Il grande (e rischioso) fuck you dei Sussex alla Corona

I ribelli Harry e Meghan danno il benservito alla Regina e corrono incontro alla loro libertà. Al secondogenito di Carlo auguriamo ogni bene. Anche se al suo posto non avremmo mai scambiato la solidità di una Royal family con la volubilità di una moglie inquieta.

Potendo sostituire il comunicato ufficiale a firma “Duca e Duchessa del Sussex”, forse avrebbero più semplicemente e italicamente scritto «andate tutti affanculo».

Che è un po’ il senso manifesto della fuga di Harry & Meghan, i cui nomi si intrecciano in un logo da coppia dannata, come quelli di Bonnie & Clyde o, più regalmente, come quelli degli antenati Edward & Wally, anch’essi in fuga, circa 80 anni fa, dalle pesanti regole della corte britannica.

HARRY E MEGHAN IN FUGA COME NE IL LAUREATO

Harry & Meghan gettano alle ortiche i privilegi regali, l’appannaggio, quella vita insulsa fatta di sorrisi di circostanza, visite ai centri di beneficenza, fingendosi interessati ai disegni di bambini disagiati delle periferie, partecipazioni a eventi e cerimonie pompose, in cui offrirsi ai flash dei fotografi per poi finire su giornali che criticheranno il tuo abito, le tue scarpe, il trucco, la smorfia involontaria. Tutta roba che William & Kate si sciroppano senza troppo disagio, ma tant’è: sarai il re d’Inghilterra? E allora beccatela tu questa vita del cavolo. Noi diciamo no e ce ne andiamo, come la coppia de Il laureato che abbandona le famiglie furibonde con un palmo di naso, per salire su un autobus sgarrupato e andare incontro alla libertà e al vero amore.

Archie non crescerà tra maggiordomi e istitutrici e non sarà perseguitato dai fotografi mentre va all’asilo o a pattinare

Naturalmente, non ci saranno autobus scalcinati nella vita di Harry & Meghan, che possono contare sulla rendita milionaria del giovane rampollo della casa reale. Ma fanculo pure alla rendita, i due dichiarano che diventeranno indipendenti, andranno a lavorare. Lei come attrice, si suppone. Lui chissà, forse cooptato nel consiglio di amministrazione di una multinazionale, oppure impegnato a finanziare qualche centro di ricerca per la salvezza del Pianeta. Il loro bambino, Archie, non crescerà tra maggiordomi e istitutrici, non imparerà a camminare dentro saloni affrescati, su tappeti persiani di otto per otto metri, non sarà perseguitato dai fotografi mentre va all’asilo, a scuola, a pattinare.

UNO STORYTELLING INFINITO

La monarchia britannica si conferma un generatore di storytelling senza pari, tanto da fornire in tempo reale nuovo materiale per gli sceneggiatori della serie The Crown, così come le dimissioni di papa Ratzinger hanno generato fiction su fiction. Se poi ci aggiungiamo Bill Gates che ha dichiarato: «Sono troppo ricco, voglio pagare più tasse», allora qui si profila un’abdicazione dell’élite mondiale dal proprio ruolo. Proprio qualche sera fa, alla cerimonia dei Golden Globe, il comedian inglese Ricky Gervais aveva ammonito i divi del cinema: «Voi non sapete nulla della vita reale, quindi non fate discorsi politici, non siete credibili, ritirate il vostro piccolo premio, ringraziate, e andate via». Harry & Meghan, divi anche loro, rinunciano ai loro privilegi per guadagnare una vita reale e dunque forse una credibilità, davanti al mondo, e prima ancora davanti a se stessi. 

Cinicamente, chi ha più esperienza di matrimoni non scambierebbe mai la solidità di una Royal family con la volubilità di una moglie inquieta

Il semplice fatto di nascere come secondo figlio, dopo William, e risultare perciò attualmente solo sesto nella successione al trono, concede a Harry la libertà di fare questa scelta radicale. Non avrà più protezioni, se ne andrà solo nel mondo insieme a Meghan. Gli auguriamo ogni bene, però al suo posto non l’avremmo mai fatto. Ma solo perché, cinicamente, abbiamo più esperienza di matrimoni e non scambieremmo mai la solidità di una Royal family con la volubilità di una moglie inquieta.

