Non solo Alemanno e Rizzo, la storia del terzaforzismo rossobruno

Non è ancora nato formalmente (la data prevista è quella tra il 25 e il 26 novembre) e già la nuova creatura politica promossa dall’inedito duo Gianni Alemanno e Marco Rizzo, costituita per concorrere alle elezioni europee 2024, fa piuttosto scalpore. Creato per occupare uno spazio ben preciso, quello del dissenso – a destra – nei confronti della svolta filo-europea e filo-americana di Giorgia Meloni e – a sinistra – nei confronti della svolta «fucsia e radical chic» (copyright dello stesso Rizzo) del Partito democratico di Elly Schlein, il nuovo movimento, denominato Indipendenza italiana, non rappresenta però, in questo senso, del tutto una novità: la formula del “terzaforzismo” ha avuto, negli anni, svariate concretizzazioni, basti pensare al “movimentismo” trasversale che ha partorito i vari No Tav, No Gronda, No trivelle, No vax, per non parlare, più in generale, del fenomeno No global, che mischiano attivismo di sinistra e rivendicazioni in qualche modo “sovraniste” sul “diritto dei popoli”.

Non solo Alemanno e Rizzo, la storia del terzaforzismo rossobruno
Gianni Alemanno (Imagoeconomica).

Croce celtica, falce e martello

Per restare in Italia, possiamo dire che il terzaforzismo ha colto anche qualche successo, come nel caso del Movimento 5 stelle delle origini, presentatisi sul palcoscenico politico come soggetto «oltre la destra e la sinistra». Niente a che vedere, tuttavia, con Indipendenza italiana, in cui cercano di fondersi due culture antitetiche: quella della destra (sociale) nuda e pura, incarnata dal rautiano di ferro Gianni Alemanno, ma anche da altri esponenti della tradizione più ortodossa, come Fabio Granata e Francesco Toscano, e quella del comunismo irriducibile di Rizzo, presidente onorario del Partito comunista italiano. Non per caso, qualcuno ha parlato di «incontro tra croce celtica e falce e martello». Un incontro che dovrebbe trovare una sintesi nella contrapposizione al nemico comune: il modello neo-liberista «che sta distruggendo le società europee» (Alemanno) e riducendo l’Italia «a colonia americana» (Rizzo).

Non solo Alemanno e Rizzo, la storia del terzaforzismo rossobruno
Marco Rizzo (Imagoeconomica).

Il rossobrunismo ai tempi della Repubblica di Weimar

Per qualificare lo strano coacervo di Indipendenza italiana, si è fatto ricorso al termine di rossobrunismo, richiamando, forse in modo un po’ esagerato, la tradizione del cosiddetto nazionalcomunismo, che affonda le radici nei primi del 900 e che, nel tempo, ha assunto caratteristiche articolate e variegate. Col termine nazionalcomunismo si definisce una corrente politica e ideologica che nasce in Germania all’epoca della Repubblica di Weimar, nei primi Anni 20, mentre il Paese stava attraversando un periodo di grandi difficoltà per le durissime condizioni economiche, politiche, militari e territoriali imposte dal Trattato di Versailles.

Lenin bollò l’iniziativa come «madornale assurdità»

A promuovere questa corrente furono due politici socialdemocratici Heinrich Laufenberg e Friedrich Wolffheim, che lanciarono l’ipotesi di un’alleanza con la Russia bolscevica per riaprire il conflitto contro il capitalismo internazionale, reo, secondo loro, di puntare alla cancellazione del popolo tedesco con la complicità della socialdemocrazia, che si era fatta garante nei confronti del nemico. Bollata dallo stesso Lenin come «madornale assurdità», l’iniziativa dei due politici tedeschi – presto isolati anche all’interno del movimento operaio tedesco – crollò presto miseramente.

La grande crisi del ’29 rilanciò la critica al capitalismo

Il nazionalcomunismo riprese vigore con la crisi economica a cavallo del 1929 e 1930. Figura fondamentale in questa fase fu quella di Ernst Niekisch, già socialdemocratico, tra i fondatori della Repubblica sovietica bavarese (1919), ma in stretti rapporti con i principali esponenti della cosiddetta Rivoluzione conservatrice e persino con i vertici del neonato Nsdap (il nucleo originale del partito nazionalsocialista) Strasser e Goebbels. Fu in questo “miscuglio” di frequentazioni e ambienti che sviluppò la sua critica del capitalismo come sistema votato unicamente all’utile a scapito delle classi lavoratrici, e propose di organizzare una resistenza contro i nemici della volontà statale dei tedeschi, e cioè «la democrazia parlamentare e il liberalismo, il modo di vivere francese e l’americanismo», pienamente “accettati” da Weimar.

