sostenuta da Beppe Grillo, il fautore la scorsa estate – assieme a Matteo Renzi – di questo esecutivo. La corrente appoggia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e critica aspramente la ritrovata alleanza tra il ministro degli Esteri e Alessandro Di Battista.

DIBBA, BATTITORE LIBERO FILO-LEGHISTA

Già. E dove si colloca Di Battista? Rimasto fuori dal parlamento, non ha mai fatto mistero di avere simpatie filo-leghiste e di non avere affatto apprezzato la costruzione di un esecutivo con il Pd (del resto, in estate aveva annunciato di essere al lavoro su un libro sulla vicenda di Bibbiano, che l’inattesa alleanza con i dem ha poi fatto saltare). Nelle ultime settimane, il terrore di vedere crollare ulteriormente il proprio consenso tra gli elettori ha spinto Di Maio a riavvicinarsi a Di Battista, battitore libero. Scelta che ha ulteriormente ridotto le schiere dei “dimaiani” nelle Camere: gli onorevoli al secondo – e ultimo – mandato non possono certo guardare con favore i tentativi di accorciare la legislatura.

DA TONINELLI A LEZZI: I “TROMBATI” DEL CONTE 2

Accanto a chi sta concludendo il secondo giro trova posto un’altra categoria di delusi: i ministri del Conte 1 che non sono stati riconfermati nel Conte 2. A iniziare dall’ex titolare del dicastero delle Infrastrutture, Danilo Toninelli. La sua insoddisfazione sarebbe tale che, secondo alcuni, lo avrebbe trasformato in una scheggia impazzita da corteggiare in caso di votazioni ad alto rischio. Seguono Giulia Grillo, Barbara Lezzi e il già citato Crippa (che ha preso il posto di D’Uva come capogruppo raccogliendo consensi proprio tra chi contesta Di Maio).

Barbara Lezzi.

L’EX MINISTRA A CAPO DEI DURI E PURI CONTRO L’ILVA

Ma Lezzi anima un’altra fronda, quella degli esponenti pugliesi che vogliono a tutti i costi mantenere le promesse fatte nelle piazze della regione in campagna elettorale, ovvero la chiusura dell’Ilva senza se e senza ma. Tra i duri e puri, contrari all’ipotesi di qualsiasi scudo a tutela della dirigenza franco-indiana, alla Camera spiccano Giovanni Vianello e Gianpaolo Cassese, mentre al Senato, dove i numeri si fanno insidiosi, i dissidenti sarebbero tra i 13 e i 15.

MANTERO, LA MURA E L’ALA DEI “FICHIANI”

Attorno a Roberto Fico si è raccolta ormai da tempo l’ala “sinistra” del Movimento. Si tratta di una delle correnti più anziane, risalenti a quando si doveva determinare a chi spettasse la leadership. Nell’ultimo periodo i “fichiani” hanno fatto un passo verso la coalizione governativa allontanandosi ulteriormente dalla visione di Di Maio e Di Battista. «Il Parlamento deve continuare a lavorare, ha altri tre anni di vita davanti a sé», ripete come un mantra il presidente della Camera, Fico. Nella sua fronda militano i senatori Matteo Mantero e Virginia La Mura e i deputati Doriana Sarli e Gilda Sportiello.

L’IDENTITÀ A 5 STELLE DI MORRA E COMPAGNIA

Tra i più critici nei confronti della leadership di Di Maio si posiziona senz’altro il senatore Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia e tra i primi ad avere deciso di “metterci la faccia”, sfidando apertamente il capo politico. È stato Morra ad avere detto che il Movimento si è «imborghesito». Per questo ha iniziato a indire una serie di riunioni ristrette con altri onorevoli dissidenti volte a riscoprire l’identità delle origini. Da qui il soprannome della sua corrente: Identità a 5 Stelle. Gravitano in quell’area Carla Ruocco, Piera Aiello e Ugo Grassi.

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La strage di piazza Fontana, dall’esplosione alle false piste

La bomba Banca Nazionale dell'Agricoltura. Gli ordigni romani. Le possibili prove andate in fumo. I dubbi sulle indagini. Cronaca di quel 12 dicembre 1969 che aprì le porte agli Anni di Piombo.

Cinquant’anni fa ebbe luogo a Milano la strage di piazza Fontana. «Il giorno in cui perdemmo l’innocenza», come disse qualcuno. Per il quotidiano britannico Observer, fu il giorno in cui ebbe inizio la “strategia della tensione”, termine che entrerà anche nel nostro linguaggio. Il 12 dicembre 1969 oltre alla bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, si verificarono tre esplosioni a Roma, mentre un quinto ordigno, inesploso, veniva distrutto dagli inquirenti sempre nel capoluogo lombardo. Nell’arco di 53 minuti, saltava la rigida ripartizione tra buoni e cattivi, servitori dello Stato e servizi segreti deviati. Di colpo, le distinzioni si facevano meno nette e l’Italia si immergeva in un lungo e fosco periodo nel quale diventava più difficile discernere tra luci e ombre. In quegli anni verrà coniato un nuovo appellativo per quei fatti, che finirà inesorabilmente appiccicato a tanti altri episodi di cronaca e processi rimasti insoluti: strage senza colpevoli.

I FATTI DEL 12 DICEMBRE 1969

16.00 – LA CHIUSURA DEGLI SPORTELLI E L’AVVIO DELLE CONTRATTAZIONI

Il 12 dicembre 1969 è una giornata fredda e plumbea. Milano ha ancora la sua nebbia e quel giorno una coltre spessa la avvolge. Un palazzo solido e squadrato, di tre piani, affaccia su piazza Fontana. È la sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Tutti i venerdì alle 16, dopo la consueta chiusura degli sportelli, l’istituto lascia aperto il proprio salone principale e subito ha inizio il mercato tra allevatori, commercianti di mangimi, mediatori e agricoltori. Basta una stretta di mano per concludere gli affari. Alla formazione dell’accordo spesso partecipa un testimone che, con il “gesto della spada”, taglia la stretta di mano tra le parti, facendosi garante del patto. Sotto Natale molti contadini presenti, arrivati a Milano da tutta la Pianura padana, approfittano del giro in città per comprare regali che vengono depositati sotto il grande tavolo borchiato ottagonale posto al centro della grande sala circolare chiusa da due vetrate a cupola. È quella che i dipendenti e i clienti hanno soprannominato “la rotonda”. Lì, tra i pacchi, in una borsa di pelle, è stata nascosta anche la bomba. Dietro gli sportelli lavorano una settantina di impiegati.

16.25 – LA BOMBA FATTA BRILLARE IN PIAZZA DELLA SCALA

Ma il primo ordigno che cambierà per sempre la storia del Paese non è quello di piazza Fontana. Alle 16.25, in piazza della Scala, sempre a Milano, un commesso della Banca Commerciale trova una borsa elegante abbandonata vicino a uno degli ascensori di servizio. È pesante. La porta a un funzionario. La aprono. Contiene una scatola metallica, chiusa a chiave. Sembra una cassetta di sicurezza. Vicino un dischetto graduato da zero a 60. Insospettito, dà l’allarme. Arrivano gli artificieri che, contrariamente a quanto imporrebbe la procedura, la seppelliscono nel giardino del cortile interno e la fanno brillare. Finiscono così polverizzate assieme all’esplosivo anche tutte le tracce che sarebbero potute essere determinanti per le indagini. Quell’errore, o presunto tale, per anni sarà al centro della tesi secondo cui lo Stato abbia agito per coprire gli attentatori, animando teorie, misteri e complotti che hanno gettato ombre sinistre sulla storia nazionale.

16.37 – L’ESPLOSIONE ALLA BANCA NAZIONALE DELL’AGRICOLTURA

Torniamo alla sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura. L’edificio ospita oltre 300 dipendenti. Quel giorno i saloni dell’istituto sono pieni di gente. Eccezionalmente, si è deciso di lasciare aperti gli sportelli fino alla fine delle contrattazioni. Fuori piove, fa freddo e i famigliari che hanno accompagnato in città chi sta contrattando invece di restare fuori si accomodano all’interno. Alcuni avvertono uno strano odore di bruciato. Alle 16.37 esplode la bomba, sette chili di tritolo. Il grande tavolo ottagonale in mogano solo in parte attutisce il colpo perché si trasforma anche in un nugolo di schegge mortali che si diramano in tutte le direzioni. Al centro della stanza resta un cratere fumante. Le enormi vetrate diventano proiettili di vetro che raggiungono anche la piazza. Alla deflagrazione, racconteranno i testimoni, segue un forte odore di mandorle amare. La decisione di spostarsi per trovare un angolo più tranquillo, l’offerta di una sedia, trovarsi dietro un capannello di persone, per molti fa la differenza tra la vita e la morte. Tra impiegati, clienti e semplici passanti restano uccise 17 persone, 86 sono ferite. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale l’Italia non veniva scossa da episodi così drammatici. È l’inizio degli Anni di piombo.

16.55 – ESPLODE LA PRIMA BOMBA ROMANA

Ma quella di piazza Fontana non è la sola bomba a squarciare la tranquillità della giornata dicembrina. A Roma, alle 16.55, deflagra un altro ordigno alla Banca Nazionale del Lavoro in via San Basilio, nei pressi della centralissima via Veneto, percorsa sotto le feste natalizie da migliaia di persone. In un primo momento si pensa all’esplosione di una conduttura del gas. Invece è una bomba, collocata in un passaggio sotterraneo, vicino al centralino, che collega due edifici adiacenti degli uffici centrali della Banca Nazionale del Lavoro in cui lavorano più di 2 mila persone. A quell’ora, però, l’istituto è chiuso al pubblico. L’esplosione ferisce di striscio 14 impiegati, per lo più colpiti dai vetri andati in frantumi e, facendo saltare diversi metri di conduttura dell’acqua, allaga gli scantinati dello stabile.

17.22 – 17.30 – ALTRE DUE ORDIGNI SCUOTONO LA CAPITALE

Non è ancora finita. Tra le 17.22 e le 17.30 nella capitale deflagrano altri due ordigni in piazza Venezia. Il primo alla base del pennone all’Altare della Patria e fa crollare persino il cornicione di un palazzo che affaccia sulla piazza, il secondo, a soli otto minuti di distanza, è stato posizionato sui gradini che portano all’ingresso del Museo centrale del Risorgimento. I pesanti battenti del portone vengono scagliati a metri di distanza e solo per puro caso non investono nessuno. Le deflagrazioni lambiscono anche diverse auto posteggiate accanto al Vittoriano. Crollano i soffitti dell’Ara Coeli. Quattro i feriti. In tutto, nella capitale, saranno 18. Uno dei frammenti degli ordigni di piazza Venezia, ciò che resta di un timer, sarà a lungo al centro del processo che seguirà, ritenuto dagli inquirenti la prova regina per affermare la colpevolezza di uno degli arrestati, l’attivista di estrema destra Franco Freda, assolto dalla Corte d’assise d’appello di Bari e da quella di Catanzaro, sentenza confermata in Cassazione nel 1987. Di diverso avviso la Cassazione nel 2005, anche se scagionò comunque Freda e Giovanni Ventura di Ordine Nuovo per il principio del ne bis in idem (per essere cioè stati «irrevocabilmente assolti dalla Corte d’assise d’appello di Bari»)

Il salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura dopo l’attentato del 12 dicembre 1969.

I FUNERALI E LA RIAPERTURA DELLA BANCA

I funerali si tengono il 15 dicembre. «Il sangue innocente di Abele, sparso a macchie enormi, offende questa mia diletta città industre e onesta, le tradizioni civili e cristiane della nazione, la stessa umanità», dice durante l’omelia il cardinale Giovanni Colombo, allora Arcivescovo di Milano. Per quel giorno la magistratura ha già dato il proprio nulla osta alla riapertura della banca di piazza Fontana. Una decisione che non manca di sollevare polemiche: viene infatti interrotta la raccolta di prove, indizi forse preziosi finiscono nei rifiuti assieme ai calcinacci, ma per gli inquirenti la pista è una sola, quella anarchica.

LA FALSA PISTA ANARCHICA

Nella notte tra il 12 e il 13 dicembre le forze dell’ordine arrestano oltre 80 militanti di estrema sinistra. Quarantotto ore dopo la strage il cerchio si stringe subito attorno a Pietro Valpreda, artista vicino agli ambienti anarcoidi. Le indagini senza un vero motivo passano da Milano a Roma. Da subito chi conosce il ballerino prova a scagionarlo ma gli inquirenti sembrano sicuri della sua colpevolezza: Valpreda passerà tre anni in carcere, fino al 29 dicembre 1972. Tra gli altri fermati anche il ferroviere Giuseppe Pinelli, che cadrà dalla finestra della questura di Milano quando ormai sono già ampiamente trascorse le 48 ore massime consentite dal codice di procedura e il fermo, dunque, è divenuto illegale.

DALLA MORTE DI PINELLI ALL’OMICIDIO CALABRESI

Aldo Palumbo, giornalista de l’Unità, è il primo a soccorrere il ferroviere. La responsabilità dei fatti viene addossata al commissario Luigi Calabresi. Il “commissario finestra”, il “commissario cavalcioni”, sarà soprannominato da parte della stampa. Si dirà persino che fosse un agente della Cia. Oltre 800 intellettuali, politici e giornalisti firmeranno l’appello contro Calabresi pubblicato il 13 giugno 1971 dal settimanale L’Espresso. Le inchieste lo scagioneranno ma l’odio continuerà fino al giorno del suo omicidio, il 17 maggio del 1972.

