Oggi è Giulia Cecchettin, ieri Giulia Tramontano: con le solite ricette e le promesse non si cambia

Ormai è diventato una specie di sacrificio rituale collettivo: ogni tot mesi la nazione tutta condivide trepidazione, commozione e sdegno per l’uccisione efferata di una giovane donna da parte di un uomo, in genere il compagno, mentre un assortimento di ierofanti da tastiera e da talk show recita formule sempre uguali («ci vuole una cultura del rispetto», «donne, dovete cogliere i segnali», «è colpa delle mamme», «è colpa dei padri», eccetera). Poi, stanchi ma infelici ma anche, in certo modo, saziati di lutto virtuale, ce ne torniamo alla nostra vita, finché la cronaca non ci propone un’altra vittima degna di mobilitare di nuovo tutto l’apparato. Che non si dispiega per tutti i femminicidi: non per quelli – tantissimi – di donne mature o anziane, madri o nonne uccise da mariti o ex mariti, e nemmeno per quelle troppo derelitte, o per le single ammazzate dall’ex partner di una storia breve.

La commozione popolare si pasce dell’uccisione di vittime giovanissime e fiduciose per mano di esecutori piacioni o figli modello

In Italia la commozione popolare, come nei melodrammi di Verdi e Puccini, si pasce della mala morte di donne giovanissime, graziose, fiduciose come Giulia Tramontano, tradita e incinta, o Giulia Cecchettin, un tesoro di ragazza a due passi dalla laurea. Del resto i sacrifici di esseri viventi, umani o animali, richiedono vittime perfette e senza macchia, perché soltanto ciò che di più bello possiede la comunità è degno di essere sacrificato agli dei per esserne certi di ottenerne il favore o placarne l’ira. Solo che in questi casi a uccidere non è un apposito esecutore-sacerdote, ma un altro ragazzo, anche lui apparentemente perfetto e senza difetti, come il piacione Alessandro Impagnatiello o il “figlio modello” Filippo Turetta, uno con un buon lavoro in un ambiente figo, l’altro alle ultime battute di una laurea in ingegneria, il presunto magico talismano contro la disoccupazione. Bravi ragazzi che, messi alle strette, ammazzano brave ragazze, seguiti spasmodicamente dal pubblico dell’arena mediatica, come i tributi degli Hunger Games.

Oggi è Giulia Cecchettin, ieri Giulia Tramontano: con le solite ricette e le promesse non si cambia
Giulia Cecchettin (Ansa).

Ogni volta si ripetono le inutili ricette: dalle pene più severe alla promessa di prevenzione nelle scuole

Tanto è sinistro e inafferrabile il compiaciuto teatro dell’orrore che mettiamo su per questo tipo e solo per questo tipo di femminicidi, quanto sono ridicoli, nella loro inutilità e ripetitività, i tentativi di contrastare la violenza di genere con le solite ricette: le immancabili pene più severe e la promessa di prevenzione fin dalle scuole con corsi di educazione all’affettività. In un Paese governato da una signora che si è tenuta per anni un partner sessista e molestatore, e che all’opposizione vede un’altra signora che si è fidanzata con una donna (combinazione meno pericolosa per l’incolumità fisica), adulti infelici, poco pagati e spesso alle prese loro stessi con problemi relazionali, pretenderanno di insegnare agli adolescenti come costruire una relazione eterosessuale rispettosa. Platonica, naturalmente, visto che sono più di 40 anni che si chiede invano di fare educazione sessuale nelle scuole. Quarant’anni fa la ministra Roccella era ancora femminista e abortista e Pillon al collo portava solo il fiocco del grembiule, quindi non è proprio il caso di dare la colpa a loro.

Nemmeno la parità di genere riesce a contrastare la violenza sulle donne

Ma anche se l’educazione sessuale venisse finalmente introdotta nelle scuole, se i corsi di affettività non fossero una barzelletta, se (esageriamo) tutta la società italiana facesse passi da gigante sul piano delle pari opportunità, del pay-gap, dell’accesso delle donne a posizioni apicali, insomma, se l’Italia diventasse come la Finlandia, patria del modello scolastico ammirato in tutto il mondo, stroncheremmo la violenza contro le donne? I numeri dell’European Institute for Gender Equality dicono di no. L’uguaglianza di genere non contrasta la violenza di genere, o almeno non abbastanza. In Finlandia il 61 per cento degli omicidi con vittime donne sono perpetrati da partner o familiari, e il 47 per cento delle finlandesi afferma di avere subito molestie e violenze. La legge finlandese non contempla neppure il femminicidio o la violenza di genere come crimini specifici. Il luogo più pericoloso per le donne in Europa è l’Irlanda del Nord, che ha un tasso di violenza domestica triplo rispetto a Inghilterra e Galles. La sessista Italia è quartultima nella classifica europea dei femminicidi, dominata da Lituania e Lettonia, cui seguono Germania, Francia e Paesi Bassi. Che la civilissima Svezia sia penultima sorprende meno del fatto che il Paese europeo con meno femminicidi sia la Grecia, anche se negli ultimi anni si è registrato un clamoroso aumento. Non parliamo degli Stati Uniti, la terra del #MeToo e del politically correct, che marcia al ritmo di tre femminicidi al giorno, il triplo della Turchia di Erdogan.

