I cretini dei Navigli sono una minoranza: l’Italia è altro (per fortuna)

Se da un lato assistiamo a comportamenti idioti che mettono a rischio la ripresa del Paese, dall'altro la maggior parte dei cittadini si è adattata alle nuove regole. Mentre i marchi e le aziende sono in prima linea contro la pandemia. Sostituendo a volte la politica.

Si accantona. Si mette da parte. «Fieno in cascina» come dicevano i nostri nonni. E nel frattempo, per le società quotate, ci si cautela da eventuali tentativi di takeover, proteggendo il valore delle azioni e preparandosi per eventuali operazioni straordinarie che dovessero rendersi necessarie.

Lo fa Brunello Cucinelli, lo fa Prada, lo fa Salvatore Ferragamo. Responsabilità, previdenza.

L’altra faccia della massa degli imbecilli dell’aperitivo ai Navigli senza mascherina, gli invincibili dell’idiozia, quelli che poi si lamentano che non c’è lavoro per i ggiovani quando, con il loro comportamento, rischiano di far chiudere il Paese una seconda volta e, come dice l’ufficio relazioni istituzionali di una delle tre aziende citate, questa volta sarebbe la fine.

UNA MINORANZA RISCHIA DI FARE SALTARE DEFINITIVAMENTE IL BANCO

Da una parte la riserva di birra del giovedì, lo shottino e la sigaretta da fumare passeggiando; dall’altra la riserva straordinaria. Mai come in questo momento è evidente – uso una terminologia appunto da aperitivo ai Navigli – il divario etico e culturale fra vincenti e perdenti, winner and loser; con la differenza, purtroppo, che i perdenti di oggi rischiano di portare al proprio livello anche la prima categoria e di far saltare il banco.

IN REALTÀ GLI ITALIANI SI SONO ADATTATI AL CAMBIAMENTO

Quando, nell’editoriale della scorsa settimana, ironizzavamo sulla difficoltà dell’italiano medio, in particolare di sesso maschile, di indossare correttamente i dispositivi di protezione e di rispettare il distanziamento fra persone, non immaginavamo che avremmo colto nel segno in maniera al tempo stesso così precisa e così estesa.

La zona dei Navigli, a Milano, è tornata a riempirsi (Ansa).

Ma, mentre da più parti si chiede al sindaco di Milano di costringere i vigili a pattugliare la città (grazie a un succoso accordo sindacale, da qualche anno sono stati sostanzialmente equiparati a manager e non c’è verso di farne uscire uno dall’ufficio) e a comminare multe salatissime, dalla multinazionale della comunicazione media Initiative arrivano invece dati confortanti sulle nuove abitudini degli italiani e sulle reazioni alla crisi indotta dal Covid-19. Secondo una ricerca condotta fra Uk, Francia, Italia e Usa e diffusa nelle ultime ore, la maggior parte degli italiani sembra essersi infatti adattata al cambiamento e aver introiettato le nuove regole. Non solo: trova conforto nella lettura dei giornali più di ogni altro Paese fra quelli considerati, e si tratta di un dato abbastanza incredibile, considerando che gli italiani leggono certamente meno dei francesi e degli inglesi.

L’IMPEGNO DELLE AZIENDE E DEI BRAND CONTRO LA PANDEMIA

La ricerca rileva ansia nei riguardi del futuro, ma anche grande speranza per il recupero, per la “luce in fondo al tunnel”, oltre a evidenziare grande fiducia nell’impegno delle aziende contro la pandemia. Che il 22% degli italiani si dichiari «rassicurato» per l’impegno delle società «e di come si siano attivate e riorganizzate per offrire il proprio contributo» la dice lunga sul ruolo etico che i marchi hanno acquisito nel tempo, quasi fossero un’alternativa alla politica, cioè soggetti sociali: dai dati non pare che sia stato fatto un confronto diretto fra le due realtà, ma il fatto resta significativo. Lo è soprattutto in un momento in cui il vasto pubblico dichiara di non voler spendere. Di voler accantonare quanto possibile. Deriva da questo sentimento, è evidente, la serie di campagne di solidarietà, destinate a generare sentimenti positivi, che vediamo in questo momento in televisione e sui quotidiani anche da parte di marchi noti fino a oggi per la loro insistenza sul prodotto, vedi per esempio Lavazza con il celebre discorso di Charlie Chaplin, molto favorevolmente commentata sui social in questi giorni.

Parlare di acquisti, in questo momento, è un grave errore, al punto che il team di ricercatori di Initiative segnala come i marchi che «cercano di inserirsi in modo improprio nelle conversazioni e nel dibattito attuale con l’evolversi della crisi e il lockdown provochino nelle persone reazioni negative»: addirittura al 41% in Uk, ma al 23% in Italia e al 16% in Francia. Insomma, in giro c’è voglia di responsabilità e di sicurezza. I cretini dello shottino sono una minoranza (e comunque, quando ne vedete uno, rimproveratelo).

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Col flight shaming se voli low cost sei il nuovo untore

Nel 2020 arriva un'ondata di puritanesimo ambientale: viaggiate meno, solo se necessario. Da Greta in giù, i Paesi scandinavi sono pronti a sensibilizzarci. E giudicarci. Così sentiremo molto parlare delle "impronte" che ognuno di noi lascia sulla Terra.

Anno nuovo, nuova vergogna. Credevate che quattro foto di modelle plus size avessero cancellato il body shaming, vergogna del 2019, e che per questo non ne sentiate più parlare? Macché, il bullismo contro l’estetica e il peso ponderale dei nostri simili è solo passato di moda; un argomento noioso, e se nella vostra taglia 50 non vi sentite a vostro agio sono affari vostri. Nel 2020 il comportamento scorrettissimo da non tenere, quello per il quale tutti verremo guardati male e compatiti, è il volo aereo. Il flight shaming.

SIETE DEGLI ORRENDI INQUINATORI

Siete fra quelli che 20 anni fa hanno benedetto l’avvento dei voli low cost e vi sottoponete al rito del solo-bagaglio-a-mano e ginocchia-in-bocca-causa-mancanza-di-spazio pur di trascorrere almeno due weekend al mese in una capitale europea a 40 euro? Siete degli orrendi inquinatori, esattamente come gli acquirenti compulsivi di moda low cost, il famoso fast fashion che non sa più come uscire dall’aura negativa che ormai lo circonda, schiacciato dallo stesso modello di business che l’ha lanciato. Comprate meno, comprate meglio; viaggiate meno, viaggiate solo se necessario.

RECUPERA CONSENSO IL TRASPORTO SU ROTAIA

Verrete giustificati, parzialmente, solo se salirete su un aereo per lavoro e sarete in grado di dimostrarlo: in caso contrario, tenetevi pronti ad acquistare ricchi carnet ferroviari e a esibirli non solo al controllore. Se muoversi e viaggiare è necessario, il trasporto su rotaia, il meno inquinante ancorché in Val di Susa la pensino diversamente, sta infatti recuperando quota e consensi ovunque. Di sicuro, le istituzioni nazionali non hanno pensato a questo specifico punto quando hanno ipotizzato l’acquisizione di Alitalia da parte di Ferrovie, ma dovrebbero farlo: il capitale di immagine delle seconde è destinato ad aumentare vertiginosamente, mentre quello delle compagnie aeree a declinare, anno dopo anno.

DISAPPROVAZIONE ANCHE DA PARTE DEGLI AMICI

«Nei prossimi 10 anni viaggeremo di meno», ha dichiarato al Guardian la più famosa delle analiste predittive, Li Edelkoort, segnalando che nei Paesi scandinavi, molti fra i ricchissimi hanno venduto le proprie case Oltreoceano, nei Caraibi e nelle Bahamas, perché non riuscivano a sostenere la disapprovazione dei propri amici. Sul New Yorker, una delle eredi dell’impero Disney ha raccontato di aver smesso di volare sul Boeing 737 Max di famiglia (sic) perché, mentre si allacciava la cintura «attorno al letto queen size» per un volo Los AngelesNew York in cui viaggiava da sola, si era resa conto del footprint che stava lasciando e non è riuscita a chiudere occhio.

E VOI CHE IMPRONTA LASCIATE SULLA TERRA?

Il tema di cui sentirete parlare ad libitum quest’anno è proprio il footprint, cioè l’impronta che lasciamo sulla Terra con le nostre attività ma, in realtà, anche con la nostra stessa esistenza: per produrre emissioni nocive al Pianeta non abbiamo nemmeno bisogno di salire sull’auto, come sanno tante aziende di moda che hanno preso l’abitudine di piantare un albero per ogni invitato a un qualsiasi evento che abbia comportato spostamenti ed emissioni di gas. In realtà, ci basta respirare. Tutti siamo emettitori costanti di emissioni nocive, produciamo il nostro personale Co2 (tante mogli direbbero che i loro mariti producono un Co2 speciale, particolarmente tossico, ogni sera sotto le coperte, ma lasciamo stare).

NUOVA TENDENZA DI ORIGINE SCANDINAVA

Dunque, in questa nuova ondata di puritanesimo ambientale che, per ragioni soprattutto storiche e filosofiche è guidato dai Paesi scandinavi e di cui Greta Thunberg è l’esponente più famoso, ma non certo l’unico, la bicicletta, il trasporto pubblico (purché funzionante, Roma al momento può dirsi ancora esentata), il car sharing e il turismo modello “mogli-e-buoi-dei-paesi-tuoi” saranno la grande tendenza degli anni a venire. Quando penso che, un paio di anni fa, dissi allo studente finlandese che si lamentava dello smog e della confusione di Roma senza riuscire ad apprezzarne la straordinaria ricchezza artistica di tornarsene pure nelle foreste di abeti di cui tanto sentiva la mancanza, non avevo capito di avere di fronte il nuovo Savonarola.