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Il caso Alpa e le ombre di conflitto d’interessi su Conte

Un documento proverebbe la pregressa collaborazione tra il premier e il suo insegnante-mentore, che fu anche esaminatore al concorso per la nomina a professore associato. Palazzo Chigi smentisce. Ma non c'è chiarezza su parcelle e presunto studio legale comune. La storia.

In un Paese dai mille paradossi come l’Italia, divorato dall’evasione fiscale, può persino accadere che a creare imbarazzo al presidente del Consiglio sia una fattura. Anzi, un «progetto di parcella», come puntualizzato da Palazzo Chigi. Insomma, il documento che dimostrerebbe una pregressa collaborazione tra Giuseppe Conte, all’epoca semplice avvocato (non «degli italiani») e il professor Guido Alpa che, oltre a essere suo insegnante e mentore, fu pure il suo esaminatore al concorso all’Università Vanvitelli di Caserta per la nomina a professore associato.

CARTA INTESTATA TROVATA DA LE IENE

La Lega cerca la parcella da mesi, Le Iene sembrano essere riuscite a recuperarla e su quella carta intestata potrebbe giocarsi il futuro della legislatura. Tanto che Matteo Salvini a Stasera Italia, su Rete 4, non si è lasciato sfuggire l’occasione di infierire: «Se c’è il dubbio che il premier abbia vinto un concorso pubblico in modo non corretto è qualcosa di grave. Spero che la racconti tutta e non finisca in una bolla di sapone. In un qualunque altro Paese europeo si sarebbe già dimesso, non solo un premier ma anche un sindaco o un ministro sospettato di aver raccontato una bugia o una parziale verità». Ma andiamo con ordine.

QUESTIONE SOLLEVATA DA LA REPUBBLICA

Fu il quotidiano la Repubblica, il 5 ottobre 2018, a porre per primo la questione. «Per la nomina a professore ordinario nel 2002», riportava il giornale, «il premier venne esaminato da Guido Alpa con cui, secondo il curriculum ufficiale, condivideva uno studio legale. La replica del maestro: “Eravamo solo coinquilini“». Secondo la tesi del giornale il concorso per diventare professore ordinario vinto da Conte sarebbe stato viziato da una grave incompatibilità rintracciabile nel pregresso rapporto lavorativo tra esaminatore ed esaminato.

concorso conte alpa iene
Il documento trovato da Le Iene.

L’EX VICEPREMER SALVINI IGNORÒ LA VICENDA…

Pochi giorni dopo il Partito democratico partì all’attacco depositando in Senato una interrograzione parlamentare. «Si chiede di sapere», scrivevano i senatori dem rivolgendosi direttamente a Conte, «se non ritenga che tale vicenda esponga ulteriormente la sua carica di presidente del Consiglio dei ministri a un discredito che nuoce all’interesse generale del Paese». All’epoca Salvini non diede peso alla vicenda, del resto era vicepremier.

ALTRI TRASCORSI UNIVERSITARI IN COMUNE

In realtà quella non fu nemmeno la prima volta che Conte inciampò su una questione legata ai suoi trascorsi universitari e con Guido Alpa. Poche settimane prima, a fine settembre, venne infatti fuori che il premier, nel mese di febbraio (ben prima di ottenere l’incarico che lo portò a Palazzo Chigi) aveva presentato domanda per la cattedra di Diritto privato alla Sapienza di Roma.

QUELLA CATTEDRA LASCIATA LIBERA PROPRIO DA ALPA

Risultato idoneo assieme ad altri tre candidati, il presidente del Consiglio avrebbe dovuto sostenere un esame di inglese legale il 10 settembre. «Avremo un premier a mezzo servizio», tuonarono dal Pd ventilando ipotesi di conflitto di interessi. La notizia, riportata da Politico.eu, creò qualche imbarazzo soprattutto alla parte cinque stelle dell’esecutivo (da sempre in lotta contro la Casta, le baronie e il moltiplicarsi delle poltrone) e spinse Conte ad annunciare che non sarebbe andato a sostenere la prova «per impegni istituzionali». Il collegamento con Alpa? La cattedra lasciata libera era proprio quella del professore, andato in pensione.

concorso conte alpa iene
Il premier Giuseppe Conte intervistato da un inviato de Le Iene.

ANCHE IL SALVATAGGIO DI CARIGE IMBARAZZÒ IL GOVERNO

E ci fu almeno un terzo caso che costrinse Conte a spiegare il suo rapporto con Alpa. All’inizio del 2019 il governo fu investito della questione del salvataggio pubblico di Banca Carige, deciso nel Consiglio dei ministri nella serata del 7 gennaio 2019. Le opposizioni tornarono all’attacco con la questione di un presunto conflitto di interessi che germinava, ancora una volta, dai trascorsi tra Conte e Alpa. Il suo mentore, infatti, dal 2009 al 2013 fu membro del consiglio di amministrazione di Carige; dal dicembre 2013 al febbraio 2014 si sedette a quello di Fondazione Carige. E, ancora, da aprile 2013 a dicembre 2013 ricoprì il ruolo di presidente di Carige Assicurazioni e Carige Vita nuova, oltre a essere stato legale di uno dei soci di minoranza dell’istituto, Raffaele Mincione, che, peraltro, in passato si è avvalso anche della consulenza dello stesso Giuseppe Conte.

PAGAMENTO DI 26 MILA EURO SU UN UNICO CONTO CORRENTE

Tornando invece al presunto conflitto di interessi che rischierebbe persino di invalidare il concorso per diventare professore ordinario di Diritto privato, la nuova prova presentata dal Le Iene sarebbe una fattura congiunta con in calce le firme del premier e di Alpa. Si tratta di un documento redatto su carta intestata a entrambi, che riporta la richiesta di pagamento di 26.830,15 euro da effettuare su un unico conto corrente di una filiale di Genova di Banca Intesa, quindi cointestato.

LA PROVA DI INTERESSI PROFESSIONALI COINCIDENTI?

Si tratterebbe di quanto dovuto per i servizi professionali resi per l’assunzione, nel 2001 (un anno prima del concorso) della difesa del Garante per la privacy in una controversia legale con Rai e Agenzia delle entrate, aperta al tribunale civile di Roma. Insomma, la tesi è che quel documento proverebbe comuni interessi professionali ed economici preesistenti al concorso tra l’allora candidato Giuseppe Conte e un membro della commissione.

LE LEGHISTA BORGONZONI FECE UN’INTERROGAZIONE

Sarebbe insomma il famoso preavviso di fattura che la Lega cerca ininterrottamente da quando Salvini ha fatto cadere il governo e ha eletto come proprio bersaglio proprio Giuseppe Conte. L’8 ottobre 2019, infatti, in una interrogazione parlamentare presentata da Lucia Borgonzoni, il partito di Salvini rispolverando le questioni del Pd domandava al presidente del Consiglio se potesse «escludere l’esistenza di progetti di parcella firmati da entrambi e su carta cointestata riferiti ai patrocini prestati al Garante per la protezione dei dati personali». «In caso contrario», veniva chiesto, «come ciò possa conciliarsi con la più volte ribadita autonomia e se reputi opportuno che un presidente del Consiglio dei ministri, nell’escludere un conflitto, ricostruisca i fatti omettendo di esplicitare elementi decisivi».

LETTERA D’INCARICO INVIATA A UN SOLO INDIRIZZO

Secondo gli autori del servizio, quel documento venuto infine alla luce – unito alla lettera d’incarico del Garante per la privacy rivolta a entrambi – proverebbe appunto ciò che sostenne a suo tempo la Repubblica. «Conte», hanno scritto Le Iene, «ha sempre negato la comunanza di interessi economici con Alpa, nonostante nel suo curriculum vitae lui stesso avesse scritto: “Dal 2002 ha aperto con il prof. avv. Guido Alpa un nuovo studio legale dedicandosi al diritto civile, diritto societario e fallimentare”». Poi hanno sottolineato: «La lettera ha un unico numero di protocollo, è inviata a un unico studio legale, presso un unico indirizzo: al prof. Guido Alpa e al prof Avv. Giuseppe Conte, Via Sardegna 38, Roma».

SOLO COINQUILINI? O CONTE ERA OSPITE?

Quindi non lo studio su due piani di via Cairoli già oggetto della replica che il presidente del Consiglio indirizzò a la Repubblica l’8 ottobre 2018. «Io e il prof. Alpa», si giustificò il premier, «non abbiamo mai avuto uno studio professionale associato né mai abbiamo costituito un’associazione tra professionisti. Sarebbe bastato ai giornalisti chiedere in giro». Il premier anche su Facebook scrisse che «Alpa, all’epoca dei fatti, aveva sì uno studio associato, ma a Genova. Mentre a Roma siamo stati “coinquilini” utilizzando una segreteria comune». Ora «il documento», secondo Le Iene, «conferma un’altra circostanza, su cui Guido Alpa e Giuseppe Conte non avrebbero detto la verità». E cioè che «prima del concorso universitario, come ha riferito Alpa, Conte era ospite in via Sardegna e non come aveva detto il premier con un contratto d’affitto separato per il suo studio al piano di sopra di quello di Alpa, in piazza Cairoli, dove si trasferirà alcuni anni dopo».

PALAZZO CHIGI RIDIMENSIONA I CASI FATTURA E CONCORSO

Conte, da parte sua, ha smentito ancora una volta ogni accusa. A iniziare dal fatto che quel documento non costituirebbe fattura, ma un «progetto di parcella» e non esisterebbero parcelle congiunte. Non solo, a quel preavviso sarebbe seguita un’unica fattura, di Alpa. Conte non avrebbe chiesto alcunché al cliente in quanto «il suo apporto all’istruzione e alla conduzione della causa sarebbe stato assolutamente marginale rispetto a quello del professor Alpa». Mentre, sul concorso, ha ribadito: «Era un concorso per titoli, vuol dire che si mandano le pubblicazioni e vengono valutate», sottolineando di averlo «superato con l’unanimità della commissione, Alpa era uno dei cinque commissari».

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La fascinazione del M5s per i regimi e l’uomo forte

Ora la Mecca grillina è Pechino. Ma prima di Xi Jinping i pentastellati si erano infatuati di Maduro, di Putin, considerato fino al 2014 un nemico, e pure di Trump. Prima della parentesi obamiana di Grillo.

I due incontri che Beppe Grillo ha avuto con l’ambasciatore cinese in Italia, la favola dello Xinjiang pacificato pubblicata sul Blog del comico mentre il New York Times denunciava la ferocia della repressione di Pechino sugli uiguri, il silenzio del ministro degli Esteri Luigi Di Maio sulle proteste di Hong Kong riportano alla luce il delicato tema dell’infatuazione dei grillini per leader discussi e discutibili e per regimi non esattamente liberali.

L’ultima è per Xi Jinping, o meglio presidente «Ping» come lo chiamò Di Maio.

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CINQUE STELLE PER MADURO

Prendiamo per esempio il sottosegretario agli Affari Esteri, Manlio Di Stefano. Per il deputato pentastellato, i «peggiori bar di Caracas» della pubblicità emanano profumi inebrianti. Tanto che nel marzo 2017, con Vito Petrocelli, vicepresidente del Comitato italiani all’estero e Ornella Bertorotta, nella passata legislatura capogruppo alla commissione Affari esteri del Senato, volarono in Venezuela. Scopo della missione: raccogliere voti tra gli italiani all’estero. Risultato: una imbarazzante quanto convinta sfilata al fianco delle più alte sfere dell’esecutivo di Nicolás Maduro.

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L’ennesima gaffe pentastellata frutto di chi ha sempre faticato a distinguere tra Cile e Venezuela, Pinochet e Chávez? Non questa volta. A gennaio 2019, i l M5s si astenne dal voto europeo che riconobbe Juan Guaidò legittimo presidente del Paese. Fabio Massimo Castaldo dichiarò: «Non siamo né pro né contro Maduro, difendiamo i diritti umani». E il solito Di Stefano sentenziò: «L’Italia non riconosce Guaidò». Non stupisce del resto visto che già nel 2016 Davide Casaleggio aveva indicato come modello per la democrazia diretta proprio il Venezuela.

Una foto postata sul suo profilo Instagram di Luigi Di Maio dell’incontro con i Gilet gialli.

LE AFFINITÀ ELETTIVE CON I GILET GIALLI

Il mantra del M5s in politica estera è sempre stato quello della non ingerenza. Motivo per cui Di Stefano strigliò il presidente francese Emmanuel Macron colpevole di aver definito illegittimo il governo Maduro. «Il principio di non ingerenza», disse il 5 stelle nel gennaio 2019, «è sacro. Qualsiasi sia la nostra visione delle cose, di Maduro, del chavismo e dei rapporti politici in America latina, qualsiasi cambiamento in Venezuela deve avvenire in un contesto politico, democratico e non violento».

