Disabili dimenticati: quando l’emergenza è cronica

Nessuna task force se ne occupa. Gli aiuti non arrivano. E le associazioni sono ormai allo stremo. Il peso di tutto grava sulle spalle dei congiunti. Come sempre. Mentre chi è portatore di un handicap cognitivo è condannato a un lockdown costituzionale. E senza fine.

Si preoccupano di tutto e per tutti, a parole, ma dall’agenda restano fuori i reclusi in se stessi, prigionieri della loro debolezza.

In una comunicazione logorroica, a suon di decreti annunciati, verbosi, dirigibili di retorica, i diversamente abili, i disabili, le persone con handicap, chiamale come vuoi, non sono contemplati, il che vuol dire che non esistono.

Ma esistono invece. Esistono per i loro congiunti, affetti stabili che non sanno più come arginare.

ASSOCIAZIONI SENZA SOSTEGNO

Scrive su Facebook un avvocato di Ancona: «Penso a mio fratello che è privato del centro diurno che costituisce la base e la gioia della sua vita sociale quotidiana, non io. Mi si stringe il cuore per Lui (…). Questi soggetti non mi sembra siano trattati come una delle priorità dell’agenda politica (per usare un eufemismo) (…). Ma non si può stare zitti e fare finta che vada tutto bene. Forse “andrà tutto bene”, ma adesso non ne va bene una. La vita delle persone diversamente abili andrebbe diversamente tutelata, ma forse questa è un’idea solo mia». L’avvocato non è uno del qualunquismo populista, è un progressista, impegnato in attività culturali di matrice progressista. Però è uno che ragiona.

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E ragiona la madre di Roma, anch’ella progressista, col figlio recluso insieme a lei, e invece avrebbe bisogno di aria, di sole, di primavera come un fiore, un albero. Ma hanno chiamato una associazione e l’associazione ha spiegato: nessun aiuto è previsto, perché gli aiuti (che, peraltro, arrivano a chiunque col contagocce, ammesso che arrivino) il governo li ha tarati su una condizione di eccezionalità, di emergenza, nella quale i disabili psichici non rientrano.

SE L’EVASIONE SORVEGLIATA È UNA NECESSITÀ

Ah, no? Certo, queste persone la loro emergenza la vivono ogni giorno; l’eccezionalità è la loro unica normalità. Però farne una discriminazione in punta di cavillo, è proprio una porcata. Quindici task force, 500 componenti, nessuno che si sia posto il problema dei fiori malati, di chi ha ancora più bisogno di una evasione sorvegliata. Di chi, nella camicia di forza di quattro mura, impazzisce ancora di più, e rende insano chi gli sta a fianco. E il cronista è sommerso di questi appelli disperatamente inutili, che intercetta in Rete o lo raggiungono al telefono; seppellito di messaggi in bottiglia, che non arrivano da nessuna parte, galleggiano all’infinito nel mare delle parole.

L’UNICO MONDO POSSIBILE È IL LOCKDOWN

Bambini autistici, adulti con sindromi gravi, persone private di un appuntamento quotidiano: non pervenute, tanto il loro lockdown è già infinito, è costituzionale, l’unico dei mondi possibili per loro. Quanti sono? Non si sa, il governo, la comunicazione ufficiale si guardano bene dal farlo sapere. Sono dati a perdere, inghiottiti dall’omertà. Scontano la colpa di essere infortunati; non servono, attualmente, alla propaganda, anzi sono un peso, un problema di più. Se la vedano i congiunti. Gli affetti stabili. Però senza aiuti, senza sostegni, senza attenzione. Ha predicato, da Londra, il supermanager Vittorio Colao: tornare alla bicicletta, tornare a una società più naturale. Lo dicevano meglio le nonne in vernacolo: hai voluto la bicicletta, adesso pedala. Ma c’è chi nemmeno in bicicletta può salire, peccato che Colao coi suoi 17 superesperti non se ne accorga, peccato che nessuno dei 500 competenti sparsi per commissioni ne abbia sospetto.