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Nessuno si salva da solo, nemmeno nella moda maschile

Ai piccoli nomi servono i grandi per crescere. E a questi ultimi serve un sistema compatto che garantisca loro un humus fertile per continuare a svilupparsi e anche a scippare talenti ed eccellenze, all’occorrenza.

L’unico vantaggio di avere 15670 messaggi nella memoria e 4446 mail ancora da leggere in uno solo degli account di posta elettronica di cui siamo disgraziatamente titolari è la possibilità di verificare fatti ormai remoti per la velocità e le capacità mnemoniche di oggi. Per esempio, che cosa ci venisse proposto come moda maschile di tendenza nel 2010 e 2011 attraverso i comunicati delle aziende espositrici di Pitti Uomo. La nuova edizione, la numero 97, aprirà ufficialmente domani sera, 6 gennaio, con una cena presso il Maggio Musicale Fiorentino (neanche il tempo di ammirare l’Arno, ed ecco il nuovo sovrintendente Alexander Pereira pronto a replicare la formula-Scala dell’evento sponsorizzato a go-go, nell’obiettivo di allontanare gli spettri del profondo rosso di bilancio prodotti dal mastodontico edificio): la data dimostra in via inequivocabile quanto il business conti davvero per questo settore e come i calendari internazionali se ne infischino delle “Befane”.

L’EVOLUZIONE DEL LINGUAGGIO

L’edizione di Pitti Uomo del 2010, la numero 77, venne inaugurata il 12 gennaio (si apre sempre il secondo martedì dell’anno nuovo, con cena di gala la sera precedente), prevedeva il nuovo allestimento di Patricia Urquiola nel Padiglione Centrale, concentrato sul tema dei Pop Up Store e delle “moderne combinazioni” dell’abbigliamento maschile fra i temi forti. Marina Yachting aveva allestito fra la ghiaia dell’antico forte militare un porto di derive d’epoca, e ricordiamo che accorremmo per vedere il primo Skiff inglese, (anno 1860), e il mitico Dinghy di George Cockshott, icona degli appassionati dal 1913. Il tutto era sintetizzato dalla società organizzatrice, Pitti Immagine, in un paio di pagine. Il lessico delle aziende espositrici ruotava attorno a concetti come “tradizione e innovazione”, “molteplici esigenze dell’uomo metropolitano”, “nuovo appeal in tagli classici”.

FENOMENOLOGIA DI UN GIGANTE

Essendo il linguaggio dell’edizione 97, cioè di un decennio dopo, perfino invecchiato, tanto da risultare incredibilmente ancorato agli Anni 80 (pesco a caso dalle decine di comunicati giunti in queste ore: “appeal pratico ma raffinato”, “innovazione e lusso in un unico tessuto”, “una collaborazione che stupisce e affascina”), ed essendo i giacconi impermeabili e high tech di dieci anni fa non proprio diversissimi, ecosostenibilità a parte, da quelli che ci verranno mostrati dopodomani e sui quali i più sgraneranno gli occhi come davanti a un’apparizione (la moda è business per tutti, bellezza), ci domandiamo dunque che cosa sia cambiato in un decennio di moda maschile per far sì che Pitti Uomo da Firenze sia diventato un gigante in grado di dettare legge all’intero sistema mondiale, che il suo comunicato abbia assunto le dimensioni di un saggio monografico, i suoi eventi muovano circa 20 mila persone e il presidente della Camera della Moda Carlo Capasa abbia dato fondo a tutte la propria vis diplomatica per riportare Gucci non solo a sfilare a Milano, cosa che farà il 14, ma a dividere nuovamente le presentazioni delle collezioni uomo e donna nel tentativo di difendere quella che appariva fino a ieri come la progressiva e ineluttabile estinzione del calendario milanese maschile.

LA CAPACITÀ DI FARE SPETTACOLO E CULTURA

Possiamo buttare a mare le nostre dissertazioni, più o meno competenti e dotte, sulle sfilate co-ed e sulle tante ragioni logistiche, ecologiche, industriali, commerciali, per cui le presentazioni congiunte della moda uomo e donna, lanciate cinque anni fa, avessero tanto senso (e continuiamo a pensarlo): i nostri articoli resteranno negli annali come prova, quelli sì, di un mondo che fu e di una stagione davvero finita di fronte alle esigenze di un business che, per sostenersi a moltiplicarsi in nome di quel bene superiore che è il made in Italy, deve continuare ad andare in scena il più spesso possibile e con il maggior sfarzo possibile. Le ragioni per le quali Pitti Uomo e in generale tutto il network di Pitti Immagine chiude bilanci in crescita ogni anno e sia abbastanza liquido da essersi potuto comprare a fine 2018 la Stazione Leopolda dove ogni anno Matteo Renzi organizza i propri stati generali, risiedono in questa capacità di fare spettacolo e cultura attorno alla banalità del giaccone impermeabile high tech, cioè dell’azienda che non può permettersi il geniale estensore delle cartelle stampa di Gucci e fa accorpare quattro luoghi comuni dalla nipote laureata in comunicazione, corso triennale.

BRET EASTON ELLIS DIXIT

La forza risiede nel benchmark, nel marchio di garanzia, negli eventi speciali come saranno, per questa edizione, il ritorno di Sergio Tacchini, la sfilata di Jil Sandr, brand di culto nonostante un percorso societario e commerciale non sempre semplice, le celebrazioni per il 190esimo anniversario di Woolrich, il debutto di Chiara Boni nel maschile (e se mai le sue giacche “trailblazer” dovessero “fittare” come i suoi abitini femminili e non sgualcirsi mai, darà certamente del filo da torcere ai competitor), la presentazione di un raffinato “naso” come Sileno Cheloni. Lo spostamento e l’adeguamento progressivo dell’asse del potere nella moda maschile, unico fatto davvero rilevante del decennio in Italia, dimostra senza ombra di dubbio che ai piccoli nomi servono i grandi per crescere, e che a questi ultimi serve un sistema compatto che garantisca loro un humus fertile per continuare a svilupparsi e anche a scippare talenti ed eccellenze, all’occorrenza. Per usare una di quelle formule sentimentali che piacciono tanto in questi anni e che Bret Easton Ellis ha infilzato in quella meraviglia di saggio che è Bianco, nessuno si salva da solo.

I GRANDI MARCHI A RACCOLTA

Per questo, dopo aver visto la rilevanza della settimana della moda maschile milanese assottigliarsi sempre di più, Capasa ha chiamato a raccolta i grandi marchi, le aziende potenti, mettendo a disposizione tutte le risorse di cui dispone e che non sono pochissime, e per questo ha fatto molto bene: perché la moda, più di ogni altro settore, non può permettersi di non fare sistema. Ne va dell’indotto che genera (alberghi, ristoranti, shopping, anche per gli stessi turisti, attirati ed eccitati dalla speciale “fauna” del comparto) e della sua stessa esistenza. «Caro Carlo, grazie per il tuo invito: le sfilate di Milano incarnano la forza e la bellezza del Made In Italy, rappresentano un appuntamento fondamentale per il mondo della moda e riconfermano a ogni appuntamento stagionale il ruolo fondamentale, creativo e manifatturiero, dell’Italia», scriveva il ceo di Gucci Marco Bizzarri qualche mese fa a Capasa, e non faccia specie l’evidenza che nessuno più di lui, membro del consiglio di Camera Moda e figura di spicco nel sistema mondiale, dovrebbe saperlo. Dirlo era una riconferma e un riconoscimento, e pure una certa, vogliamo dire magnanima, acquiescenza al famoso bene superiore.

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Perché l’incidente di Gaia e Camilla deve farci riflettere sulle nostre abitudini

Attraversare col rosso non è colpa del caso, però l'abbiamo fatto tutti e continuiamo a farlo. Perché è una piccola sfida. In alcuni casi un rito di passaggio.

Cecilia, un’amica delle due ragazze romane morte mentre attraversavano col semaforo rosso il punto “cieco” di corso Francia, Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli, ha raccontato a Repubblica che attraversare «a quel modo» è quasi un’abitudine e che lo fanno in tanti. «Pensi sempre: ce la farò». Farcela proprio lì è abbastanza un miracolo, e lo sa chiunque abbia percorso almeno una volta quella strada a veloce scorrimento che – non lo scriviamo per difendere Pietro Genovese, l’investitore – quasi nessuno in questo nostro Paese dove non si rispettano nemmeno le sentenze del Consiglio di Stato, percorre entro i limiti di velocità. Se Genovese avesse guidato entro i 50 chilometri orari previsti, forse sarebbe riuscito a frenare efficacemente. A 70, inchiodare è stato impossibile. Anzi, inutile. Dunque, eccoci a piangere le due ragazze imprudenti, ma anche Pietro, che paga anche per il padre famoso (è figlio del regista Paolo), purtroppo, sempre per via di questo nostro Paese a contrariis dove soldi e fama, anche di riflesso, sono un’aggravante a prescindere.

