L’ex ministro Bray e la cultura come mezzo di rilancio per l’Italia

Un patrimonio da valorizzare. Nonostante i pochi fondi. Mentre la spinta digitale e il crollo della lettura dei libri sono un freno al sapere. «Ma il nostro Paese può ricostruirsi un ruolo importante valorizzando le nostre capacità». L'intervista.

Massimo Bray, direttore generale della Treccani e già ministro per i Beni, le Attività culturali e il Turismo del governo presieduto da Enrico Letta, ha scritto un libro importante per questo nostro presente, un testo per molti aspetti intimo e utile a riflettere sull’importanza cruciale del patrimonio culturale italiano – inteso nella sua accezione più ampia possibile. Il titolo del volume rimanda al gesto della consultazione, della ricerca: Alla voce cultura. Diario sospeso della mia esperienza di ministro, in libreria per i tipi Manni editori.

CULTURA E CAPACITÀ DI FARE POLITICA

Spiega Bray: «Valorizzare la cultura significa sviluppare la nostra capacità di fare politica. Per decenni siamo stati capaci di ascoltare le esigenze di un quadrante fondamentale quale è l’area del Mediterraneo, facendo di tutto questo un’esperienza costruttiva per il nostro Paese. Oggi l’Italia ha smarrito questo ruolo che invece va ricostruito, sia come Paese ma anche come Unione europea».

DOMANDA. Direttore, se oggi in Italia andassimo a leggere alla voce “cultura” cosa troveremmo?
RISPOSTA. Sicuramente la presenza di un grandissimo fermento, di energie giovani che vogliono non solo difendere il nostro patrimonio artistico ma intuiscono come la cultura possa fare da collante, creare comunità, avere la forza del cambiamento. Di fronte a una crisi economica – che indubbiamente è anche una crisi di valori, come ripeto più volte nel libro – c’è una parte dell’Italia che crede di poter affidare alla cultura la capacità di una svolta antropologica che bisogna mettere in campo e mira a valorizzare non solo i monumenti ma anche le biblioteche, gli archivi, tutti quei luoghi di cui si parla troppo poco e che invece dovrebbero recuperare la storia e il ruolo importante che nel tempo hanno avuto nel nostro Paese.

Nel libro vengono citate le parole di Aldo Moro sulla «capacità creativa» degli italiani.
Leggevo qualche giorno fa gli scritti del periodo in cui Moro predispose l’insegnamento dell’Educazione civica nelle scuole – Aldo Moro insieme con Concetto Marchesi fu l’estensore dell’articolo 9 della Costituzione: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione» – e in cui riconosceva quella grande capacità della cultura di fare politica estera, andando incontro alle grandi sfide globali della sua epoca, che poi sono per altri aspetti le stesse che affrontiamo in questi anni. L’Italia quindi deve essere anche oggi capace di giocare un ruolo importante nel mondo proponendo e sviluppando un modello che sappia partire dalle fondamenta di una forte valorizzazione culturale.

Eppure assistiamo spesso a una dinamica per cui i fondi per la conservazione dei Beni culturali nel nostro Paese si fermano al Nord Italia: a malapena arrivano a Roma, raramente scendono oltre il Centro Italia, nel Meridione.
L’Italia ha pochi fondi per la cultura dappertutto. Nel libro affronto il problema di Taranto, oggi purtroppo di grande attualità. Ricordo gli sforzi per far partire il museo nazionale di Taranto, con un tessuto civico di associazioni che avevano grandi attese proprio nei confronti delle istituzioni, una tensione che sento tutt’oggi. Taranto è una città che ha bisogno di un progetto a lungo termine sia sul fronte culturale ma soprattutto relativo alla politica industriale, problema che riguarda in realtà tutto il Mezzogiorno. Un territorio in cui la popolazione da un lato invecchia e dall’altro assiste a una continua partenza dei giovani dai paesi e ha sempre meno quella energia necessaria a rilanciare il Paese. Sul Mezzogiorno è necessario un discorso corale su più aspetti.

La lettura e tanti settori della cultura oggi passano anche e soprattutto attraverso le piattaforme digitali, con la carta che sta perdendo posizioni a favore di altri supporti. Qual è il ruolo dei social e del digitale nella diffusione delle tematiche culturali in Italia?
Questo è un aspetto importante e bisogna porsi il problema di come utilizzare il mondo digitale in relazione ai contenuti. Quello che sottolineo è che non ci dobbiamo meravigliare dello strumento ma utilizzarlo al meglio, con una attenzione alla certificazione delle fonti. Ed è una capacità questa che stiamo smarrendo in molti settori della comunicazione: il rischio per il prossimo futuro è che i nostri figli studino e si informino su piattaforme digitali – web e social – i cui contenuti non sono certificati. Bisogna fare in modo di certificare ciò che si legge online. Il portale Treccani, per esempio, ha una rubrica chiamata “Una poesia al giorno” ed è visitata da moltissimi utenti. Una delle grandi scommesse del futuro sia a livello di Paese sia di Unione europea, è proprio lavorare per rendere affidabili i contenuti veicolati sul web.