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Il senso di Rula Jebreal al Festival di Sanremo

Il veto Rai alla presenza della giornalista ha scatenato le polemiche. Ma cosa ci faceva la Jebreal in una kermesse canora? Quale sarebbe stato il suo ruolo? E in quanti si sono chiesti «che ci azzecca»?

Quando ha cominciato a montare – sui giornali e sui social – la polemica sulla partecipazione di Rula Jebreal al prossimo Festival di Sanremo, in non pochi ci siamo chiesti «che ci azzecca?», Che ci azzecca la polemica (con tutto quel che sta succedendo nel mondo), ma anche che ci azzecca Rula con il Festival.

CANTANTE O VALLETTA?

Rula cantante? Rula valletta? Non sembrerebbe il ruolo adatto per questa giornalista ormai di profilo internazionale, cittadina del mondo, consulente del presidente Macron per il gender gap, stabilmente insediata nell’élite intellettuale ed ebraica newyorchese, ma spesso di ritorno in Italia per partecipare a talk show televisivi in cui non le manda certo a dire.

PERCHÉ ACCETTARE?

Cioè, ancora prima di chiedersi perché è stata invitata, ci si domanda perché lei avrebbe accettato, con quale intento e con quale scopo. Tanto più che il direttore artistico del Festival, Amadeus, ha precisato in un’intervista a Repubblica che quello di Jebreal «non sarà un intervento politico, chi viene a Sanremo non farà politica. Non mi interessa». E allora, che cosa farà? Sfilerà indossando preziose creazioni degli stilisti Made in Italy? Presenterà le canzoni? Reciterà un monologo teatrale? Danzerà? Nemmeno il tempo di approfondire la questione, che già erano partiti i razzi della polemica, dopo la decisione dei vertici Rai di sospendere la firma del contratto e non confermare i voli per la discussa ospite.

LA POLITICA CHE SI DIVIDE

Da un lato, coloro che inneggiano alla decisione della Rai, contestando la Jebreal soprattutto per la veemenza con cui esprime le sue critiche a un’Italia gretta, razzista e fascisteggiante; dall’altra i suoi difensori, che sbandierando l’hashtag #iostoconRula denunciano censura e discriminazione contro la giornalista, segno della sottomissione della Rai alle volontà sovraniste e leghiste. «La Jebreal potrebbe essere incaricata a Sanremo di spiegarci quanto le facciamo schifo» (Daniele Capezzone). «Sarebbe “discriminazione di Stato” non dare a Rula Jebreal il palco dell’Ariston con i soldi degli italiani. Gli stessi italiani accusati dalla signora di essere fascisti, razzisti, impresentabili» (Daniela Santanché). Sul fronte opposto, soprattutto esponenti di Italia Viva, come per esempio Gennaro Migliore («L’estromissione di #RulaJebreal dal festival di Sanremo puzza lontano un miglio di epurazione sovranista») e Davide Faraone («Vergognoso che la Rai, la tv pubblica si pieghi al diktat di Salvini. Porterò il caso in vigilanza Rai. Non possiamo stare zitti»).

LA SOLIDARIETÀ FEMMINISTA

E naturalmente non manca la solidarietà femminile e femminista: «Si esclude un’ottima giornalista per le proteste dei sovranisti. Dimenticando che la presenza di Rula al Festival avrebbe dimostrato che le persone non si scelgono per il genere o per il colore della pelle, ma solo per competenza e professionalità», (Teresa Bellanova); «Se è vero che sulla decisione hanno pesato le polemiche scatenate sui social dai sovranisti allora non ci siamo. Il servizio pubblico deve valutare le competenze di una persona non piegarsi alla prepotenza di chi la insulta», (Laura Boldrini). Già, ma torniamo a bomba. Di quali competenze parliamo, nell’ambito del Festival di Sanremo?

UNA TOP TEN DI DONNE PER AMADEUS

Secondo le anticipazioni di Amadeus, Rula Jebreal avrebbe fatto parte di una top ten di donne che dovrebbero affiancarlo sul palco, donne speciali per meriti e talenti particolari, dunque rappresentative di un universo femminile positivo e vincente. Peccato che delle altre nove non si sia saputo nulla. Tranne di una, la co-conduttrice Diletta Leotta, indubbiamente una ragazza di successo. I cui meriti e talenti sono ben chiari nella mente e nelle fantasie di milioni di maschi italiani, che pur di accarezzarne le curve per tre o quattro serate, si beccherebbero pure le rampogne antirazziste della Jebreal, peraltro non meno bella e fascinosa della Leotta. Al limite, il sovranista toglierà l’audio, il democratico di sinistra posterà sui social #iostoconRula e qualcuno risponderà al volo «sì, ti piacerebbe».