SPINTI DAL GUSTO DELLA SFIDA

Non ci è piaciuto il parroco della chiesa del Preziosissimo Sangue che nella sua omelia si è scagliato con violenza inaudita (e lessico da tv del pomeriggio) contro il guidatore come se le due vittime non fossero state, ahinoi, agenti primari di quanto è successo. E non ci piacciamo nemmeno noi stesse, vogliamo dirlo, quando, per non perdere l’unico taxi posteggiato a Chiesa Nuova, per saltarci sopra al volo, attraversiamo corso Vittorio Emanuele a cinquanta metri dal semaforo che ci garantirebbe un passaggio ipoteticamente tranquillo e protetto. Di sicuro, quel corso in centro città non è pericoloso come corso Francia, non è una strada a veloce scorrimento. Però ha tre corsie, due sensi di marcia, ci passano autobus e mostruosi car di pellegrini alti cinque metri che impediscono la visuale di chi li affianca o li segue. Nel 2018, una ragazzina che attraversava nell’esatto punto dove noi cerchiamo di compiere il salto fino al parcheggio dei taxi è stata investita e schiacciata. Dunque? Dunque ci limitiamo a percorrere i famosi cinquanta metri fino al semaforo solo in caso di pioggia o quando c’è buio pesto, meglio se in combinato disposto. Se appena intravvediamo una possibilità di farla franca, via. Quei 40 secondi in più ci paiono l’eternità, pure quando l’alternativa è l’eternità vera e propria. Abbiamo fretta? Anche, ma non solo. A guidarci verso il (possibile) disastro è il gusto della sfida, e anche un malcelato senso di onnipotenza e di invincibilità. Che sì, si può dominare con il tempo e con l’esperienza, ma che è connaturato allo spirito umano. La sfida al destino, l’autodeterminazione oltre ogni ragione, il misurarsi contro l’eterno e l’ignoto, saggiando le proprie forze.

UN RITO DI PASSAGGIO?

Nei giorni successivi all’incidente, gli stessi compagni delle due ragazze investite da Pietro Genovese hanno parlato di roulette russa. Lo hanno fatto anche i colleghi: lo facciamo per abitudine, perché il luogo comune è comodo, ma anche perché è la verità: attraversare col semaforo rosso in un punto potenzialmente mortale ha molto da spartire con il gioco, meglio se a esito potenzialmente mortale, con le sfide estreme. Leggete i testi di chi ha descritto quell’eccitazione, quella scarica di adrenalina, quel gioco a rimpiattino con la morte, e capirete benissimo perché quanto è accaduto a Gaia e Camilla forse (non) potrebbe più succedere a noi perché abbiamo imparato a scendere a patti con il nostro super io e a non sfidare troppo la nostra buona stella – si chiama senso di responsabilità e maturità – ma che il motivo per cui continuiamo a scrivere e a parlare di questo caso, a qualunque età, è perché sappiamo che il patto concluso con noi stessi non è proprio definitivo, e neanche strettissimo. Gaia e Camilla attraversavano nel «punto maledetto» perché farlo equivaleva, probabilmente, a uno dei tanti riti di passaggio che la nostra società evoluta e contemporanea ha eliminato, lasciandoli alle cosiddette “culture tribali” o “tradizionali”, ma davvero tutti noi cinquantenni o sessantenni rispettiamo fino in fondo, fino all’ultimo centimetro, il codice della strada? Facciamo i cinquanta, cento metri in più e aspettiamo diligenti il semaforo verde? E quando siamo stati a New York non ci hanno detto che è meglio attraversare Park Avenue col semaforo rosso, pur stando bene attenti, perché la luce verde non è una garanzia? Sì, ci capiterà ancora di sgarrare, di metterci alla prova ancora una volta. Sperando che ci vada bene come dice Cecilia, l’amica di Camilla: «Pensi sempre: ce la farò».

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Il nuovo lusso del Natale è stare a casa per stanchezza

Niente voli lontani verso Paesi al caldo. Dopo un anno di stress da super lavoro la tendenza chic è sedersi a tavola il 24 dicembre per rialzarsi attorno al 5 gennaio. In mezzo, due settimane di letto a guardare Netflix, dormire e giocare coi bambini. Chi ci sta?

Forse l’avrete notato, i viaggi di Natale nei Paesi caldi sono finiti anche al cinema. Il cinepanettone dell’anno è un viaggio a ritroso nel tempo siglato Ficarra e Picone, che di certo non assomiglia neanche lontanamente a quella meraviglia del Pinocchio di Matteo Garrone, ma non è nemmeno un cattivissimo film. Non che non si vada ai Caraibi o alle Maldive, naturalmente, per chi può e chi vuole e magari in un resort non troppo affollato. Ma la tendenza chic e snob del momento è un’altra e ha molto a che vedere con il suo dato sociale speculare, e cioè con un tasso di disoccupazione nazionale che, pur sceso dello 0,2% da settembre, veleggia ancora al 9,7%, uno fra i più alti di tutta Europa. Dunque, lo stress da super lavoro, e il viaggiare molto tutto l’anno per attendere ai vari impegni, si è trasformato nel segno del benessere.

AL MASSIMO SI VOLA DALLA FAMIGLIA

L’altra mattina, alla prima colazione di Natale organizzata da Diego Della Valle per i saluti di fine anno (quasi scomparse le cene e le colazioni di auguri; la brioche e il wholegrain stellati del primo mattino sono il corollario di quanto si va postulando) non si è sentito evocare un solo viaggio lontano: chi avesse preso l’aereo, l’avrebbe fatto solo per raggiungere la famiglia in Sicilia, sedersi dichiaratamente a tavola il 24 e rialzarsene attorno al 5 gennaio, giusto in tempo per sedersi alla cena di gala della nuova edizione di Pitti Uomo il 6 (lamenti pur soddisfatti d’obbligo).

ANCHE IL MONDO DELLA MODA AGOGNA IL RITORNO A CASA

Per tutti gli altri, l’orizzonte prevedeva nell’ordine: due settimane di letto a vedere serie su Netflix, o in alternativa tre sciate nella casa di famiglia in montagna, molto giocare con i bambini (sensi di colpa d’obbligo) e molto dormire. D’altronde, il mondo un po’ meno ma ancora viziatissimo della moda e del lusso, che nell’ultimo anno ha viaggiato continuamente fra New York, Parigi, Shanghai, Marrakech, Miami, Los Angeles, Roma più addentellati ed excursus, che cosa potrebbe ancora agognare se non la propria casa?

GRAZIE MILLE PER QUELLA SCATOLA DI TISANE SPECIALI

E dunque ecco i ringraziamenti affettuosissimi al department store sempre più sostenibile che ha regalato un overall raffinato in cashmere per rilassarsi, all’amica che ha esagerato con il buono per la spa di Armani, all’altro amico che ha esagerato con la scatola di tisane speciali. Se solo fino a 15 anni fa il massimo del lusso era avere tempo per sé e 10 anni fa, in piena crisi post-bolla dei mutui subprime, ricevere in dono olio e generi alimentari di prima necessità in vista di qualche guerra civile che, almeno per il momento, non pare dover scoppiare, il massimo dell’eleganza è lo stare a casa.

PERCHÉ STAYING HOME IS THE NEW GOING OUT

Come diceva il New York Times di recente, con una di quelle antitesi che in inglese riescono sempre meglio “staying home is the new going out”. Dunque, in caso doveste rimanere a casa per Natale per mancanza di fondi, sappiate che non sareste mai più chic e in tendenza. Potrete perfino vantarvi un po’.

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Le donne di successo sono definite sempre per il loro genere

Il gender gap priva le giovani di modelli di riferimento sui testi scolastici. Così quelle che ce la fanno diventano dei simboli. Sarebbe bello che non fosse più così.

«Quando sono arrivata da Dior, nessuno si domandava se avessi talento o meno. Tutti però osservavano come fossi la prima donna nominata alla direzione creativa della maison». A dire il vero lo hanno anche scritto. In tanti. Una volta ce lo disse perfino il tassista che ci accompagnava alla sfilata, aggiungendovi una punta di derisione sciovinista: «Ah, chez Dior, on avait juste besoin d’une italienne, et une femme en plus». Non abbiamo di certo mai mancato di scrivere quel che pensassimo di ogni singola collezione di Maria Grazia Chiuri, che è una manager di grande successo nonostante talvolta ci sembri che vada un po’ troppo per le spicce sull’approfondimento del pensiero creativo, ma quella volta ci accapigliammo con l’autista.

UNA “DOPPIA OFFESA”

La doppia offesa – donna, italiana – era intollerabile a prescindere. Immaginiamo che cosa debbano essere stati quei primi mesi, e che cosa debba essere tuttora, a quasi quattro anni dalla nomina, la vita “chez Dior”, e questo nonostante la grandiosa risposta al suo lavoro in termini di vendita e di notorietà del marchio. Prima di lei, e a dispetto del genio assoluto di John Galliano, Dior era un marchio amato dalle signore, relativamente difficile da portare, complesso da intelligere. Adesso, sono le ragazzine a desiderare ogni singolo abito e accessorio, a sognare Dior per la festa del diciottesimo e per il dono del compleanno, e dunque non possiamo che rallegrarci con il lavoro di Chiuri e con la guida sapientissima della maison da parte di Pietro Beccari.

LA LEZIONE DI CHIURI

Invitata per la lecture di apertura del Master in Science of Fashion dell’Università La Sapienza, di fronte agli studenti internazionali, tantissimi ed entusiasti, che affollavano l’Aula Magna di Lettere, la mattina del 13 dicembre Maria Grazia Chiuri ha parlato a lungo della barriera culturale che, di certo non solo in Italia, prevede ancora che una donna sia giudicata innanzitutto in quanto tale, cioè come portatrice e simbolo di un genere prima che, di un talento o di una professione, portando ad esempio il suo concretissimo e volenteroso contributo a un processo di cambiamento che, siamo oneste, negli ultimi 40 anni non ha fatto grandi passi avanti.