Oggi è Giulia Cecchettin, ieri Giulia Tramontano: con le solite ricette e le promesse non si cambia
Scarpe rosse, simbolo della lotta alla violenza contro le donne, in Francia (Getty Images).

In Iran la violenza si fa scudo della religione, in Occidente dell’amore passionale: la stessa fetida minestra chiamata patriarcato

L’Occidente cristiano è pieno di cripto-ayatollah in versione domestica che se la loro partner rivendica libertà di uscire, di laurearsi, di viaggiare, e di vestirsi come le pare, o anche di lasciarli, le fanno quello che la polizia morale iraniana ha fatto a Mahsa Amini o ad Armita Geravand. In Iran la violenza di genere si fa scudo della religione, da noi dell’amore passionale, ma è la stessa fetida minestra secolare chiamata patriarcato. Allevati e allevate da millenni con questa minestra, ora dobbiamo inventarcene una nuova e abituarci tutti, e non è cosa né facile né breve. Nel frattempo l’unica soluzione ragionevole per limitare la strage di donne, più che insegnare l’affettività ai maschi (chi ha visto le reazioni degli adolescenti medi durante gli incontri scolastici sulla violenza di genere sa che la partita è difficile, se non persa in partenza) sembrerebbe insegnare l’anaffettività alle femmine.

Così Berlusconi ha dimostrato l’inutilità politica della satira

«Cos’ha fatto di buono Berlusconi?». Se lo chiedevano, mi pare, Adriano Celentano e Roberto Benigni in un varietà Rai di qualche decennio fa, realizzato presumibilmente durante un governo Prodi. Al termine di un bilancio tra il serio e il faceto, i due showmen salvavano un solo provvedimento del collega che dal 1994 si divideva fra la professione di barzellettiere e quella di premier: la patente a punti, introdotta nel 2003 dal gabinetto Berlusconi II. La patente a punti è rimasta l’unica, solitaria benemerenza riconosciuta al Cavaliere fino a ieri, giorno della sua morte, quando il sito Escort Advisor lo ha omaggiato ricordando un altro risultato indiscutibilmente lodevole dell’era Berlu: lo sdoganamento del termine ‘escort’ come sinonimo di prostituta. «Una parola meno offensiva e più dignitosa per le operatrici del sesso,» spiega un comunicato del sito dedicato alle recensioni delle sex-worker, sottolineando che, attraverso la rilevanza mediatica dei processi legati al bunga-bunga, Berlusconi «ha contribuito a normalizzare, anche se a modo suo, un settore ancora oggi controverso».

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L’omaggio del sito Escort advisor a Berlusconi.

Nessuno come Berlusconi è stato ridicolizzato dalla satira e nessuno l’ha ridicolizzata quanto lui

La patente a punti e la promozione lessicale della prostituzione: anch’io potrei fermarmi qui, come elogio funebre. Sono fuori tempo massimo sia per il servo encomio che per il codardo oltraggio e non appartengo alla generazione allevata da Sua Emittenza con Bim Bum Bam e Paperissima. Per onestà intellettuale, però, devo riconoscere che per noi autori di satira politica nessun personaggio dell’ultimo scorcio di ‘900 ci ha ispirato e reso reattivi e produttivi più di Silvio Berlusconi. I risultati non erano sempre di qualità eccelsa, spesso era satira involgarita da un body-shaming allora entusiasticamente praticato anche da penne e matite eccellenti. Ma c’era anche parecchia roba forte e buona, che dava ai suoi autori un brivido di grandezza: ecco la vignetta definitiva, ecco la risata che lo seppellirà. Ma col passar del tempo ci sentivamo come scultori che si ritrovano a dover scalpellare una montagna anziché il solito blocco di pietra: anche se si è geni dallo scalpello mirabolante e si sgobba giorno e notte per anni e anni e anni, la montagna rimane lì, uguale. Dài delle martellate clamorose, ti sembra di staccare grossi pezzi di roccia, senti il presagio di una frana, e magari qualche cascata di ciottoli arriva davvero, dài e dài credi di avere modificato il profilo del monte, e invece no: il monte è più o meno uguale a se stesso e sempre al suo posto. Quelli cambiati siamo noi: stanchi, invecchiati, con gli scalpelli fuori uso, che guardiamo impotenti le comitive di gitanti che fotografano la montagna e la trovano carina e pittoresca, senza apprezzare né notare le scalfitture che ci sono costate anni di fatiche: le decine di soprannomi, le centinaia di caricature, le campagne al vetriolo sui suoi processi, il caparbio tiro a segno sulle sue sfrenatezze, gli sfottò ai suoi reggicoda, anche loro tutti al loro posto, avanzati in carriera o beneficati, ma sempre grati e adoranti.