Con l’ascesa del nazismo il progetto svanì

Bisognava lottare per «l’indipendenza e la libertà della Germania, la più alta valorizzazione dello Stato, il recupero di tutti i tedeschi che si trovavano sotto il dominio straniero». Niekisch riteneva che il proletariato fosse il soggetto più legittimato a condurre questa resistenza, e la Russia di Stalin l’alleato naturale. Inutile dire che con l’ascesa del nazismo anche il progetto nazionalcomunista del politico e scrittore tedesco svanì.

Jean Thiriart e il movimento transnazionale Jeune Europe

Il progetto nazionalcomunista conobbe una rifioritura negli Anni 60 del secolo scorso grazie al belga Jean Thiriart (ex Waffen Ss) e al suo movimento transnazionale Jeune Europe, con sezioni in Belgio, Francia, Germania, Portogallo e collegamenti in Sud America e Australia. A Thiriart, socialista anti-marxista, si devono molte “intuizioni” e persino molte parole d’ordine fatte proprie da molti movimenti politici della destra radicale (a cominciare dalla Nouvelle Droite francese) e ancora oggi in voga, da «Europa Nazione», il cui simbolo era la croce celtica, a «Europa impero di 400 milioni di uomini», dal concetto di Eurasia come «Impero Euro-sovietico da Vladivostok a Dublino» alla identificazione degli Usa come nemico principale dell’Europa, dalla definizione di Mondialismo come «nuovo ordine mondiale» da combattere senza riserve alla promozione costante dell’uscita dell’Europa dalla Nato.

In Italia, una delle piazze più importanti dell’internazionale nera dell’epoca, Jeune Europe si costituì come Giovane Europa, da cui nacque, nel 1969, Lotta di popolo, attiva fino al 1973, i cui aderenti (tra cui figuravano non poche figure legate a Gladio e ai Servizi segreti) venivano definiti nazi-maoisti.

Freda e Terracciano, tra comunismo aristocratico ed Eurasia nazionalcomunista

Sempre in Italia, e sempre nel 1969, Franco Freda, che nel 1962 aveva fondato a Padova il suo Gruppo di Ar, considerato un antesignano del rossobrunismo, diede alle stampe il suo celeberrimo La disintegrazione del sistema, in cui teorizzava uno Stato basato su un comunismo aristocratico, una sorta di via di mezzo tra la Repubblica di Platone, il Reich hitleriano e la Cina maoista.

Negli Anni 80, il nazionalcomunismo conobbe poi un rilancio teorico grazie soprattutto a Carlo Terracciano, che proponeva una approfondita analisi dell’esperienza tedesca rivoluzionario-conservatrice nazionalbolscevica, ma anche l’esperienza dell’ala sociale del fascismo e del nazionalsocialismo (il cosiddetto “fascismo rivoluzionario”) e suggeriva un’attualizzazione di tali esperienze, oltre il nazionalismo e il comunismo otto-novecentesco.

Con la disintegrazione sovietica, Terracciano tornò a interrogarsi sulla possibile attualità del nazionalcomunismo e la sua risposta fu che «un’Eurasia nazionalcomunista, quale haushoferiana Paidea di mobilitazione di masse, diseredate dal Mondialismo, è l’unica risposta valida che i popoli del Nord del mondo antico possono ancora dare, dopo l’affossamento dell’utopia egalitaria e libertaria del marxismo».

Gli Anni 90 e i teorici russi tra nazionalbolscevismo e Putin

A partire dai primi Anni 90 il nazionalbolscevismo (che gli storici distinguono dal nazionalcomunismo per una maggiore componente metafisica) conobbe una nuova stagione di attenzione in Russia, quando Eduard Limonov e Aleksandr Dugin fondarono il Partito nazional bolscevico che proponeva una sintesi tra patriottismo sovietico e post-fascismo. Concetto fondante del movimento era il cosiddetto “eurasismo”, una sorta di «terza via tra capitalismo e comunismo, capace di unire in un solo blocco Europa e Russia», che individuava, tanto per cambiare, «negli Usa liberali e liberisti» il nemico per eccellenza.

Non solo Alemanno e Rizzo, la storia del terzaforzismo rossobruno
Aleksandr Dugin (Getty).

Più di recente, Dugin ha chiarito che l’Europa occidentale non appartiene in senso stretto allo spazio eurasiatico (che “filologicamente” nasce dalla simbiosi tra Russia, mondo turco-musulmano e persino cinese), ma può trovare nella Russia un prezioso alleato per combattere le tendenze egemoniche atlantiste. Alla Russia di Vladimir Putin spetta quindi il compito di condurre, anche oltre le sue frontiere, la sfida globale all’invadenza (e all’invasione) americana.