MANCANO MODELLI SUI LIBRI DI SCUOLA

In queste righe abbiamo scritto a lungo, quasi ogni settimana, delle cause di queste difficoltà, additando via via le carenze di testi scolastici che, dalle scuole elementari in poi, portino all’attenzione delle bambine e delle pre-adolescenti esempi di ruolo e modelli ai quali ispirarsi e da cui trarre forza (davvero non è pensabile che, in un panorama foltissimo di intellettuali, le uniche poetesse cinquecentesche segnalate sui testi in adozione presso i licei siano Gaspara Stampa e Veronica Franco, e quest’ultima in particolare con una strizzatina d’occhio nei riguardi della sua posizione di cortigiana), ma anche le cause per così dire endogene. Autoindotte. Il semplice fatto che le donne si mostrino, che ci mostriamo tutte, acquiescenti nei confronti di chi sottolinea che siamo «le prime» a ottenere una certa carica, e grate per averla ottenuta, di solito a carissimo prezzo: direttori creativi di quel mondo molto maschile che è l’alta moda, direttori di quotidiani, amministratori delegati di multinazionali dell’acciaio, presidenti di istituzioni fondamentali per lo sviluppo (Francesca Bria, Fondo Innovazione) o della Corte Costituzionale.

UNA PRESSIONE IN PIÙ

Ci ha colpito molto la gaffe emotiva di una donna pure fortissima come Marta Cartabia che, al momento della nomina alla massima carica giuridica nazionale, ha dichiarato di aver «rotto il vetro di cristallo»: nel piccolo qui pro quo mostrava non solo di sentire il peso del proprio ruolo, ma anche il suo portato simbolico: non era solo «il nuovo presidente della Corte Costituzionale». Era «la prima donna» ad esserlo diventato. Che è risultato importante, importantissimo. Ma lo sarà ancora di più quando non dovremo usare il marker del genere per festeggiarlo.

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La Prima della Scala ci insegna l’uso metalinguistico di Instagram

In platea, Durante l'esecuzione della Tosca, fiorivano gli spettatori col cellulare in mano. Una rappresentazione di come i social abbiano vinto sulla nostra percezione del reale.

Assistito al Terzo Atto della Tosca dall’ingresso della platea con il cappotto sul braccio, fra i cani sciolti, quelli che si erano attardati a fumare in piazza e le poverette che non avrebbero potuto fare altrimenti perché indossavano un vestito da fatina con le lucine di Natale incorporate accese e che dunque non avrebbero potuto sedersi in platea (ci siamo informate, si chiama Dvora, a Milano fa l’estetista-con-punturine, ogni anno si presenta con qualche obbrobrio addosso scatenando l’eccitazione dei fotografi e confermando così l’idea che la Prima della Scala sia un posto di sciroccate a cui nulla interessa della musica), ci siamo accorte che nessuno spegneva il cellulare.

Gli applausi per l’arrivo del presidente Sergio Mattarella.

LA CORSA AI SOCIAL DURANTE LA PRIMA

Tutti, invece, controllavano non solo i messaggi, ma anche i social. I social. Ma che cosa c’era di così impellente da controllare su Instagram, Twitter e Facebook mentre ci si trovava all’evento culturale-mondano più atteso dell’anno e sarebbe stato lecito goderselo senza pensieri? Visto che siamo curiose per natura e per mestiere, e in più eravamo seccatissime perché invece a noi quel terzo atto piace molto, volevamo godercelo anche da quella posizione precaria e aspettavamo con trepidazione “e lucevan le stelle” (purtroppo svanì anche il sogno nostro di ascoltarla cantata come si deve, Francesco Meli è un Mario Cavaradossi troppo tiepido), dopo aver segnalato ai vicini che le lucette dell’estetista, ora arrivata proprio lì accanto a noi a ridacchiare, fornivano un’illuminazione più che sufficiente per disturbare lo spettacolo, abbiamo buttato un occhio sulle schermate dei vicini più prossimi.

COME INSTAGRAM VINCE SULLA PERCEZIONE DEL REALE

Controllavano chi fosse stato ritratto, fotografato, segnalato alla Scala, cioè il luogo dove si trovavano in quel preciso momento. Ci siamo messe a sorridere anche noi, soddisfatte. Non dovevamo irritarci, ma rallegrarci, perché finalmente, dopo anni di teorie, stavamo assistendo alla perfetta mise en abyme delle potenzialità non social ma sociologiche di Instagram, alla sua vittoria sulla nostra percezione del reale. Instagram come volontà e rappresentazione, l’abisso della differipetizione, come certe fotografie di Man Ray in cui l’immagine si ripete ossessivamente, sempre più in piccolo, all’interno della prima. Lo scopo di quell’affannosa ricerca collettiva era il controllo ansioso di chi si trovasse lì con noi dei ricchi-e-famosi, se si fosse perso qualche volto e qualche immagine importante fra i tanti presenti (ci spiace per il ministro Provenzano che ha innescato l’inutile polemica contro Milano-asso-piglia-tutto-d’Italia: il 7 dicembre non mancava nessuno dei potenti di oggi e anche di ieri, vedi il povero Angelino Alfano al cui passaggio non scattano più i flash), e se ci si potesse vantare di qualcosa con gli amici, suscitare qualche commento desioso e invidioso, trarne vantaggio, schermirsi.

LA SFILATA DEI POTENTI TRA GAFFE ED ELEGANZA

Quanto a lungo hanno parlato il candidato alla presidenza di Confindustria Carlo Bonomi e Diana Bracco? Quanto era divertente vedere i cronisti incerti fra Alexander Pereira, sovrintendente uscente, e Dominique Meyer, entrante e già sostanzialmente insediato? Quanto erano davvero gentili gli scambi di cortesie fra Lella Curiel e il costumista di Tosca, Gianluca Falaschi («signora, lei ci ha insegnato l’eleganza», «ma no, bravo davvero lei, complimenti»)? E poi. Il viceministro agli Esteri Ivan Scalfarotto era davvero l’unico accompagnatore di Maria Elena Boschi, star della serata in abito-smoking di velluto nero, sottile, elegante e understated come una milanese (quanta strada ha percorso, da quel provincialissimo tailleur bluette del primo giuramento nel governo Renzi)? E com’era possibile che sessant’anni di comunismo non avessero insegnato ai ricchi ospiti cinesi dei Dolce&Gabbana che è semplicemente atroce vedere una donna farsi reggere lo strascico da una cameriera come la Liù di Turandot (e non vogliamo nemmeno commentare la cafoneria di un abito da ballo a teatro).

Ivan Scalfarotto e Maria Elena Boschi alla Prima (Foto LaPresse)

IL FILTRO DI INSTAGRAM CHE ESALTA L’INDIVIDUALISMO DI MASSA

Insomma, a tutto questo Instagram e i social servivano alla Prima, a dimostrazione che il nuovo saggio di Paolo Landi, Instagram al tramonto, a cui accennavamo la scorsa settimana, è davvero il libro del momento: la rappresentazione del nuovo mondo dell’individualismo di massa, il mondo in cui ci crediamo unici spettatori di uno spettacolo condiviso, il mondo a cui riconosciamo importanza solo attraverso il piccolo schermo del nostro smartphone. Un piccolo schermo che ci valorizza e al tempo stesso ci difende: nulla di male può davvero accaderci attraverso la distanza dell’obiettivo, a nulla possiamo credere davvero e fino in fondo, nulla ci tocca. Ed ecco, dunque, ripresa la Prima della Scala, ma anche e purtroppo tante atrocità. Il mondo reale e filtrato al tempo stesso, in cui ci pare di vivere il doppio, e che invece ci allontana sempre di più dalla realtà.

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Mi si nota di più se scompaio? Parla Margiela, il Banksy della moda

Al tempo della civiltà dell'immagine ha deciso di sparire, lasciando la sua casa di moda. Ora un documentario dà voce al più concettuale degli stilisti. E a noi offre una lezione.

Mentre aspettavamo di conoscere i risultati economici del Black Friday europeo 2019, una giornata di saldi natalizi anticipati senza che si sia speso nemmeno un euro per il tacchino di Thanksgiving, abbiamo avuto modo di apprezzare il secondo documentario prodotto su Martin Margiela, «il Banksy della moda» come ormai viene chiamato, dopo l’affascinante short movie che Alison Charnick girò nel 2015 con il sostegno di Yoox, cioè di uno dei protagonisti assoluti della corsa agli acquisti ribassati.

Una delle creazioni di Martin Margiela per la mostra “Margiela: The Hermes Years” allestita al museo delle aerti decorative di Parigi dalla primavera all’autunno 2018. (PHILIPPE LOPEZ/AFP via Getty Images)

DELL’UOMO CHE RIVOLUZIONÒ LO STILE CI RESTA SOLO LA VOCE

Se il filmato di quattro anni fa si intitolava The artist is absent, richiamo speculare alla celebre performance di Marina Abramovic, ed era affidato alle testimonianze dei giornalisti, dei critici e degli artisti che hanno collaborato a vario titolo con lo stilista che un’intera generazione di giovani conosce solo per nome, questo nuovo film diretto da Reiner Holzemer permette di ascoltare almeno la voce dell’uomo che, dopo aver rivoluzionato la moda al pari di Rei Kawakubo, nel 2009 ha lasciato la propria azienda nelle mani di Renzo Rosso ed è letteralmente sparito nel nulla.

