Dopo tanti fallimenti le lobby aspettano (ancora) una legge

Da anni si cerca di normare i rapporti tra i portatori di interesse e i decisori istituzionali ma mai nessuna proposta di legge ha concluso il suo iter. Ad oggi, sono tre le iniziative legislative al vaglio del parlamento che fanno riaccendere la speranza a tutti gli esperti del settore.

Nuovo anno, stesse tematiche: i nodi relativi al dibattito sulla regolamentazione della rappresentanza di interessi sembrano ben lontani dall’essere sciolti. In un contesto in cui diventa sempre più difficile per i politici prescindere dall’aiuto e dalle competenze dei portatori di interessi, i termini lobby e lobbista, in Italia rimangono ancora avvolti da un alone di mistero.

Eppure, già nell’America degli Anni 60, sotto la presidenza Kennedy, i lobbisti erano considerati professionisti che in «10 minuti e cinque fogli di carta» riuscivano a portare all’attenzione dei decisori le istanze di determinate categorie. Alla luce di questa profonda lacuna che caratterizza il nostro Paese rispetto ad altri, come scrivevo su questa stessa rubrica quasi due anni fa, una chiara ed efficiente regolamentazione del rapporto tra decisori pubblici e lobbisti risulta essere fondamentale e necessaria.

Questa, infatti, non può rimanere nelle mani di singole iniziative politiche, che rischiano di trovare soluzioni estemporanee e poco stringenti, tanto più che nell’approvare il reato di traffico di influenza il parlamento si impegnò, e siamo nel 2012, a varare rapidamente una legge di regolamentazione della lobby, proprio per distinguere in modo chiaro il lavoro proprio da quello improprio.

L’ITALIA HA ANCORA PREGIUDIZI NEI CONFRONTI DEI LOBBISTI

Nel corso di questi anni, nonostante persistano i pregiudizi nei confronti dei lobbisti, sembra che qualcosa, anche in Italia, stia iniziando a cambiare. Infatti, se da un lato il termine lobbying non gode ancora di un adeguato riconoscimento, l’espressione Public Affairs va sempre più diffondendosi e registra un costante aumento di interesse nei confronti dei media e del pubblico poiché considerata meno ambigua e più politically correct. Ma ciò non basta. È evidente che l’incertezza normativa in cui verte il settore rappresenti un dato sconfortante nei confronti del funzionamento democratico del Paese e incida in negativo sul valore strategico delle policy adottate.

È necessario che anche i lobbisti e le istituzioni pubbliche e private si impegnino a migliorare le proprie azioni

Come ho avuto modo di ribadire più volte, anche nel mio nuovo libro Comunicazione integrata e reputation management (Luiss Press University, 2019), l’Italia risulta essere il fanalino di coda dell’Europa in termine di trasparenza delle istituzioni, di qualità della legislazione, di partecipazione ai processi decisionali e di lotta alla corruzione. Sin dal 2014, l’analisi condotta da Transparency International-Italia nello studio Lobbying e democrazia. La rappresentanza degli interessi in Italia conferisce al nostro Paese un avvilente punteggio di 20 su 100.

Sono i cittadini, insieme ai professionisti del settore, a pagare l’incapacità di colmare questo vuoto legislativo, rendendo la partecipazione alla vita pubblica sempre più controversa. Alla luce di ciò, è necessario che anche i lobbisti e le istituzioni pubbliche e private si impegnino a migliorare le proprie azioni e i propri mezzi di comunicazione per interpretare e rispondere alle esigenze del nuovo contesto nel migliore dei modi.

TANTI TENTATIVI, POCHE AZIONI CONCRETE

I tentativi di disciplinare in modo onnicomprensivo i rapporti tra portatori di interessi e decisori pubblici sono, a oggi, oltre 65: il primo risale addirittura all’VIII legislatura quando è stata presentata al Senato della Repubblica, nel 1979, la proposta di legge Riconoscimento delle attività professionali di relazioni pubbliche a firma dei senatori democristiani Salerno, De Zan, Carollo e Mezzapesa, mai discussa. Ulteriori proposte di legge, talvolta neppure esaminate, sono state poi depositate nel corso di tutte le successive legislature. Gli stessi governi che si sono susseguiti hanno manifestato la necessità di regolamentare il lavoro dei lobbisti, in particolare attraverso la presentazione del disegno di legge del presidente del Consiglio Romano Prodi e del ministro per l’Attuazione del programma di governo Giulio Santagata; l’introduzione del reato di traffico di influenze illecite (nell’ambito della cosiddetta legge Severino) durante il Governo Monti, d ulteriori tentativi di disciplinare l’attività di rappresentanza degli interessi nel corso degli esecutivi guidati da Enrico Letta e Matteo Renzi.

TRE PROPOSTE DI LEGGE IN DISCUSSIONE DALL’11 DICEMBRE

Nonostante questo, il quadro normativo risulta essere molto frammentato. Se alla Camera, da quasi due anni, è stato istituito un registro pubblico dei lobbisti, che regola l’accesso alle stanze di Montecitorio, non è accaduto lo stesso al Senato. Esistono poi le iniziative di singoli ministri che, negli anni, hanno istituito registri e agende per la trasparenza, talvolta disattese dai loro successori. Tale assetto, non interessando l’intero perimetro delle istituzioni e non attribuendo pari dignità e grado a tutti gli attori del processo decisionale, ha determinato delle asimmetrie che non sono certamente di buon auspicio. Tuttavia, qualcosa dalla pubblicazione del mio ultimo articolo sulla questione sta cambiando. Da marzo 2018, nel corso della XVIII legislatura, sono state presentate ben nove proposte di legge in materia, di cui sei al Senato e tre alla Camera. L’11 dicembre scorso è iniziato, presso la I Commissione Affari Costituzionali, l’iter per la discussione di quelle alla Camera a firma di Fracesco Silvestri del Movimento 5 stelle, Silvia Fregolent di Italia viva e Marianna Madia del Partito democratico.

OLTRE ALLA REGOLAMENTAZIONE SI CAMBINO STRATEGIE DI COMUNICAZIONE

In linea generale, seppur con modalità talvolta diverse, i tre progetti di legge in questione intendono favorire la trasparenza e la partecipazione ordinata ai processi decisionali, migliorare la qualità della legislazione e prevenire episodi di corruzione. È previsto l’obbligo di iscrizione a un Registro ad accesso pubblico, che ogni lobbista dovrà aggiornare con l’agenda dettagliata dei propri incontri, un Codice deontologico in cui sono elencate le modalità di comportamento e un organo di sorveglianza ad hoc.