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Evidentemente non fu ingerenza l’incontro, qualche settimana dopo, tra Luigi Di Maio e i Gilet gialli che mettevano a ferro e fuoco Parigi. «Mi dispiace che Macron l’abbia vissuta come una lesa maestà», disse il capo politico grillino, all’epoca vicepremier, «ma è giusto che una forza politica che non condivide le idee politiche di En marche abbia la possibilità di dialogare con un’altra forza politica che correrà alle Europee. Quindi andiamo avanti». Insomma, la «millenaria democrazia» francese, come la definì Di Maio, doveva farsene una ragione. Anche se poi l’affinità tra grillini e gilet si ruppe. Parigi tra l’altro aveva già mal digerito la battaglia contro il cosiddetto «neocolonialismo francese» in Africa e il Franco Cfa portato avanti da Alessandro Di Battista.

DALLA RUSSIA CON AMORE

Un altro eroe per i grillini è senz’altro Vladimir Putin. «Meno male che c’è Putin», scriveva su Facebook lo scorso 25 gennaio Di Battista, evidenziando come, senza l’egoarca russo, «ci sarebbe stato un intervento armato Usa» in Venezuela. Non una boutade di un attivista senza più ruoli in parlamento visto che il programma esteri del 2017 puntava al recupero delle relazioni con Mosca. «Un disastro economico che non ci possiamo permettere», si legge, un Paese «decisivo nelle relazioni internazionali». Un fascino, quello per la Russia, che viene da lontano e ben radicato nel M5s. Nell’aprile 2015 Beppe Grillo concedette una intervista torrenziale a Rt, emittente finanziata dal Cremlino. E, accompagnato da Di Battista e Di Stefano, incontrò Sergej Razov, ambasciatore russo a Roma. Poi ci fu l’invito di una delegazione pentastellata al congresso di Russia Unita, il partito di Putin.

QUANDO PUTIN ERA IL NEMICO

Ma non finisce qui. Addentrandoci nell’aneddotica, come dimenticare la denuncia di Marta Grande: «Della crisi in Ucraina si è smesso di parlare, non fa più notizia, siamo stati informati a senso unico», disse a Montecitorio nel 2014, rivelando le «tremende operazioni di bassa macelleria cui la follia del governo ucraino sta sottoponendo i cittadini russi, perseguitati, massacrati e torturati». Di più. Per Grande gli ucraini stavano letteralmente divorando i russi. Faceva riferimento a una foto raccapricciante diventata virale che però si rivelò una fake news: il soldato che addentava un braccio arrostito proveniva dal backstage del film russo Noi veniamo dal futuro. E dire che fino al 2014 la Russia era considerata il nemico, vuoi per l’amicizia tra Putin e Silvio Berlusconi, vuoi per la repressione nei confronti dei media. Esemplare il post del 2007 con cui il Blog eleggeva Anna Politkovskaja Woman of the Year in polemica con il Time che aveva scelto Putin come Person of the Year. Poi le cose cambiarono.

IL VAFFA DI TRUMP AI MEDIA

I grillini del resto sono trasversali. Il loro amore per l’uomo forte li porta contemporaneamente a spasimare per Putin e per Donald Trump. «È stato un grande. Ha fatto un V-Day. Era su tutti i giornali in modo incredibile: era contro le donne, i gay, l’aborto ma ha vinto», esultò Grillo il giorno dell’elezione del tycoon.

Beppe Grillo.

«Questo vuol dire», spiegava il co-fondatore del Movimento, «che i grandi giornali non sono più letti da nessuno. Mentre quelli della Rete, che vengono definiti imbecilli, scemi, barbari, demagoghi, sono quelli che si sono creati un giro di informazione sotto i radar dei media. Perché i blog capivano ciò che stava accadendo». In una intervista al Journal du Dimanche del 2017 Grillo definiva Trump un «moderato». E pensando a lui e a Putin diceva di sentirsi ottimista: «La politica internazionale ha bisogno di uomini di Stato forti come loro. Lo considero un beneficio per l’umanità». E dire che Grillo nel 2008 e nel 2012 aveva salutato come un successo la vittoria di Barack Obama. Anti-putinani ieri, putiniani oggi. Obamiani ieri, filo-trumpiani oggi. Magari tra un po’ Pechino, oggi Mecca, sarà bollato come regime liberticida. Basta aspettare.

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Italia insicura

Dopo il cedimento del viadotto sull'A6 i renziani attaccano Lega e M5s per aver smantellato l'unità di missione contro il dissesto idrogeologico. Dal canto loro però i gialloverdi hanno inaugurato l'Ansfisa, agenzia voluta da Toninelli, ancora lettera morta. Il tutto mentre il Paese continua a sprofondare.

Cede un altro viadotto, fortunatamente senza vittime, e riparte la polemica politica. Ad alimentarla questa volta è Italia Viva. Se Matteo Renzi chiede di sbloccare 120 miliardi di euro per le grandi opere, Maria Elena Boschi affonda il colpo accusando Lega e Movimento 5 stelle di aver smantellato Italia Sicura, l’unità di missione della Presidenza del Consiglio creata nel 2014 per arginare la fragilità idrogeologica del Paese. In effetti Italia Sicura è stata chiusa senza troppi complimenti nell’estate del 2018 dal governo Conte I perché ritenuta «ente inutile». I gialloverdi hanno poi trasferito al ministero dell’Ambiente i compiti in materia di «contrasto al dissesto idrogeologico, di difesa e messa in sicurezza del suolo e di sviluppo delle infrastrutture idriche». E hanno inaugurato dopo la tragedia del Morandi, l’ennesima agenzia per la sicurezza di strade e ferrovie, l’Ansfisa, rimasta lettera morta.

UNA STRUTTURA PER COORDINARE MINISTERI E REGIONI

Ma cos’era Italia Sicura? Nata nel 2014 per coordinare ministeri – Ambiente, Infrastrutture, Agricoltura, Economia e Beni culturali – Regioni e altri enti sul territorio, la struttura di missione si riprometteva, recita la dicitura, di «rendere visibile l’operato del governo sull’assetto idrogeologico del Paese attraverso la pubblicazione e la georeferenziazione degli interventi programmati dai diversi attori istituzionali». Come? Attraverso un sito oggi non più raggiungibile e una mappa delle criticità, ancora online ma rimasta in versione beta.

IL PIANO FINANZIARIO

Veniamo ai soldi da stanziare. Nel 2017 Erasmo D’Angelis, coordinatore di Italia Sicura, presentando il piano nazionale disse: «Siamo riusciti a costruire il primo piano nazionale del fabbisogno di opere e il primo piano finanziario con un ritaglio iniziale di 7 miliardi nei prossimi 7 anni. Con i 2,7 recuperati», aggiunse, «siamo a 9,8. Ma è stato uno choc scoprire che il 90% delle opere in elenco sono ancora da progettare». Il piano finanziario 2015-2023 prevedeva appunto 9.869 milioni di cui un migliaio chiesti in prestito alla Bei, la Banca europea degli investimenti.

IL PRESTITO DI 800 MILIONI DELLA BEI

Il 22 dicembre del 2017 il Mef in un comunicato stampa scriveva: «La Banca europea per gli investimenti affianca lo Stato italiano negli interventi per la prevenzione dei danni causati dal dissesto idrogeologico. Il ministero dell’Economia e delle Finanze riceverà un finanziamento di 800 milioni di euro, di cui la prima tranche, pari a 400 milioni, è stata sottoscritta. Il credito sosterrà circa 150 programmi per la messa in sicurezza del territorio sotto il coordinamento del ministero dell’Ambiente». Nel dettaglio, gli interventi riguardavano «la realizzazione o il rafforzamento degli argini dei fiumi a rischio esondazione, la risistemazione dei corsi d’acqua e dei canali di collegamento, le casse di espansione lungo fiumi e torrenti, interventi per prevenire erosioni costiere o frane. Gli 800 milioni approvati copriranno circa il 50% del valore dei progetti previsti entro il 2022 dal citato Piano nazionale».

I GIALLOVERDI CHIUDONO ITALIA SICURA

Con il governo M5s-Lega le cose però sono cambiate. E la struttura venne chiusa. Il neo ministro all’Ambiente Sergio Costa spiegò in commissione Territorio della Camera il 5 luglio 2018: «Si dovrà dare nuovo impulso alle misure di contrasto del dissesto idrogeologico attraverso azioni di prevenzione. In particolare», sottolineò, «riportando in capo al ministero dell’Ambiente la diretta competenza sul tema che nell’ultima legislatura era stata ceduta a una struttura di missione dislocata presso la Presidenza del Consiglio, evitando gli ulteriori costi per la finanza pubblica richiesti dalle strutture create ad hoc dai precedenti governi presso la Presidenza del Consiglio». Insomma, per i gialloverdi Italia Sicura rappresentava un eccesso di deleghe e uno spreco di risorse pubbliche. Nulla che non potesse essere gestito dal ministero dell’Ambiente.

COSTA E LA DECISIONE DA BUON PADRE DI FAMIGLIA

Costa era finito al centro di diverse polemiche perché il primo novembre 2018 rispondendo alla Stampa (che aveva riportato come il governo non avesse intenzione di ottenere gli 800 milioni della Bei per la realizzazione di opere contro il dissesto idrogeologico chiesti dall’ormai defunta Italia Sicura a un tasso di interesse sotto l’1% quindi estremamente conveniente), dichiarò che «il mutuo» sarebbe stato contrario «all’amministrazione dei soldi pubblici da buon padre di famiglia», poiché «gli interessi sarebbero stati pagati da tutti i cittadini». E «quale padre di famiglia, potendo avere soldi in cassa, preferisce indebitarsi con un mutuo? Oltretutto affrontando complesse pratiche di mutuo di difficile gestione». Dichiarazioni che Costa limò dopo le alluvioni che colpirono la Sicilia causando la morte di nove persone.

IL NULLA DI FATTO DELL’ANSFISA

Di fondi si era riparlato anche all’indomani della tragedia del ponte Morandi che il 14 agosto 2018 causò la morte di 43 persone. L’allora ministro alle Infrastrutture Danilo Toninelli annunciò la nascita di una nuova agenzia – l’Ansfisa – per la sicurezza di strade, viadotti e ferrovie. Un progetto rimasto però sulla carta. La struttura, come ha scritto il Corriere della Sera, è infatti attesa del parere del Consiglio di Stato su un regolamento attuativo scritto solo nel luglio 2019. Erano previste 500 assunzioni tra ispettori e dirigenti ma al momento non se n’è ancora fatto nulla. «Sulla nuova Agenzia per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali ed autostradali registriamo un ritardo gravissimo», ha ribadito il 25 novembre Manuela Gagliardi, deputata di Cambiamo! il partito di Giovanni Toti. «Ancora un mese fa, in occasione di una mia interrogazione alla Camera, dal ministero delle Infrastrutture sono arrivate solo risposte interlocutorie. Nonostante gli annunci in pompa magna dell’allora ministro Toninelli, l’Ansfisa è ancora solo un progetto. Su questo, molto più che sulle polemiche strumentali, dovrebbe concentrarsi il M5s». Intanto, dopo il crollo dell’ennesimo viadotto, l’agenzia ha nominato un nuovo direttore, Fabio Croccolo, dirigente del Mit, indicato al presidente del Consiglio dei ministri dalla ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti Paola De Micheli. E siamo punto a capo.

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Il tesoretto mai speso per infrastrutture e contro il dissesto idrogeologico

Con il crollo dell'ennesimo viadotto si torna a parlare di investimenti in opere pubbliche. Ma dove prendere i miliardi? In realtà ci sono, ma non si usano. O sono stati investiti in altre "emergenze". Senza parlare dei fondi europei e dei cantieri congelati. Il punto.

Il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia in un’intervista a Repubblica chiede al governo di stanziare 60 miliardi per le infrastrutture.

Italia viva rilancia e chiede di ripristinare l’unità di missione contro il dissesto idrogeologico “liberando” 120 miliardi di euro di opere bloccate.

Il giorno dopo l’ennesimo viadotto autostradale sfarinato, tornano a rincorrersi le dichiarazioni eclatanti.

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Non a caso, l’ultima volta che venne annunciato un piano Marshall per riaprire i cantieri fu nelle ore immediatamente successive al crollo del ponte Morandi, quando l’allora ministro alle Infrastrutture Danilo Toninelli dichiarò: «Serve un piano straordinario. Avvieremo una mappatura per valutare quali siano le infrastrutture potenzialmente a rischio e poi faremo prevenzione».

QUEL TESORETTO DA 150 MILIARDI MAI UTILIZZATO

A pochi giorni dalla tragedia del viadotto sul Polcevera, durante la presentazione del Contratto standard di partenariato pubblico-privato per la realizzazione di opere pubbliche, Giovanni Tria lanciò un allarme caduto nel vuoto: i soldi ci sono, ma non sono mai stati spesi. Secondo l’allora titolare del ministero dell’Economia, i vari governi avevano accantonato 150 miliardi in 15 anni, già defalcati dal deficit.

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Di questi, per Tria 118 miliardi erano «considerabili immediatamente attivabili», ma bloccati da procedure complesse e da una insufficiente capacità progettuale. Con il risultato che, per la messa in pratica di opere di impatto minimo, dal valore di 100 mila euro, ci vorrebbero almeno due anni, che diventano 15 per le grandi opere (sopra i 100 milioni).