La modella Leon Dame sulla passarella della Parigi Fashion week per la collezione Primavera – Estate 2020 di Maison Margiela (Thierry Chesnot/Getty Images)

Già lo si vedeva pochissimo prima e bisognava appostarsi fuori dai suoi uffici di Parigi per giornate intere per coglierne lo sguardo; dopo la cessione a OtB e, si dice, mesi di contrasto con mr Diesel, Margiela è diventato l’equivalente di J. Salinger, anzi peggio perché dell’autore del Giovane Holden almeno si conosceva l’indirizzo di casa, benché nessuno sia mai riuscito a varcarne il cancello. Martin Margiela in his own words è stato presentato pochi giorni fa al festival del documentario a New York (sì, insieme con Unposted, starring Chiara Ferragni, preferiremmo evitare i paragoni), e non si sa ancora se e quando farà la sua comparsa in Italia.

«L’ANONIMATO È MOLTO IMPORTANTE, MI DÀ EQUILIBRIO»

Due affermazioni del grande stilista belga, però, possono diventare oggetto di riflessione e spunti di conversazione interessanti in questi nostri tempi di social mania, di autoscatti reiterati e di caccia ai like, di questi nostri continui e festosi “Instagram al tramonto”, come da titolo del nuovo, interessantissimo saggio di Paolo Landi sull’ascesa del media più vanitoso ed esibizionista che sia mai stato inventato. Se uno degli uomini più interessanti della moda degli ultimi trent’anni dice che per lui «l’anonimato è molto importante» e che di «essere una celebrità gli è sempre importato zero», vale la pena di capire il perché. Lo spiega lui stesso, voce off di se stesso: «Mi aiuta, essere uguale a tutti gli altri, mi dà equilibrio. A me interessa che la gente ami quel che faccio, non la mia faccia».

MICHELE, PRADA, ARMANI: I POCHI CHE DICONO NO ALL’APPARIRE

Se vi sembra poco, common knowledge, provate a pensare all’evoluzione che la moda e i suoi stilisti hanno subito negli ultimi centocinquant’anni, da Charles Frederick Worth a oggi, e agli altri due documentari presentati a New York fra i tanti realizzati in questi anni: Ferragni, appunto, e Ralph Lauren. Nessuno è sfuggito, anche post mortem come Yves Saint Laurent; qualcuno ha esagerato, autocelebrandosi prima del tempo e rimettendoci le penne professionali come Frida Giannini. Tutti trascorrono il tempo fra feste, eventi, presentazioni e selfie. Fra i pochi che mantengano il basso profilo, nonostante la ricchezza della moda che costruisce, c’è Alessandro Michele. Sul suo account Instagram, Lallo25, è davvero difficile trovare selfie, ed è noto che non ami rilasciare interviste. Idem Miuccia Prada, che da sempre esce al termine delle sue sfilate quasi a mezza figura: una gamba, un braccio, la testa e via. Giorgio Armani si concede con parsimonia, pur essendo garbato e disponibilissimo con gli sconosciuti che lo fermano per strada. Per quasi tutti gli altri, la presenza sui social, gestita da account manager, oppure agli eventi del brand, proprio o di appartenenza, è diventata una parte integrante della professione e dello speciale “culto dello stilista” che va costruendosi e sviluppandosi dal giorno in cui il baffuto inglese decise che le signore della buona società parigina avrebbero dovuto indossare quello che diceva lui, e a carissimo prezzo.

DAL PRIMO BOOM DEI NOVANTA ALL’ESAURIMENTO

Dalla metà degli Anni Ottanta fino al suo primo boom, nei Novanta, e ancora oggi, il belga Margiela, di cui tanti ignorano perfino la pronuncia corretta del cognome (volendo, su Youtube trovate un divertentissimo duo che si esercita), è amatissimo nel mondo della moda per il concettualismo delle sue creazioni, che si materializza in proporzioni oversize, decostruzione, riciclo e uso totalizzante dei tessuti (fu fra i primi a mettere le cimase a vista), linee e capi “piatti”, quasi bidimensionali, oltre che per i suoi iconici stivali tabi, ispirati all’estetica giapponese. Non è un caso, infatti, che in Giappone Margiela funzioni meglio che in Italia, dove la maggior parte delle donne ama ancora presentarsi scollata-strizzata-popputa, quasi fosse un marchio di origine doc della merce, e non è affatto per caso che, dopo la sua uscita dalla Maison eponima, Rosso abbia chiamato alla direzione creativa John Galliano, un altro visionario delle proporzioni. L’etichetta bianca, senza nome, dei suoi capi, un logo-no logo fermato da quattro punti in cotone bianco, è diventata un simbolo della moda colta, raffinata, intellettuale. Da cui, però, il suo stesso interprete ha preferito staccarsi: «Sentivo troppa pressione attorno a me, ero stanco del sistema, di dover creare così tante collezioni all’anno. Mi sono ammalato. Ho avuto bisogno di un anno solo per recuperare dallo stress», dice nel documentario. Per tornare a volersi occupare di moda ne ha messi altri nove. Anche questo lo lega a Galliano: l’esaurimento.

«Senti di aver detto tutto quello che hai da dire nella moda», gli chiede il regista. «No». «Non credo che tornerò mai come direttore creativo di una maison o di un marchio, ma credo che se una grande società volesse una linea firmata da me, ecco, questo potrebbe accadere». Potrebbe essere una bella notizia, ma resta da vedere che cosa questo mondo iper connesso possa ancora volere dall’uomo scomparso. Jean Paul Gaultier, il suo boss nei primi anni di carriera, dice che «la sua capacità di sottrarsi, di non apparire, è molto potente». Ma monsieur Gaultier è un quasi settantenne che, a dispetto del proprio spirito iconoclasta, ha inevitabilmente la mentalità di un signore nato poco dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma che cosa possono pensare, i ventenni, di un uomo che produce moda concretamente astratta, rifiutandosi di spiegarla? Giocare fra assenza e presenza è l’esercizio più difficile che attende l’essere umano o, meglio, l’animale sociale, dalla nascita fino alla morte, come emerge chiaramente anche dall’ultimo saggio di Lorenza Foschini attorno al carteggio fra Marcel Proust e il musicista Reynaldo Hahn, «Il vento attraversa le nostre anime», da cui capiamo quanto fosse difficile per un presenzialista per mestiere e per passione come l’autore della Recherche saper assecondare l’esigenza di intimità e gli spazi intimi dell’amico e, per qualche anno, amante (il libro, già di successo, verrà presentato il 3 dicembre alla Società Dante Alighieri di Roma, in caso vi trovaste in città non perdetelo). Saper scomparire nella civiltà dell’immagine è un’arte ancora più sottile. E l’anonimato assoluto un lusso davvero per pochi. Adesso Margiela vuole tornare. Ma non sa come farlo senza abbattere il proprio mito.

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Tiffany è un mito appannato. E Arnault lo sa bene

Il patron del lusso ha acquistato strapagandolo il marchio reso celebre dal romanzo di Capote e dal film. Ma che negli anni ha perso il suo fascino presso i millenial riducendosi a rivenditore di oggetti per la casa e gadget d’argento per signori di mezza età.

Dopo otto anni di tentativi Bernard Arnault ha comprato Tiffany, strapagandolo, e siamo in attesa di capire che straordinaria immissione di denaro dovrà fare per recuperarne l’immagine e il posizionamento, perché dubitiamo che voglia mantenerlo nel novero del produttore di oggetti per la casa e gadget d’argento per signori di mezza età in cui è scivolato negli ultimi decenni, l’ultimo in particolare e in particolare in Europa.

UNA LEGGENDA APPANNATA

Anni di sonaglini per neonati, di medagliette a 160 euro e di tagliasigari per nostalgici hanno polverizzato lo straordinario capitale di marca dato da quel titolo letterario e geniale 50 anni fa. E i volenterosi tentativi di Daniella Vitale per rivitalizzare la marca nel Vecchio Continente fino a oggi non sono stati coronati da clamorosi successi (la chief brand officer, prima signora ai vertici di Tiffany dalla fondazione nel 1837, è arrivata nel 2017 in Fifth Avenue dalla Madison, e per la precisione da Barneys, il grande magazzino fallito, diciamo non proprio un biglietto da visita eccezionale).

UNA COLAZIONE CHE HA PERSO APPEAL

Cartier, come rilevava l’analista indiana Rhada Chahda qualche anno fa, è sinonimo di lusso nel gioiello soprattutto in Asia. Altrove, le reazioni sono “mixed”. E poi ci sono i giovani, anzi, ci sono innanzitutto loro.

Chiedete a un 20enne se abbia mai letto Colazione da Tiffany e 99 volte su 100 vi dirà di no. Di solito ignora perfino che all’origine del film vi sia un racconto. Truman Capote, il White Ball, i cigni: chi sono, anzi, chi sono stati. Anche sul celeberrimo film, che pure del racconto ha poco e niente e sembra fatto solo per soddisfare la pruderie americana degli Anni 60, le nozioni sono vaghe e confuse (il tema di fondo è quello di Peccato che sia una sgualdrina, commedia elisabettiana di John Ford, ma sfidiamo chiunque a capire dalla sceneggiatura come Audrey Hepburn si paghi gli abiti di alta sartoria).

Audrey Hepburn sul set di Colazione da Tiffany.

I MILLENNIAL NON CONOSCONO LA STORIA DEL MARCHIO NÉ IL ROMANZO

Per tutto il resto, cioè per le pietre, i gioielli, i nomi di riferimento a livello mondiale sono altri. Marilyn Monroe non lo citerebbe più prima di «Cartier» e di Harry Winston «tell me all about it».