MANCANO ANCORA I PRESIDI SANITARI

Ha denunciato lo scorso 14 aprile Alberto Fontana, presidente Centri clinici Nemo: «Oggi molte attività di assistenza domiciliare non ci sono più. Mancano dispostivi come le mascherine e talvolta gli assistenti vanno a casa dei malati e sono totalmente vulnerabili». L’Anffas-Auser stima in 800 mila il numero di disabili e non autosufficienti a vario titolo ospitati in strutture residenziali; restano fuori dal computo i soggetti che vivono con i familiari. Gli alunni disabili sono 272 mila e «l’85% non ha la tecnologia necessaria per seguire le lezioni». Quanto ai lavoratori, «sono tantissimi quelli che non possono continuare a essere operativi da casa». Hanno chiesto tamponi e aiuti ad hoc: trovatevi le mascherine, ha risposto il governo.

ECCO COME SI MISURA IL LIVELLO DI UN PAESE

Se la vita condizionata dalla disabilità è già sfibrante, in regime di isolamento da pandemia diventa insostenibile. I “congiunti”, i genitori tengono duro, perché altro non possono fare, ma crolleranno domani, se e quando tutti torneranno alla normalità possibile. Per questi, la normalità possibile è un impossibile vivere: i costi, fisici, mentali, non sono contemplati. Ma è la sensazione di isolamento nell’isolamento, di abbandono nell’isolamento, a consumare di più. È da queste cose che si misura il livello di un Paese, dal livello di attenzione per gli ultimi veri, abbandonati come sassi in fondo a un fiume. Cari disabili, non avete voluto la bicicletta, pedalate lo stesso.

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I migliori dischi del 2019 di cui nessuno vi ha parlato

Una classifica atipica. Di nomi (quasi) mai citati. Dai Cheap Wine e Il Terzo Istante in Italia ai Th' Losin Streaks e New Model Army nel resto nel mondo. Viaggio in un anno da riascoltare.

C’è qualcosa che non va con le classifiche di fine anno: tutti hanno la loro, ma alla fine si assomigliano tutte ed è forte il sospetto di interferenze fin troppo ispiratrici. Allora proviamo noi a stilarne una atipica, di dischi (quasi) mai citati in questi giorni eppure assolutamente significativi del 2019 che già sbadisce; tutti in rigoroso ordine sparso, perché non è questione di preferenze ma di menzioni.

GIORGIA DEL MESE E GLI ALTRI SPLENDIDI OUTSIDER

Tra gli italiani, andiamo a scegliere non i soliti nomi alla moda, ma gli autentici outsider: Giorgia Del Mese, si è appena ripresentata con Moderate Tempeste, lavoro di appena cinque brani ma terribilmente belli, in pratica una sola piccola suite squarciata come la coscienza in cui si parla in faccia al dolore: che risponde, eco dall’anima, figlio della vita. Prodotto mirabilmente da Andrea Franchi. Grande lavoro anche per i sempre autoprodotti Cheap Wine di Pesaro, che con Faces superano ancora loro stessi, aggiungendo profumi e suggestioni alla loro miscela di Americana stravolta in modo unico e risolta da musicisti di squisita caratura. Notevole pure il ritorno di Umberto Maria Giardini, che in Forma Mentis riscopre il grunge e l’hard rock degli inizi con risultati poetici decisamente intensi. Altra proposta sorprendente, davvero sorprendente, quella de Il Terzo Istante, formazione torinese prodotta ancora da Andrea Franchi, capace nei nove pezzi di Estraneo di sviluppare un nuovo concetto di rock d’autore, spiazzante, obliquo, grondante creatività, impreziosito da una apparizione di Paolo Benvegnù (in dirittura d’arrivo col nuovo disco, in uscita tra febbraio e marzo).