NEL 2018 NON SONO STATI SPESI 6 MILIARDI

Il risultato? Gran parte degli annunci più roboanti fatti dai politici negli ultimi tempi riguardavano somme già stanziate ma mai utilizzate. Tesoretti solo su carta, successivamente destinati ad altre finalità a seconda dell’emergenza del momento, magari per coprire regalie dal sapore elettorale. Per fare un esempio, secondo l’ultimo Consuntivo finale del bilancio dello Stato, nel 2018 circa 6 miliardi di euro per le infrastrutture (per la precisione, 5,7 miliardi) non sono stati spesi dall’apposito dicastero, col risultato di venire cancellati dal bilancio

IL NODO DEI FONDI EUROPEI

Un male tutto italiano che riguarda anche i fondi europei. In più occasioni, infatti, i politici italiani hanno dichiarato che sarebbero i vincoli imposti da Bruxelles a frenare la spesa pubblica, non ultimo Matteo Salvini, proprio nel giorno del crollo del ponte Morandi («Se ci sono vincoli europei che ci impediscono di spendere soldi per mettere in sicurezza le scuole dove vanno i nostri figli o le autostrade su cui viaggiano i nostri lavoratori, metteremo davanti a tutto e a tutti la sicurezza degli italiani»).

Ma non è affatto così. Spulciando i documenti europei, è possibile constatare non solo che «l’Italia è uno dei maggiori beneficiari dei fondi strutturali e di investimento europei» (fondi Sie) ma anche che il nostro Paese non li utilizza. «Alla fine del 2018», si legge nell’ultimo report, «l’Italia era in ritardo nell’attuazione dei fondi Sie rispetto alla media dell’Ue. In termini di tasso di selezione (% della dotazione totale selezionata per l’attuazione di progetti specifici), il livello registrato per l’Italia è del 56% rispetto al 63% per l‘Unione europea nel suo complesso. Analogamente, sebbene abbia reso possibile il conseguimento degli obiettivi di fine anno per il 2018, il tasso dei pagamenti per l’Italia (20%) rimane al di sotto della media dell’Ue (27%)».

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Nel solo settore delle infrastrutture, 2,45 miliardi di euro di fondi comunitari sono stati assegnati agli investimenti nelle reti viarie, 1,4 miliardi alle infrastrutture per i trasporti urbani sostenibili. A bloccare i cantieri non solo dimenticanze perché, come aveva sottolineato l’Ufficio Valutazione Impatto del Senato, il 90% dei progetti che il nostro Paese aveva presentato a Bruxelles per il finanziamento aveva un’insufficiente analisi costi-benefici, il 70% problemi sulla valutazione del mercato interno o nell’impianto progettuale, il 50% lacune nella valutazione ambientale.

L’84% DELLE OPERE CONGELATO PRIMA DELL’APERTURA DEI CANTIERI

A questo male endemico consegue l’elenco sterminato di cantieri bloccati per i più disperati motivi. L’Ance (Associazione nazionale costruttori edili) ha persino pubblicato un sito (Sbloccacantieri.it) per monitorare costantemente la situazione in tutto il Paese. Secondo i dati dell’osservatorio, l’84% delle opere viene congelato persino prima dell’apertura dei cantieri. Le cause sono le più disparate e vanno da motivi amministrativi (43% dei casi), finanziari (36%) o legati a decisioni politiche  (19%). E molto spesso si accavallano, trasformando il dialogo che i privati dovrebbero riuscire a stabilire con la pubblica amministrazione in un percorso a ostacoli estenuante, fatto di carte bollate, ricorsi e avvocati.

DISSESTO IDROGEOLOGICO: USATO IL 20% DELLE RISORSE

Le cifre fin qui riportate riguardano il sistema delle infrastrutture nel suo complesso, quindi l’insieme delle risorse destinate sia alla costruzione di nuove opere sia allo sviluppo del sistema Paese. Con riferimento invece ai soli fondi destinati al dissesto idrogeologico, c’è un report redatto dalla Corte dei Conti che dimostra analoghe dimenticanze. Nella relazione “Fondo per la progettazione degli interventi contro il dissesto idrogeologico (2016-2018)” del 31 ottobre scorso, i magistrati contabili hanno preso in esame le modalità di funzionamento e di gestione del fondo, la governance, le responsabilità dei soggetti attuatori e l’efficacia delle misure emanate. È emerso uno «scarso utilizzo delle risorse stanziate per il fondo progettazione contro il dissesto idrogeologico e inefficacia delle misure sinora adottate, di natura prevalentemente emergenziale e non strutturale». Le risorse effettivamente erogate alle Regioni, a partire dal 2017, rappresentano, negli anni oggetto dell’indagine, solo il 19,9% del totale complessivo (100 milioni di euro). In particolare, i magistrati hanno evidenziato criticità su più livelli: «L’inadeguatezza delle procedure e la debolezza delle strutture attuative; l’assenza di adeguati controlli e monitoraggi; la mancata interoperabilità informativa tra Stato e Regioni; la necessità di revisione dei progetti approvati e/o delle procedure di gara ancora non espletate; la frammentazione e disomogeneità delle fonti dei dati sul dissesto».

L’ANSFISA SOFFOCATA DALLA BUROCRAZIA

Nello stesso documento la Corte suggeriva «l’adozione di un sistema unitario di banca dati di gestione del fondo, assicurando in tempi rapidi la revisione dell’attuale sistema, la semplificazione delle procedure di utilizzo delle risorse nonché il potenziamento del monitoraggio e del controllo sugli interventi». Non solo né il governo né il legislatore sono riusciti a fare niente di tutto ciò, ma si sono perse persino le tracce dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali (Ansfisa) che Toninelli annunciò subito dopo il crollo del Morandi per essere poi istituita con il decreto Genova. L’ultimo avvistamento lo scorso 17 luglio, 11 mesi dopo la tragedia che aveva colpito il capoluogo ligure, quando il Mit comunicò la trasmissione al Consiglio di Stato degli schemi di Regolamento e Statuto. Da allora non se ne è saputo più nulla. Per il pentastellato Nicola Morra, l’Ansfisa «non può iniziare i lavori sulle infrastrutture causa tempi della burocrazia», con il paradosso che l’Authority stessa sarebbe dunque paralizzata. L’ennesimo cantiere rimasto in sospeso, anche se nella serata del 25 novembre l’ingegnere Fabio Croccolo, dirigente del ministero dei Trasporti, è stato nominato direttore dell’Agenzia.

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Ilva, manovra, riforma del Mes: gli ostacoli del governo per arrivare a fine 2019

Da qui alla fine dell'anno il governo Conte bis rischia di inciampare. Tutti i fronti caldi che possono spaccare la maggioranza entro la fine dell'anno.

Aumentano gli ostacoli sul cammino del governo Conte bis. Tanto che potrebbe rivelarsi persino ottimistica la previsione che fissa la scadenza della maggioranza M5s-Pd-Italia viva-Leu al prossimo 26 gennaio, giorno delle Regionali emiliano-romagnole. Una sconfitta in casa potrebbe infatti convincere i democratici a strappare l’alleanza, soprattutto considerato che Matteo Renzi sembra voler trascinare l’esperienza governativa al solo scopo di logorarli. Ma da qui alla fine di gennaio c’è comunque ancora da portare a casa la legge di Bilancio, discutere sulla riforma della giustizia e sullo Ius soli, senza dimenticare la necessità di trovare un accordo sulle sorti dell’Ilva. L’inciampo, insomma, rischia di essere dietro l’angolo. Ecco una veloce rassegna delle prove che l’esecutivo dovrà affrontare nei prossimi giorni.

IUS SOLI E IUS CULTURAE: LA BATTAGLIA DEL PD

La prima fibrillazione potrebbe arrivare dalla decisione del Pd di provare a portare a compimento l’introduzione nel nostro ordinamento dello Ius soli. Nicola Zingaretti ne ha bisogno per far ritrovare al partito una propria identità di sinistra. L’alleato pentastellato teme invece di perdere altro consenso tra gli elettori. «Col maltempo che flagella l’Italia, il futuro di 11 mila lavoratori a Taranto in discussione, qui si parla di ius soli: sono sconcertato», ha sibilato Luigi Di Maio. Non è la prima volta che questo tema mette in difficoltà un esecutivo. Accadde anche tra il 2015 e il 2017, quando il partito di Angelino Alfano congelò l’azione del governo Renzi prima e Gentiloni poi. La riforma, auspicata da Leu, dovrebbe essere sostenuta anche dai renziani.

L’intervento del segretario nazionale del Partito democratico Nicola Zingaretti alla convention del Pd a Bologna il 17 novembre.

BARUFFA SU QUOTA 100

C’è un altro tema che potrebbe registrare una inedita convergenza tra Partito democratico e Italia viva: l’abrogazione di Quota 100, che è per sua stessa natura destinata comunque a sparire, quindi bisognerà vedere come intendano concretamente anticiparne la chiusura. Eppure, sulla fine della riforma leghista il governo giallorosso discute da quando è nato. In ottobre, i malumori interni alla maggioranza (in quell’occasione la partita si giocò tra renziani e grillini, con i democratici alla finestra) fecero persino slittare alle ultime ore disponibili il Consiglio dei ministri per sciogliere i nodi sul documento programmatico di bilancio da inviare improrogabilmente alla Commissione europea. Ora il tema sembra essere cavalcato con prepotenza anche da Zingaretti, cui Di Maio ha già replicato in modo stizzito: «Qui siamo all’assurdo che si vuole fare lo Ius soli da una parte e togliere Quota 100 dall’altra per ritornare alla legge Fornero. Mi sembra un po’ eccessivo».

Matteo Renzi, leader di Italia Viva.

LA GRANDE BATTAGLIA SULLA LEGGE DI BILANCIO

L’ultima batosta elettorale subita dalle forze di maggioranza alle Regionali umbre di fine ottobre sembra averle spronate ad avanzare proposte dal forte sapore propagandistico in sede di legge di Bilancio. E così una manovra quasi integralmente dedicata al reperimento di risorse per il disinnesco delle clausole Iva rischia ora di tramutarsi in tutt’altro, se si considera la gragnuolata di 4.550 emendamenti presentati in commissione Bilancio al Senato. Di questi, 921 sono piovuti dal Partito democratico, 435 portano la firma di Movimento 5 stelle e 230 sono stati presentati dai renziani, segno che nei prossimi giorni si giocherà una intensa battaglia muscolare. Tra i punti di maggior frizione, la richiesta del Pd di abbassare la plastic tax voluta dai pentastellati da 1 euro a 80 centesimi al chilo mentre potrebbe essere più facile una intesa sulle tasse sulle auto aziendali inquinanti, oggetto di emendamenti firmati tanto dai dem quanto dai grillini. Su questo fronte, sarà Italia viva la più difficile da accontentare, dato che i renziani si trincerano dietro la volontà di espungere dalla manovra tutte le “micro-tasse” e non sembrano disponibili a trattare.

Matteo Salvini (Foto LaPresse/Filippo Rubin).

L’INCOGNITA SULL’ABOLIZIONE DEI DECRETI SALVINI

Sembra che il “nuovo” Pd che Zingaretti sta provando a tratteggiare sia intenzionato a chiedere agli alleati di governo un altro coraggioso passo avanti per rimarcare le differenze rispetto all’era gialloverde: l’abolizione dei decreti Salvini. «Creano discriminazioni e insicurezza», ha detto il segretario dem da Bologna. Ma quei decreti, nonostante se li fosse intestati il leader della Lega, portano anche le firme di Giuseppe Conte e di Luigi Di Maio, immortalati sorridenti accanto all’allora ministro dell’Interno al momento del varo. Difficile per loro rimangiarsi l‘intero testo, più facile che si vada verso un ammorbidimento per cercare una quadra. Anche in questo caso, si avrebbe una convergenza tra Pd, Italia viva e Leu e una contrapposizione comune con M5s.

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.

LA RIFORMA DELLA PRESCRIZIONE

Nubi oscure si addensano anche sulla riforma della prescrizione voluta dai 5 stelle contenuta nella Spazzacorrotti. I pentastellati, che un anno fa riuscirono a convincere la Lega a sostenerla, la consideravano ormai portata a casa. Invece il Pd sembra tentato di ridiscuterne i contorni approfittando del nuovo testo di riforma della giustizia su cui il governo sta lavorando. Secondo le nuove norme, dal primo gennaio 2020 le lancette dell’orologio della prescrizione si congeleranno dopo la sentenza di primo grado. «Il cittadino resterà dunque in balia della giustizia penale per un tempo indefinito, cioè fino a quando lo Stato non sarà in grado di celebrare definitivamente il processo che lo riguarda», ha già denunciato l’Unione delle Camere penali.