La mappa del posizionamento mondiale della gioielleria è profondamente cambiato dai tempo dei diamanti che sono i migliori amici delle ragazze, e ai vertici di questa piramide si trovano Van Cleef&Arpels, ancora Cartier oppure, Bulgari, che in questa ultima acquisizione di Arnault entra certamente più di quanto si creda, visto che l’amministratore delegato Alessandro Bogliolo è un ex-Bulgari e due anni fa venne chiamato in Tiffany da Francesco Trapani, nipote di Paolo e Nicola Bulgari, che per molti anni guidò l’azienda di famiglia prima di cederla ad Arnault.

LA SCELTA STRATEGICA DI LVMH

Il duo Bogliolo-Trapani ha certamente favorito il deal, benché il prezzo di 135 dollari per azione pagato dal patron di Lvmh Bernard Arnault, con un premio di maggioranza di 9,5 dollari rispetto al valore di chiusura del titolo di venerdì scorso a 125,5 dollari (li pagherà cash per una transazione totale di 16,2 miliardi di dollari che verrà completata entro i primi mesi del 2020), rappresentano un prezzo amateur. Da collezionista. Per Lmvh si tratta della maggiore acquisizione mai effettuata, superiore anche all’acquisto dell’ultima quota di Christian Dior nel 2017. Addirittura superiore di tre volte rispetto a quanto pagato per rilevare Bulgari nel 2011 (4,3 miliardi di euro), quando l’approccio fu simile anche nelle tempistiche “da week end”.

TIFFANY, RICAVI IN DISCESA

«L’acquisizione di Tiffany», si legge nella nota diffusa, «rafforzerà la posizione di Lvmh nella gioielleria e aumenterà ulteriormente la sua impronta negli Stati Uniti. L’aggiunta di Tiffany trasformerà la divisione Watches & Jewelry di Lvmh e va a completare le 75 distinguished houses del gruppo», che nel settore specifico comprendono per l’appunto Bulgari, ma anche Tag Heuer, Zenith, Fred, Hublot, Chaumet. Una scelta, dunque, strategica, effettuata sia per accorciare le distanze dal gruppo Richemont (appunto Cartier e Van Cleef) sia per rafforzarsi nel segmento, fra i più profittevoli del 2018, con una crescita del 7%. Nello stesso periodo, Tiffany è andata in controtendenza; nei primi sei mesi del 2019 ha perso il 3% dei ricavi, scesi a 2,1 miliardi di dollari.

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Dietro la violenza sulle donne ci sono troppe madri sbagliate

In tante famiglie l’educazione viene differenziata per genere. Lì si piantano i semi del senso di superiorità e si rafforzano i geni dell’egoismo e del senso di possesso. I Telefoni Rosa arrivano, purtroppo, quando il danno è irrimediabile.

Per tutta la giornata di venerdì e di sabato, nelle lounge di Italo di Napoli, Roma Termini e Milano Centrale, si sono alternate professioniste, attrici e volti noti a vario titolo per posare a favore di Telefono Rosa: le immagini verranno diffuse sui social il 25 novembre, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, per accompagnare il lancio di una campagna di raccolta fondi e sensibilizzazione che durerà tutta la settimana. Con il contributo raccolto, dice la comunicazione che sostiene l’iniziativa, «Telefono Rosa potrà dare la possibilità alle donne di poter vivere al sicuro nelle case rifugio e ai loro bambini di crescere senza violenza». Tutto corretto, giusto, condivisibile.

In queste ore, qualunque quotidiano, cartaceo o online, ha portato in prima pagina i dati più recenti disponibili sulla violenza inflitta alle donne. Tutti, segnalano un’escalation, un anno dopo l’altro, una giornata dopo l’altra (ogni 15 minuti, dicono, una donna subisce una qualche forma di violenza), e la prima domanda che ci facciamo tutti, da anni, è se questi numeri indichino davvero una tendenza in aumento, nonostante le campagne di sensibilizzazione che crescono a loro volta, o se le violenze siano state sempre le stesse negli ultimi secoli, endemiche al patriarcato (una orribile, costante percentuale di schiaffi, pugni, coltellate, bruciature, pressioni psicologiche e ricatti economici che, come abbiamo avuto spesso modo di scrivere in questo spazio, sono la prima, grande arma a cui gli uomini fanno ricorso per assoggettare le proprie vittime) e che solo oggi trovino, almeno in parte, il coraggio di venire alla luce. Ce ne è venuto, fortissimo, il dubbio, di fronte alle radiografie che Maria Grazia Vantadori, chirurga e referente Casd presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale san Carlo di Milano, ha portato in mostra per Pangea onlus come la più sconvolgente, fattuale delle denunce.

NON SI PARLI DI “AMORE MALATO”

I nastrini rosa, il simbolo della conchiglia sono infatti tutte cose bellissime, poetiche ed evocative, soprattutto se aiutano a raccogliere denaro per aiutare le case famiglia che ospitano le donne in fuga; ma essere messi di fronte ai raggi X di polsi fratturati, nasi schiacciati, di un coltello fra le vertebre dorsali, lascia intendere, senza fraintendimenti, che questi non sono casi di “amore malato”, secondo il più trito e il più sbagliato lessico a cui noi giornalisti facciamo ricorso: sono tentativi, fin troppo spesso riusciti, di omicidio. Il modo in cui si forma questo desiderio di uccidere, di fare del male, di sfogare la propria violenza, di dimostrare la propria presunta superiorità, fosse anche solo nel possesso, resta in buona parte da indagare, anche se, come abbiamo avuto sempre modo di scrivere in questo spazio, le donne stesse vi contribuiscono in maniera determinante. Ne abbiamo avuto un’ennesima prova salendo sul treno che ci portava da Roma a Firenze dopo il passaggio in saletta per testimoniare a favore di Telefono Rosa.

SE I DOVERI DELL’UNO NON SONO QUELLI DELL’ALTRO

Dietro di noi è montata in carrozza una famigliola di quattro persone, nella più classica delle composizioni: mamma, papà, bambina di circa 10 anni, ragazzino di sei, forse meno. «Vale, vatti a sedere lì», ha detto la mamma alla figlia: «E tu, dove vuoi sederti?», si è rivolta al piccolo, cambiando non solo atteggiamento, ma letteralmente tono di voce. Da autoritario si è fatto mieloso. Lui si è accomodato, comunque si chiamasse, si è accomodato senza dire una parola e senza distogliere gli occhi dallo smartphone o dal giochino elettronico che aveva fra le mani. Uno dei piccoli tanti reucci di cui è popolata la nostra penisola. Quello a cui era data facoltà di scegliere, mentre alla sorella veniva chiesto di ubbidire. Ci siamo figurate la vita quotidiana nella famigliola borghese, con “Vale” che aiuta la mamma a sparecchiare e il reuccio che fa i capricci. La sensazione di onnipotenza, e in parallelo il senso di profonda frustrazione data dai possibili, e in realtà inevitabili fallimenti, anche da un semplice no, nascono in queste famiglie, nelle tante famiglie dove l’educazione viene differenziata per genere, dove i doveri dell’uno non sono quelli dell’altro, dove si piantano i semi del senso di superiorità e si rafforzano i geni dell’egoismo e del senso di possesso. I Telefoni Rosa arrivano, purtroppo, quando il danno è irrimediabile.

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Dietro la violenza sulle donne ci sono troppe madri sbagliate

In tante famiglie l’educazione viene differenziata per genere. Lì si piantano i semi del senso di superiorità e si rafforzano i geni dell’egoismo e del senso di possesso. I Telefoni Rosa arrivano, purtroppo, quando il danno è irrimediabile.

Per tutta la giornata di venerdì e di sabato, nelle lounge di Italo di Napoli, Roma Termini e Milano Centrale, si sono alternate professioniste, attrici e volti noti a vario titolo per posare a favore di Telefono Rosa: le immagini verranno diffuse sui social il 25 novembre, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, per accompagnare il lancio di una campagna di raccolta fondi e sensibilizzazione che durerà tutta la settimana. Con il contributo raccolto, dice la comunicazione che sostiene l’iniziativa, «Telefono Rosa potrà dare la possibilità alle donne di poter vivere al sicuro nelle case rifugio e ai loro bambini di crescere senza violenza». Tutto corretto, giusto, condivisibile.

In queste ore, qualunque quotidiano, cartaceo o online, ha portato in prima pagina i dati più recenti disponibili sulla violenza inflitta alle donne. Tutti, segnalano un’escalation, un anno dopo l’altro, una giornata dopo l’altra (ogni 15 minuti, dicono, una donna subisce una qualche forma di violenza), e la prima domanda che ci facciamo tutti, da anni, è se questi numeri indichino davvero una tendenza in aumento, nonostante le campagne di sensibilizzazione che crescono a loro volta, o se le violenze siano state sempre le stesse negli ultimi secoli, endemiche al patriarcato (una orribile, costante percentuale di schiaffi, pugni, coltellate, bruciature, pressioni psicologiche e ricatti economici che, come abbiamo avuto spesso modo di scrivere in questo spazio, sono la prima, grande arma a cui gli uomini fanno ricorso per assoggettare le proprie vittime) e che solo oggi trovino, almeno in parte, il coraggio di venire alla luce. Ce ne è venuto, fortissimo, il dubbio, di fronte alle radiografie che Maria Grazia Vantadori, chirurga e referente Casd presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale san Carlo di Milano, ha portato in mostra per Pangea onlus come la più sconvolgente, fattuale delle denunce.