E come dimenticare l’autentico capolavoro di Francesco Di Bella, O Diavolo (uscito in effetti alla fine del 2018), nove canzoni inafferrabili tra dub, autore, pop, rock; inafferrabili ma ti afferrano, una dopo l’altra, protese fra Napoli e l’universo, una più splendida dell’altra, in un trionfo di ispirazione quale raramente si incontra in Italia? Siamo anni luce distanti da Sanremo, e non può essere un caso: tutto ciò che passa dall’Ariston, a dispetto delle troppe giurie selezionatrici, è di imbarazzante mediocrità, mentre i vari premi alternativi sono ormai lottizzati allo stesso modo; per non dire di X Factor con relative imitazioni, che sono davvero la tomba della creatività. Quando qualche meraviglioso incosciente oserà ancora mettere in piedi un contro-festival davvero libero, assolutamente impermeabile a suggestioni e sollecitazioni di sorta, con questi ed altri nomi, capaci di ricordarci che la musica italiana esiste ancora, pulsa, chiama: è lì, in attesa che qualcuno se ne accorga?

TRE NOMI GIGANTESCHI (MA NON SOLO)

Nel resto del mondo, si impongono senz’altro tre nomi giganteschi, capaci di sfornare dischi all’altezza della fama: Bruce Springsteen in Western Star torna ad agitare i prediletti fantasmi dei perdenti, i disperati, i corrosi, ma lo fa in una sorprendente veste bacarachiana, e il risultato è spettacolare; quanto a Nick Cave, il suo Ghosteen è senz’altro difficile, lungo, ostico se si vuole, ma importa, e vale, per quello che rappresenta, per l’elegia della sofferenza in punta di sibili, di rimandi, di echi; ed è imprescindibile seppure pesante. Il terzo nome ingombrante che non si può evitare è quello di Iggy Pop, che torna sui passi di un ritiro annunciato per uno dei suoi dischi che rimarranno, lo sperimentale, morboso, jazzistico, autoriale Free, dove Iggy si mette in scia del perduto amico David Bowie e riesce a tenere il confronto.

Un altro album che vale la pena di scoprire o riscoprire è quello di Cass McCombs, cantautore americano 42enne che con Tip of the Sphere tira fuori un lavoro prolisso ma sempre ispirato

Viceversa, un nome che solo qualche nostalgico ricorderà è quello dei Th’ Losin Streaks che dopo 14 anni dall’ultimo disco, e nove dallo scioglimento, si ricoagulano per l’autoironico, almeno nel titolo, This band will self destruct in t-minus. Ma lo scherzo finisce qui. Perché il disco è un furibondo concentrato di garage, avant-punk e rock and roll come non si usa più (a tratti le sonorità sembrano ricordare perfino i Cheater Slicks); da Sacramento con ardore, spettinando Kinks, Troggs e i pensieri di chi ascolterà questo mirabile fiotto di lucida incoscienza. Altra perla misconosciuta, ma da recuperare, quella dei New Model Army, redivivi pure loro, e in che modo!

Con questa esplosione di rock come sempre antagonista, From Here, dalla doppia durata (un’ora, suppergiù) ma mai meno che intenso, urticante, allarmante. Il rock come agitazione, come inquietudine che inquieta, e che, dagli anni Ottanta, non ha perso un solo battito del suo cuore convulso. Cambiando bruscamente genere, un altro album che vale la pena di scoprire o riscoprire è quello di Cass McCombs, cantautore americano 42enne che con Tip of the Sphere tira fuori un lavoro prolisso ma sempre ispirato, con episodi che si dilatano, cullandosi in melodie essenziali e avvolgenti dalle più o meno lunghe digressioni psichedeliche, qualcosa che a tratti richiama l’approccio di un Jonathan Wilson – il quale tornerà a dare notizie di sè con un nuovo album entro la prossima primavera.

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I rumors da Sanremo: nel toto giuria spunta la sardina Santori

A 50 giorni dal Festival di tutto si parla fuorché di cantanti. Ospiti, influencer e un giudice "popolare": i nomi che rimbalzano nei corridoi dell'Ariston.