LO SCUDO DELL’ILVA SPACCA I 5 STELLE

Finora non sono serviti gli appelli all’unità che il presidente del Consiglio Conte ha rivolto ai sostenitori della maggioranza. I giallorossi rischiano infatti di arrivare al tavolo con l’Ilva separati e litigiosi. Il punto del contendere è sempre lo stesso: il ripristino dello scudo penale, che Pd e Italia viva sarebbero disponibili a concedere ad ArcelorMittal per toglierle facili pretesti. Anche Di Maio sembra possibilista, ma teme di spaccare il partito, già incrinato da tutte le batoste elettorali subite nell’arco del 2019, e non sembra avere la forza per opporsi all’irremovibilità della fronda pugliese capitanata da Barbara Lezzi.

manovra conte di maio evasione fiscale
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

LE TRIBOLAZIONI SULLA RIFORMA DEL MES

Studiato nel 2012 per sostituire e unire due istituti analoghi (il Fondo europeo di stabilità finanziaria e il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria), il Mes (o Esm secondo l’acronimo inglese) è il Fondo salva-Stati che l’Unione europea riserva ai Paesi membri in difficoltà in cambio di riforme strutturali imposte dalla Commissione. Ora Bruxelles ha stabilito di riformarlo, decisione che sta causando l’insonnia del governo. Secondo le nuove condizioni d’accesso (non essere in procedura d’infrazione, avere da almeno un biennio un deficit sotto il 3% e un debito pubblico sotto al 60%), l’Italia verrebbe automaticamente esclusa dal programma di aiuti e, per potervi accedere, dovrebbe accettare, spalle al muro, una pesante ristrutturazione del debito con un cronoprogramma scritto a Bruxelles che rischia di essere lacrime e sangue. I sovranisti sono già all’attacco e sostengono persino che Conte abbia firmato «l’eurofollia» (credit di Giorgia Meloni) di nascosto.

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In realtà, l’iter per una eventuale ratifica non è nemmeno stato avviato, ma bisognerà vedere come intende procedere l’esecutivo e se si apriranno crepe anche su un fronte che rappresenta per Salvini e Meloni una ghiotta opportunità di muovere guerra ai giallorossi. Il leader della Lega è partito all’attacco: «Conte subito in parlamento a dire la verità, il sì alla modifica del Mes sarebbe la rovina per milioni di italiani e la fine della sovranità nazionale».

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Cos’è il Mes e perché Salvini e Meloni attaccano il governo

Infiamma la polemica sul meccanismo europeo di Stabilità, con Lega e Fratelli d'Italia che accusano il premier Conte di "tradimento". Ma cos'è e come funziona il fondo Salva Stati e quali sono gli aspetti più criticati della riforma? Il punto.

Se ne parla da giorni, si parla solo di quello, è il tema più cavalcato dalle opposizioni e sta creando spaccature anche all’interno della maggioranza.

È il Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, istituto sovranazionale che ha fatto irruzione nel dibattito politico mettendo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sotto assedio da parte di Lega e Fratelli d’Italia.

L’accusa? Aver firmato di nascosto un accordo per trasformare «il Fondo Salva Stati in fondo ammazza Stati», ha tuonato il segretario della Lega. «Noi come Lega abbiamo sempre detto a Conte e a Tria che NON avevano il mandato per toccare il Mes», ha rincarato la dose il 20 novembre. «Se qualcuno ha agito, lo ha fatto tradendo il mandato del popolo italiano, e l’alto tradimento costa caro. Non è la prima volta che l’ex avvocato del popolo mente, ma la verità verrà fuori».

CONTE BUGIARDO! #STOPMES

Noi come Lega abbiamo sempre detto a Conte e a Tria che NON avevano il mandato per toccare il MES.Se qualcuno ha agito, lo ha fatto tradendo il mandato del popolo italiano, e l'alto tradimento costa caro. Non è la prima volta che l'ex avvocato del popolo mente, ma la verità verrà fuori.

Posted by Matteo Salvini on Wednesday, November 20, 2019

Ma che cos’è il Mes e perché sta facendo tribolare l’esecutivo?

LA PRIMA RISPOSTA ALLA CRISI GRECA

Chiariamo subito un aspetto. Il Mes non è una novità di questi giorni. Tirato in ballo prima dai leghisti Alberto Bagnai e Claudio Borghi poi da Salvini, il trattato istitutivo fu siglato all’interno dell’Eurozona il 2 febbraio 2012 e l’istituzione vera e propria fu inaugurata alla fine dello stesso anno. Era il periodo in cui l’Europa doveva far fronte alla crisi della Grecia e andava deciso se continuare a provare a salvarla (a Bruxelles era già stato definito un pacchetto di aiuti da 110 miliardi di euro), oppure fosse meglio abbandonare Atene al proprio destino, facendola scivolare fuori dal club europeo.

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La crisi greca rivelò ai vertici comunitari che l’Ue era esposta a bordate speculative fatali in momenti di recessione globale. Da qui la necessità di approntare una controffensiva che potesse operare in autonomia e celermente, senza attendere i tempi della politica. La risposta comunitaria fu la creazione di un’organizzazione intergovernativa da 160 dipendenti regolata dal diritto pubblico internazionale, con sede in Lussemburgo

COME FUNZIONA IL MECCANISMO EUROPEO DI STABILITÀ

Studiato per proseguire in modo più efficace l’opera del Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf) istituito nel 2010, il Mes emette strumenti di debito per finanziare prestiti nei Paesi dell’Eurozona. Gli azionisti dell’organizzazione sono 17 Paesi membri dell’Unione che concorrono pro-quota (in base al proprio peso economico) al versamento di circa 80 degli oltre 700 miliardi di euro totali del fondo. L’Italia, per esempio, con i suoi 14 miliardi messi sul piatto, è il terzo sostenitore dopo Germania e Francia. Venendo alle funzioni, il Mes è autorizzato a concedere prestiti nell’ambito di un programma di aggiustamento macroeconomico, ma può anche acquistare titoli di debito sui mercati finanziari primari e secondari, aprire linee di credito e finanziare la ricapitalizzazione di istituzioni con prestiti ai governi dei suoi Stati membri.

IL MEMORANDUM FIRMATO DAGLI STATI UE

Considerato anche il Fesf, dal 2010 a oggi questo meccanismo è stato attivato cinque volte (per 295 miliardi) per salvare dal fallimento altrettante nazioni: oltre alla Grecia, è servito per rimettere i conti in ordine di Cipro, Spagna, Portogallo e Irlanda. Non si tratta di aiuti integralmente a fondo perduto (anzi, vanno restituiti, seppure a condizioni di favore): è stato infatti previsto che, per potervi accedere, gli Stati sottoscrivano preliminarmente un Memorandum of understanding finalizzato a predisporre pacchetti di riforme strutturali stabiliti dalla famigerata Troika (Commissione Ue, Banca centrale europea e Fondo Monetario Internazionale).

IL NOCCIOLO DELLA RIFORMA

L’intenzione dei Paesi del Nord Europa è ora quella di procedere con una riforma che da un lato aumenti l’indipendenza dell’organismo e, dall’altro, restringa le condizioni d’accesso. Secondo le bozze dell’accordo, infatti, i Paesi in difficoltà che vorranno usufruirne non potranno essere in procedura d’infrazione e dovranno avere da almeno un biennio un deficit sotto il 3% e un debito pubblico sotto al 60%. Il nuovo meccanismo di supporto sarà operativo, stando alla roadmap dell’Eurogruppo, entro dicembre 2023 ma potrebbe essere introdotto prima sulla base di una valutazione dei progressi compiuti nell’ambito della riduzione dei rischi che sarà effettuata nel 2020.

LE CRITICHE ITALIANE ALLA RIFORMA

Le critiche di chi si oppone alla riforma sono diverse, ma semplificando si potrebbero ricondurre a due ordini. Da un lato viene fatto notare che l’Italia, dovesse mai avere bisogno degli aiuti, con le nuove regole verrebbe automaticamente esclusa e, per potervi accedere, dovrebbe accettare, spalle al muro, una pesante ristrutturazione del debito. Questo non significherebbe solo essere costretti ad attenersi a un cronoprogramma scritto dalla Troika che per i gli italiani rischierebbe di essere lacrime e sangue, ma anche di trovarsi maggiormente esposti agli attacchi speculativi. Ristrutturare il debito è infatti ammissione dell’impossibilità di fare fronte a tutti gli impegni presi con i propri creditori. Insomma, una dichiarazione di insolvenza in piena regola, che deflagrerebbe tra gli investitori, mettendoli in fuga. In merito il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha avvertito: «I piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere ponderati rispetto all’enorme rischio che il mero annuncio di una sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default».

IL TIMORE DI UNA SUPER TROIKA A TRAZIONE TEDESCA

La seconda critica ricorrente riguarda invece la governance del Mes che, per alcuni, diverrebbe persino legibus solutus, vale a dire che potrebbe operare al di sopra della legge. Se a questo aggiungiamo che già oggi il Managing Director del Fondo salva-Stati è il tedesco Klaus Regling e che la Germania è il maggior contributore, potrebbe concretizzarsi – dicono i detrattori – il pericolo di un istituto contemporaneamente sovranazionale e sovralegislativo teleguidato da Berlino.

#STOPMES ALLA CARICA

A opporsi con maggior vigore alla riforma la destra che, oltre a condividere le critiche appena esposte, evidenzia la beffa che l’Italia oggi sia il terzo finanziatore di un Fondo che le sarà precluso (non è del tutto vero: come si è visto, il nostro Paese ha messo 14 miliardi su oltre 700, perché il Mes si autofinanzia stando sul mercato). Come si è detto, è stato Salvini a tirare in ballo la questione (seguito a ruota da Giorgia Meloni e dal popolo del #StopMes), spolverando però qualcosa che era già al vaglio dei parlamentari da almeno cinque mesi. Come testimoniano infatti i resoconti stenografici della Camera, Conte riferì al parlamento dello stato dei lavori lo scorso 19 giugno elencando uno a uno i punti critici. All’epoca Salvini era ministro dell’Interno, eppure non fece alcuna polemica sul Mes. Il 18 giugno aveva twittato invocando la sterilizzazione di una donna rom e nelle ore seguenti avviava una querelle social con l’attrice porno Valentina Nappi, che lo aveva attaccato. Insomma, il leader della Lega in quei giorni pensava a tutt’altro. Ma non il collega Claudio Borghi che aveva presentato con altri deputati del Carroccio un’interrogazione all’allora ministro dell’Economia Giovanni Tria sull’iter della riforma. Tacevano, invece, pure i 5 stelle e il Pd, che pure all’epoca stava all’opposizione.

DICEMBRE, MESE CRUCIALE

Ma c’è un motivo se ora Salvini ha deciso di cavalcare in prima persona una questione già aperta. Nell’accordo raggiunto dall’Eurogruppo lo scorso 13 giugno era stato stabilito che, su richiesta tra gli altri di Italia e Germania, le procedure per le ratifiche nazionali venissero avviate solo quando tutta la documentazione sarebbe stata concordata e finalizzata con previsione quindi di aprire la discussione in parlamento nel prossimo dicembre. Sempre a dicembre e più precisamente il 10, è notizia delle ultime ore, il premier Conte riferirà alle Camere sul Mes. Vedremo se in quella data le forze politiche staranno più attente alle sue parole di quanto non accadde durante la seduta del 19 giugno scorso.

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Da Scajola a Fini, fino a Trenta: i guai immobiliari dei politici

Lo scandalo che ha coinvolto l'ex ministra della Difesa è l'ultimo di una lunga serie. Una carrellata.

C’è un filo rosso che lega legislature ed esecutivi dalla Prima alla Seconda Repubblica. E che non è stato spezzato nemmeno dal governo del cambiamento: il filo rosso degli scandali – o presunti tali – nati sulle case dei ministri e di politici. La vicenda portata alla luce dal Corsera che coinvolge l’ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta è infatti soltanto l’ultima di una lunghissima serie di casi – e di case – imbarazzanti.

LEGGI ANCHE: La procura militare indaga sulla casa di Roma dell’ex ministra Trenta

IN PRINCIPIO FU DE MITA

Questo filo rosso comincia a dipanarsi proprio dalla Prima Repubblica: nella centralissima via in Arcione, a Roma, nel settecentesco Palazzo Gentili del Drago. Agli ultimi piani dell’immobile di proprietà dell’Inpdai, l’istituto di previdenza dei dirigenti d’azienda, abitò in affitto dal 1988 (subito dopo essere divenuto presidente del Consiglio) Ciriaco De Mita. L’appartamento causò al leader democristiano una serie infinita di grane: fu accusato di godere di un canone agevolato, poi nel 1993 scoppiò lo scandalo di lavori miliardari per la messa in sicurezza dell’appartamento che, si disse, furono effettuati con i fondi del Sisde. Nel 2011 la famiglia De Mita acquistò l’immobile e anche in quell’occasione ci fu chi contestò aspramente il prezzo pagato, ben al di sotto – era l’accusa – del valore di mercato.

DA D’ALEMA A VELTRONI FINO A CALDEROLI

Quella di De Mita fu solo l’anticipazione dell’Affittopoli romana scoppiata negli Anni 90 che coinvolse anche Massimo D’Alema. L’allora segretario Pds occupava un immobile dell’Inpdap a Porta Portese, pagando un affitto calmierato di 633 mila lire al mese (in seguito si parlò di canoni più elevati, circa 1 milione di lire). D’Alema, benché sostenne sempre di aver occupato la casa in modo legittimo e senza favoritismi, dovette lasciarla. Durante il Maurizio Costanzo Show dichiarò: «Il segretario di un grande partito popolare non può esporsi al sospetto». D’Alema non fu l’unico politico coinvolto. Walter Veltroni finì nel mirino per un appartamento che suo padre Vittorio aveva affittato nel 1946 dall’Inpdai. Walter Veltroni ci tornò nel 1994 e, quando scoppiò Affittopoli, chiese un adeguamento del canone: 1 milione di lire al mese. Ma i giornali non mollarono l’osso. Nel 2012 Libero scrisse infatti che Veltroni era riuscito ad acquistare l’appartamento a meno di 2 mila euro al metro quadrato, «contro i 5.700 che chiedono oggi nella stessa via».