Restando sui temi della lettura, oggi le statistiche dicono che sei italiani su 10 non leggono nemmeno un libro all’anno. Cosa manca? Perché questa disaffezione?
Quello della lettura è un tema importante. Ma mi domando e domando: facciamo abbastanza per far leggere? Stiamo davvero investendo nella scuola? Sento da anni ripetere in continuazione che «bisogna ripartire dalla scuola», ma nella pratica quali reali risorse stiamo dando al corpo dei docenti? Come recita la Costituzione, ai docenti è affidata la formazione dei cittadini del futuro: ma stiamo davvero dando agli insegnanti la dignità e le risorse per fare al meglio il loro mestiere? Queste sono le vere domande e non mi meraviglio se poi gli italiani leggono poco. Bisognerebbe quindi discutere di tutto questo una volta fatti questi investimenti. C’è poi un altro dato: probabilmente sta cambiando anche il modo di leggere. Adesso abbiamo i tablet e gli smartphone che sono supporti utili anche alla lettura. Ma torniamo al problema precedente sulla qualità dei contenuti online.

Nel suo libro riporta una bellissima poesia di Natalia Ginzburg scritta dopo la morte del marito, Leone. Cosa ci insegna quella generazione?
A me colpiscono le parole di Natalia Ginzburg e immagino lo strazio nell’andare a Regina Coeli e trovare Leone massacrato dalla violenza nazifascista. Quella era una generazione che affidava ai libri, alla lettura e alla cultura una nuova forma di opposizione a qualunque privazione di libertà. Era una generazione che aveva coraggio, che difendeva una grande esperienza editoriale come quella dell’Einaudi nella situazione più difficile come la privazione della libertà. Non desistevano, avevano energia, coraggio. Ed è quello di cui oggi ha bisogno questo nostro Paese per affrontare l’attuale momento di difficoltà. L’Italia ha bisogno di quegli esempi. Ovviamente si tratta di due periodi storici molto diversi ma il mio invito alle nuove generazioni è ad avere coraggio – il coraggio delle idee – a difendere le idee e portarle avanti. In fondo ho un approccio molto ottimistico nei confronti del nostro Paese.

Il momento più bello nella sua esperienza da Ministro?
La festa a Carditello, un luogo pieno di simboli e di emozioni. Fu davvero per me una emozione fortissima. Ricordo una signora che mi venne incontro dicendomi «grazie, non solo per aver recuperato la Reggia prima in completo abbandono, ma anche perché finalmente ieri al telegiornale hanno parlato bene della Terra dei Fuochi».

E il più difficile?
Il momento più complicato da affrontare: i giorni delle nomine a Pompei, perché volevo assolutamente premiare il merito, tutelare il valore dello straordinario patrimonio di Pompei; sapevo che avevamo fatto un grande progetto su quel sito archeologico ma bisognava affidarlo a mani esperte. Furono giorni tesi in cui non mi è mai mancato il sostegno di Enrico Letta che conoscevo poco e con cui approfondii il rapporto proprio durante quella esperienza. Fu una fase davvero non facile.

Un’ultima domanda: a chi è rivolto il suo libro?
Il libro mi auguro lo leggano i ragazzi e le ragazze che sono convinto sapranno ridare un ruolo a questo nostro Paese, sperando che possano capire quanto abbiamo creduto in alcuni valori forti che sono scritti nella Costituzione. Ma mi piacerebbe anche che a leggerlo fosse una classe dirigente che deve ritrovare la fiducia in se stessa e capire che non deve stare in un angolo ma venire incontro alle attese del Paese, facilitandone la capacità di fare impresa, di creare forme di solidarietà. Siamo un’Italia per tanti aspetti ricchissima di esperienza ma purtroppo spesso ripiegata su se stessa. Siamo un Paese che deve saper guardare avanti, ripartendo da quello spirito che aveva Leone Ginzburg.

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Francesca Cavallo spiega perché disobbedire è necessario

Da Greta ai ragazzi di Hong Kong fino alle Sardine, si respira nelle nuove generazioni la voglia di modificare il sistema. E di mettere in discussione il pregiudizio. Una chiacchierata con la co-autrice di Bambine ribelli ora in libreria con Elfi al quinto piano.

Nel 2017 era salita agli onori delle cronache per aver scritto insieme a Elena Favilli Storie della buonanotte per bambine ribelli, un libro per ragazzi da 470 mila copie, una vera rarità in tempi in cui un italiano su quattro afferma di non leggere.

Lei è Francesca Cavallo, nata in Italia, a Taranto, ma da anni residente negli Stati Uniti, con una vita dedicata alla scrittura. Oggi in libreria arriva il suo nuovo libro, Elfi al quinto piano, per i tipi Feltrinelli.

«A gennaio», racconta Francesca a Lettera43.it, «si è conclusa la mia avventura con le Bambine ribelli e così ho deciso di passare un periodo in Italia. Ho dovuto capire cosa volessi da me stessa».

La scrittrice Francesca Cavallo.

DOMANDA. Come è nato Elfi al quinto piano?
RISPOSTA. Un po’ per caso, a Roma, durante la scorsa primavera. Dopo aver fatto ritorno in Italia, ho deciso di prendere in affitto un appartamento a Trastevere e si trattava effettivamente di una casa al quinto piano, senza ascensore, in cima a 104 gradini. A dire il vero non avevo in mente di scrivere questa storia e menchemeno di scriverne una di finzione o di argomento natalizio. Ma la primavera non ne voleva proprio sapere di arrivare, anzi, era maggio ma era grigio e freddo. E così mi sono ritrovata in questa mansarda e sono stata ‘visitata’ da questa storia.

