Materiali critici, terre rare, rapporti con Cina e Usa: così l’Indonesia punta a diventare la prossima tigre asiatica

Investimenti mirati per sviluppare il business delle terre rare e dei minerali critici. Un inserimento programmato nei settori chiave dell’economia globale, in primis quello delle auto elettriche. Una posizione geografica strategica, a metà strada tra l’Oceano Indiano e il Pacifico, a due passi dal tumultuoso Mar Cinese Meridionale epicentro di possibili conflitti. L’Indonesia di Joko Widodo, presidente del quarto Paese più popoloso al mondo (273 milioni di abitanti) e prossimo alla fine del suo mandato, è questo e molto altro. È, ad esempio, la terza democrazia più grande del Pianeta dopo Stati Uniti e India, nonché una nazione desiderosa di scalare i vertici dell’economia globale. Candidandosi a essere la prossima Tigre asiatica.

Materiali critici, terre rare, rapporti con Cina e Usa: così l'Indonesia punta a diventare la prossima tigre asiatica
Il presidente dell’Indonesia Joko Widodo (getty Images).

Nel 2022 il Pil indonesiano ha segnato un +5,31 per cento, la crescita più rapida dal 2013

Già nel 2015, considerando il Pil complessivo e a parità di potere d’acquisto l’Indonesia risultava essere l’ottava economia del Pianeta. Nel 2022 ha fatto registrare un Pil pari a 1.391 miliardi di dollari, in aumento su base annua del 5,31 per cento, la crescita più rapida dal 2013. Per la cronaca, soltanto il Vietnam (+6,2 per cento) era riuscito a far meglio. Per quanto riguarda il 2023, secondo i dati riportati da BPS-Statistics Indonesia, l’economia nazionale ha continuato a crescere pur mostrando timidi segnali di rallentamento: +4,94 per cento annuo nel trimestre luglio-settembre, al di sotto della crescita del 5,17 per cento rilevata nel periodo compreso tra aprile e giugno. Sono tuttavia le proiezioni future a tratteggiare un futuro ancora più brillante per il sistema economico dell’Indonesia. Il report The Path to 2075 di Goldman Sachs, per esempio, ipotizza che Giacarta possa trasformarsi nella quarta potenza mondiale nell’arco dei prossimi 50 anni, dietro a Cina, India e Stati Uniti. La stessa banca statunitense ha inserito lo Stato indonesiano nei cosiddetti Next Eleven, ovvero gli 11 Paesi emergenti considerati ad alto potenziale di sviluppo economico mondiale grazie al binomio di stabilità politica e investimenti diretti esteri.

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Una moschea a Giacarta (Getty Images).

Dal petrolio al gas, dal gas naturale al nichel e al carbone: l’export di Giacarta

Il successo economico dell’Indonesia non è certo casuale. Il Paese dispone infatti di un numero enorme di materie prime. Dal petrolio al gas naturale, dall’olio di palma al caucciù, dal carbone al nichel rappresentano la maggior parte dell’export. Peraltro cresciuto in seguito allo scoppio della guerra in Ucraina, e di pari passo all’aumento delle tensioni internazionali. Scendendo nei dettagli, a trainare le esportazioni di Giacarta troviamo i bricchetti di carbone, con un giro d’affari annuo di circa 28,4 miliardi di dollari secondo i dati Oec e una quota pari all’11,5 percento dell’export nazionale, gas di petrolio liquefatto (8,06 miliardi, 3,25 percento), ferroleghe (7,16 miliardi, 2,89 percento), olio di palma (27,3 miliardi, 11 percento) e acciai inossidabili laminati di grandi dimensioni (6,68 miliardi, 2,7 percento). In uno scenario del genere, nel bel mezzo del braccio di ferro tra Usa e Cina, l’Indonesia è stata abile a ritagliarsi uno spazio d’azione economico, iniziando a sfruttare anche la carta delle terre rare. Secondo le stime, le riserve del Paese si aggirano sulle 300 mila tonnellate, al momento concentrate tra Bangka Belitung, Kalimantan e Sulawesi. Nel frattempo, l’Indonesia dispone già l’80 per cento dei minerali necessari per produrre batterie al litio. Per questo il governo punta a potenziare l’industria dei veicoli elettrici.

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Uno stabilimento per la lavorazione del nichel nel Sulawesi (Getty Images).

L’equidistanza tra Cina e Usa e l’incognita del futuro politico

Sul fronte politico, l’Indonesia mantiene una posizione equidistante tra Stati Uniti e Cina, attenta a non farsi risucchiare in una contesa che le farebbe smarrire ogni possibilità di guadagnarsi un posto al sole. Recentemente, prima di incontrare Xi Jinping, il presidente statunitense Joe Biden ha accolto alla Casa Bianca Widodo. Forte della presidenza indonesiana del G20 nel 2020 e di quella dell’Asean nel 2023, il leader di Giacarta ha firmato con Washington un accordo di cooperazione in materia di Difesa, consentendo così agli Usa di aggiungere un’altra intesa alla collezione dei patti stipulati con i partner asiatici per contrastare l’influenza cinese nell’Indo-Pacifico. Durante l’incontro sono stati discusse modalità per portare avanti la cooperazione sul fronte dei minerali critici, così da aprire il mercato indonesiano del nichel alle aziende Usa. Attenzione però, perché da quando Widodo è entrato in carica, la Cina è diventata il principale partner commerciale e investitore dell’Indonesia. Secondo il database Comtrade delle Nazioni Unite, le importazioni cinesi verso Giacarta sono passate da meno di 40 miliardi di dollari del 2014 a 71,32 miliardi di dollari nel 2022. Le prossime elezioni presidenziali indonesiane sono in programma il prossimo 14 febbraio. Sarà importante capire cosa avrà intenzione di fare il successore di Widodo: continuare a promuovere una sorta di terza via economica o avvicinarsi a una delle due superpotenze.