Bisogna garantire un flusso trasparente della comunicazione tra cittadini e istituzioni

Le proposte contemplano anche la possibilità di svolgere pubbliche consultazioni e relative norme sanzionatorie, che vanno dall’ammonizione alla cancellazione dal Registro e individuano, inoltre, alcuni casi di esclusione e incompatibilità, in particolare per giornalisti, rappresentanti dei governi e dei partiti o movimenti politici, esponenti di organizzazioni sindacali e imprenditoriali connessi alla contrattazione. Quel che è certo è che, se i lobbisti e gli esperti del settore sono pronti ad accogliere una precisa regolamentazione, devono anche essere disposti a impostare strategie di comunicazione multidirezionali, efficaci ed innovative per garantire un flusso trasparente della comunicazione tra cittadini e istituzioni. Che il nuovo decennio porti fortuna?

Gianluca Comin è professore di Strategie di Comunicazione, Luiss, Roma.

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La bulimia di like può inghiottire i creativi

Travolti dalla fretta e dalla fame di seguito, rischiano di diventare vittime di Instagram. Perdendo innovazione ed estro. Qualche consiglio da tenere a mente.

Che i social media abbiano rivoluzionato e complicato la nostra vita è, oramai, cosa nota. Come abbiamo raccontato insieme ad altri autori nel mio nuovo libro Comunicazione integrata e reputation management, dal 1997, anno del lancio del primo social media nella storia, Sixdegrees.com, le “reti sociali” hanno fatto molta strada. Attualmente, la classifica mondiale dei social media, secondo quanto redatto dal sito Statista, vede al primo posto Facebook con oltre 2 miliardi di utenti. A seguire, Youtube (1,9 miliardi), WeChat (1,1 miliardi) e Instagram (1 miliardo). Sopra il miliardo di utenti si trovano anche i servizi di messaggistica, oramai indispensabili anche per la comunicazione lavorativa, come WhatsApp (1,5 miliardi) e Facebook Messenger (1,3 miliardi).

OLTRE AL NUMERO DI UTENTI C’È DI PIÙ

Il numero degli utenti è certamente un indicatore cruciale per comprendere il peso dei social network, ma non è l’unico elemento da tenere in considerazione per comprenderne il funzionamento e il ruolo all’interno del mondo virtuale. Infatti, è essenziale tenere a mente che, ad ogni social, corrisponde un preciso pubblico di riferimento. La diversificazione rappresenta la forza di queste piattaforme e ne garantisce la sopravvivenza e la coesistenza.

Instagram non solo ha rivoluzionato il nostro modo di comunicare, ma ha anche sfidato, a colpi di foto, stories e like, modelli consolidati, quali il ruolo delle figure professionali esistenti

In particolare, Instagram non solo ha rivoluzionato il nostro modo di comunicare, ma ha anche sfidato, a colpi di foto, stories e like, modelli consolidati, quali il ruolo delle figure professionali esistenti. Il social ha infatti permesso il consolidamento del ruolo e della figura dell’influencer. Questa è una persona in grado di influenzare le scelte degli altri attraverso la condivisione e la sponsorizzazione di prodotti e idee. Spesso gli influencer sono scelti da agenzie che coordinano le loro attività e dicono loro come e quando postare i contenuti sponsorizzati. Infatti, brand famosi si rivolgono a queste figure del web per chiedere di fare spazio ai loro prodotti nei post su Instagram. L’influencer sta diventando, dunque, un vero e proprio lavoro. Non a caso, come abbiamo avuto modo di analizzare negli articoli precedenti, è stato predisposto un programma universitario dedicato alla preparazione di queste figure in grado di esercitare la propria attività in maniera professionale. Incrementando notevolmente l’ambizione di piacere agli altri, gli influencer devono trovare ogni giorno un modo di raccontare la vita in modo personale, rendendo intorno a sé tutto perfetto e, appunto, “instagrammabile”. Dalla cucina, al design, al marketing, gli influencer hanno cambiato il modo di esercitare alcune professioni, tra cui quelle del designer e del creativo.

LA “VETRINIZZAZIONE” DEI CREATIVI

La pratica della “vetrinizzazione”, che Instagram ha portato ai suoi massimi livelli, può essere sfruttata dai creativi. Infatti, se da un lato l’influencer si rivolge al personal trainer, al chirurgo plastico o all’esperto di Photoshop per migliorare il proprio aspetto e aumentare la propria visibilità, dall’altro il designer può progettare senza avere necessariamente bisogno di creare. Secondo Vanni Codeluppi, sociologo italiano studioso dei fenomeni comunicativi, il cui pensiero è stato riportato in un articolo di Exibart, con l’avvento delle piattaforme relazionali, nelle alte sfere della creatività e della progettazione, si può esibire soprattutto quello che non c’è. Al giorno d’oggi, non è più necessario produrre per esibire e fare profitto: nell’età di Instagram, tecniche avanzate come il rendering permettono di creare un progetto la cui essenza risiede nell’esistenza sul social.

INGHIOTTITI DALLA FAME DI LIKE

In conclusione, la bulimia di like e di esibizionismo degli influencer su Instagram ha colpito anche designer e creativi. Inghiottiti dalla fretta e dalla fame di like e seguito, anche i creativi possono diventare vittime del sistema social. Infatti, se da un lato le piattaforme online hanno permesso ai progettisti di confrontarsi e di collaborare, dall’altro la continua creazione di contenuti ha dato vita alla creazione di progetti non effettivamente applicabili che rischiano di risultare banali, piatti e poco innovativi. È necessario, dunque, fare attenzione. Se gli influencer, veicolati dalle agenzie, possono fare affidamento sulla sponsorizzazione di prodotti e servizi sempre più innovativi, i creativi dovrebbero ricordarsi che la comunicazione su Instagram è fittizia e strizzare meno l’occhio al successo per valorizzare contenuti, fattibilità e innovazione, alla base del loro processo comunicativo.

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Come maneggiare i pregiudizi nelle assunzioni e nel marketing

L'effetto alone fa formulare valutazioni specifiche basandosi su impressioni generali. Per esempio facendoci ingaggiare una persona solo per l'aspetto fisico. Colloqui strutturati evitano questa distorsione. Che invece serve a valorizzare i brand. Guida per aziende ai "bias" cognitivi.

Nonostante le loro migliori intenzioni, anche i manager possono cadere preda di generalizzazioni, stereotipi e pregiudizi. Questi meccanismi sono in grado di influenzare profondamente l’individuo e, conseguentemente, l’andamento dell’azienda, arrivando perfino a ostacolarne il buon processo decisionale.