Ormai da un quindicennio la satira politica italiana si è ridotta a comfort-food per mature anime belle: vignette comprensibili solo dai 40 anni in su, meme da condividere nella propria bolla, parodie così acute e raffinate da consacrare il parodiato anziché irriderlo. L’obiettivo non è più infastidire il potere, men che mai seppellirlo, ma finire nella top ten di Propaganda Live

Insomma, è vero nessuno come il Cav è stato ridicolizzato dalla satira, ma è altrettanto vero che nessuno l’ha ridicolizzata quanto lui, dimostrandone l’inutilità politica e dissipando l’illusione, di cui la sinistra si pasceva dai tempi di Dario Fo e del Male, che il ghigno e lo sberleffo possano davvero far paura al potere e aprire gli occhi al popolo. Quando qualcuno grida che il re è nudo e il re, anziché correre a nascondersi, sculetta e si mette in posa, il popolo ride ma alla fine passa dalla sua parte. E chi deve andare a nascondersi è quello che lo ha smascherato. Fatto sta che ormai da un quindicennio la satira politica italiana si è ridotta a comfort-food per mature anime belle: vignette comprensibili solo dai 40 anni in su, meme da condividere nella propria bolla, parodie così acute e raffinate da consacrare il parodiato anziché irriderlo. L’obiettivo non è più infastidire il potere, men che mai seppellirlo, ma finire nella top ten di Propaganda Live, a mezzanotte passata, l’ora dei vampiri.

Via Silvia, spianata dall’uomo di Arcore, è ora trafficatissima

Lo sguardo più lucido e preveggente sulla fine del Caimano non è venuto dalla satira, ma dalla canzone. Precisamente da Caparezza, che nel 2011, nella strepitosa Legalize the Premier, descriveva con largo anticipo gli ultimi giorni del patriarca del centrodestra: «E se capita che un giorno starai male, male/vedrai leccaculo al tuo capezzale/darai una buona parola per farli entrare/nel tuo paradiso fiscale». Il rapper di Molfetta chiariva che il pezzo non era dedicato solo a Berlusconi, ma anche a tutti i suoi successori, cui il Cavaliere ha mostrato che una volta arrivati al potere si possono modificare le leggi a proprio uso e consumo, «perché una volta che hai asfaltato una strada ci possono passare tutti». Una strada che, all’uso dell’antica Roma, potremmo chiamare via Silvia. Aperta e spianata dall’uomo di Arcore, e ora trafficatissima.

La Romagna, l’acqua che dà e toglie e la secolare arte di reinventarsi

«Eravate pesci!». Questo diceva ai padani della redazione di Cuore Roberto Perini, meraviglioso e indimenticabile vignettista e illustratore, autore, fra le altre cose, delle più belle copertine dei libri di Stefano Benni per Feltrinelli. Romano con lontane radici romagnole, Perini voleva rimarcare scherzosamente la superiorità di chi veniva dai Sette Colli rispetto a noi, oriundi di quello che in origine era un lembo di Adriatico, progressivamente riempito decine di migliaia di anni di fa dai sedimenti trascinati dai fiumi che vi sfociavano e dai detriti morenici portati a valle dalle masse d’acqua prodotte dal disgelo dei ghiacciai. Quanto mi aveva fatto ridere, l’iperbolica provocazione di Perini.

La Romagna, l'acqua che dà e toglie e la secolare arte di reinventarsi
Sala di Cesenatico (da un video su Fb).

L’acqua che ci ha regalato, un’era dopo l’altra, la terra su cui camminiamo può portarcela via in una notte

Trent’anni dopo, mentre vedo la mia terra e i paesi dei miei antenati (Cesena, Sarsina, Mercato Saraceno) sommersi o assediati dall’acqua, rido un po’ meno. Mi suona sinistramente come «ricordati che pesce sei e pesce ritornerai»: l’acqua che ti ha regalato, un’era dopo l’altra, la terra su cui cammini e su cui sorgono le tue case, può portartela via in una notte. Perché non è più l’acqua lenta e costante del disgelo post Würm. Anche lei, come gli esseri umani contemporanei, è diventata più iraconda, aggressiva, esagerata. Vuole dare spettacolo, come se sapesse che finirà su TikTok e su Instagram e le sue gesta diventeranno virali su Internet. In un’ora trasforma un rigagnolo in un mostro torbido e possente e un borgo in Atlantide. Ma non ci darà il tempo di farci ritrovare pinne e branchie, anche se i tempi dell’evoluzione sono sicuramente più rapidi di quelli necessari a cacciarci nella zucca l’importanza della prevenzione, della manutenzione, della cura degli argini. Già è molto se ci farà sentire più vicini ai bengalesi e agli indiani, alle prese con monsoni incattiviti dai cambiamenti climatici.