NON SI PARLI DI “AMORE MALATO”

I nastrini rosa, il simbolo della conchiglia sono infatti tutte cose bellissime, poetiche ed evocative, soprattutto se aiutano a raccogliere denaro per aiutare le case famiglia che ospitano le donne in fuga; ma essere messi di fronte ai raggi X di polsi fratturati, nasi schiacciati, di un coltello fra le vertebre dorsali, lascia intendere, senza fraintendimenti, che questi non sono casi di “amore malato”, secondo il più trito e il più sbagliato lessico a cui noi giornalisti facciamo ricorso: sono tentativi, fin troppo spesso riusciti, di omicidio. Il modo in cui si forma questo desiderio di uccidere, di fare del male, di sfogare la propria violenza, di dimostrare la propria presunta superiorità, fosse anche solo nel possesso, resta in buona parte da indagare, anche se, come abbiamo avuto sempre modo di scrivere in questo spazio, le donne stesse vi contribuiscono in maniera determinante. Ne abbiamo avuto un’ennesima prova salendo sul treno che ci portava da Roma a Firenze dopo il passaggio in saletta per testimoniare a favore di Telefono Rosa.

SE I DOVERI DELL’UNO NON SONO QUELLI DELL’ALTRO

Dietro di noi è montata in carrozza una famigliola di quattro persone, nella più classica delle composizioni: mamma, papà, bambina di circa 10 anni, ragazzino di sei, forse meno. «Vale, vatti a sedere lì», ha detto la mamma alla figlia: «E tu, dove vuoi sederti?», si è rivolta al piccolo, cambiando non solo atteggiamento, ma letteralmente tono di voce. Da autoritario si è fatto mieloso. Lui si è accomodato, comunque si chiamasse, si è accomodato senza dire una parola e senza distogliere gli occhi dallo smartphone o dal giochino elettronico che aveva fra le mani. Uno dei piccoli tanti reucci di cui è popolata la nostra penisola. Quello a cui era data facoltà di scegliere, mentre alla sorella veniva chiesto di ubbidire. Ci siamo figurate la vita quotidiana nella famigliola borghese, con “Vale” che aiuta la mamma a sparecchiare e il reuccio che fa i capricci. La sensazione di onnipotenza, e in parallelo il senso di profonda frustrazione data dai possibili, e in realtà inevitabili fallimenti, anche da un semplice no, nascono in queste famiglie, nelle tante famiglie dove l’educazione viene differenziata per genere, dove i doveri dell’uno non sono quelli dell’altro, dove si piantano i semi del senso di superiorità e si rafforzano i geni dell’egoismo e del senso di possesso. I Telefoni Rosa arrivano, purtroppo, quando il danno è irrimediabile.

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L’Italia e quell’eccellenza nascosta nella filiera del libro

Carte, font e rilegature tra le più raffinate. Nel confezionare un oggetto che torna ad affascinare anche i più giovani siamo tra i migliori al mondo. Eppure sono in pochi a rivendicarlo.

Lo scorso 14 novembre, mentre presentava le novità e le (molte) partecipazioni dell’edizione di gennaio 2020, il direttore generale di Pitti Immagine, Agostino Poletto, ha annunciato, semi-ufficialmente perché il primo comunicato uscirà il 17, il lancio di “Testo. Come si diventa libro”, primo salone dedicato alla filiera di quel magico oggetto a cui, complice il progressivo e ormai irreversibile spostamento della lettura dei giornali su tablet e in generale il calo della stampa periodica, stanno lentamente tornando, affascinati, anche i giovani.

TRE GIORNI DI APPUNTAMENTI ALLA LEOPOLDA

Carte, inchiostri, penne, caratteri di stampa, soluzioni di alta tecnologia e di altissima manualità, lastre e ogni altra meraviglia di composizione: tre giorni dal 22 marzo, presumibilmente alla Leopolda. Non stiamo nella pelle, fosse pure il cuoio marocchino delle belle rilegature, quelle con le filettature e le incisioni in oro che certi cafoni comprano ancora al metro per adornarne la libreria e non aprono mai. Malissimo per loro perché il libro, come da radice etimologica, rende liberi (sia noi latini sia gli anglosassoni abbiamo alle origini dei sostantivi che indicano il libro la corteccia degli alberi su cui è presumibile venissero tracciati i primi segni e le prime comunicazioni scritte: la radice germanica è bok, faggio. Noi abbiamo esteso il concetto di liber alla libertà e ci piace molto) e in genere anche molto creativi.

IN ITALIA UNA TRADIZIONE SECOLARE NEL CONFEZIONAMENTO DEI LIBRI

Poche ore fa ci siamo trovati fra le mani il nuovo diario dell’anno realizzato da Christian Lacroix con inserti 3D, figure pop up, passaggi diversi di colore metallizzato sulle pagine e non lo avremmo mai riposto sullo scaffale se il costo (70 euro) non ci fosse sembrato davvero proibitivo per l’uso zero che ne avremmo fatto. Al nostro posto l’ha preso una ragazzina e ci siamo rallegrate per lei, che avrà tutte quelle pagine libere per scrivere e sognare. Noi italiani, sull’oggetto libro, siamo davvero bravissimi: quando possiamo, insistiamo sempre con la casa editrice che va pubblicandoci perché usi carte italiane, trattate come si conviene e senza sbiancatori o additivi inquinanti come avviene in Oriente, in principal modo la Cina, da dove giungono certe carte bianchissime e a grammatura 250 che alcune maison di moda – loro massima colpa – prediligono per i propri volumi perché le fotografie vi risaltano come non avverrebbe mai senza tutti quegli sbiancamenti e quelle lacche. Ormai sappiamo pochissimo sulla nostra abilità nella confezione di un libro, eppure siamo da secoli fra i migliori, insieme con i cinesi.

ALL’ORIGINE DEI FONT E DELLE STAMPE PIÙ RAFFINATE

Bibbia di Gutenberg a parte, l’Italia del Nord e del Centro (principalmente le Marche) hanno sviluppato l’oggetto-libro e la sua infinita seduzione come nessuno mai. Siamo all’origine dei font e delle stampe più raffinate, per oltre tre secoli patrimonio quasi esclusivo di Venezia, meravigliosa città martoriata dall’insipienza corrotta e il pensiero ci corre a quella meravigliosa prima edizione del Book of Snobs di William Thackeray che abbiamo sfogliato qualche settimana fa prendendolo dalla piccola biblioteca del Gritti e che speriamo non sia finito sott’acqua insieme con gli arredi e con mezza città.

IL LIBRO NON CORRE IL RISCHIO DELLA “STAMPA SESSUALIZZATA”

Venezia, città cosmopolita, dunque e ancora libera, colta e trasversale, ha dato i natali ad alcuni fra i grandissimi editori e stampatori, come Aldo Manuzio si intende, ma anche alle prime grandi scrittrici e alle prime giornaliste-direttrici di femminili, e qui arriviamo al secondo punto di queste riflessioni sulla carta stampata. Dicono le ultime classifiche sulla vendita dei magazine patinati che le testate femminili vecchia maniera, con gli argomenti “da femmine” piacciano sempre di meno. Siamo alla fine della “stampa sessualizzata”, titolava l’altro giorno la più rilevante delle testate business to business della moda, The Business of Fashion, e a guardare gli ultimi numeri di GQ Us o di testate come Vice sembra proprio che sia così. A restare attaccati al concetto del calendario maschile con la femmina nuda in allegato al numero di novembre sono rimasti solo certi personaggi residuali e un po’ macchiettistici, mentre la stragrande maggioranza delle donne cerca anche su riviste ufficialmente femminili argomenti trasversali. Noi stesse abbiamo faticato a definirci autrici, o per un lungo periodo direttrici, di testate femminili: ci sembrava, già 10 anni fa, che sessualizzare una testata fosse riduttivo, che il tal servizio di cucina potesse apparire su una rivista maschile (conosciamo un numero più elevato di bravi cuochi anche fra i nostri amici che di cuoche eccellenti) o che l’inchiesta sul razzismo potesse interessare un pubblico generale. Adesso, dicono gli osservatori che le società di ricerca di mercato stiano rivedendo i propri criteri di valutazione sull’efficacia o meno di una testata. Questo, in generale ed escludendo certi romanzetti, con il libro non succede mai.  Il libro nasce genderless. Basta che sia scritto bene.

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Una mostra celebra i palchi della Scala di Milano

Al museo del Teatro un'esposizione racconta le storie dei proprietari di quei piccoli salotti che hanno accolto anche la regina Elisabetta e Lady D.

«Piove, nevica fuori dalla Scala? Che importa/Tutta la buona compagnia è riunita in centottanta palchi del teatro», scrive Henri Beyle, Stendhal, in quel 1816 del suo viaggio più glorioso e felice in Italia, ricco di soste e ritorni nella città che preferiva a Parigi, e cioè Milano. Ogni sera, correva al Teatro alla Scala, il palcoscenico nel palcoscenico in cui vedeva rappresentata non solo tutta la buona società locale, ma la messa in scena quotidiana della vita della città, dei suoi amori e dei suoi affari. La storia dell’industriale Ziliani che si innamora della bella dama Gina, fedifraga patentata, è da leggere; un romanzo in nuce, se mai avrete tempo di scorrere quelle note, ma il motivo per cui ne scriviamo oggi è che questo breve aforisma inaugura, come un viatico, anche la mostra Nei palchi della Scala. Storie milanesi aperta l’8 novembre 2019 nel Ridotto della Scala curata da Pier Luigi Pizzi con l’intima grandeur che gli è propria (e non sembri un ossimoro, perché non lo è).