AUTOMATISMI MENTALI CHE CI FANNO SBAGLIARE

I bias cognitivi, così vengono denominate in psicologia le forme di comportamento mentale caratterizzate da valutazioni distorte della realtà, sono molto difficili da individuare e da tenere sotto controllo. Si tratta, infatti, di schemi di deviazione del giudizio, condizionati da concetti preesistenti nella nostra mente, spesso senza legami logici o razionali. Questi errori di giudizio e automatismi della mente possono spingerci a prendere decisioni affrettate, approssimative e sbagliate e avere importanti ripercussioni sulla vita personale e professionale di ognuno di noi.

SPUNTI INTERESSANTI PER LA GESTIONE AZIENDALE

Per questi motivi, alla luce degli studi condotti tra la fine degli Anni 60 e l’inizio degli Anni 70 da due psicologi israeliani, Amos Tversky e Daniel Kahneman, quest’ultimo vincitore del premio Nobel per l’Economia nel 2002, è necessario affrontare questa tematica anche in relazione alla gestione aziendale. In particolare, tra i tanti bias cognitivi esistenti e individuati nel corso di questi anni, l’halo effect o “effetto alone” sembra essere uno dei più interessanti.

IMPLICAZIONI NELLA SELEZIONE DEL PERSONALE

Se da un lato questo è in grado di incidere negativamente su delicate decisioni aziendali, dall’altro può essere sfruttato per incentivare la propria reputazione aziendale. Proprio in un articolo pubblicato sul Mckinsey Quarterly di dicembre 2019 sono state evidenziate le conseguenze dell’effetto alone su amministratori delegati di importanti aziende, in particolar modo come questo possa influenzare il processo di selezione del personale.

L’ASPETTO ESTETICO FA SEMBRARE TUTTO POSITIVO

L’effetto alone, infatti, influenza i singoli individui e li induce a formulare giudizi specifici basati su impressioni generali. In poche parole, secondo quanto riportato dallo psicologo Edward L. Thorndike, il primo a coniare il termine nel 1920, è sufficiente valutare positivamente una singola caratteristica di una persona, come per esempio l’aspetto estetico, per farsi l’idea che in essa siano presenti quasi esclusivamente aspetti positivi.

TEST IDENTICI E INDICATORI PRECISI EVITANO DISTORSIONI

Tra i compiti di un manager vi è certamente un’adeguata selezione del personale. Questa attività, così come il rapporto che si ha con i clienti, è profondamente influenzata dall’effetto alone. Per evitare che questo bias influenzi scelte aziendali, così come riporta l’articolo del McKinsey Quarterly, quando si tratta di decisioni di assunzione, la predisposizione di colloqui strutturati può contribuire a mitigare l’effetto alone. Impostare colloqui o test identici e misurati rispetto a precisi indicatori può certamente aiutare a gestire la selezione del personale.

SERVE UNA SCALA DI VALORI STANDARDIZZATA

Valutare i candidati secondo specifici criteri basati su mission, vision e obiettivi aziendali, utilizzando una scala di assunzione standardizzata, rappresenta certamente una valida soluzione per evitare di incappare nell’effetto alone e per consentire l’assunzione e la formazione di personale allineato sugli stessi obiettivi e valori. Dunque, certamente l’impostazione di colloqui strutturati non previene l’uso di bias cognitivi, ma può aiutare utilmente a ridurli e tenerli sotto controllo.

L’EFFETTO ALONE PUÒ ESSERE UN’ARMA PER IL MARKETING

Differentemente da quanto riportato rispetto all’assunzione del personale aziendale, l’effetto alone può rappresentare un’ottima arma per il marketing. In questo ambito, infatti, l’effetto alone viene ampiamente sfruttato per migliorare l’immagine di alcuni prodotti e posizionare un brand sul mercato. La condivisione di esperienze positive online di prodotti e servizi può influenzare altri clienti, creando così un orientamento positivo a favore dell’azienda stessa. Questo orientamento può essere costruito investendo sulla pubblicità di prodotti di punta e sull’associazione di personaggi famosi a particolari brand.

COSÌ SI AUMENTA FEDELTÀ A MARCHI E VALORI

In conclusione, una volta individuati e compresi i pregiudizi e le distorsioni della realtà che la nostra mente può attuare, è possibile sfruttarli in una visione strategica per implementare la reputazione aziendale e aumenterà la fedeltà a marchi e valori.

*Professore di Strategie di comunicazione, Luiss, Roma

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Come maneggiare i pregiudizi nelle assunzioni e nel marketing

L'effetto alone fa formulare valutazioni specifiche basandosi su impressioni generali. Per esempio facendoci ingaggiare una persona solo per l'aspetto fisico. Colloqui strutturati evitano questa distorsione. Che invece serve a valorizzare i brand. Guida per aziende ai "bias" cognitivi.

Nonostante le loro migliori intenzioni, anche i manager possono cadere preda di generalizzazioni, stereotipi e pregiudizi. Questi meccanismi sono in grado di influenzare profondamente l’individuo e, conseguentemente, l’andamento dell’azienda, arrivando perfino a ostacolarne il buon processo decisionale.

AUTOMATISMI MENTALI CHE CI FANNO SBAGLIARE

I bias cognitivi, così vengono denominate in psicologia le forme di comportamento mentale caratterizzate da valutazioni distorte della realtà, sono molto difficili da individuare e da tenere sotto controllo. Si tratta, infatti, di schemi di deviazione del giudizio, condizionati da concetti preesistenti nella nostra mente, spesso senza legami logici o razionali. Questi errori di giudizio e automatismi della mente possono spingerci a prendere decisioni affrettate, approssimative e sbagliate e avere importanti ripercussioni sulla vita personale e professionale di ognuno di noi.

SPUNTI INTERESSANTI PER LA GESTIONE AZIENDALE

Per questi motivi, alla luce degli studi condotti tra la fine degli Anni 60 e l’inizio degli Anni 70 da due psicologi israeliani, Amos Tversky e Daniel Kahneman, quest’ultimo vincitore del premio Nobel per l’Economia nel 2002, è necessario affrontare questa tematica anche in relazione alla gestione aziendale. In particolare, tra i tanti bias cognitivi esistenti e individuati nel corso di questi anni, l’halo effect o “effetto alone” sembra essere uno dei più interessanti.