L’incontro tra Biden e Xi Jinping visto dall’Asia

Più ombre che luci. in Asia, il vertice tra Joe Biden e Xi Jinping andato in scena a San Francisco ha destato molte perplessità. Se è vero che Stati Uniti e Cina hanno ristabilito le comunicazioni militari e deciso di rafforzare la cooperazione in materia di contrasto al fentanyl, sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale e nella lotta al cambiamento climatico, è pur vero che i dossier più delicati sono rimasti, irrisolti, sul tavolo delle trattative. A partire dal futuro di Taiwan.

Taiwan, la volontà di riunificazione cinese e le resistenze di Taipei

Xi l’ha definita la questione «più pericolosa» nelle relazioni bilaterali con gli Usa e, non a caso, ha tracciato una chiara linea rossa. Da un lato, il leader cinese ha provato a rassicurare Biden, spiegando di non aver piani di imminenti aggressioni militari nei confronti di Taiwan. Dall’altro ha però chiesto all’omologo statunitense di smettere di armare l’isola. Il South China Morning Post si è concentrato sul punto citando alcuni funzionari americani. A quanto pare, Xi avrebbe rimarcato la volontà di Pechino di ottenere una riunificazione pacifica con Taipei, pur sottolineando le condizioni per cui il Dragone potrebbe usare la forza per realizzare il tanto agognato obiettivo. Secondo l’agenzia di stampa cinese Xinhua, Xi avrebbe insomma ribadito la sua posizione, dichiarando che «la Cina inevitabilmente sarà riunificata». In tutto ciò, il ministero degli Esteri taiwanese ha risposto ai commenti di Xi affermando che l’isola continuerà a rafforzare la propria capacità di difesa e a prepararsi per qualsiasi potenziale attacco da Pechino. «Non sapremo mai se la Cina attaccherà Taiwan o quando lo farà. La politica del governo è però abbastanza chiara: continueremo a rafforzare la nostra capacità di difesa», ha nel frattempo dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri taiwanese, Jeff Liu, in una conferenza stampa a Taipei.

L'incontro tra Biden e Xi Jinping visto dall'Asia
Le delegazioni cinesi e statunitensi all’incontro di San Francisco (Getty Images).

I media giapponesi e sudcoreani si concentrano sulla ripresa delle comunicazioni militari tra Usa e Cina

I media giapponesi e sudcoreani si sono invece soffermati sulla ripresa delle comunicazioni militari tra Stati Uniti e Cina. Secondo quanto riportato dall’agenzia nipponica Kyodo News, Xi avrebbe accettato di creare non meglio specificati meccanismi di dialogo tra le parti affinché le autorità della Difesa dei due Paesi possano tenere colloqui sia a livello politico che operativo. Il tutto, va da sé, per evitare il rischio di incomprensioni militari, ovvero incidenti o provocazioni nel complesso scenario dell’Indo-Pacifico che potrebbero sfociare in un conflitto aperto. Biden e Xi avrebbero inoltre accettato di aprire un canale tra il segretario alla Difesa Usa, Lloyd Austin, e la controparte cinese (in attesa di capire chi sostituirà l’epurato Li Shangfu). In particolare, quest’ultimo accordo è stato considerato significativo data la preoccupazione di Washington e dei suoi partner asiatici per le frequenti manovre pericolose di navi e aerei da guerra cinesi in vari scenari regionali. Il quotidiano sudcoreano Chosun Ilbo, pur citando la ripresa dei colloqui militari, ha sottolineato l’assenza di progressi rilevanti tra Usa e Cina. Non solo: i pochi progressi effettuati da Biden e Xi rischiano di essere messi a dura prova dalle stesse questioni che, nel corso degli ultimi anni, hanno portato i due Paesi sull’orlo di una guerra.

L'incontro tra Biden e Xi Jinping visto dall'Asia
Bandiere degli Usa e della Cina esposte a San Francisco (Getty Images).

L’incontro di San Francisco visto dalla Cina

Diversa, invece, è la ricostruzione dell’incontro Xi-Biden offerta dai media cinesi. Il Global Times ha evidenziato l’ospitalità e il rispetto che gli Usa hanno mostrato nell’accoglienza riservata a Xi: «La cerimonia di benvenuto prima del vertice è stata breve, ma ha mostrato segni di scrupolosa preparazione» e «(la scelta di un luogo separato diverso dalla sala conferenze dell’Apec) indica che gli Stati Uniti hanno attribuito un alto grado di importanza all’incontro». Il Quotidiano del popolo, il principale quotidiano cinese, ha dedicato ampio risalto al vertice tra i due leader, rimarcando le questioni strategiche affrontate da Biden e Xi definite cruciali non solo per le relazioni tra Cina e Usa ma anche per il mondo intero. La narrazione offerta dai media di Pechino segue tuttavia lo stesso copione, con il leader cinese descritto desideroso di tracciare un percorso di pace e prosperità per attenuare le tensioni con gli Stati Uniti. Sotto la superficie emergono però questioni irrisolte e dossier scottanti. Gli stessi che preoccupano gli alleati asiatici di Washington.