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Soccorsi a Massa Lombarda (Getty Images).

La Romagna oggi come l’Assam un anno fa, ma un’alluvione in Asia è una non-notizia

Le immagini che ci arrivano dalla Romagna – tetti che spuntano dall’acqua, campi trasformati in lagune, visi sbigottiti – somigliano molto a quelle che arrivavano un anno esatto fa dall’Assam e dalla regione di Sylhet e che guardavamo distrattamente quando passavano sui canali all-news (per i tiggì generalisti un’alluvione in Asia è una non-notizia). Le alluvioni eurasiatiche in genere sono catastrofi meno glamour degli uragani e dei cicloni americani, costruiti e gestiti come cattivi dell’universo Marvel: hanno un nome, una data e un luogo di nascita, si avvicinano alle città in un crescendo di suspence e di terrore scandita dalle raccomandazioni e dagli allarmi pressanti di tivù e radio. Quando la calamità si tinge di epopea, sopravvivere non è una fortuna, è una vittoria, anche se non hai più una casa e il ciclone non ti ha portato nel magico regno di Oz, ma su una brandina di fortuna in uno stadio con una dozzina di bagni per migliaia di senzatetto. Essere scampato alla furia di Katrina ti rende speciale, attiva la tua resilienza, crea legami con chi ha vissuto la tua esperienza, anche in luoghi e tempi diversi. Si erigono memoriali, si organizzano convention per ricordare ed elaborare, come fanno i veterani di guerra.

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Lugo, in provincia di Ravenna (Getty Images).

Risorgere dopo una guerra devastante come dieci alluvioni ci ha obbligato a tirare fuori le nostre risorse migliori 

Forse anche nel Vecchio continente dovremmo imparare a chiamare per nome gli eventi meteorologici estremi cui bisognerà fare l’abitudine, e a fronteggiarli, almeno psicologicamente, all’americana. E se c’è qualcuno che può provarci sono i romagnoli. E non solo perché la nostra riviera è stata ribattezzata “la Florida d’Italia“. La gente di qui ha qualcosa che sa di America. Si è reinventata, proprio come fanno gli emigranti, ma restando nella propria terra. Da razza misera e violenta di briganti con il grilletto facile e il pugnale in tasca anche quando diventavano presidenti del Consiglio (no, non mi riferisco a Mussolini, ma al ravennate Luigi Carlo Farini, che nel 1863, capo del governo, puntò un coltello alla gola di re Vittorio Emanuele per costringerlo a schierarsi con gli insorti polacchi contro la Russia), siamo riusciti a costruirci un’immagine completamente diversa e a diventare simpatici e apprezzati da tutti, in Italia e all’estero. Risorgere dopo una guerra devastante come dieci alluvioni ci ha obbligato a tirare fuori le nostre risorse migliori e a fare un oculato restyling di quelle peggiori. E così il nostro accento, che un secolo fa metteva in allarme i carabinieri, oggi mette di buonumore, evoca solo buon cibo, ospitalità e divertimento.

Perfino i deprecati bagnini anti-Bolkenstein si riscattano mentre sgobbano h24 per ripulire l’arenile

Avere investito tanto sul fare star bene gli altri, anche solo per qualche settimana all’anno, in queste ore si sta traducendo in un’incredibile corrente di simpatia, solidarietà e affetto, anche da parte di chi non può esimersi dal ricordare il rovescio della medaglia del “modello romagnolo“, lo sfruttamento insensato del territorio e le manchevolezze dei politici locali. Non c’è articolo o servizio televisivo in cui non si sottolinei il carattere unico dei romagnoli. Twitter, una volta tanto, gronda di belle parole, di calore e di partecipazione. Perfino i deprecati bagnini anti-Bolkenstein si riscattano davanti all’opinione pubblica, mentre da Cesenatico a Cattolica sgobbano h24 per ripulire l’arenile dagli ammassi di legname accumulati dalle mareggiate e sistemare lettini dispersi e cabine allagate. Entro il weekend tutto sarà come prima, assicurano. Ehi, non commuovetevi troppo, io li conosco: nel caso peggiore erano pronti a trasformare la spiaggia in un parco acquatico a tema Spongebob. Anche quando diventeranno pesci si nutriranno di turismo.