PREVISTO ANCHE UN DATABASE ONLINE

L’esposizione si inserisce in un lungo progetto di ricerca che ha unito il Teatro al Conservatorio G.Verdi e alla Biblioteca Braidense nella realizzazione di uno studio sui palchi e i palchettisti dal 1778, anno di apertura della sala che sostituiva il Regio bruciato poche stagioni prima fino al 1920, ultimo anno in cui quelle salette affacciate sul palcoscenico conservarono la proprietà privata (l’affitto non era uso, l’esproprio si rese necessario per dare nuovo ossigeno finanziario). Disponibili a chiunque sia interessato in un database online a partire dal 7 dicembre, i risultati della ricerca sono già ora visibili all’interno della mostra, ed è straordinario vedere come tutti, ma proprio tutti, cerchino nomi noti, documenti. E in un certo senso è come se stessimo insieme con i Trivulzio, i Litta, i Belgiojoso (straordinario il numero delle donne proprietarie di palchi: 308 su 1223 nomi finora censiti) i Visconti, le cui narrazioni personali si intrecciano con quelle dei patrioti italiani. E attenzione al palco numero 5, I ordine settore destro, più vicino al proscenio, detto appunto “il palco dei patrioti”: di proprietà di Vitaliano Bigli, uno dei tre cavalieri delegati a trattare a nome della Società dei Palchettisti con l’arciduca Ferdinando, il conte Firmian e il regio architetto Giuseppe Piermarini per la costruzione della Scala e della Cannobbiana, venne occupato dal pronipote Federico Confalonieri, patriota del partito degli “Italici puri” coinvolto nei moti del 1820-21 e fondatore del “Conciliatore” con Giovanni Berchet, Silvio Pellico e Luigi Porro Lambertenghi). 

OMAGGI A CURIEL, MONTALE, FRACCI E TOSCANINI

Una mostra costruita per suggestioni che al primo piano si apre con la doppia rappresentazione fotografica dello spettacolare (è proprio il caso di dirlo) abito da sera dedicato qualche stagione fa da Raffaella Curiel alla Prima del 7 dicembre di cui la sua famiglia veste buona parte delle ospiti dagli Anni ’50. L’esposizione avvolge poi il visitatore con le molte “quinte fotografiche” bellissime di Giovanni Hanninen, vere catapulte visive ad effetto tridimensionale nell’atmosfera del teatro, spettacolo della vita prima della sua rappresentazione. Lo scopo è proprio questo: avvolgere. Proteggere. Rafforzare il senso di sicurezza e di orgoglio di chi ne varca le porte di ispirazione neoclassica con le pigne beneauguranti sui maniglioni: «Un forte legame di identificazione culturale e civile», come lo definisce il sindaco Giuseppe Sala. In un montaggio fotografico ideale e fantastico dei quattro ordini, curatori e fotografo hanno inserito i volti di Eugenio Montale, grande baritono mancato (Indro Montanelli ha lasciato traccia della prima esibizione a cui assistette, nella redazione del Corriere della Sera), di Carla Fracci e Valentina Cortese, Wally e Arturo Toscanini, Anna Crespi, Vittoria Crespi Morbio e Nandi Ostali, il Quartetto Cetra del “vecchio palco della Scala”. E c’è anche Liliana Segre, tesoro protetto dalla città e forse non abbastanza dal Paese. Nella mattina di pioggia in cui la direttrice del Museo Teatrale alla Scala, Donatella Brunazzi, ha evocato Stendhal con il senso di protezione e di ristoro, di oasi, che il teatro milanese offre ai suoi visitatori, era seduta in prima fila e le era appena stato assegnata la scorta per proteggerla, lei sopravvissuta ad Auschwitz, dagli insulti e dalle minacce di morte della feccia che, sarà pure minoritaria come dice qualcuno ma in questa Italia, in questo momento, ha trovato l’humus per crescere e l’atmosfera per spandere il proprio olezzo di marciume. La senatrice era serena e garbata come sempre. Ma noi ci siamo sentiti immensamente grati di trovarci lì, in quella mattina di pioggia, asciutti e al sicuro, in mezzo alla compagnia dove tornava sempre anche Stendhal, in attesa che Napoleone, il suo generale che non gli piaceva più da tempo, scomparisse per sempre.

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Una mostra celebra i palchi della Scala di Milano

Al museo del Teatro un'esposizione racconta le storie dei proprietari di quei piccoli salotti che hanno accolto anche la regina Elisabetta e Lady D.

«Piove, nevica fuori dalla Scala? Che importa/Tutta la buona compagnia è riunita in centottanta palchi del teatro», scrive Henri Beyle, Stendhal, in quel 1816 del suo viaggio più glorioso e felice in Italia, ricco di soste e ritorni nella città che preferiva a Parigi, e cioè Milano. Ogni sera, correva al Teatro alla Scala, il palcoscenico nel palcoscenico in cui vedeva rappresentata non solo tutta la buona società locale, ma la messa in scena quotidiana della vita della città, dei suoi amori e dei suoi affari. La storia dell’industriale Ziliani che si innamora della bella dama Gina, fedifraga patentata, è da leggere; un romanzo in nuce, se mai avrete tempo di scorrere quelle note, ma il motivo per cui ne scriviamo oggi è che questo breve aforisma inaugura, come un viatico, anche la mostra Nei palchi della Scala. Storie milanesi aperta l’8 novembre 2019 nel Ridotto della Scala curata da Pier Luigi Pizzi con l’intima grandeur che gli è propria (e non sembri un ossimoro, perché non lo è).

PREVISTO ANCHE UN DATABASE ONLINE

L’esposizione si inserisce in un lungo progetto di ricerca che ha unito il Teatro al Conservatorio G.Verdi e alla Biblioteca Braidense nella realizzazione di uno studio sui palchi e i palchettisti dal 1778, anno di apertura della sala che sostituiva il Regio bruciato poche stagioni prima fino al 1920, ultimo anno in cui quelle salette affacciate sul palcoscenico conservarono la proprietà privata (l’affitto non era uso, l’esproprio si rese necessario per dare nuovo ossigeno finanziario). Disponibili a chiunque sia interessato in un database online a partire dal 7 dicembre, i risultati della ricerca sono già ora visibili all’interno della mostra, ed è straordinario vedere come tutti, ma proprio tutti, cerchino nomi noti, documenti. E in un certo senso è come se stessimo insieme con i Trivulzio, i Litta, i Belgiojoso (straordinario il numero delle donne proprietarie di palchi: 308 su 1223 nomi finora censiti) i Visconti, le cui narrazioni personali si intrecciano con quelle dei patrioti italiani. E attenzione al palco numero 5, I ordine settore destro, più vicino al proscenio, detto appunto “il palco dei patrioti”: di proprietà di Vitaliano Bigli, uno dei tre cavalieri delegati a trattare a nome della Società dei Palchettisti con l’arciduca Ferdinando, il conte Firmian e il regio architetto Giuseppe Piermarini per la costruzione della Scala e della Cannobbiana, venne occupato dal pronipote Federico Confalonieri, patriota del partito degli “Italici puri” coinvolto nei moti del 1820-21 e fondatore del “Conciliatore” con Giovanni Berchet, Silvio Pellico e Luigi Porro Lambertenghi). 

OMAGGI A CURIEL, MONTALE, FRACCI E TOSCANINI

Una mostra costruita per suggestioni che al primo piano si apre con la doppia rappresentazione fotografica dello spettacolare (è proprio il caso di dirlo) abito da sera dedicato qualche stagione fa da Raffaella Curiel alla Prima del 7 dicembre di cui la sua famiglia veste buona parte delle ospiti dagli Anni ’50. L’esposizione avvolge poi il visitatore con le molte “quinte fotografiche” bellissime di Giovanni Hanninen, vere catapulte visive ad effetto tridimensionale nell’atmosfera del teatro, spettacolo della vita prima della sua rappresentazione. Lo scopo è proprio questo: avvolgere. Proteggere. Rafforzare il senso di sicurezza e di orgoglio di chi ne varca le porte di ispirazione neoclassica con le pigne beneauguranti sui maniglioni: «Un forte legame di identificazione culturale e civile», come lo definisce il sindaco Giuseppe Sala. In un montaggio fotografico ideale e fantastico dei quattro ordini, curatori e fotografo hanno inserito i volti di Eugenio Montale, grande baritono mancato (Indro Montanelli ha lasciato traccia della prima esibizione a cui assistette, nella redazione del Corriere della Sera), di Carla Fracci e Valentina Cortese, Wally e Arturo Toscanini, Anna Crespi, Vittoria Crespi Morbio e Nandi Ostali, il Quartetto Cetra del “vecchio palco della Scala”. E c’è anche Liliana Segre, tesoro protetto dalla città e forse non abbastanza dal Paese. Nella mattina di pioggia in cui la direttrice del Museo Teatrale alla Scala, Donatella Brunazzi, ha evocato Stendhal con il senso di protezione e di ristoro, di oasi, che il teatro milanese offre ai suoi visitatori, era seduta in prima fila e le era appena stato assegnata la scorta per proteggerla, lei sopravvissuta ad Auschwitz, dagli insulti e dalle minacce di morte della feccia che, sarà pure minoritaria come dice qualcuno ma in questa Italia, in questo momento, ha trovato l’humus per crescere e l’atmosfera per spandere il proprio olezzo di marciume. La senatrice era serena e garbata come sempre. Ma noi ci siamo sentiti immensamente grati di trovarci lì, in quella mattina di pioggia, asciutti e al sicuro, in mezzo alla compagnia dove tornava sempre anche Stendhal, in attesa che Napoleone, il suo generale che non gli piaceva più da tempo, scomparisse per sempre.

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