L’AFFITTO POPOLARE DI RENATA POLVERINI

Partito che vai, affitto agevolato che trovi. Nel 2011 era stata la volta di Renata Polverini, allora governatrice della Regione Lazio. Per 15 anni (dal 1989 al 2004) aveva abitato con l’allora marito Massimo Cavicchioli in una casa popolare dell’Ater a San Saba, poco lontana dal Circo Massimo. Zona di lusso, ma canone irrisorio: 380 euro al mese, poi maggiorato per effetto delle sanzioni elevate agli abusivi. Cavicchioli risultava infatti «occupante abusivo non sanabile» dalla morte nel 1989 della reale titolare del contratto, la nonna, e le sue entrate non gli consentirono di vivere nell’alloggio popolare. Fu sfrattato nel 2013.

CALDEROLI E LA VISTA SUL GIANICOLO

Sollevò un caso nel 2012 anche l’appartamento affittato da Roberto Calderoli al Gianicolo, che risultò pagato con i rimborsi elettorali della Lega Nord.

LA BAT-CASA DI MORATTI JR

Nel 2013 si concluse invece con un patteggiamento (condanna a sei mesi e 4 mila euro di ammenda, convertita in 49 mila euro di multa) la vicenda che i giornali ribattezzarono «casa di Batman». Al centro dello scandalo condotte riconducibili a Gabriele Moratti, figlio della ex sindaca di Milano Letizia. Come accertarono i giudici aveva trasformato un capannone industriale alla periferia di Milano in una lussuosa abitazione ispirata appunto al quartiere generale dell’uomo pipistrello.

FINI E I GUAI DI MONTECARLO

Come non ricordare poi Gianfranco Fini e lo scandalo scoppiato nel 2010 intorno all’appartamento di Montecarlo lasciato in eredità ad Alleanza nazionale dalla contessa Anna Maria Colleoni, morta nel 1999. L’appartamento era stato venduto nel 2008 per 300 mila euro a una offshore, Printemps, che lo rivendette per 330 mila euro a una società anonima dei Caraibi, la Timara Limited. In seguito, venne affittato a Giancarlo Tulliani, fratello di Elisabetta, compagna di Fini. Indagini su paradisi fiscali in cui risultò coinvolto anche il re delle slot Francesco Corallo contribuirono a fermare la carriera politica di Fini.

CON SCAJOLA COMINCIA LA SAGA DELL’«A MIA INSAPUTA»

Poi ci fu la casa «a sua insaputa» di Claudio Scajola. Un appartamento di 210 metri quadri con vista sul Colosseo nel pieno centro di Roma, che era costato all’allora ministro dello Sviluppo economico l’accusa di finanziamento illecito. Secondo i pm, l’imprenditore romano, Diego Anemone  – coinvolto in alcune inchieste sui lavori per il G8 della Maddalena – pagò, attraverso l’architetto Angelo Zampolini, parte della somma versata da Scajola (1,1 milioni di euro su di un totale di 1,7) per l’acquisto dell’immobile, finanziando anche di tasca propria 100 mila euro per la ristrutturazione. Lo scandalo finì per costare al potente rappresentante di Forza Italia (all’epoca tra i papabili per la successione a Silvio Berlusconi) la poltrona da ministro. Scajola venne poi assolto con formula piena per mancanza di dolo: per i giudici era davvero inconsapevole delle donazioni effettuate a suo favore dal costruttore.

NEI GUAI ANCHE I PROFESSORI DEL GOVERNO MONTI

Nemmeno il governo dei tecnici di Mario Monti si è salvato. L’agenzia Bloomberg svelò che nel 2004 l’allora ministro dell’Economia Vittorio Grilli comprò un appartamento ai Parioli a un prezzo che, secondo l’agenzia di stampa, era inferiore al suo valore di mercato: 1.065.000 euro. Dal divorzio di Grilli dalla moglie vennero fuori imbarazzanti notizie su presunti conti offshore. «Tutti conti in chiaro. Dichiarati. Su cui ho pagato tutte le tasse», replicò l’ex ministro al Sole 24 Ore. Anche Filippo Patroni Griffi, titolare del dicastero della Funzione pubblica nell’esecutivo dei tecnici finì nell’occhio del ciclone per un appartamento di proprietà dell’Inps pagato a prezzi ben al di sotto di quelli di mercato: 177 mila euro per una casa di 100 metri quadrati vicina al Colosseo. «Ma era cadente, con l’eternit sui tetti. Ho trovato il mio appartamento col cesso posto sul balconcino. Questo era il grande palazzo», si difese.

COSÌ JOSEFA IDEM PERSE IL MINISTERO

Un’altra casa fu all’origine delle dimissioni di Josefa Idem ministro delle Pari opportunità, Sport e Politiche giovanili del governo Letta. Il 19 giugno 2013 Il Fatto quotidiano pubblicò documenti dai quali si evinceva che sulla Idem pendessero quattro anni di Ici non pagata e presunte ristrutturazioni abusive. Dopo sei giorni di passione, sotto l’attacco soprattutto del Movimento 5 stelle (Beppe Grillo sul proprio blog scrisse: «Portare una canoista al governo, un po’ tedesca, è da scemi più che di sinistra»), la ministra capitolò, rassegnando le dimissioni. Mentre, sul versante erariale, la sportiva si mise in regola versando allo Stato i circa 3 mila euro dovuti.

DI PIETRO E L’INCHIESTA DI REPORT

Un presunto scandalo immobiliare, che si sciolse poi come neve al sole, costò caro ad Antonio Di Pietro, leader di Italia dei Valori. Nel novembre 2012 Report presentò un elenco di 45 proprietà sostenendo che fossero state acquistate con i soldi dei rimborsi elettorali. L’ex magistrato smontò tutte le accuse, alcune a dir poco pretestuose (45 proprietà non erano da intendersi unitarie, ma come beni accatastati facenti parte dello stesso complesso, spesso dal valore irrisorio, che andavano da porcilaie a terreni agricoli).

TAVERNA E DESSÌ: I CASI NEL M5S PRIMA DI TRENTA

Nemmeno i 5 stelle sono stati immuni da casi simili. La prima a inciampare è stata Paola Taverna. Dal 1994 la madre della senatrice pentastellata viveva in un alloggio popolare dell’Ater, a Roma est. Repubblica scoprì che la signora di fatto era abusiva, non essendo in possesso dei requisiti per l’assegnazione. Alla fine il Tar ha rigettato il ricorso presentato dalla famiglia e la donna ha dovuto lasciare la casa. Poi stato il turno di Emanuele Dessì, oggi senatore del Movimento 5 stelle che, in piena campagna elettorale fu travolto non solo dallo scandalo legato a un video in cui lo si vedeva assieme a un membro del clan di Ostia degli Spada, e dall’imbarazzo per un suo post su Facebook in cui si vantava di aver «menato un ragazzo rumeno», ma anche da una vicenda riguardante la casa popolare che occupava dietro locazione mensile di appena 8 euro, come documentò la trasmissione Piazza Pulita. «Ho una casa popolare perché sono una persona povera, perché il mio lavoro non mi porta reddito, non ho conto in banca, non ho auto», spiegò. E proprio Dessì è stato tra i primi grillini a scagliarsi contro Trenta: «Anche io conduco una vita di relazioni ma vivo in 50 metri quadri». Poi ad Adnkronos ha aggiunto: «Mi dispiace essere come al solito tirato in ballo a sproposito, perché io non credo sia la stessa cosa detenere un appartamento popolare con pieno titolo da anni, come ho ampiamente dimostrato, forte della sentenza di un Tribunale».

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Da Scajola a Fini, fino a Trenta: i guai immobiliari dei politici

Lo scandalo che ha coinvolto l'ex ministra della Difesa è l'ultimo di una lunga serie. Una carrellata.

C’è un filo rosso che lega legislature ed esecutivi dalla Prima alla Seconda Repubblica. E che non è stato spezzato nemmeno dal governo del cambiamento: il filo rosso degli scandali – o presunti tali – nati sulle case dei ministri e di politici. La vicenda portata alla luce dal Corsera che coinvolge l’ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta è infatti soltanto l’ultima di una lunghissima serie di casi – e di case – imbarazzanti.

LEGGI ANCHE: La procura militare indaga sulla casa di Roma dell’ex ministra Trenta

IN PRINCIPIO FU DE MITA

Questo filo rosso comincia a dipanarsi proprio dalla Prima Repubblica: nella centralissima via in Arcione, a Roma, nel settecentesco Palazzo Gentili del Drago. Agli ultimi piani dell’immobile di proprietà dell’Inpdai, l’istituto di previdenza dei dirigenti d’azienda, abitò in affitto dal 1988 (subito dopo essere divenuto presidente del Consiglio) Ciriaco De Mita. L’appartamento causò al leader democristiano una serie infinita di grane: fu accusato di godere di un canone agevolato, poi nel 1993 scoppiò lo scandalo di lavori miliardari per la messa in sicurezza dell’appartamento che, si disse, furono effettuati con i fondi del Sisde. Nel 2011 la famiglia De Mita acquistò l’immobile e anche in quell’occasione ci fu chi contestò aspramente il prezzo pagato, ben al di sotto – era l’accusa – del valore di mercato.

DA D’ALEMA A VELTRONI FINO A CALDEROLI

Quella di De Mita fu solo l’anticipazione dell’Affittopoli romana scoppiata negli Anni 90 che coinvolse anche Massimo D’Alema. L’allora segretario Pds occupava un immobile dell’Inpdap a Porta Portese, pagando un affitto calmierato di 633 mila lire al mese (in seguito si parlò di canoni più elevati, circa 1 milione di lire). D’Alema, benché sostenne sempre di aver occupato la casa in modo legittimo e senza favoritismi, dovette lasciarla. Durante il Maurizio Costanzo Show dichiarò: «Il segretario di un grande partito popolare non può esporsi al sospetto». D’Alema non fu l’unico politico coinvolto. Walter Veltroni finì nel mirino per un appartamento che suo padre Vittorio aveva affittato nel 1946 dall’Inpdai. Walter Veltroni ci tornò nel 1994 e, quando scoppiò Affittopoli, chiese un adeguamento del canone: 1 milione di lire al mese. Ma i giornali non mollarono l’osso. Nel 2012 Libero scrisse infatti che Veltroni era riuscito ad acquistare l’appartamento a meno di 2 mila euro al metro quadrato, «contro i 5.700 che chiedono oggi nella stessa via».

L’AFFITTO POPOLARE DI RENATA POLVERINI

Partito che vai, affitto agevolato che trovi. Nel 2011 era stata la volta di Renata Polverini, allora governatrice della Regione Lazio. Per 15 anni (dal 1989 al 2004) aveva abitato con l’allora marito Massimo Cavicchioli in una casa popolare dell’Ater a San Saba, poco lontana dal Circo Massimo. Zona di lusso, ma canone irrisorio: 380 euro al mese, poi maggiorato per effetto delle sanzioni elevate agli abusivi. Cavicchioli risultava infatti «occupante abusivo non sanabile» dalla morte nel 1989 della reale titolare del contratto, la nonna, e le sue entrate non gli consentirono di vivere nell’alloggio popolare. Fu sfrattato nel 2013.

CALDEROLI E LA VISTA SUL GIANICOLO

Sollevò un caso nel 2012 anche l’appartamento affittato da Roberto Calderoli al Gianicolo, che risultò pagato con i rimborsi elettorali della Lega Nord.

LA BAT-CASA DI MORATTI JR

Nel 2013 si concluse invece con un patteggiamento (condanna a sei mesi e 4 mila euro di ammenda, convertita in 49 mila euro di multa) la vicenda che i giornali ribattezzarono «casa di Batman». Al centro dello scandalo condotte riconducibili a Gabriele Moratti, figlio della ex sindaca di Milano Letizia. Come accertarono i giudici aveva trasformato un capannone industriale alla periferia di Milano in una lussuosa abitazione ispirata appunto al quartiere generale dell’uomo pipistrello.

FINI E I GUAI DI MONTECARLO

Come non ricordare poi Gianfranco Fini e lo scandalo scoppiato nel 2010 intorno all’appartamento di Montecarlo lasciato in eredità ad Alleanza nazionale dalla contessa Anna Maria Colleoni, morta nel 1999. L’appartamento era stato venduto nel 2008 per 300 mila euro a una offshore, Printemps, che lo rivendette per 330 mila euro a una società anonima dei Caraibi, la Timara Limited. In seguito, venne affittato a Giancarlo Tulliani, fratello di Elisabetta, compagna di Fini. Indagini su paradisi fiscali in cui risultò coinvolto anche il re delle slot Francesco Corallo contribuirono a fermare la carriera politica di Fini.