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Quello di Francesco è uno schiaffo all’immagine del papa

La reazione di Francesco in San Pietro è simbolo di umanità. Ma porta con sé un grave danno d'immagine. Che lambisce il dogma dell'infallibilità del pontefice. E che in Vaticano dev'essere preso sul serio.

Il dogma dell’infallibilità papale è molto recente, se rapportato all’intera storia della Chiesa. Risale infatti solo al 1870, quando fu proclamato per volontà di Pio IX, il quale convocò un apposito concilio – il “Vaticano I” – affinché il dogma venisse approvato e reso definitivo. Ma il papa è infallibile solo quando parla “ex cathedra”, cioè quando si esprime su elementi dottrinali e di fede, oppure quando proclama nuovi dogmi. In questi casi “non può sbagliare”. Ma quando si libera infastidito dalla presa di una fedele in Piazza San Pietro, schiaffeggiandola mano che lo trattiene? La condotta del papa è anch’essa infallibile?

Nel 1870 non esistevano le telecamere, né i telegiornali, né tanto meno il web e i social network. Un episodio come quello dello strattone al papa e della sua reazione stizzita non avrebbe avuto alcuna eco al di là degli spettatori presenti. Ma in realtà non sarebbe stato proprio possibile, perché il papa all’epoca non scendeva in mezzo alla gente, e se proprio doveva farlo, veniva portato in giro su una sedia pontificia che si levava alta, al riparo dalla folla e dalle sue intemperanze. Alla sedia è poi subentrata la papa-mobile, con la sua bolla trasparente, che espone il pontefice come in una protettiva vetrina semovente, mentre passa e benedice i fedeli. Perché quando si avvicina fisicamente alla gente, tutto è possibile, come accadde a Giovanni Paolo II, che si prese un colpo di pistola in pancia nel 1981 da turco Alì Agca, e venne salvato poi dai chirurghi del Policlinico Gemelli, oppure dalla Madonna stessa, a seconda delle convinzioni religiose.

UN PAPA PARAGONATO A UNA ROCKSTAR

Nella nostra era ultramediatica, il papa – e soprattutto questo papa, Bergoglio – viene giustamente paragonato a una rockstar, che suscita nei fedeli lo stesso tipo di fanatismo che si rivolge ai miti della musica e ai divi del cinema. Molto meno ai personaggi politici. Ed è forse che per questo che un politico scaltro come Matteo Salvini, superando gli elementi dell’idolatria berlusconista, ha fatto propria una gestualità religiosa che allude continuamente a una presunta “vera fede”, in contrapposizione alle aperture misericordiose di Francesco, pontefice di cui i sovranisti diffidano massimamente. Al punto da pubblicare, Salvini, un video stupidissimo, in cui la fidanzata Francesca Verdini figura come la fedele postulante di Piazza San Pietro, mentre lui stesso vi recita il ruolo di “papa buono”, che si libera dolcemente dalla presa della mano e le accarezza il viso, come a correggere il comportamento opinabile del papa, criticato aspramente per un buffetto alle mani dagli stessi sovranisti che tifano per l’affondamento di barconi e migranti in mare.

UNO STRATTONE CHE VA PRESO SUL SERIO

Bergoglio si è poi scusato pubblicamente per aver dato «il cattivo esempio», e ammettendo di aver perso le staffe, come può capitare a chiunque. Dunque il papa è un chiunque, uno di noi, un essere umano fallibile e imperfetto? Certo che sì, personalmente non avevamo dubbi. Ma il danno di immagine è grave, proprio perché consente a personaggi di bassissimo profilo di proporsi credibilmente come detentori di simboli e verità religiose, facendo di se stessi e del proprio corpo un feticcio. Una strategia che trova la sua apoteosi nella pratica dei selfie scattati a raffica coi telefonini insieme ai propri seguaci. Lo fa Salvini e lo fa anche il papa. Forse quello strattone dovrebbe essere preso sul serio in Vaticano. Senza dogmatismi.