IMPLICAZIONI NELLA SELEZIONE DEL PERSONALE

Se da un lato questo è in grado di incidere negativamente su delicate decisioni aziendali, dall’altro può essere sfruttato per incentivare la propria reputazione aziendale. Proprio in un articolo pubblicato sul Mckinsey Quarterly di dicembre 2019 sono state evidenziate le conseguenze dell’effetto alone su amministratori delegati di importanti aziende, in particolar modo come questo possa influenzare il processo di selezione del personale.

L’ASPETTO ESTETICO FA SEMBRARE TUTTO POSITIVO

L’effetto alone, infatti, influenza i singoli individui e li induce a formulare giudizi specifici basati su impressioni generali. In poche parole, secondo quanto riportato dallo psicologo Edward L. Thorndike, il primo a coniare il termine nel 1920, è sufficiente valutare positivamente una singola caratteristica di una persona, come per esempio l’aspetto estetico, per farsi l’idea che in essa siano presenti quasi esclusivamente aspetti positivi.

TEST IDENTICI E INDICATORI PRECISI EVITANO DISTORSIONI

Tra i compiti di un manager vi è certamente un’adeguata selezione del personale. Questa attività, così come il rapporto che si ha con i clienti, è profondamente influenzata dall’effetto alone. Per evitare che questo bias influenzi scelte aziendali, così come riporta l’articolo del McKinsey Quarterly, quando si tratta di decisioni di assunzione, la predisposizione di colloqui strutturati può contribuire a mitigare l’effetto alone. Impostare colloqui o test identici e misurati rispetto a precisi indicatori può certamente aiutare a gestire la selezione del personale.

SERVE UNA SCALA DI VALORI STANDARDIZZATA

Valutare i candidati secondo specifici criteri basati su mission, vision e obiettivi aziendali, utilizzando una scala di assunzione standardizzata, rappresenta certamente una valida soluzione per evitare di incappare nell’effetto alone e per consentire l’assunzione e la formazione di personale allineato sugli stessi obiettivi e valori. Dunque, certamente l’impostazione di colloqui strutturati non previene l’uso di bias cognitivi, ma può aiutare utilmente a ridurli e tenerli sotto controllo.

L’EFFETTO ALONE PUÒ ESSERE UN’ARMA PER IL MARKETING

Differentemente da quanto riportato rispetto all’assunzione del personale aziendale, l’effetto alone può rappresentare un’ottima arma per il marketing. In questo ambito, infatti, l’effetto alone viene ampiamente sfruttato per migliorare l’immagine di alcuni prodotti e posizionare un brand sul mercato. La condivisione di esperienze positive online di prodotti e servizi può influenzare altri clienti, creando così un orientamento positivo a favore dell’azienda stessa. Questo orientamento può essere costruito investendo sulla pubblicità di prodotti di punta e sull’associazione di personaggi famosi a particolari brand.

COSÌ SI AUMENTA FEDELTÀ A MARCHI E VALORI

In conclusione, una volta individuati e compresi i pregiudizi e le distorsioni della realtà che la nostra mente può attuare, è possibile sfruttarli in una visione strategica per implementare la reputazione aziendale e aumenterà la fedeltà a marchi e valori.

*Professore di Strategie di comunicazione, Luiss, Roma

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Diminuisce la fiducia dei comunicatori: come invertire la tendenza

Davanti alle nuove sfide dovute alla digitalizzazione occorre mettere in piedi sinergie solide tra pubbliche relazioni, giornalisti e leader. Solo così sarà possibile consolidare la corporate reputation.

Le aspettative della società nei confronti del business, delle aziende e dei leader sono in costante aumento.

In un contesto sfidante dove emergono tematiche quali quelle ambientali, della crisi economica e della digitalizzazione è sempre più facile comunicare la propria opinione e parlare alle persone attraverso l’uso delle tecnologie.

In particolare, l’utilizzo di queste ha permesso lo sviluppo della comunicazione disintermediata, quel tipo di comunicazione tramite la quale vengono eliminati i filtri e i corpi intermedi. Questo modo di comunicare aiuta a mantenere vivo il rapporto con la propria platea e a garantire contatti con nuovi soggetti.

ESPORSI SU TEMATICHE CRUCIALI AIUTA A MANTENERE CREDIBILITÀ

In un mondo così complesso, dunque, esporsi in tempo reale su tematiche cruciali per il proprio business è necessario per ottenere e mantenere una certa credibilità. Attraverso genuini scambi di opinione su social, siti web e piattaforme dedicate, è possibile trasmettere i valori della propria azienda alla luce degli obiettivi che questa si è prefissa di perseguire. Mission, vision e valori sono elementi imprescindibili per garantire un buon andamento dell’attività e rappresentano un faro per le attività di comunicazione. La comunicazione è, dunque, uno degli strumenti chiave per la gestione della reputazione ed è una leva di successo per le performance di business, in grado di creare una profonda cultura di impresa. Per questi motivi, anche per i leader di grandi aziende, la comunicazione e il ruolo dei comunicatori sta diventando sempre più centrale. 

LA SFIDUCIA NEI PROFESSIONISTI NELL’ERA DELLA DISINTERMEDIAZIONE

Nonostante il ruolo cruciale che la comunicazione riveste per il business e per il funzionamento di grandi e medie aziende, il ruolo dei comunicatori professionisti sembra sperimentare una profonda crisi. Secondo quanto riportato nel rapporto Euprera (European Public Relations Education and Research Association) realizzato in Germania, Italia e Regno Unito dalla Leipzig University, la Leeds Beckett University e lo Iulm sul livello di fiducia nei confronti dei professionisti della comunicazione, la popolazione generale ha una forte diffidenza. Questo è dovuto, in particolare, alle percezioni confuse sugli obiettivi e le attività di pubbliche relazioni da parte della popolazione. Non è un caso, dunque, che il 50% degli intervistati sia indifferente alle attività di pubbliche relazioni e il 38% degli intervistati non abbia fiducia nei confronti di chi fa attività di pubbliche relazioni. Questi dati risultano essere in forte contrasto con la percezione che i professionisti della comunicazione hanno di se stessi: ritengono di ottenere il 55% della fiducia, mentre in realtà arrivano a sfiorare solo il 12%. L’unico modo per affrontare questa situazione critica risiede, dunque, nello sviluppo di sinergie solide tra pubbliche relazioni, giornalisti, leader e comunicatori. 

QUALE FUTURO PER I LEADER E I COMUNICATORI?