Un racconto natalizio un po’ atipico però…
Sì. Mi sono voluta confrontare con un genere classico, inserendo molti dei miei temi dentro un genere letterario decisamente tradizionale: protagonisti della storia sono i componenti di una famiglia omosessuale e birazziale. Ma il motore della storia non è questo…

Qual è?
La leadership morale dei bambini. In quest’ultimo periodo sta infatti accadendo un qualcosa di impensabile fino a pochissimo tempo fa: dei ragazzini riescono a far sentire la propria voce influenzando l’agenda dei governi. Penso per esempio a Greta Thunberg.

A parte Greta, che a 16 anni ha parlato addirittura alle Nazioni Unite, in questo momento si respira un certo fermento tra giovani e giovanissimi. Cosa sta accadendo?
C’è una enorme pressione a livello globale legata alla profonda insoddisfazione nei confronti delle risposte del sistema in cui viviamo: il capitalismo patriarcale. Credo che sia Greta sia i vari movimenti, dai Gilet gialli alle Sardine nate in questi giorni, al movimento di Hong-Kong premano per la ricerca e l’identificazione di una alternativa, per mettere sul campo un modo diverso di pensare il sistema in cui viviamo.

Nel suo libro si assiste a una ribellione da parte dei bambini. Cosa significa ribellarsi, disobbidire?
Disobbidienza è non dare per scontate le lezioni che ci vengono passate dai genitori, dai media, dal sistema in generale: problematizzarle, essere svegli, essere attivi e non ricettori passivi. Riflettere su quello che ascoltiamo. Problematizzare, non avere paura di fare domande. Questo significa essere disobbedienti.

Eppure Greta è stata aspramente criticata – se non sminuita – per il suo impegno. Diversi politici, giornalisti e analisti hanno contestato il presunto business di immagine nato attorno a lei.
Se non generassero questo desiderio compulsivo di riportarle alla regola, la disobbidienza e la protesta – quella profonda – non avrebbero il valore dirompente che hanno. Quando mette in crisi lo status quo la disobbidienza stimola una serie di riflessi che il sistema mette in campo per difendersi. Se una rivoluzione non incontra alcuna risposta è una rivoluzione inutile.

L’ultimo libro di Francesca Cavallo, già co-autrice di “Storie della buonanotte per bambine ribelli”.

Come disobbidiscono e come si ribellano i bambini di Elfi al quinto piano?
La storia è ambientata in una città immaginaria dove convivono famiglie di ogni tipo e dove, per tutelare la dimensione ottimale di un quieto vivere, gli abitanti si impegnano perché non succeda mai niente: hanno smesso di parlare agli estranei, le persone stanno per conto loro e questa è la ricetta per la pace sociale. In questa città si trasferisce la famiglia di Isabella e Dominic, tre giorni prima di Natale. Scelgono questa città ma quando arrivano sono stranieri, nessuno rivolge loro la parola. Eppure proprio qui incontrano una bambina disobbidiente, Olivia, una piccola inventrice che fa loro capire come sia in atto una vera e propria ribellione da parte dei bambini nei confronti del sistema. Dato che nessuno tra gli adulti comunica con il prossimo, loro aprono una radio clandestina con la quale si parlano.

Sembra una metafora dei tempi che stiamo vivendo.
Spero che il libro venga accolto non come una provocazione ma come un tentativo di raccontare a bambini e nuove generazioni una storia come un’altra che ha come protagonista una famiglia birazziale e omosessuale. Credo sia fondamentale che i più piccoli inizino a essere esposti a storie con protagonisti il più diversi possibile, anche per contrastare un domani quella retorica intrisa di odio che oggi porta molte persone in piazza. 

Insomma di strada ne resta molta da fare…
Oggi si ha paura dell’omosessualità perché è qualcosa che non si conosce: spesso le persone non essendo state esposte a storie e a vicende di questo tipo, creano e vedono nel prossimo mostri senza alcuna correlazione con la realtà.

Lei è nata a Taranto che in questo periodo è tornata sotto i riflettori per il caso Ilva. Come vede il futuro della sua città?
Taranto sarà il centro del mio tour, farò diverse presentazioni in città. È un simbolo a livello nazionale ed europeo di un modo di pensare allo sviluppo che deve essere definitvamente archiviato: qualsiasi forma di sviluppo fondato sullo sfruttamento deve essere relegata nel passato. E purtroppo nel dibattito attuale non vedo soluzioni capaci di cambiare questo stato di cose. Al centro c’è ancora il ricatto: la salute o il lavoro. Taranto è uno scandalo a livello europeo. 


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Francesca Cavallo spiega perché disobbedire è necessario

Da Greta ai ragazzi di Hong Kong fino alle Sardine, si respira nelle nuove generazioni la voglia di modificare il sistema. E di mettere in discussione il pregiudizio. Una chiacchierata con la co-autrice di Bambine ribelli ora in libreria con Elfi al quinto piano.

Nel 2017 era salita agli onori delle cronache per aver scritto insieme a Elena Favilli Storie della buonanotte per bambine ribelli, un libro per ragazzi da 470 mila copie, una vera rarità in tempi in cui un italiano su quattro afferma di non leggere.