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La vera rivoluzione delle Sardine è ispirare fiducia

Sui social la prima regola è diffidare di tutto e sempre, dalle notizie che possono essere false a chi ti sembra amico. Il movimento anti-Salvini ha rotto questa Rete. Spingendo le persone a scendere in piazza e a tornare a credere nei fondamenti della convivenza umana.

La lettera dei quattro organizzatori delle Sardine, pubblicata da la Repubblica, è fresca e simpatica proprio come le facce e la parlata degli autori. «Eravamo quattro trentenni come ce ne sono tanti», quattro trentenni al bar, insomma, come nella canzone di Gino Paoli, e grazie ad alcune iniziative spontanee nate su Facebook prende corpo l’idea di una manifestazione importante, che si contrapponga al comizio di Matteo Salvini a Bologna. Successo oceanico, e da lì tutto il resto.

CAPTATA UN’ESIGENZA: LA VOGLIA DI PARTECIPAZIONE

I quattro delle Sardine, in sostanza, raccontano che hanno semplicemente ascoltato quello che già stava accadendo, hanno captato un’esigenza, un’inquietudine che era voglia di partecipazione e l’hanno soltanto comunicata, condivisa, organizzata.

QUASI MEZZO MILIONE DI PERSONE USCITE DI CASA

La parte più interessante del loro resoconto di come sono andate le cose non è tanto quella politica – anche se tutto, ovviamente, è politica. La parte interessante è il loro stesso stupore, misto a entusiasmo, per il quasi mezzo milione di persone (sommando tutte le varie manifestazioni) che «sono uscite di casa, al freddo e sotto la pioggia».

PRESENZA FISICA OLTRE LA RETE

L’hanno fatto, dicono, «per dire che la loro idea di società non rispecchia affatto quella presentata dalla destra». Può darsi. Forse alcuni sì e alcuni no. Ma è probabile che la maggior parte sia andata lì soprattutto per uscire dalla Rete, per ritrovare e dare valore alla presenza fisica, benché la Rete sia stata essenziale ai fini organizzativi. Tutte quelle persone, sottolinea la lettera, «si sono fidate, e hanno continuato a fidarsi».

Flash mob delle Sardine nel piazzale della stazione ferroviaria di Venezia. (Ansa)

CONTRO IL WEB CHE TI SPINGE SOLO A DIFFIDARE DI TUTTO

Ecco. La fiducia. Cioè una delle cose più preziose che la pervasività dei social network ha messo in crisi. “Non fidarsi di nessuno” è la prima regola che si impara stando sui social o comunque sul web. Diffidare di tutti e sempre, anche di coloro che ti sembrano simili e amici. Facebook ha disintegrato il concetto stesso di amicizia, trasformandola in collezionismo di facce.

ONLINE SIAMO SEMPRE OSSERVATI E MONITORATI

Ormai tutti abbiamo imparato che ogni nostra attività online è osservata e monitorata per conoscere i nostri desideri, i nostri pensieri, la nostra disponibilità all’acquisto di qualunque cosa. Che puntualmente ci viene proposta, imposta, sbattuta davanti agli occhi con il cartellino del prezzo.

Un momento della manifestazione in Piazza Vittoria a Brescia. (Ansa)

LA FIDUCIA È ALLA BASE DELLA CONVIVENZA UMANA

La fiducia, si sa, è la base stessa della società, dell’economia, della cultura. Se nessuno si fida più di nessuno, si sgretolano i fondamenti della convivenza umana, della civiltà. Se ogni notizia può essere falsa, se ogni account, ogni persona può essere falsa, non è più possibile nessuna interazione virtuosa.

SUI SOCIAL INVECE RESTIAMO SPETTRI DESOLATI

Per questo il movimento delle Sardine, ancorché esprimere una posizione politica, sembra trasmettere in primo luogo una rivolta contro le maglie di una Rete che rendendoci tutti virtuali ci ha reso spettri diffidenti e desolati. Più volte, nella lettera, i quattro esultano al fatto di «essere finalmente liberi». Proprio come pesci che erano finiti nella rete del pescatore e sono riusciti a tornare nel mare aperto delle piazze. Contro i piazzisti della paura e dell’odio.