Come ho scritto nel mio ultimo libro Comunicazione integrata e reputation Management, edito dalla Luiss University Press, populismi, cambiamenti climatici, demografici e digitalizzazione stanno influenzando e impatteranno sempre più sul nostro modo di vivere, lavorare e comunicare. I nuovi sistemi di comunicazione sfidano i divari geografici e temporali accorciando le distanze, disintermediando e, allo stesso tempo, accrescendo problemi relativi a reputazione e credibilità. La comunicazione integrata, come ho scritto e ripetuto più volte nel libro, può rispondere a questi problemi, definendo un filo logico in cui gli strumenti comunicativi e le tecniche impiegate in ciascuna delle aree di comunicazione siano allineati con la strategia complessiva dell’impresa. Solo in questo modo sarà garantita la possibilità di far leva sulle tecniche di comunicazione per consolidare la corporate reputation e conseguire una posizione distintiva rispetto ai concorrenti in un orizzonte di lungo termine. Infine, se questa strategia viene accompagnata da una elevata dose di empatia, risulterà certamente vincente, come dimostrato dai risultati della ricerca pubblicata questo mese sul McKinsey Quarterly, basati su sondaggi e interviste con un gruppo di borsisti di Ashoka, una delle comunità di imprenditori sociali più importanti al mondo.

*Professore di Strategie di Comunicazione, Luiss, Roma

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Attivismo online: così i millennial possono rottamare gli influencer

I nati tra gli Anni 80 e il 2000 usano i social per connettersi tra loro, esprimersi liberamente, fare gruppo. Una volta compreso questo, è possibile porre le basi per una comunicazione che non coinvolga o crei personaggi. Rendendo a questi vip digitali la vita un po' meno facile.

Estetica della comunicazione, informatica e filosofia dei linguaggi, queste alcune delle materie previste dal corso di laurea per influencer della eCampus.

Il corso, pietra dello scandalo di inizio mese, è stato concepito per fornire a figure interessate (e interessanti) competenze e strumenti in grado di affrontare il mondo degli influencer, altamente spregiudicato e in costante evoluzione.

UN PASSAPAROLA STRATEGICO PER IL MERCATO

L’obiettivo finale del corso è univoco: forgiare, indirizzare e sostenere figure professionali in grado di “influenzare” il mondo che le circonda attraverso la creazione di un passaparola strategico in grado di generare seguito e mercato. L’idea di base è dunque quella di selezionare una rosa di persone in grado di affermarsi nel mondo digitale, perché, se è vero che chiunque può diventare un influencer, è altrettanto vero che non tutti gli influencer possono davvero collaborare in maniera efficace con una certa azienda o un brand.

LEGGI ANCHE: Come funziona il mercato degli influencer del cibo

Proprio su quest’ultimo aspetto la eCampus ha voluto dare il suo contributo: fornire strumenti a coloro i quali sono interessati a promuovere la propria figura sul mercato e a diventare attori cruciali del marketing attuale. In questa ottica, analizzare la funzione e gli obiettivi del corso, al di là delle critiche che la sua stessa natura porta con sé, aiuta a comprendere, e forse a sorprendersi, dell’uso che si fa, e che i millennial in particolare fanno, dello strumento digitale

I TRE TIPI DI INFLUENCER: IDENTIFIED, ENGAGED E ACTIVE

A causa della popolarità di questi personaggi pubblici e, soprattutto, del loro rapporto con il pubblico è possibile individuare almeno tre diversi cluster di influencer. Il primo è costituito dagli identified, influencer considerati rilevanti per un brand; il secondo dagli engaged, vale a dire il numero di influencer con cui si è instaurato un livello sostanziale di interazione con i follower attraverso la condivisione di post e contenuti e, infine, il terzo è composto dagli influencer active, ovvero gli influencer direttamente coinvolti nei programmi di influencer marketing. Questo terzo cluster nasce in seguito all’evoluzione del concetto di marketing, di cui abbiamo avuto modo di parlare ampliamente nella scorsa rubrica. Non si tratta, però, in questo caso, solamente della nascita e del successo dell’on-demand marketing. Il ruolo degli influencer ha dato vita al cosiddetto “marketing influenzale” che sta progressivamente scalzando quello tradizionale e implementando quello su richiesta.  

IL SUCCESSO DEL MARKETING DI INFLUEBZA

Il marketing di influenza è un tipo di marketing in cui la concentrazione è posta su persone influenti e identificate come rilevanti (influencer) più che sul mercato di riferimento nel suo complesso. Questo termine, e i concetti che dietro vi si celano, sono stati utilizzati per la prima analizzata negli Anni 40, nel celebre studio The People’s Choice di Lazarsfeld e Katz sulla comunicazione politica. Lo studio afferma che la maggior parte delle persone sono influenzate da rumors e opinion leader. Infatti, nonostante questi talvolta si limitino a dare vita a semplici words of mouth, ovvero “movimenti/parole della bocca”, spesso riescono a raggiungere il pubblico in modo efficace ed efficiente, trasmettendo semplice messaggi chiave di facile ricezione. 

LEGGI ANCHE: Ci siamo stancati degli influencer?

Attraverso la semplicità e la ripetitività di contenuti e l’avvento degli influencer, l’industria del marketing di influenza è cresciuta molto velocemente negli ultimi anni, tanto che nel 2017 il suo valore mondiale era stimato intorno all’1,07 miliardi di dollari. Un risultato sbalorditivo che necessita, però, di essere accompagnato da una giusta strategia per evitare di finire, in breve tempo, nel dimenticatoio.

L’ATTIVISMO DIGITALE DEI MILLENNIAL

Spesso siamo portati a pensare che i millennial, nati tra gli Anni 80 e il 2000, rappresentino la fascia d’età più affascinata e disposta al dialogo con gli influencer. Recenti studi pubblicati sul Public Relations Journal dell’Institute for Public Relations hanno evidenziato un fattore sorprendente: i millennial sono soprattutto impegnati, attraverso social network e strumenti digitali, in comportamenti di attivismo online che superano di gran lunga quelli offline. Questa forte relazione tra millennial, attivismo e digitale non risiede però nella specifica e precisa volontà dei ragazzi di “fare attivismo”. Secondo gli studi, l’attivismo viene percepito come la possibilità di avere libertà di espressione, interagire con gli altri, appartenere a un gruppo e costruire la propria identità.