Lei è Francesca Cavallo, nata in Italia, a Taranto, ma da anni residente negli Stati Uniti, con una vita dedicata alla scrittura. Oggi in libreria arriva il suo nuovo libro, Elfi al quinto piano, per i tipi Feltrinelli.

«A gennaio», racconta Francesca a Lettera43.it, «si è conclusa la mia avventura con le Bambine ribelli e così ho deciso di passare un periodo in Italia. Ho dovuto capire cosa volessi da me stessa».

La scrittrice Francesca Cavallo.

DOMANDA. Come è nato Elfi al quinto piano?
RISPOSTA. Un po’ per caso, a Roma, durante la scorsa primavera. Dopo aver fatto ritorno in Italia, ho deciso di prendere in affitto un appartamento a Trastevere e si trattava effettivamente di una casa al quinto piano, senza ascensore, in cima a 104 gradini. A dire il vero non avevo in mente di scrivere questa storia e menchemeno di scriverne una di finzione o di argomento natalizio. Ma la primavera non ne voleva proprio sapere di arrivare, anzi, era maggio ma era grigio e freddo. E così mi sono ritrovata in questa mansarda e sono stata ‘visitata’ da questa storia.

Un racconto natalizio un po’ atipico però…
Sì. Mi sono voluta confrontare con un genere classico, inserendo molti dei miei temi dentro un genere letterario decisamente tradizionale: protagonisti della storia sono i componenti di una famiglia omosessuale e birazziale. Ma il motore della storia non è questo…

Qual è?
La leadership morale dei bambini. In quest’ultimo periodo sta infatti accadendo un qualcosa di impensabile fino a pochissimo tempo fa: dei ragazzini riescono a far sentire la propria voce influenzando l’agenda dei governi. Penso per esempio a Greta Thunberg.

A parte Greta, che a 16 anni ha parlato addirittura alle Nazioni Unite, in questo momento si respira un certo fermento tra giovani e giovanissimi. Cosa sta accadendo?
C’è una enorme pressione a livello globale legata alla profonda insoddisfazione nei confronti delle risposte del sistema in cui viviamo: il capitalismo patriarcale. Credo che sia Greta sia i vari movimenti, dai Gilet gialli alle Sardine nate in questi giorni, al movimento di Hong-Kong premano per la ricerca e l’identificazione di una alternativa, per mettere sul campo un modo diverso di pensare il sistema in cui viviamo.

Nel suo libro si assiste a una ribellione da parte dei bambini. Cosa significa ribellarsi, disobbidire?
Disobbidienza è non dare per scontate le lezioni che ci vengono passate dai genitori, dai media, dal sistema in generale: problematizzarle, essere svegli, essere attivi e non ricettori passivi. Riflettere su quello che ascoltiamo. Problematizzare, non avere paura di fare domande. Questo significa essere disobbedienti.

Eppure Greta è stata aspramente criticata – se non sminuita – per il suo impegno. Diversi politici, giornalisti e analisti hanno contestato il presunto business di immagine nato attorno a lei.
Se non generassero questo desiderio compulsivo di riportarle alla regola, la disobbidienza e la protesta – quella profonda – non avrebbero il valore dirompente che hanno. Quando mette in crisi lo status quo la disobbidienza stimola una serie di riflessi che il sistema mette in campo per difendersi. Se una rivoluzione non incontra alcuna risposta è una rivoluzione inutile.

L’ultimo libro di Francesca Cavallo, già co-autrice di “Storie della buonanotte per bambine ribelli”.

Come disobbidiscono e come si ribellano i bambini di Elfi al quinto piano?
La storia è ambientata in una città immaginaria dove convivono famiglie di ogni tipo e dove, per tutelare la dimensione ottimale di un quieto vivere, gli abitanti si impegnano perché non succeda mai niente: hanno smesso di parlare agli estranei, le persone stanno per conto loro e questa è la ricetta per la pace sociale. In questa città si trasferisce la famiglia di Isabella e Dominic, tre giorni prima di Natale. Scelgono questa città ma quando arrivano sono stranieri, nessuno rivolge loro la parola. Eppure proprio qui incontrano una bambina disobbidiente, Olivia, una piccola inventrice che fa loro capire come sia in atto una vera e propria ribellione da parte dei bambini nei confronti del sistema. Dato che nessuno tra gli adulti comunica con il prossimo, loro aprono una radio clandestina con la quale si parlano.

Sembra una metafora dei tempi che stiamo vivendo.
Spero che il libro venga accolto non come una provocazione ma come un tentativo di raccontare a bambini e nuove generazioni una storia come un’altra che ha come protagonista una famiglia birazziale e omosessuale. Credo sia fondamentale che i più piccoli inizino a essere esposti a storie con protagonisti il più diversi possibile, anche per contrastare un domani quella retorica intrisa di odio che oggi porta molte persone in piazza. 

Insomma di strada ne resta molta da fare…
Oggi si ha paura dell’omosessualità perché è qualcosa che non si conosce: spesso le persone non essendo state esposte a storie e a vicende di questo tipo, creano e vedono nel prossimo mostri senza alcuna correlazione con la realtà.