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Se lo scorretto Salvini si indigna per un dito medio

Il politico più aggressivo attacca la maleducazione della sua compagna di volo. E scatena i pretoriani della Rete contro l'autrice del post. A cui auguriamo di tornare subito nella riservatezza dei suoi 19 anni.

La ragazza del dito medio – rapidamente assurta a icona collettiva, come una versione contemporanea e social de La ragazza con l’orecchino di perla – nega tutto: in un post su Facebook giura che quel gesto non fosse malignamente rivolto al senatore Matteo Salvini, beatamente addormentato al suo fianco su un volo Ryanair. «Il gestaccio», scrive, «era rivolto alle persone a cui ho inviato la foto privatamente e nulla aveva a che vedere con Salvini, volevo solo evidenziare l’incredibile coincidenza di prendere un volo low cost e trovarsi seduti accanto a Salvini».

«NON SONO UNA SARDINA E NON SONO NÉ DI DESTRA NÉ DI SINISTRA»

Cioè, immaginiamo, si trova lì e manda la foto agli amici per dire: ma guardate che combinazione, mi trovo in aereo vicino a una celebrity, come si farebbe con qualunque altro famoso in una situazione analoga. E precisa nel suo post: «Non sono una sardina. Non sono di sinistra e non sono di destra…».

INSULTI E MINACCE DI MORTE ALLA RAGAZZA

Ma ormai la frittata è fatta, la foto consegnata al circo social-mediatico e soprattutto al Salvini risvegliato, che si sente offeso e scatena la sua orda di bulli «facendo sì», racconta la ragazza, Erika, «che mi arrivassero insulti pesanti, minacce di morte, intimidazioni varie e materiale pornografico». Tutta roba fuori luogo, perché Erika, nella foto, aveva persino messo dei cuoricini intorno a Salvini, come racconta lei stessa.

IL BELLO ADDORMENTATO: DALLA ISOARDI ALL’IRRISIONE

Impossibile, però, non associare questa immagine a quella altrettanto celebre del Salvini addormentato accanto a Elisa Isoardi dopo probabili fatiche amorose (o forse dopo una serie di comizi a raffica). Là teneramente accudito, qua malignamente irriso, seppure non nelle intenzioni della passeggera fanciulla.

Quando il dito medio lo fa Salvini.

L’INDIGNAZIONE DEL PIÙ AGGRESSIVO

Resta la gragnuola di offese, di insulti, di minacce indirizzate a Erika per quella foto, che aveva tutt’altro spirito. «Di politica mi importa poco», scrive infatti su Facebook, perché ha solo 19 anni e «forse tra qualche anno capirò meglio…». Ecco, forse ha già amaramente capito come funziona, se il politico più scorretto e aggressivo, immortalato in innumerevoli situazioni con il dito medio proteso, si indigna per la maleducazione di questa immagine e scatena i suoi pretoriani della Rete contro l’autrice del post, la quale, con notevole saggezza, commenta «non mi aspettavo un’esposizione mediatica di questa portata e non sono minimamente interessata a diventare “famosa” per qualcosa che ho fatto con tutt’altre intenzioni».

ERIKA, TORNA PRESTO ALLA TUA RISERVATEZZA

Ecco, Erika, ti auguriamo di rientrare nella riservatezza dei tuoi 19 anni. Se diventerai “famosa”, che sia per qualcos’altro, per tua scelta, volontà e talento.

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Parma 2020, i tesori e i primati dell’Emilia sotto i riflettori

Il prossimo anno la città raccoglierà il testimone di Palermo, Capitale 2018. Un'occasione per riscoprire e fare scoprire i gioielli dell'intera regione: dall'enogastronomia ai motori e l'arte.

È l’unica regione italiana che prende il nome da una strada, la Via Emilia, antica strada romana fatta costruire nel 187 a.C. dal console Marco Emilio Lepido per collegare Piacenza a Rimini.

L’antica via è poi diventata arteria fondamentale di ogni attraversamento dell’Italia, e intorno a essa è nata l’Emilia-Romagna, una delle aree più fiorenti della Penisola.

Stefano Bonaccini, governatore uscente e si spera presto rientrante, alla presentazione di Parma Capitale italiana della Cultura 2020, ha voluto inquadrare così l’essenza di questa terra che non ha un unico centro a forte attrazione, come Roma o Napoli, Firenze, Venezia o Milano, ma genera il proprio valore dalla disseminazione di eccellenze su tutto il territorio in molti campi diversi, dai motori alla meccanica di precisione, dalla gastronomia al fashion, dall’arte alla musica. 