LEGGI ANCHE: Perché gli influencer testimonial sono un’incognita

Questo aspetto, spesso sottostimato e poco considerato dagli addetti ai lavori, è fondamentale per costruire nuovi modelli di comunicazione online. I social media per l’attivismo online e le organizzazioni a esso correlate possono mobilitare strategicamente i millennial coinvolti in queste attività e coinvolgerli intorno a questioni specifiche senza la necessità di creare e animare un personaggio su cui far convergere la loro attenzione. Le idee, le parole e la continua ricerca di identità rappresentano nuove leve in grado di aiutare a costruire nuovi modelli di aggregazione. Comprendendo quali gratificazioni i millennial hanno cercato di raggiungere attraverso attivismo online, è possibile porre le basi per indirizzare la comunicazione e le gratificazioni del pubblico e rendere meno facile la vita agli influencer.

*Professore di Strategie di Comunicazione, Luiss, Roma

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Economia su richiesta: come cambia il business nell’era digitale

Dati, customer experience e social sono sempre più cruciali. Per questo è necessario affrontare i cambiamenti del mercato digitale, studiando e anticipando le scelte dei consumatori per essere così pronti ad affrontare il futuro.

Veloce, personalizzata e tecnologica. Queste le tre caratteristiche principali della dell’Economy on-demand che in pochissimi anni ha radicalmente cambiato il modo di pensare, fare e vivere il business. Dalle catene di approvvigionamento alle normative, dalla concorrenza agli investimenti, l’economia su richiesta ha alterato, e continua a farlo inesorabilmente, le abitudini dei consumatori. Per le imprese tradizionali è dunque diventato sempre più difficile rispondere alle mutevoli aspettative dei suoi fruitori, mettendo in crisi modelli consolidati di business e marketing.

LEGGI ANCHE: Essere leader di pensiero, come rinforzare credibilità e fiducia in un’azienda

È STATA SCARDINATA LA CORRELAZIONE DOMANDA-OFFERTA

Scardinando la classica correlazione tra domanda e offerta, l’economia on-demand prevede la fruizione di un prodotto o di un servizio a partire dalla richiesta del consumatore, a cui deve seguire un servizio quasi immediato, on-demand appunto. Da non confondere con gig economy, sharing economy e crowdsourcing, l’economia su richiesta rappresenta un termine generico che include tutte queste diverse categorie e che necessita di essere compresa attraverso costanti processi di innovazione che soddisfino e anticipino i desideri del consumatore.

L’ON-DEMAND MARKETING

Dalla creazione di una nuova classe di imprenditori e lavoratori, all’istituzione dell’on-demand marketing, l’economia su richiesta ha portato una profonda ventata di novità. In particolare, a causa del grande aumento del potere dei consumatori indotto dall’era digitale, il marketing ha dovuto iniziare ad affrontare sfide sempre più impegnative. Ad alimentare il marketing su richiesta è la continua e simbiotica evoluzione della tecnologia e delle aspettative dei consumatori. Dunque, per comprendere al meglio come indirizzare il proprio business è necessario giocare di anticipo. Attraverso la raccolta e lo studio di dati è possibile identificare i gusti e le necessità dei consumatori, creando così un’interconnessione profonda tra le tecnologie di ricerca, i social media e dispositivi mobili.

LEGGI ANCHE: Empatia e valori, così il manager conquista l’azienda e il pubblico

CENTRALE IL MONITORAGGIO SUI SOCIAL

Nonostante tutto questo stia iniziando ad apparire come semplice routine e venga dato per scontato dalla maggior parte dei suoi fruitori, ragionare sulle esigenze del cliente e ottimizzare il posizionamento della ricerca da questo effettuata è diventata una delle maggiori spese mediatiche dei marketer. Le aziende hanno incrementato le loro attività di pubblicazione e monitoraggio sui canali social, sperando di creare esperienze mediatiche positive che i clienti vorranno condividere con il proprio pubblico. Si tratta, quindi, di un circolo virtuoso che si autoalimenta e che necessita di nuovi strumenti, idee e figure professionali per essere analizzato e indirizzato strategicamente. 

COME CAMBIA L’ESPERIENZA DEI CONSUMATORI

L’esperienza del consumatore cambierà radicalmente nei prossimi anni, stanziandosi in una strada a metà tra il mondo fisico e virtuale e le tecnologie per far sì che questo avvenga sono già disponibili. È dunque necessario attuare piani strategici per collezionare dati, esperienze e anticipare, così, le aspettative e i bisogni del cliente. Quel che è certo è che consumatori e clienti chiederanno sempre più prodotti e servizi che siano nuovi, facili da usare e personalizzabili e che, soprattutto, permettano di interagire con altri individui ovunque e in qualsiasi momento. 

IL FUTURO VA CAVALCATO

In conclusione, è importante richiamare l’attenzione sui processi di mercato che stiamo sperimentando e vivendo sulla nostra pelle senza spesso rendercene conto. Infatti, nonostante questi processi sembrino aver raggiunto un elevato livello di tecnologia e operabilità, siamo solo agli inizi. Spingere le esperienze di marketing oltre il limite è necessario per ottenere risultati gratificanti ed essere competitivi sul crescente mercato digitale. Per fare ciò, è necessario oltrepassare la linea di demarcazione della comfort zone, allineando tutto il team esecutivo coinvolto dall’azienda intorno a una esplicita strategia di dati end-to-end. Il mercato globale, caratterizzato da un elevato livello di connettività mobile, non perdona momenti di stasi. I linguaggi e i format sono in continuo mutamento e le dinamiche progettazioni di spazi online sono in grado di creare nuovi competitor e annientarne di vecchi. I consumatori potranno essere presto in grado di cercare in Rete attraverso comandi vocali e gestuali; partecipare a eventi con altre persone scattando semplicemente una foto e scoprire nuove opportunità con dispositivi che aumentano la realtà nel loro campo visivo. Questo è il futuro e per cavalcarlo è necessario essere pronti a spingersi oltre i limiti e, soprattutto, pensarne e anticiparne strategicamente di nuovi. 

*Professore di Strategie di Comunicazione, Luiss, Roma

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Se il business mette a rischio le nostre democrazie

Le grandi società possono influire sulle istituzioni. Arrivando persino a distorcere la realtà, manipolando l'opinione pubblica. Per questo è necessario un serio processo di responsabilizzazione.