Lei è nata a Taranto che in questo periodo è tornata sotto i riflettori per il caso Ilva. Come vede il futuro della sua città?
Taranto sarà il centro del mio tour, farò diverse presentazioni in città. È un simbolo a livello nazionale ed europeo di un modo di pensare allo sviluppo che deve essere definitvamente archiviato: qualsiasi forma di sviluppo fondato sullo sfruttamento deve essere relegata nel passato. E purtroppo nel dibattito attuale non vedo soluzioni capaci di cambiare questo stato di cose. Al centro c’è ancora il ricatto: la salute o il lavoro. Taranto è uno scandalo a livello europeo. 


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Gli intrecci tra l’omicidio di Daphne Galizia e il presunto mandante Fenech

Giro d'affari e ombre di uno degli uomini più potenti di Malta. Dagli interessi nel settore energetico al legame coi Panama Papers. Il giornalista Delia: «Questa vicenda contaminerà la politica. Il ministro Mizzi deve dimettersi».

L’hanno bloccato a bordo del suo yacht mentre stava per fuggire da Malta, pochi giorni dopo aver rassegnato le dimissioni dal board di Tumas Group. Yorgen Fenech, arrestato il 20 novembre nell’ambito delle indagini sull’omicidio della giornalista Daphne Caruana Galizia, è uno degli uomini più potenti di Malta. Figlio del businessman George Fenech e nipote di Tumas Fenech, per anni ha fatto affari in alcuni tra i settori chiave dell’economia dell’isola: turismo, gaming, ma soprattutto energia e shipping. Tumas Group è una delle società più potenti e importanti a Malta, con asset nel 2017 per oltre 350 milioni di euro.

TUMAS GROUP, ASSET MILIONARI E INTERESSI NEL SETTORE ENERGETICO

Tra i beni della società figurano la Portomaso Business Tower di Malta, il vicino hotel Hilton, il ristorante Blue Elephant e soprattutto il Portomaso Casinò, lo stesso dove venne visto Alfred De Giorgio, uno degli indagati nel processo per la morte di Caruana Galizia. Ma non è tutto. Tumas Group, infatti, fa parte del consorzio Electrogas che ha interessi nell’energia ed è in lizza per la costruzione di una centrale Lng nella località di Delimara, progetto appoggiato anche dall’attuale governo che ne fece uno dei suoi cavalli di battaglia nella campagna elettorale del 2013, sostenendo che una volta in funzione l’impianto avrebbe ridotto le tariffe dell’energia per i maltesi. A sostenere questo progetto fu l’ex ministro dell’Energia, Konrad Mizzi, mentre l’attuale primo ministro, Joseph Muscat, promise che si sarebbe dimesso se non fosse andato in porto.

Quello che da tre anni si vuole coprire è un omicidio compiuto per mettere a tacere una corruzione milionaria

Emanuel Delia, autore di Murder on the Malta Express

Daphne Caruana Galizia aveva iniziato a indagare proprio su queste società e sulle presunte tangenti pagate a due membri del governo laburista di Malta, il capo di gabinetto Keith Schembri e il ministro Mizzi. Tangenti che sarebbero passate attraverso la 17Black, società basata a Dubai – e di cui è amministratore delegato proprio Fenech -, già individuata da Daphne Caruana Galizia. «Quello che da tre anni si vuole coprire», spiega Emanuel Delia, giornalista e autore del libro-inchiesta Murder on the Malta Express. Who killed Daphne Caruana Galizia? (scritto insieme a Carlo Bonini e John Sweeney), «è un omicidio compiuto per mettere a tacere un’indagine su una corruzione milionaria».

Lo yacht intercettato il 20 novembre con a bordo Yorgen Fenech.

IL RUOLO E I TIMORI DEL TASSISTA MELVIN THEUMA

A fare il nome di Fenech è stato Melvin Theuma, un tassista che lavorava nell’hotel Hilton, di proprietà di Tumas Group, individuato già nel 2018 sia dalla polizia sia dai giornalisti di inchiesta maltesi e arrestato nei giorni scorsi. Theuma era stato citato nell’interrogatorio di uno degli indagati, Vincent Muscat, che lo aveva indicato come colui che aveva assoldato i sicari per portare a termine l’omicidio di Daphne Caruana Galizia. E Theuma si aspettava di essere arrestato, tanto da aver dettato il proprio testamento il giorno successivo al fermo dei presunti esecutori materiali del delitto.

I LEGAMI CON LO SCANDALO DEI PANAMA PAPERS

L’arresto di Fenech, prosegue Delia, «avrebbe potuto avvenire molto tempo fa, quando emerse il coinvolgimento di questo tassista. Una volta raccolta la sua testimonianza, hanno provato a ignorarla, a far passare del tempo ma già da tre o quattro mesi noi giornalisti avevamo capito cosa stava succedendo e ci eravamo resi conto che Fenech poteva essere coinvolto». L’indizio, dice Delia, è stato il riferimento alla Portomaso, società in passato vicina a Nitto Santapaola: «Adesso il governo vorrebbe che questa storia non contaminasse il mondo politico, ma è impossibile. E se anche certi personaggi del governo non sono direttamente coinvolti nell’omicidio di Daphne, è certo che ci sia una responsabilità politica cui dovrebbero rispondere. Se tre anni fa, quando emerse il coinvolgimento di Schembri e Mizzi nella questione panamense, Muscat li avesse cacciati dal governo, oggi Daphne sarebbe ancora viva». Ora, dice Delia, «il premier sta rischiando tutto, ma il suo è un governo diviso, che sta sopravvivendo».