La rivoluzione antimondialista: Maurizio Murelli

Inutile dire che, come dimostrano Terracciano, e soprattutto Dugin, il tema della globalizzazione (mondialismo) offre nuovo slancio al cosiddetto rossobrunismo. Maurizio Murelli, già storico militante della destra radicale italiana, e che da tempo ha abbandonato posizioni passatiste per proporre ricette antagoniste del tutto sincretiche e originali, è partito proprio dalla necessità di creare una nuova sintesi politica, cioè una sorta di alleanza rivoluzionaria antimondialista tra soggetti antagonisti, che rifiutino cioè l’attuale modello di sviluppo, al di là dei vari steccati ideologici, e vogliano dare vita a una «alternativa globale di libertà e giustizia per i popoli oppressi dal materialismo, dal consumismo, dall’alta finanza, dall’oligarchia economica».

È però necessario, prima di tutto, smontare i luoghi comuni che, secondo Murelli, destra e sinistra, in questo parimenti reazionarie, propongono nella “difesa” anacronistica e granitica della loro storia e della loro identità, impedendo loro di riconoscersi, pur nell’antagonismo, una dignità reciproca. Il fascismo, in senso lato, non fu solo ed esclusivamente l’Impero del male, come non lo è stato il comunismo. Solo superando questa ottusa difesa reciproca dell’ortodossia – è la sua tesi – destra e sinistra potranno tentare una vera sintesi rivoluzionaria.

Il fascismo 2.0 si combatte con la memoria storica non con gli slogan

Al netto della “svista” in cui sono incorsi Michela Murgia, Paolo Berizzi e Roberto Saviano a proposito del presunto saluto romano (e del presunto inneggiamento alla X Mas) nel corso della parata militare del 2 giugno, l’episodio ripropone un’annosa questione: ma è davvero efficace, e utile, disperdere energie, anche e soprattutto intellettuali, per gridare «al lupo al lupo!» fascista inseguendo manifestazioni che del fascismo spesso non fanno che rivelare aspetti perlopiù folcloristici, estetici, qualche volta persino grotteschi (o patetici, se si preferisce, come nel caso delle annuali manifestazioni in occasione della morte del duce, o in quella della marcia su Roma)? Non c’è dubbio che occorre tenere alta la guardia, ma sapendo discernere il ridicolo dall’inquietante e dal pericoloso (come può essere stato l’assalto alla Cgil di Roma, o quello al liceo fiorentino dello scorso febbraio, in questo caso a prescindere da ogni aspetto ideologico: qui c’è di mezzo la violenza).

Il fascismo 2.0 si combatte con la memoria storica non con gli slogan
Il tweet di Berizzi sulla parata del 2 giugno.

Ora si grida all’occupazione meloniana della Rai, ma da anni siamo assuefatti a una narrazione revisionista

Finché si sollevano polveroni e si criticano gli aspetti più formali che sostanziali (Giorgia Meloni che veste di nero, il presidente del Senato Ignazio La Russa che tiene in casa busti di Mussolini, e così via) non si rende un buon servizio all’antifascismo. E non è esasperando la polemica contro l’occupazione (come se fosse la prima volta che avviene) della Rai che si può intervenire sui meccanismi che permettono questo tipo di occupazioni, e men che meno sulla qualità dell’informazione. Certo, si dirà, ma una destra che si impossessa della tivù nazionale (oltre a possedere Mediaset) può davvero incidere sulla “narrazione” del Paese e inculcare idee e principi favorevoli a una progressiva fascistizzazione della società. Giusto. Ma, a maggior ragione, non è con gli slogan e la retorica (che appaiono spesso più una cortina fumogena frutto di boutade identitarie e calcoli elettorali) che si può contrastare con efficacia questo rischio. Da anni, per non dire da decenni, il mainstream informativo, certamente non solo televisivo, è appiattito su una narrazione revisionista, questa sì pericolosa. Perché minacciando la nostra memoria storica, rischia di cancellare ogni differenza tra ciò che è bene e ciò che è male (per la democrazia, ovviamente). Ed è su questo che bisognerebbe intervenire.

La disattenzione e il deficit politico abbassano le difese immunitarie della democrazia