Gli attacchi alla democrazia sono sempre più frequenti, strutturati e imprevedibili. Le minacce, al giorno d’oggi, provengono da più fronti: dalla finanza al web fino alla globalizzazione, sono tantissimi i fattori che influenzano negativamente l’andamento delle democrazie globali e minano il ruolo delle istituzioni. Non è un caso, infatti, che il premio Nobel per l’Economia, Joseph Stiglitz, lo scorso sabato a Roma al Festival Economia Come: l’impresa di crescere, abbia ribadito che i sistemi democratici sono sotto attacco, incrinando così il rapporto fiduciario tra cittadini e istituzioni. Nel suo discorso, Stiglitz, una delle voci più autorevoli nella critica della globalizzazione e del liberismo, ha sottolineato che l’aspetto più inquietante del presente momento politico risiede nell’attacco al nostra conoscenza con effetti di vasta portata sulla civiltà, sul nostro standard di vita e sul funzionamento dei nostri sistemi di organizzazione politica e sociale. Un chiaro esempio di questi effetti, ha aggiunto Stiglitz, risiede nella negazione del cambiamento climatico e nella disinformazione perpetrata a riguardo negli ultimi anni. Tale negazione e manipolazione di informazioni ha provocato, infatti, effetti «esistenziali», come li ha definiti lo stesso premio Nobel, mettendo in crisi la credibilità delle istituzioni stesse.

PIÙ UN’ISTITUZIONE È NEUTRALE E PIÙ È CONSIDERATA AFFIDABILE

I continui attacchi alla democrazia hanno instillato sospetto e incertezze nei confronti delle istituzioni, accrescendo sentimenti di sfiducia da parte dei cittadini. I recenti studi condotti da Fondapol.org (Fondation pour l’innovation politique), think tank francese liberale, insieme con l’Iri (International Republican Institute), un’organizzazione no profit e non profit, già richiamati in altri articoli, hanno rilevato, a riguardo, un dato sorprendente: il governo (64%), il parlamento (59%), i partiti politici (77%), i sindacati (55%) e i media (66%) non sono ritenuti affidabili dalla maggioranza degli intervistati. Più un’istituzione appare neutrale e non legata alla politica, più questa viene percepita come essenziale e affidabile per rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini. Non è un caso, quindi, che le Ong (60%) ottengano un livello di fiducia maggioritario. Si tratta, quindi, di una relazione che associa fiducia e prossimità, servizi forniti e neutralità politica.

TRA I BIG TECH SCRICCHIOLA SOLO FACEBOOK

Diversa è, invece, la percezione e la fiducia dei cittadini nei confronti delle imprese. Nonostante la maggior parte degli intervistati affermi di non fidarsi delle grandi imprese e di prediligere le piccole e medie (78%), Microsoft (77%), Google (75%), Amazon (71%) e Apple (69%) ricevono un buon tasso di fiducia. Solo Facebook genera la maggior parte della sfiducia (58%). Questa è causata dal coinvolgimento dell’azienda in numerose controversie, compresa la sua influenza politica, la sua associazione con le notizie false e il suo trattamento dei dati personali degli utenti.

GLI ATTACCHI DI WARREN A EXON MOBIL

Nonostante il loro successo in termini di credito, le Big Tech e le grandi imprese pesano sulla democrazia e sono in grado di inficiare il lavoro delle istituzioni democratiche, dei politici e del sistema giudiziario attivando processi mirati di disinformazione, come ricordato dallo stesso Stiglitz. Proprio martedì, la candidata alle primarie democratiche per le Presidenziali Usa del 2020, Elizabeth Warren, di cui abbiamo già avuto modo di parlare relativamente alla sponsorizzazione intenzionale di fake news su Mark Zuckerberg, ha lanciato una nuova campagna su Twitter contro alcuni operatori dell’industria accusati di fornire consapevolmente informazioni false e fuorvianti alle agenzie di regolamentazione federali, fornendo così materiale da utilizzare come scusa per invalidare le regole vigenti. Nello specifico, la campagna di Warren si rivolge alla Exxon Mobil, uno dei principali gruppi mondiali del settore energetico. Gli scienziati del gigante petrolifero, pur avendo confermato negli Anni 70 e 80 che i combustibili fossili hanno contribuito al riscaldamento globale, avrebbero poi successivamente chiuso la loro ricerca sul clima, secondo quanto riportato, abbracciando una campagna di pubbliche relazioni per diffondere dubbi sulla scienza del clima e finanziare la negazione del cambiamento climatico. Dunque, secondo la candidata, la Exxon avrebbe speso milioni di dollari in think tank per generare incertezza sulla scienza del clima, pubblicando e promuovendo una scienza non revisionata per fuorviare il popolo americano sui cambiamenti climatici.

I GUAI GIUDIZIARI DEL GIGANTE PETROLIFERO

La Exxon è attualmente coinvolta in molteplici cause legali che sostengono che l’azienda abbia ingannato i suoi azionisti sui rischi climatici. New York ha citato in giudizio l’azienda per presunte frodi climatiche ed è in attesa di una sentenza del giudice della Corte Suprema di New York, Barry Ostrager. Qualora le accuse trovassero fondamento, si tratterebbe di una delle tante falsità intenzionalmente diffuse da grandi aziende per agevolare il business, ostacolando, però, la comprensione dei fatti per i cittadini e influenzando agenzie federali come l’Epa (United States Environmental Protection Agency). Le agenzie federali, in alcuni casi, sollecitano il pubblico a fornire informazioni sulle regole proposte attraverso un processo chiamato notice-and-comment, che dovrebbero aiutare l’agenzia a sollecitare il feedback degli esperti, rendendo chiaro, trasparente e responsabile il processo.

SONO NECESSARI PROCESSI DI RESPONSABILIZZAZIONE

Investimenti finalizzati alla disinformazione possono minare, dunque, i processi democratici. Se questi provengono da aziende, in particolare grandi aziende, risulta essere sempre più necessario dare vita a processi di responsabilizzazione. Questo può avvenire, non solo attraverso l’istituzione di una legge sulla “falsa testimonianza aziendale“, come suggerito da Warren, ma attraverso la creazione di una nuova sensibilità e di un piano strategico di comunicazione istituzionale interna ed esterna volta a evitare quanto preannunciato da Stiglitz, ovvero un attacco incontrastato al sistema epistemologico di base. 

SONO IN GIOCO LA REPUTAZIONE E IL BUSINESS DELL’AZIENDA

Comunicazione e digitalizzazione ricoprono un ruolo fondamentale in questo campo e rappresentano attori cruciali e preziosi per lo sviluppo di una coscienza responsabile, in grado di mettere al primo posto il benessere dei cittadini e ispirare loro fiducia e solidità. Per quanto difficile possa essere trasmettere la complessità delle istituzioni e verificare la serietà e responsabilità aziendale, questo risulta essere necessario per il futuro, non solo delle istituzioni, ma delle aziende stesse: il conseguimento di una buona responsabilità aziendale può rappresentare un’ottima leva per incrementare la reputazione dell’azienda stessa e il suo business.  