Schembri e Mizzi? Nessuno può fargli domande se sono al potere. Dovrebbero lasciare per essere interrogati

Emanuel Delia

E proprio Joseph Muscat continua a ribadire che per il momento sono escluse le dimissioni dei suoi gregari. «È una linea che sta tenendo da tre anni», prosegue Delia, «Muscat ha garantito di propria iniziativa l’immunità all’intermediario che ha promesso di fare il nome dei mandanti, come se fosse lui stesso a condurre le indagini. La verità è che questo omicidio è nato dalle questioni relative alla 17Black e ai Panama Papers, vicende in cui sono coinvolti anche alcuni tra i nostri politici. In questo senso, dovrebbero dimettersi tutti e subito, proprio come è accaduto con il caso di Ján Kuciak (il giornalista di 27 anni ucciso in Slovacchia nel febbraio 2018, ndr)». E sull’omicidio di Daphne Caruana Galizia conclude: «Non posso affermare che Schembri e Mizzi ne sapessero qualcosa, non ho elementi. Quello che non posso tollerare però è che non lascino la poltrona: nessuno può fargli domande se sono al potere. Dovrebbero lasciare per essere interrogati».

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Il punto sulla sicurezza a bordo dei treni e nelle stazioni ferroviarie

Ogni giorno su rotaia si spostano più di 5 milioni di passeggeri. Sotto lo sguardo di 4.400 agenti PolFer. Per i sindacati ancora troppo pochi. Il punto.

Una donna in fin di vita, colpita con 15 coltellate, un viaggiatore ferito in modo più lieve e i passeggeri che alla fine riescono a bloccare l’aggressore arrestato a Bologna. Quanto avvenuto il 7 novembre a bordo del Frecciarossa Torino-Roma riporta all’attenzione il tema della sicurezza sui treni, un contesto operativo e di viaggio certamente particolare per gli spazi ridotti e il grande numero di persone a bordo. 

LEGGI ANCHE: Salvini al Viminale non ha cambiato nulla per la polizia di Stato

Che i treni possano essere obiettivi sensibili, lo dice anche la cronaca. Senza andare lontano, e solo per citarne alcuni, il 21 agosto 2015 veniva divulgata la notizia del tentativo di attentato a bordo del convoglio Thalys, in viaggio da Amsterdam a Parigi: un foreign fighter marocchino, di ritorno dalla Siria e armato di pistole e fucile da assalto, tentò di compiere una strage ma venne fermato da un gruppo di soldati americani liberi dal servizio e da alcuni passeggeri. Mentre – restando nel nostro Paese – nel 2001 un anarchico torinese lanciò una molotov a bordo dell’Eurostar Roma-Milano, poco fuori la stazione di Modena: per miracolo non ci furono morti. Ci sono poi le manomissioni agli impianti di navigazione dei treni (l’ultimo è avvenuto questa estate, sullo snodo di Rovezzano, nel Ffiorentino) o eventi di “ordinaria” delinquenza come le aggressioni nei confronti del personale delle Ferrovie e dei passeggeri. 

donna accoltellata frecciarossa
La stazione di Bologna dopo l’accoltellamento sul Frecciarossa del 7 novembre.

A VIGILARE SU TRENI E STAZIONI 4.400 AGENTI POLFER

Nel nostro Paese ogni giorno viaggiano 9 mila treni passeggeri e 800 convogli merci, su oltre 16.700 chilometri di linea, per più di 5 milioni di passeggeri. A vigilare su treni, passeggeri e stazioni, a oggi ci sono 4.400 agenti della Polizia Ferroviaria (PolFer). Non abbastanza. All’appello, secondo i sindacati, mancano infatti circa 800 agenti

SAP: «AGIAMO IN UN CONTESTO DI ISOLAMENTO»

«Il treno è un ambiente operativo certamente complesso», spiega a Lettera43.it Stefano Paolone, segretario generale del sindacato autonomo di Polizia (Sap), «perché qualsiasi cosa accada, la pattuglia a bordo non può ricevere rinforzi nella tratta di viaggio tra due stazioni ed è costretta a operare con le sole risorse a bordo, in un contesto di isolamento fino alla stazione successiva». Sul treno, aggiunge Paolone, «non è possibile utilizzare neanche lo spray al peperoncino, come PolFer chiediamo che ci venga fornito quello in gel, utilizzabile in ambienti chiusi». A breve, dice il sindacalista, in dotazione dovrebbero arrivare anche 1800 teaser, «una soluzione ottimale in un contesto come quello del treno considerando che, secondo le statistiche, su 15 interventi in cui viene estratto il teaser, 14 volte vi è desistenza da parte di chi delinque alla sola vista dello strumento». Ma all’appello secondo il Sap mancano anche i giubbetti sottocamicia di protezione, più facilmente indossabili in un contesto operativo come quello ferroviario, rispetto al più pesante giubbotto antiproiettile, e dotazioni come i guanti antitaglio.

Controlli in stazione.

I PRIMI RINFORZI IN ARRIVO A DICEMBRE

A dicembre, intanto, dovrebbero arrivare ulteriori rinforzi, ma si tratta di un incremento parziale. «A dicembre di quest’anno» conferma Paolone, «saranno assegnati a livello nazionale 35 uomini alla PolFer. La città che riceverà più agenti sarà Milano perché ha avuto l’inaugurazione della stazione di Milano Rogoredo. Un ulteriore incremento avverrà poi nell’aprile 2020, con 80 uomini: di questi, 10 andranno a Roma». All’appello a quel punto ne mancheranno però ancora quasi 700 per coprire in modo adeguato treni e posti di vigilanza.