E invece, sul revisionismo, tranne poche voci isolate (si potrebbe citare, per tutti, il rettore Tomaso Montanari, che con i suoi interventi ha cercato, per esempio, di richiamare l’attenzione sull’ambiguità, per usare un eufemismo, della legge del ricordo delle Foibe, venendo a più riprese bacchettato da Aldo Grasso sulla prima pagina del Corriere della Sera, senza, peraltro, che nessuna forza politica, o altra personalità, progressista fosse intervenuta in suo sostegno), la sinistra, in senso lato, non sembra sufficientemente attenta. Ciò è ancor più grave, considerando che, dopo tutto, proprio al nostro Paese spetta il triste primato di aver inventato il fascismo (non per caso Gobetti lo definiva come l’«autobiografia della nazione»), e cancellare la memoria di questa responsabilità non fa che favorire il rafforzamento di quella sorta di fascismo endemico, quasi antropologico, mai sopito. È qui che si misura la capacità di una sinistra che voglia davvero contrastare questo rischio con lungimiranza e concretezza e non con slogan e facili allarmismi. Ancora nel lontano 2017, Piero Ignazi, su Repubblica, commentando alcuni episodi di violenza neofascista di quei giorni (compreso un tentativo di occupazione della stessa redazione romana del giornale) sottolineava come quei rigurgiti fossero sostenuti non solo da un classico mix di nostalgismo e, appunto, neofascismo, ma anche dalla capacità di una parte non secondaria di questo stesso neofascismo (vedi i casi Forza Nuova o CasaPound) di penetrare i varchi della rete civile con esperienze comunitarie e visioni politiche alternative. Tutto questo, era sempre Ignazi a rimarcarlo, grazie anche a una sorta di distrazione/disattenzione dell’opinione pubblica e di deficit della politica, un deficit condito da qualche indulgenza di troppo e da una retorica antifascista che, per Ignazi, hanno abbassato le difese immunitarie e lasciato campo libero ai cultori del totalitarismo.

Il fascismo 2.0 si combatte con la memoria storica non con gli slogan
L’assalto neofascista alla Cgil di Roma, il 9 ottobre 2021.

L’anti-capitalismo di destra e le armi spuntate della sinistra

Se oltre allo scarso contrasto alle minacce portate dal revisionismo storico, aggiungiamo l’altro grande ambito, quello economico, ci rendiamo conto di quanto la sinistra fatichi a contrastare l’avanzata della destra, peraltro su un tema che dovrebbe appartenerle intimamente, quello dell’anticapitalismo. Perché non c’è dubbio che tra i punti di forza della destra radicale vi sia anche la rielaborazione e la proposta di ricette socio-economiche che, volendo sintetizzare, si potrebbero definire come “anticapitalismo di destra”; cifra (peraltro mutuata dalla maggior parte dei movimenti fascisti sorti un po’ in tutta Europa tra le due guerre) che accomuna pressoché tutte le espressioni del radicalismo di destra europee, guarda caso nei Paesi, Ungheria e Polonia su tutti, lontani mille miglia dalla tradizione liberista e capitalista per esempio angloamericana e tedesca. E che si pone come componente tra le più pregnanti del modello populista. Ovvio che una sinistra, come quella italiana, ma non solo, da decenni schierata su posizioni persino turbo-capitaliste e globaliste si ritrovi con poche armi spuntate nel contrapporsi a un fascismo 2.0 che invece solletica le pulsioni appunto più populiste, identitarie, sovraniste (con tutto il corollario xenofobo, omofobo, islamofobo e chi più ne ha più ne metta).

Giorgia Meloni e Viktor Orban, i motivi di un allontanamento
Selfie tra Giorgia Meloni e Viktor Orban.

Come evitare la «defascistizzazione retroattiva del fascismo»

Una sinistra davvero efficace, insomma, dovrebbe contrastare l’avanzata di questa ondata reazionaria occupando, con le idee e le proposte, gli spazi che ancora esistono, anche ripensando, vedi appunto il caso dell’anti-capitalismo, le proprie posizioni. Ma senza entrare nell’ambito dei programmi politici, e rimanendo in quello culturale, faccio un solo, ultimo esempio: lo scorso anno, Aldo Cazzullo, editorialista del Corriere della Sera e divulgatore tra i più letti e conosciuti, ha pubblicato Mussolini il capobanda. Perché dovremmo vergognarci del fascismo, un libro coraggioso, che demolisce tutti i luoghi comuni sul fascismo e sul suo duce, mostrandoci Mussolini per quel che è stato, ovvero un dittatore crudele e criminale, che si è macchiato di terribili crimini contro l’umanità. Oltreché coraggioso, il libro di Cazzullo è anche importante, perché, forse per la prima volta dopo Giorgio Bocca, non uno storico (gli storici restano purtroppo confinati nella ristretta cerchia accademica), ma un popolare divulgatore si è finalmente contrapposto a una lunga e affermata tradizione che, dall’immediato Dopoguerra a oggi, ha prodotto, grazie all’impegno di giornalisti altrettanto popolari come Indro Montanelli, Mario Cervi, Antonio Spinosa, Arrigo Petacco, Giordano Bruno Guerri, e fino al caso limite di Gianpaolo Pansa, una pubblicistica a dir poco edulcorata e autoassolutoria sul fascismo, concorrendo a quella «defascistizzazione retroattiva del fascismo» (copyright dello storico Emilio Gentile) che inevitabilmente ha portato, per riprendere il termine, a un abbassamento delle difese immunitarie.