CON SCAJOLA COMINCIA LA SAGA DELL’«A MIA INSAPUTA»

Poi ci fu la casa «a sua insaputa» di Claudio Scajola. Un appartamento di 210 metri quadri con vista sul Colosseo nel pieno centro di Roma, che era costato all’allora ministro dello Sviluppo economico l’accusa di finanziamento illecito. Secondo i pm, l’imprenditore romano, Diego Anemone  – coinvolto in alcune inchieste sui lavori per il G8 della Maddalena – pagò, attraverso l’architetto Angelo Zampolini, parte della somma versata da Scajola (1,1 milioni di euro su di un totale di 1,7) per l’acquisto dell’immobile, finanziando anche di tasca propria 100 mila euro per la ristrutturazione. Lo scandalo finì per costare al potente rappresentante di Forza Italia (all’epoca tra i papabili per la successione a Silvio Berlusconi) la poltrona da ministro. Scajola venne poi assolto con formula piena per mancanza di dolo: per i giudici era davvero inconsapevole delle donazioni effettuate a suo favore dal costruttore.

NEI GUAI ANCHE I PROFESSORI DEL GOVERNO MONTI

Nemmeno il governo dei tecnici di Mario Monti si è salvato. L’agenzia Bloomberg svelò che nel 2004 l’allora ministro dell’Economia Vittorio Grilli comprò un appartamento ai Parioli a un prezzo che, secondo l’agenzia di stampa, era inferiore al suo valore di mercato: 1.065.000 euro. Dal divorzio di Grilli dalla moglie vennero fuori imbarazzanti notizie su presunti conti offshore. «Tutti conti in chiaro. Dichiarati. Su cui ho pagato tutte le tasse», replicò l’ex ministro al Sole 24 Ore. Anche Filippo Patroni Griffi, titolare del dicastero della Funzione pubblica nell’esecutivo dei tecnici finì nell’occhio del ciclone per un appartamento di proprietà dell’Inps pagato a prezzi ben al di sotto di quelli di mercato: 177 mila euro per una casa di 100 metri quadrati vicina al Colosseo. «Ma era cadente, con l’eternit sui tetti. Ho trovato il mio appartamento col cesso posto sul balconcino. Questo era il grande palazzo», si difese.

COSÌ JOSEFA IDEM PERSE IL MINISTERO

Un’altra casa fu all’origine delle dimissioni di Josefa Idem ministro delle Pari opportunità, Sport e Politiche giovanili del governo Letta. Il 19 giugno 2013 Il Fatto quotidiano pubblicò documenti dai quali si evinceva che sulla Idem pendessero quattro anni di Ici non pagata e presunte ristrutturazioni abusive. Dopo sei giorni di passione, sotto l’attacco soprattutto del Movimento 5 stelle (Beppe Grillo sul proprio blog scrisse: «Portare una canoista al governo, un po’ tedesca, è da scemi più che di sinistra»), la ministra capitolò, rassegnando le dimissioni. Mentre, sul versante erariale, la sportiva si mise in regola versando allo Stato i circa 3 mila euro dovuti.

DI PIETRO E L’INCHIESTA DI REPORT

Un presunto scandalo immobiliare, che si sciolse poi come neve al sole, costò caro ad Antonio Di Pietro, leader di Italia dei Valori. Nel novembre 2012 Report presentò un elenco di 45 proprietà sostenendo che fossero state acquistate con i soldi dei rimborsi elettorali. L’ex magistrato smontò tutte le accuse, alcune a dir poco pretestuose (45 proprietà non erano da intendersi unitarie, ma come beni accatastati facenti parte dello stesso complesso, spesso dal valore irrisorio, che andavano da porcilaie a terreni agricoli).

TAVERNA E DESSÌ: I CASI NEL M5S PRIMA DI TRENTA

Nemmeno i 5 stelle sono stati immuni da casi simili. La prima a inciampare è stata Paola Taverna. Dal 1994 la madre della senatrice pentastellata viveva in un alloggio popolare dell’Ater, a Roma est. Repubblica scoprì che la signora di fatto era abusiva, non essendo in possesso dei requisiti per l’assegnazione. Alla fine il Tar ha rigettato il ricorso presentato dalla famiglia e la donna ha dovuto lasciare la casa. Poi stato il turno di Emanuele Dessì, oggi senatore del Movimento 5 stelle che, in piena campagna elettorale fu travolto non solo dallo scandalo legato a un video in cui lo si vedeva assieme a un membro del clan di Ostia degli Spada, e dall’imbarazzo per un suo post su Facebook in cui si vantava di aver «menato un ragazzo rumeno», ma anche da una vicenda riguardante la casa popolare che occupava dietro locazione mensile di appena 8 euro, come documentò la trasmissione Piazza Pulita. «Ho una casa popolare perché sono una persona povera, perché il mio lavoro non mi porta reddito, non ho conto in banca, non ho auto», spiegò. E proprio Dessì è stato tra i primi grillini a scagliarsi contro Trenta: «Anche io conduco una vita di relazioni ma vivo in 50 metri quadri». Poi ad Adnkronos ha aggiunto: «Mi dispiace essere come al solito tirato in ballo a sproposito, perché io non credo sia la stessa cosa detenere un appartamento popolare con pieno titolo da anni, come ho ampiamente dimostrato, forte della sentenza di un Tribunale».

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Pokémon, origine e storia di un successo planetario

Il 15 novembre hanno debuttato gli ultimi due videogiochi Pokemon Spada e Scudo. Ma come è nato il fenomeno dei mostriciattoli da catturare? Tutto è cominciato da una semplice battaglia tra insetti.

Ventiquattro anni dopo, il mondo sta per essere invaso ancora una volta da una valanga di coloratissimi, improponibili mostriciattoli che sciamano dall’arcipelago nipponico. Sono i Pokémon, fusione di due parole, Pocket e Monster, mostri tascabili. Milioni di appassionati hanno atteso il debutto, il 15 novembre, degli ultimi due capitoli su Nintendo Switch di Pokémon Spada e Pokémon Scudo. Per dare un’idea nella notte, a Milano, nel quartiere City Life, i fan più sfegatati hanno sfidato il freddo novembrino sotto un Pikachu alto 11 metri pur di mettere le loro mani sui videogiochi allo scoccare della mezzanotte.  

Ma quali sono le ragioni di una simile mania? E com’è nato questo fenomeno mondiale che non ha risparmiato angolo del globo pur affondando le proprie radici nella tradizione e nella cultura nipponica?

POKÉMON, GENESI DI UN MITO

I Pokémon vengono alla luce nel 1995 ma in realtà erano presenti da sempre nella cultura giapponese. Ancorati all’antico culto animista che ha poi pervaso, nei secoli, scintoismo e buddismo, i giapponesi sono ancora oggi intimamente convinti che qualunque oggetto possegga un’anima. Anche i sassi. E non è un caso, dunque, che ci siano Pokémon a forma di sasso, come Geodude, recentemente scelto come ambasciatore del turismo del Paese, con tanto di immancabile sigla dal sapore infantile.

Popolo indubbiamente curioso, quello giapponese, che da sempre guarda con altri occhi la natura che lo circonda, lasciandosi attrarre soprattutto dalle creature più piccole.

LA PASSIONE PER GRILLI, CICALE E COLEOTTERI

Se i Pokémon esistono da sempre non lo si deve solo all’animismo, ma anche alla passione dei giapponesi per gli insetti. Noi occidentali non li abbiamo mai particolarmente amati. Esistono invece antiche stampe nipponiche che ritraggono con dovizia di particolari locuste e scorpioni. Per non parlare, poi, dei poemi e degli haiku sui canti delle cicale e dei grilli. I più antichi risalgono al X secolo.

Un allevamento di insetti in Cina.

Il noto pittore e poeta Kobayashi Issa per esempio scrisse: «Quando io morirò, sii tu il guardiano della mia tomba, piccolo grillo». Non è un caso che, prima della Seconda Guerra mondiale, quando cioè il Sol Levante viveva ancora separato dal resto del mondo, lo straniero più noto all’epoca nel Paese fosse l’entomologo francese Jean-Henri Fabre (1823-1915), soprannominato da Victor Hugo «l’Omero degli insetti», autore di un libro che nell’arcipelago è considerato oggetto di culto: Ricordi entomologici.

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LE BATTAGLIE TRA INSETTI

Per i coleotteri, poi, i giapponesi hanno sempre avuto una sorta di predilezione. Ancora oggi, durante l’estate, nei paesini rurali i negozi vendono larve di kabutomushi che i bambini allevano per tutte le vacanze come animali da compagnia. Sono detti scarabei rinoceronte per il lungo corno curvo sulla fronte: i maschi lo usano come leva per sollevare il corpo dell’avversario negli scontri per la difesa del territorio. Questa animosità innata nel kabutomushi ha dato origine a un hobby nipponico che è a sua volta prodromico al fenomeno dei Pokémon: le battaglie tra insetti.

Pupazzi dei Pokemon a Taipei.

Anche in Cina e in Corea non è raro, magari in bar malfamati, trovare assembramenti di adulti ubriachi intenti a scommettere sull’insetto che uscirà vivo dall’incontro. E nel vasto Oriente non sempre queste competizioni sono viste di buon occhio per motivi di ordine pubblico.

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MANTIDI E CERVI VOLANTI SCAMBIATI COME FIGURINE

In Giappone invece queste furibonde battaglie hanno conservato un pizzico dell’innocenza di un tempo e, mentre gli adulti perdono migliaia di yen al pachinko, i pochi bambini che hanno ancora la fortuna di vivere in ambienti rurali trascorrono le estati catturando esemplari che poi fanno combattere tra loro o che semplicemente mostrano agli amici, dando vita a veri e propri mercatini nei cortili delle scuole. I più ambiti sono naturalmente quelli dotati di mandibole, corna e artigli, come la mantide, il coleottero lucanide, il cervo volante, il Titanus giganteus, il Cyclommatus, il Golia, il Megasoma elefante o il Dynastes hercules. Guardando bene questi coleotteri, dai gusci spessi e dalle zanne affilate, si intuisce che un altro fenomeno tutto nipponico è probabilmente nato proprio dalla loro passione per gli insetti: quello dei robot che nei telefilm degli Anni 80, soprannominati Tokusatsu, distruggevano intere metropoli.

Pikachu è il personaggio diventato simbolo dell’intera saga.

COME SI È ARRIVATI A PIKACHU

Che i Pokémon siano nati dalle battaglie per gli insetti lo ha ammesso il loro creatore, Satoshi Tajiri. Quando, appena 30enne, nel 1995 varcò i cancelli della sede di Kyoto di Nintendo, la software house di videogiochi, propose appunto una simulazione virtuale di questo hobby. Infatti, chi ha avuto modo di esplorare il codice di gioco originario sostiene che il primo Pokémon introdotto non sia stato Pikachu, che con l’esplodere della moda è diventato emblema dell’intera serie, ma colossi come Nidoking e Kangaskhan che, per fattezze e caratteristiche, rimandano appunto ai coleotteri più ambiti.

Un enorme Pikachu alla sfilata per il Giorno del ringraziamento a New York.

Sarebbe stata Nintendo a chiedere allo sviluppatore di introdurre mostriciattoli più kawaii (aggettivo intraducibile che indica tutto ciò che è amabile e suscita trasporto materno), come appunto Pikachu (che all’inizio si chiamava Gorochu), Meowth e Jigglypuff.

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Ma il concetto alla base rimase invariato: si impersonava un ragazzino che aveva come compito quello di catturare esemplari sempre più rari da fare combattere e da scambiare con gli amici. In una epoca in cui non esisteva la tecnologia bluetooth e non c’erano apparecchiature Wi-Fi, Nintendo fece miliardi di yen vendendo cavetti che mettevano in connessione due Game Boy e consentivano di trasportare i Pokémon da una consolle all’altra (oggi ne fa ancora con la Banca Pokémon, cloud in cui stoccare – a pagamento – le proprie creaturine).

A caccia di mostri con Pokemon Go.

ANIMALI DALLA UOVA D’ORO: FUMETTI, FILM E VIDEOGIOCHI

Se, le prime avvisaglie arrivarono, quasi in sordina, nei Game Boy de bambini delle elementari, in breve tempo scoppiò il fenomeno. I maestri non riuscivano più a separare i bambini dalle consolle e presto iniziarono loro stessi a giocarci, così come ci giocavano anche i genitori. Il primo aprile del 1997 andò in onda il primo episodio dell’anime (cartone animato) dedicato ai Pokémon che contribuì a diffondere l‘isteria collettiva dando alle buffe creaturine rotondità, animazioni e colori che su una consolle a 8-bit del 1989 dallo schermo verde e grigio non potevano certo avere.

Ai primi tre videogiochi, Pokémon Rosso, Pokémon Blu e Pokémon Verde venne affiancato un quarto titolo, sostanzialmente identico, ma che aveva Pikachu protagonista, per sfruttare la popolarità che il personaggio aveva guadagnato grazie alla serie animata: Pokémon Giallo. Fu un altro incredibile successo.