LEGGI ANCHE: I problemi dei vigili del fuoco, dalla carenza d’organico ai mezzi inadeguati

SILP: «ANCHE LA POLFER SOFFRE LA CARENZA DI ORGANICO»

Vero è che l’episodio del Frecciarossa, spiega Daniele Tassone, segretario generale del sindacato di polizia Silp Cgil, poteva accadere in qualsiasi contesto: in una discoteca o un supermercato. «Non ha senso dal nostro punto di vista dire che quel treno avesse una particolare criticità», dice a Lettera43.it. «Alcuni treni più di altri sono presidiati dalle scorte della polizia ferroviaria: la scelta è legata a variabili come il numero di viaggiatori presenti, gli orari, le denunce di reati segnalati in quella tratta. I numeri, aggiunge Tassone, «dicono che a oggi non ci può essere una pattuglia a bordo di ogni treno o un presidio PolFer in ognuna delle 2.700 stazioni ferroviarie italiane». Questo perché la polizia ferroviaria «soffre delle carenze di organico di tutta la polizia e delle forze dell’ordine». Come ha denunciato recentemente e più volte anche il prefetto Franco Gabrielli, la polizia ha oggi poco meno di 99 mila uomini rispetto ai 117 mila previsti e ai 106 mila che poi la legge Madia ha certificato. «Nello specifico», conclude il rappresentante Silp, «occorre implementare gli uffici della PolFer nelle stazioni e nelle tratte ove il numero di viaggiatori è maggiore, tenendo conto che si tratta di una situazione in mutamento perché una tratta ferroviaria oggi frequentata domani può diventare secondaria e viceversa».

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Salvatore Settis sul destino di Venezia

La cecità di istituzioni e politica sta condannando a morte un ecosistema che va dalla Laguna ai quadri di Tiziano. Non ha dubbi lo storico dell'arte: «Ci stiamo baloccando con il Mose da 35 anni, quando senza Grandi navi qualcosa potrebbe cambiare».

I marmi della Basilica di San Marco erano appena stati restaurati dopo l’acqua alta del 30 ottobre 2018, quando la marea invase alcune decine di metri quadrati del millenario pavimento a mosaico, di fronte all’altare della Madonna Nicopeia, inondando completamente il battistero e bagnando i portoni in bronzo e le colonne. È passato un anno e San Marco è «a un passo dall’Apocalisse», come ha detto il procuratore della Basilica Pierpaolo Campostrini commentando la marea che ha coperto l’80% della città, una devastazione che ha riportato alla memoria l’Acqua Granda del 1966.

La Basilica è stata invasa dalle acque sei volte negli ultimi 1.200 anni, tre negli ultimi 20. Un dato che dà la tara sul rischio che corre la città «i cui fondali», spiega a Lettera43.it Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, già direttore della Scuola Normale di Pisa e autore del volume Se Venezia muore (Einaudi), «negli ultimi decenni sono stati scavati fino a 60 metri per far transitare petroliere e grandi navi, senza tener conto degli effetti che questo avrebbe causato sulla dinamica delle maree». 

L’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis.

DOMANDA. Eppure sembra ci si accorga delle condizioni in cui versa questa città solo adesso. 
RISPOSTA. Venezia oggi è una città stesa sul letto di morte, in agonia. E non è colpa solo dei cambiamenti climatici o del destino cinico e baro. È colpa in primis degli uomini che hanno fatto la politica nazionale, delle istituzioni internazionali come l’Unesco e non ultimo del Comune.

Cosa intende?
Negli anni c’è stata una incapacità di affrontare i problemi nel modo giusto e questo è evidente non solo da quanto abbiamo visto in questi giorni ma anche dallo svuotamento della città: nel 1955 la Venezia lagunare contava 176 mila abitanti, oggi ce sono appena 51 mila. Una città che perde abitanti è una città condannata. Si registrano circa 1000 abitanti in meno, ogni anno. A Venezia c’è una farmacia che ha un contatore luminoso che tiene conto dei nati e dei morti in città. Ebbene, quel contatore è costantemente in rosso. 

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Senza abitanti, restano in pochi a prendersi cura della città.
Esattamente. Negli anni, nonostante una situazione così allarmante, non si è fatta alcuna operazione a favore dei giovani, per ripopolare la città, o per ridurre il numero delle seconde case. A Venezia ci sono centinaia di appartamenti vuoti. Chi ha una seconda casa a Venezia ci sta mediamente due giorni e mezzo l’anno. Chi ci vive così poco, non può rendersi conto dei problemi. Mi viene in mente Woody Allen: ha un palazzo sul Canal Grande ma ci va pochissimo. Senza scomodare i grandi nomi: se una città non la si abita, come si può prendersene cura?