PARMA 2020 ACCENDE I FARI SUI GIOIELLI EMILIANI

Così, l’incoronazione di Parma a Capitale della Cultura è soprattutto un faro che si accende su uno dei gioielli emiliani, per riverberarne lo splendore su tutti gli altri. Infatti, ha calamitato da subito Piacenza e Reggio Emilia, costituendo il distretto Emilia occidentale quale protagonista dell’operazione. Che poi Parma, tutti lo dicono en passant durante la presentazione ufficiale, Capitale lo è stata davvero (per ben 300 anni). Ma si sa, in un Paese frazionato per secoli in regni, principati, granducati e signorie, quasi ogni città italiana è stata a suo modo Capitale. Se si legge l’Europa come un continente-museo che preserva i fasti e la storia della civiltà occidentale, l’Italia è certamente il museo con più sale, più capolavori, più cimeli preziosi. 

Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna (Ansa).

L’ARTE DI ERIK SPIEKERMANN

Parma ne custodisce molti, uniti da un filo rosso che è lo spirito stesso della città, il suo entusiasmo nel mettersi in mostra, confermato dalla folla presente a Palazzo della Borsa, a Milano (sede della conferenza stampa), in cui domina quella parlata dolce e un po’ strascicata che ricorda tanto Bernardo Bertolucci, celebrato ad hoc con un video-montaggio di clip sonore tratte dai suoi film, brani di monologhi e dialoghi che fanno emozionare tutti. Sarà che tra i deus ex machina di Parma 2020 c’è il giovanissimo assessore alla Cultura Michele Guerra, docente proprio di Teoria del Cinema nell’università cittadina, colui che ha pensato e coordinato la “messa in scena” della città, brandizzata dal designer tedesco Erik Spiekermann con una grande P, che significa Parma, ma anche prosciutto, pasta, pomodori, Pilotta, Po, Parmigiano Reggiano, nonché Parmigianino, il pittore rinascimentale della Madonna dal collo lungo. «Ho 73 anni», ha detto Spiekermann, «sono in pensione. Ma quando mi hanno chiesto di lavorare a questo progetto, mi sono detto: le persone sono squisite, la città affascinante, il cibo ottimo. Perché no?».

TUTTI I PRIMATI DELLA REGIONE

Così, è partito dal giallo-Parma, colore identificativo della città, e ha disegnato una grafica che sarà declinata nelle mille iniziative previste dal fittissimo programma. I parmigiani sono pronti a ospitare con calore, gentilezza e prelibatezze alimentari, «milioni di visitatori da tutto il mondo», dicono gli organizzatori, forti del contributo delle fiorenti imprese locali, tutte coinvolte fin dal principio nella progettazione e nella realizzazione dell’evento.

nFederico Pizzarotti, sindaco di Parma. (Ansa).

Bonaccini non manca, in chiusura, di sciorinare i primati della regione che vanta: il maggior numero (44) di prodotti Igp e Dop d’Europa, per un valore di circa 3 miliardi di euro; 11 siti Unesco (Parma è Città Creativa della Gastronomia per l’Unesco). Non solo, è la prima regione italiana per export pro-capite (più di Lombardia e Veneto); vanta uno tra i migliori chef del mondo: Massimo Bottura, modenese; sono stati triplicati i fondi per la cultura in cinque anni e a breve sarà pubblicata una Lonely Planet dedicata, consacrazione internazionale che vale come ciliegina su una torta già ricca di tanti sapori. «E pensare», ha ricordato Bonaccini, «che nel Dopoguerra l’Emilia era una delle regioni più povere del Paese». Intanto, Parma si proietta già oltre, con il piano Parma 2030 per la sostenibilità. Il sindaco Federico Pizzarotti sorride e viene da pensare che proprio il sorriso sia l’arma segreta di questa città, piccola ma grande, che mentre affetta prosciutto crudo, a suo modo progetta il futuro.

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Dalle Sardine ai Nutellini: il nuovo bestiario italiano

La politica da sempre usa metafore animali. Dai falchi alle colombe, dai cianghialoni ai Trota siamo arrivati ai pesci che riempiono le piazze. Ora aspettiamo i seguaci del biscotto del momento contro i più reazionari Baiocchini.