*Professore di Strategie di Comunicazione, Luiss, Roma

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Essere leader di pensiero, come rinforzare credibilità e fiducia in un’azienda

Creare e mantenere la leadership nell’era della digitalizzazione è sempre più difficile e per i leader e i manager di successo non è più possibile appellarsi esclusivamente alla dimensione cibernetica per la propria reputazione. La thought leadership rappresenta un’ottima opportunità che, se accompagnata da una efficiente visione strategica, è in grado di favorire il successo di un’azienda.

Il mondo aziendale è sempre più vitale, disinibito e competitivo. Alla luce dei continui cambiamenti che caratterizzano il settore, creare e, soprattutto, mantenere la propria leadership sta diventando sempre più complesso.

I leader devono essere in grado di disegnare e ridisegnare relazioni di collaborazione creativa all’interno dei propri team, mantenendo viva l’attenzione degli interlocutori e la propria esclusività. Questi elementi, inseriti in un contesto sempre più veloce e digitalizzato, hanno reso necessario ripensare le figure di manager e leader, il loro ruolo e il loro approccio nei confronti del contesto di riferimento.

Nello specifico, i social network e internet sono diventati cruciali per il mantenimento di posizioni di rilievo all’interno della società. Questi, però, a volte risultano essere poco affidabili. Basti pensare alle conseguenze devastanti degli attacchi hacker o ai possibili down di internet. Non è un caso, infatti, che nei giorni scorsi, durante le manifestazioni di protesta che si sono svolte in Iraq, la connessione a Internet sia mancata a milioni di utenti nel Paese. Questo, un esempio tra tanti, rivela quanto affidarsi esclusivamente ai social e alla dimensione cibernetica non sia più sufficiente e poco sicuro.

L’ORIGINE DELLA THOUGHT LEADERSHIP

È necessario, dunque, ripensare la dirigenza in modo efficace e stimolante per preservare i caratteri esclusivi del leader e garantirne il suo durevole successo. In questo caso la thought leadership, parola d’ordine negli ultimi anni, rappresenta una strategia soddisfacente. Il termine, coniato per la prima volta nel 1994 da Joel Kurtzman, l’editore fondatore di Strategy+Business, una rivista di management pluripremiata per i decisori nelle aziende e nelle organizzazioni di tutto il mondo, può essere identificata come un tipo di content marketing che prevede la condivisione di media e contenuti editoriali per acquisire clienti in cui si attinge al talento, all’esperienza e alla passione all’interno della propria azienda per rispondere in modo coerente alle domande dei propri clienti e del proprio target di riferimento.

Un thought leader è un esperto del settore che condivide la sua esperienza con un pubblico più ampio allo scopo di educare, migliorare e aggiungere valore al settore nel suo complesso

Kelsey Raymond, la co-fondatrice e ceo di Influence & Co.

Kelsey Raymond, la co-fondatrice e ceo di Influence & Co., un’agenzia di content marketing, descrive un thought leader come «un esperto del settore che condivide la sua esperienza con un pubblico più ampio allo scopo di educare, migliorare e aggiungere valore al settore nel suo complesso». La thought leadership è oggi sempre più radicata e comprende una serie di attività volte a posizionare un individuo o una realtà aziendale nel ruolo di massimi esperti nel loro campo.

IL LEADER DEL PENSIERO DEVE ESSERE CREDIBILE E UN BUON COMUNICATORE

Un thought leader è una figura riconosciuta da colleghi, clienti ed esperti del settore come profondamente competente del business in cui si trova, delle esigenze dei clienti e del più ampio mercato in cui opera. Questo è, generalmente, un efficace comunicatore, risorsa coinvolgente per un pubblico specifico. Il soggetto identificato come thought leader è dunque detentore di una certa fama e un certo posizionamento che deriva dalla sua credibilità e dalla solidità dimostrata sul campo. Un programma di thought leadership, diretto da un leader di pensiero, se ben strutturato, può aiutare piccole aziende o startup a potenziare le proprie strutture a essere competitive sul mercato. Il pensiero organizzato e coerente permette di allineare i potenziali clienti con un preciso modo di pensare, agevolando la conversazione e rendendola più efficace al perseguimento dei propri obiettivi.

RACCONTARE LA PROPRIA STORIA PER ENTRARE IN CONNESSIONE

I leader di pensiero aiutano, dunque, a supportare gli altri attraverso la condivisione di esperienze e conoscenze. Questa condivisione permette all’individuo di essere percepito come una figura di autorità affidabile a cui le persone si rivolgono quando hanno bisogno di consigli o di una guida. Questo posizionamento permette, non solo di essere apprezzati al pubblico a cui già si rivolgeva, ma anche di essere notati da un nuovo pubblico e di raggiungere nuovi obiettivi incrementando la platea di interlocutori. Sono leader che si aprono e raccontano storie di vita vissuta. Riportano gli aspetti che hanno motivato le loro scelte inziali, come hanno mosso i primi passi nella loro attività e quali errori hanno commesso lungo la strada. Questo approccio li aiuta a entrare in connessione con il proprio pubblico e a risultare credibili, ispirando fiducia e solidità.

APRIRSI PER ISPIRARE I DIPENDENTI E INCORAGGIARE IDEE CREATIVE

La thought leadership, differentemente da altri approcci dirigenziali, garantisce la creazione di un ambiente in cui team e partner imparano continuamente e sono costantemente incoraggiati a sviluppare idee creative. Questo ispira l’apertura e stimola l’innovazione, creando così un vero vantaggio competitivo. La cultura dell’apprendimento rappresenta, infatti, un vero valore aggiunto che l’azienda può vantare e utilizzare in maniera strategica nei confronti dei propri competitor.

In conclusione, la thought leadership costituisce un’ottima opportunità e un’esperienza gratificante che può comportare benefici, a breve e a lungo termine, per creare e mantenere la propria reputazione, o quella di un’azienda, in un mondo interconnesso e sempre più precario. Per diventare un thought leader è necessario mettersi in gioco in maniera strategica, individuando le esperienze da condividere e identificando l’utilità che da questa condivisione può derivare. In particolare, nelle piccole aziende questa strategia può rappresentare l’ago della bilancia e costituire il valore aggiunto e il vantaggio competitivo dell’azienda rispetto ad altri grandi competitor.

Gianluca Comin è professore di Strategie di Comunicazione, Luiss, Roma

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