Un’acqua così alta non la si vedeva dal 1966.
L’Acqua Granda, come la chiamano a Venezia, del 1966, fu più alta di 10 centimetri rispetto a quanto abbiamo visto ora. E venne causata dal fatto che si decise di scavare il Canale dei Petroli, per permettere il passaggio delle petroliere dirette a Marghera. Nell’ultimo secolo non si è tenuto conto della condizione delicata di Venezia che ha un rapporto di simbiosi con la laguna: è un ecosistema di cui fanno parte pesci, alghe, vegetazioni, isole, esseri umani e monumenti. Tra un quadro di Tiziano e la Laguna c’è una continuità. Ora negli ultimi decenni si sono scavate le bocche di porto, si è passati da una profondità intorno ai 10 metri a circa 60. E questo perché? Per far transitare prima le petroliere verso Marghera, poi le Grandi navi, per permettere ai turisti di guardare piazza San Marco dall’alto. E questa è una forma di turismo vergognosa. Se mettiamo insieme tutti questi fattori ci rendiamo conto che la vera essenza di Venezia non è più curata da molto tempo.

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Quali sono gli effetti dell’acqua di mare sui Beni artistici della città?L’acqua di mare contiene salsedine, capace di corrodere e rovinare normalmente edifici e opere. A questo vanno aggiunti i rifiuti che l’acqua porta con sé, le polveri sottili. A Venezia possiamo dire che è a rischio tutto. La ragione per cui ci occupiamo della Basilica di San Marco è perché è uno dei monumenti più famosi al mondo, ma tutta la città rischia di morire. Secondo il letterato inglese John Ruskin, vissuto a metà Ottocento, la Basilica di San Marco è «il termometro del mondo». Ebbene, con questa invasione delle acque questa affermazione risulta lampante. La piazza e la Basilica sono tra le zone più soggette all’acqua alta ma tutti i monumenti e i palazzi di Venezia sono a rischio.

Nel 1955 la Venezia lagunare contava 176 mila abitanti, oggi ce sono appena 51 mila. Una città che perde abitanti è una città condannata

Gli edifici della città lagunare sorgono su palafitte che formano una vera e propria rete nel terreno e sono soggette a logoramento. Un logoramento che può certamente essere corretto ma con la dovuta manutenzione. E sono decisioni che vanno prese subito. Adesso. C’è un rapporto Unesco del 2011 che non è mai stato veramente reso pubblico, secondo cui prima del 2050 l’acqua alta a Venezia potrebbe essere perpetua e sarà necessario spostarsi e muoversi con le barche in tutta la città. Con l’innalzamento dei mari uno dei primi porti a essere danneggiati sarà proprio quello Venezia, tutto è più a rischio specialmente se è più in basso. 

Souvenir di Venezia ammassati.

Da 30 anni si parla del Mose come dell’opera che avrebbe risolto o quantomeno arginato il problema dell’acqua alta a Venezia. 
L’idea del Mose poteva forse essere una buona idea ma è finita per essere una scusa per uno straordinario episodio di corruzione. Non ho un giudizio tecnico sul Mose, però dico alcune cose: doveva essere inaugurato, lo annunciò Bettino Craxi, prima del 1995. Adesso dicono che sarà finito tra altri tre, forse cinque anni. Il costo doveva essere di circa 2 miliardi, siamo arrivati a quasi 8. Secondo un calcolo fatto da un economista come Francesco Giavazzi, di questi 8 miliardi, 2 sono finiti in corruzione. Infine, ho letto sui giornali, una parte di queste barriere sono state costruite anni fa e sarebbero già rovinate ed è possibile che quando sarà inaugurato, sarà subito necessario fare manutenzione alle paratie. E anche su questo aspetto nessuno ha dato cifre certe sui costi annui.

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Si è avuta fretta di permettere il passaggio delle Grandi navi ma non di tutelare la città
Questo governo dovrebbe avere il coraggio di nominare una commissione internazionale di altissimo livello incaricata di studiare gli atti relativi al Mose e nel giro di due mesi o tre mesi dire se quest’opera possa davvero funzionare. Ci stiamo baloccando con il Mose da 35 anni. E di contro se non transitassero più le Grandi navi, si potrebbero riportare le bocche di porto all’altezza originaria e forse qualcosa potrebbe cambiare. 

Tutti pensano agli effetti del turismo delle Grandi navi, ma non pensano all’inquinamento, al rischio che una di queste navi possa sventrare Palazzo ducale

Alcuni tra gli ultimi sindaci però sulle Grandi navi non hanno mai voluto sentire ragioni.
L’attuale sindaco di centrodestra Luigi Brugnaro è un fautore delle Grandi navi. Ma l’altro principale sponsor negli anni scorsi è stato Paolo Costa, ex sindaco che viene dal Pd. Questa armonia tra destra e sinistra ci dice molto del perché Venezia vada puntualmente sott’acqua. 

L’obiezione principale è relativa all’indotto in termini di supporto all’economia locale, creato dal turismo delle migliaia di persone che scendono dalle navi da crociera e si riversano in città. 
Tutti pensano agli effetti presunti del turismo delle Grandi navi, da cui in realtà spesso non scende nemmeno la metà dei turisti, ma non pensano all’inquinamento, al rischio che una di queste navi possa sventrare il Palazzo ducale. E anche ultimamente si è andati vicino a incidenti di questo tipo. Oggi si discute del biglietto di accesso a Venezia che considero una stupidaggine, ma non si pensa a bloccare le Grandi navi. E invece di riportare l’altezza delle bocche di porto alla profondità originaria, c’è qualcuno che vorrebbe costruire un secondo canale verso Marghera. Con tale cecità ci stanno obbligando al fatto che Venezia morirà domani.


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