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Oggi i quattro videogame hanno superato le 100 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Da lì a poco uscì anche Mewtwo colpisce ancora (tornerà realizzato in GC), il primo dei 23 lungometraggi per il cinema che, proprio nel 2019, hanno subito una decisa evoluzione con Detective Pikachu, pellicola in cui i mostriciattoli sono disegnati per la prima volta in computer grafica e interagiscono con attori in carne e ossa (protagonista è Justice Smith, figlio di Will Smith) in modo non dissimile dalla tecnica usata nel 1988 per realizzare Chi ha incastrato Roger Rabbit. L’arrivo su smartphone di Pokémon Go ha dato nuovo slancio al fenomeno permettendo la cattura dei mostriciattoli nel mondo reale. E ora il debutto dei due ultimi titoli, Pokémon Spada e Pokémon Scudo, destinati secondo gli analisti a infrangere ogni record precedente.

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Tangenti e inchieste: la storia giudiziaria del Mose

La vicenda della grande opera veneziana costata finora quasi 6 miliardi è legata a doppio filo a scandali e mazzette. E a indagini che negli anni hanno decapitato l'establishment della regione. A partire dall'ex governatore Giancarlo Galan.

Venezia è sommersa all’80%. Un’emergenza simile si era verificata solo nel 1966. Da allora di acqua, sotto i ponti e nelle calli, ne è passata parecchia, come del resto è scorso impietoso il fiume di denaro delle tangenti e degli scandali legati al Mose che, recita ancora il sito della grande opera, «cambierà la storia» della città.

LE PRIME INDAGINI SCATTARONO NEL 2009

Le prime indagini sul Mose risalgono esattamente a 10 anni fa, al 2009. Una inchiesta lunga e difficile che portò ai primi arresti nel 2013. Il 28 febbraio di quell’anno, mentre da Pordenone arrivano nel cantiere le prime due paratoie, veniva arrestato per frode fiscale Piergiorgio Baita, amministratore delegato della Mantovani, impresa del Consorzio Venezia Nuova (Cnv). L’inchiesta della procura veneziana raggruppò in un unico filone due indagini della Guardia di Finanza: una legata alle tangenti e l’altra, padovana, scaturita da una verifica fiscale su presunte fatture false. Gli inquirenti di lì a poco avrebbero scoperto che i cancelli del Mose, senza essere mai entrati in funzione, avevano trattenuto la marea di denaro che da Roma arrivava a Venezia per il finanziamento dell’opera pubblica.

LA “TANGENTOPOLI” DELLA LAGUNA

Baita collaborò con gli inquirenti, diede corpo al teorema accusatorio spiegando come funzionava il sistema. I soldi erano gestiti da un concessionario unico studiato ad hoc, una figura spuria composta da soci privati che, però, operava con fondi pubblici e usufruendo dell’incredibile beneficio di non supportare sulle proprie spalle il rischio d’impresa. Per gli imprenditori che vi aderivano, insomma, era tutto da guadagnare e nulla da perdere. E infatti i soldi non bastavano mai: da 1,6 miliardi il Mose è finito per inghiottirne quasi 6. Un euro su cinque, per Baita, finiva in «spese extra». Per questo le imprese e le cooperative di quella galassia, tra cui proprio la Mantovani (socio di maggioranza del Cnv), vedevano affluire nelle proprie casse fiumi di denaro pubblico. Un sistema sorretto da fondi neri e fatture gonfiate. Dai magistrati l’inchiesta sul Mose venne letta come una nuova Tangentopoli (spuntarono tra l’altro alcuni nomi di imprenditori già finiti nel mirino del pool di Mani Pulite), con la differenza che politici e imprenditori non dialogavano più direttamente: a mediare era il concessionario unico Cnv.

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Baita è stato il grande accusatore di Giovanni Mazzacurati, all’epoca numero 1 del Consorzio, arrestato quattro mesi dopo l’ad della Mantovani. A Venezia Mazzacurati era soprannominato «Doge». Un nome che all’imprenditore, schivo e riservato, aveva sempre dato fastidio, forse perché attirava sulla sua persona la curiosità dei giornalisti. Mazzacurati è morto all’età di 87 anni a fine settembre, nella sua abitazione californiana dopo essere uscito dal processo con un patteggiamento.

Giancarlo Galan in una foto del 2013.

GLI ARRESTI ECCELLENTI DEL 2014

Nel 2014 vennero arrestate 35 persone. Un centinaio quelle iscritte nel registro degli indagati. Finirono in manette politici di rango, imprenditori, alti funzionari dello Stato e i vertici delle aziende del Consorzio. Ma non era finita, perché l’inchiesta sulle tangenti versate dal Cnv si allargò a macchia d’olio arrivando fino a Roma.

IL RUOLO DI GALAN E IL MAXI SEQUESTRO

Tra i politici coinvolti anche Giancarlo Galan (insieme con la sua segretaria d’allora) che patteggiò, dopo 78 giorni di carcere, una pena di 2 anni e 10 mesi restituendo 2,5 milioni di euro estinguendo così il procedimento a suo carico. Galan nel 2017 è stato poi condannato dalla Corte dei Conti a risarcire lo Stato di 5,8 milioni di euro. Ma la questione non si è chiusa qui. Nella primavera 2019, nell’ambito di un’indagine per riciclaggio internazionale ed esercizio abusivo dell’attività finanziarie, le Fiamme gialle hanno sequestrato 12,3 milioni, tra conti, denaro e immobili in alcuni paradisi fiscali. Secondo gli inquirenti, un tesoretto riconducibile in ultima battuta sempre all’ex governatore veneto e al reinvestimento all’estero delle mazzette del Mose.

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Le missioni italiane all’estero in numeri

Per le operazioni oltre confine sono stati previsti 7.434 uomini, per poco più di 1 miliardo di spesa. Dal Libano all'Iraq, dall'Afghanistan ai Balcani ecco dove il nostro Paese è presente e con quali forze.

L’attentato al contingente italiano in Iraq rivendicato dall’Isis in cui sono rimasti feriti cinque militari, accende nuovamente i fari sulle missioni all’estero che impegnano quotidianamente i nostri soldati.

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E se sono ormai lontani i tempi in cui i 5 stelle si battevano per accelerare il disimpegno delle nostre forze armate (il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, commentando l’accaduto, ha infatti ribadito che quella irachena «è una missione che incarna tutti i valori del nostro apparato militare»), è lecito chiedersi quanti siano attualmente gli uomini impegnati all’estero, in quali fronti operino e quale sia il loro costo.

Soldati italiani nella missione Unifil in Libano (foto d’archivio).

IMPEGNATE UN MASSIMO DI 7.343 UNITÀ PER 1 MILIARDO DI SPESA

Tutte informazioni contenute nella recente proroga approvata dal parlamento lo scorso luglio per il rifinanziamento per il 2019 della partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali in corso e, contestualmente, per l’approvazione del budget di quelle nuove. «La consistenza massima annuale complessiva dei contingenti delle Forze armate impiegati nei teatri operativi è pari 7.343 unità», si legge nel documento. «La consistenza media è pari a 6.290 unità». I costi? «Il fabbisogno finanziario per la durata programmata è pari complessivamente a euro 1.130.481.331».

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DAL 2004 A OGGI SPESI 17 MILIARDI

Nel 2019 si spenderà poco più di 1 miliardo, insomma. Costi tutto sommato in linea con gli anni passati. Perché sebbene con l’avvento della crisi ciascun ministero abbia dovuto fare i conti con la spending review, la Difesa non ha visto diminuire in modo significativo le somme allocate per le missioni all’estero. Negli ultimi 15 anni, ovvero dal 2004 a oggi, l’Italia ha speso più di 17 miliardi di euro. Il record lo si toccò sotto l’ultimo governo Berlusconi, proprio in piena crisi economica e tempesta dello spread, tra il 2010 e il 2011, quando a questo scopo vennero destinati oltre 1,5 miliardi.

CRESCE L’ATTENZIONE PER L’AFRICA

Il maggior numero di missioni che riguarda i militari italiani non sono in scenari mediorientali, bensì nel continente africano. Con riferimento invece alla consistenza numerica delle unità impiegate nei diversi teatri operativi, il fronte più caldo e impegnativo per il nostro Paese è certamente in Libano e, a seguire, gli scenari in Europa e quelli in Africa.

DAI BALCANI A LETTONIA E TURCHIA

Partendo dalle missioni più vicine, dunque nel Vecchio continente, quelle che impegnano maggiormente i contingenti italiani sono la Joint Enterprise (Nato) nei Balcani e la Eunavformed Sophia dell’Unione europea. Ai numerosi fronti balcanici, che spaziano dal Kosovo (Missione Kfor) all’Albania, partecipano 538 unità con 204 mezzi terrestri e lo scopo di assistere lo sviluppo delle istituzioni locali per assicurare la stabilità nella regione, mentre a Sophia sono state destinate 520 unità e tre mezzi aerei con il mandato di «adottare misure sistematiche per individuare, fermare e mettere fuori uso le imbarcazioni e i mezzi usati dai trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo centrale». C’è poi il fronte in Lettonia della missione Baltic Guardian. In questo caso il nostro contributo prevede un impiego massimo di 166 militari e 50 mezzi terrestri per la sorveglianza dei confini dei Paesi Nato. Infine, a cavallo tra Europa e Asia si posizionano i 130 militari e 25 mezzi terrestri su suolo turco della missione Active Fence con il compito di neutralizzare minacce provenienti dalla Siria.

IL COMPLICATO SCACCHIERE LIBICO

Nel difficile teatro libico sono presenti 400 militari, 130 mezzi terrestri e mezzi navali e aerei tratti dal dispositivo Mare sicuro – che in totale impiega 754 unità, 6 mezzi navali e 5 aerei. «La nuova missione, che ha avuto inizio a gennaio 2018», si legge sul sito del ministero della Difesa, «ha l’obiettivo di rendere l’azione di assistenza e supporto in Libia maggiormente incisiva ed efficace, sostenendo le autorità libiche nell’azione di pacificazione e stabilizzazione del Paese e nel rafforzamento delle attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale».

Soldati italiani in Kosovo (foto d’archivio).

L’IMPEGNO IN NORD AFRICA

Nel Nord Africa segue per numero di uomini la missione in Egitto che prevede un impegno massimo di 75 militari e 3 mezzi navali. Nella missione comunitaria antipirateria denominata Atalanta sono impegnate 407 unità di personale militare, due mezzi aerei e due navali. Proprio per la sorveglianza delle coste e del Golfo di Aden, dal 20 luglio 2019 l’Italia contribuisce con la Fregata Europea Multi Missione Marceglia che ha assunto anche l’incarico di flagship della task force aeronavale. Nella missione bilaterale di supporto nel Niger abbiamo dato la disponibilità per un massimo di 290 unità, comprensive di 2 unità in Mauritania, 160 mezzi terrestri e 5 mezzi aerei. C’è poi la Somalia: per il 2019 l’impegno nazionale massimo è di 53 militari e 4 mezzi dei Carabinieri anche nella Repubblica di Gibuti per facilitare le attività propedeutiche ai corsi e i rapporti con le forze di polizia somale e gibutiane.

IN LIBANO E L’IMPEGNO CONTRO IL TERRORISMO

La partecipazione italiana più significativa è impiegata nella missione Unifil in Libano, per la quale possono essere dispiegati fino a 1.076 militari, 278 mezzi terrestri e 6 mezzi aerei. Dal 7 agosto 2018 il nostro Paese ha assunto nuovamente l’incarico di Head of Mission e Force Commander. Segue la missione della coalizione internazionale di contrasto alla minaccia terroristica del Daesh. In merito, i documenti parlamentari prevedono una partecipazione «per il 2019 di 1.100 unità, 305 mezzi terrestri e 12 mezzi aerei». I cinque militari feriti nell’attentato di domenica 10 novembre, secondo quanto si apprende, facevano parte della task force 44, impiegata in Iraq per attività di mentoring and training a supporto delle milizie locali da addestrare per contrastare l’Isis. 

Soldati italiani in Afghanistan (foto d’archivio).

IL PARZIALE DISIMPEGNO DALL’AFGHANISTAN

Un altro contingente importante è impiegato nella missione Resolute Support in Afghanistan con 800 unità di personale militare. «Analogamente all’anno 2018», si legge nei documenti, «si prevede l’invio di 145 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei». Dopo 17 anni le nostre truppe sono passate da 900 unità del 2018 a 800 negli ultimi 12 mesi, destinate a scendere a 700 proprio nella seconda metà del 2019. E dire che solo lo scorso 28 gennaio l’allora ministra della Difesa Elisabetta Trenta aveva annunciato un celere ritiro entro 12 mesi, facendo esultare i 5 stelle («Finalmente riportiamo a casa i nostri ragazzi», scrivevano i portavoce del Movimento 5 stelle della commissione Difesa) ma lasciando interdetti sia il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, sia il Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, che non erano stati avvertiti. In generale e in tutti gli scenari di guerra, per l’anno in corso, i documenti certificano una riduzione della consistenza massima dei contingenti di 624 unità, con il passaggio da 7.967 unità a 7.343 unità. Mentre la consistenza media nelle intenzioni dovrebbe scendere di appena 19 unità, da 6.309 a 6.290. Per questo non ci sono significativi risparmi sul fronte dell’impegno economico, che resta superiore al miliardo di euro annuo.

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