A 160 anni esatti dalla pubblicazione de L’origine della specie di Charles Darwin (pubblicato nel novembre 1859), sembra doveroso fare il punto sul bestiario a cui è ridotta la politica italiana, attualmente suddivisa tra Sardine e gattini, o Sardine e pinguini (intesi, gattini e pinguini, essenzialmente come mangiatori di sardine).

Se qualcosa Darwin ci ha insegnato, è che gli animali sono nostri fratelli, ancorché enigmatici e senza verbo, ma ben prima di lui, dalle origini dei tempi, gli esseri umani li hanno raffigurati, temuti o adorati, popolando di bestiari i loro disegni, miti e racconti.

GLI ANIMALI DELLA POLITICA

La politica non poteva certo restare immune da metafore animali, a cominciare dalla categoria falchi e colombe che connota da sempre la contrapposizione tra cinici e buonisti. Negli Anni 70, negli Stati Uniti, furono le Pantere Nere (Black Panther) a guidare il movimento di liberazione dei neri, mentre a da noi, stessa epoca, andava di moda l’espressione cani sciolti, per dire quelli che non avevano guinzaglio, cioè padrone, cioè partito, randagi della politica, insomma, inquieti e senza una cuccia in cui riscaldarsi. Gli animali schifosi hanno avuto largo impiego nella propaganda. Gli ebrei perseguitati dai nazisti erano definiti “zecche”, ma oggi a Hong Kong, 80 anni dopo, i manifestanti sono chiamati scarafaggi, e il parallelo fa parecchia impressione. Senza dimenticare l’avversione salviniana per le zecche in questo caso rosse. Con Matteo Renzi è stata invece la volta dei gufi, coloro che a suo avviso “remavano contro”. «Alla faccia dei gufi, io dico che il Pd sarà il primo partito e il primo gruppo parlamentare: la gente quando vede gli estremisti sceglie il buonsenso», assicurava l’ex premier a febbraio 2018. E la storia non gli ha dato ragione.

UN MONDO POPOLATO DI SCIACALLI, SQUALI E IENE

Altri emblemi di negatività sono gli sciacalli che approfittano delle disgrazie altrui, così come i pescecani o squali, che popolano soprattutto il mondo della finanza. Anche le iene hanno avuto il loro momento di gloria, dal film di Tarantino alla trasmissione omonima che da anni imperversa con le sue inchieste «che non fanno sconti a nessuno». Il tapiro è diventato un premio al contrario, che punisce anziché onorare, mentre resistono come premi veri il Leone e l’Orso d’oro dei festival del cinema di Venezia e Berlino. Ciccini e rassicuranti i lupetti e le coccinelle del mondo dei boy scout, così come pure le formiche, che «nel loro piccolo si incazzano», ma non fanno male a nessuno, e anzi hanno procurato successo e denaro a chi se le è inventate.

DAL CINGHIALONE CRAXI AL TROTA BOSSI JR

Tornando alla politica, abbiamo avuto il cinghialone Craxi e più di recente il Trota, il figlio di Bossi con la laurea comprata in Albania. Adesso, sono arrivate le Sardine, emerse dalle profondità marine, dove stavano rintanate, per riversarsi sulle piazze, come grandi padelle in cui sprigionare… che cosa? Ancora non si è capito, ma è comunque energia positiva che sguazza e smuove un contesto politico opaco, incartato su se stesso, spesso desolante. Prima delle Sardine, avevamo visto le Madamine torinesi, un fenomeno locale molto bon ton, che pure aveva portato in piazza migliaia di cittadini.

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E sempre dal Piemonte potrebbero scatenarsi i Nutellini, seguaci della nuova religione biscottiera che sta invadendo l’Italia (grazie a un’operazione di marketing di proporzioni epocali). Si attende la risposta di Barilla, con i suoi Baiocchini, fazione tradizionalista e conservatrice, affezionata a biscotti molto simili a quelli sgranocchiati fin dall’infanzia. Tornando agli animali, e potendo scegliere, l’unica specie della quale, personalmente, avrei voluto far parte, sarebbe stata quella delle conigliette di Playboy. Ma la specie, purtroppo, si è estinta. 

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