Sarà un caso, ma a 50 giorni dal Festival di Sanremo, e il 70esimo Festival, mica uno qualunque, di tutto si parla fuorché di cantanti; et pour cause, come vedremo tra un attimo. Anzitutto, si parla di ospiti: e Tiziano Ferro, che se no un Festival non è un Festival, e Jovanotti, per un Sanremo più equo e solidale, tanto gli uccelli fratini all’Ariston non fanno il nido, almeno loro, e Rosario Fiorello, che all’Ariston ci ha messo radici, e Roberto Benigni che all’Ariston ci ha messo le tende. Benigni arriverà zompettando su musica pinocchiesca, dirà le due solite amenità ammuffite, zomperà in braccio al Nasone Amadeus, leggerà, male, malissimo, qualche terzina incatenata di Dante e tutti, all’unisono: ah, Benigni, che grosso genio che è lui. Perché il cattoprogressista reazionario Benigni ormai è intoccabile, insindacabile, garantisce Mollica, che del Festival è il corifeo.

UNA INFLUENCER AL FIANCO DI AMADEUS

Poi si parla di vallette, termine sessista, in disuso ma non è colpa nostra, è il Nasone che le concepisce così: preso da megalomania alla geom. Calboni, ne vorrebbe dieci, due per sera, ma tutte gli danno picche, Monica Bellucci gli dà picche, Lady Gaga picche, o è scarso l’appeal del nasone o è scarso l’appeal del gettone (di presenza). A fianco di Amadeus, siccome Sanremo è impagabile nel prendere il peggio del presente, dovrebbe andare una influencer. Tramontata, pare, la stella sanremese di Chiara Ferragni, eclissata quella di Giulia de Lellis, manda bagliori Diletta Leotta, a meno di qualche concorrente dell’ultimo minuto ancor meno adatta al ruolo, che so, una Taylor Mega. Comunque vada sarà un successo, perché nessuna di queste è minimamente in grado di presentare e le gaffe e gli imbarazzi non si conteranno; ed è per questo che sarà un successo, si punta, come è chiaro, sull’inadeguatezza, cosa che, oltre a divertire “il pubblico a casa”, a intasare i social, a scandalizzare, ma neanche tanto, i severi critici stampati, farà risaltare la professionalità del Nasone, secondo la celeberrima legge di Murri, il medico che usava circondarsi di macellai: ne accoppavano a dozzine, ma lui per converso risaltava come eminente scienziato.

UNA SELVA DI CANTANTI RIBOLLITI

E veniamo così al piatto debole, i cantanti. E che? Siamo sempre alla ribollita, alla rifrittura più micidiale: si parla di Elodie, per la serie “kikazè”; di Levante, la indie più mainstream che c’è; Anastasio, che è l’unico solido ma pare già normalizzato; Irene Grandi, altra habitué spietata, Francesco Renga, un anno sì e l’altro pure, e così Arisa, che a quanto pare torna, sospinta dalla Sugar di Caterina Caselli, dopo la partecipazione di appena un anno fa: cantava Mi sento bene ma, essendo costipata, la sera della finale fece una figura imbarazzante. Ma si parla pure di Marco Masini, il più classico dei rieccoli, Enrico Ruggeri, che forse lo supera, Bianca Atzei, che si legge RTL 102,5, Marcella Bella e Riccardo Fogli (stavolta senza Facchinetti), e perfino Paolo Vallesi, di cui non si sentiva la mancanza da 29 anni, e perfino Max Pezzali, quando si dice “non ci libereremo mai degli anni Novanta, Ottanta, e pure dei Settanta, e pure, volendo, dei Sessanta. Al Bano, che a Sanremo partecipava già prima ancora che fosse inventato, ha declinato la gara, “non ho più l’età”, ma non l’ospitata con Romina e qui siamo all’eterno ritorno dell’uguale, all’infinità circolare del tempo.

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Il conduttore Amadeus.

Un altro che lontano dalla Riviera non ci sa stare è Ermal Meta, per non dir di Rocco Hunt, rapper boomerang, da Napoli a Sanremo quasi tutte le edizioni, di Francesca Michielin, la promessa più eterna che c’è, di Chiara Galiazzo, e si torna alla categoria “kikazè”. Altri sugheri che riemergono inesorabili dal mar di Sanremo, e dei quali si fa il nome: Giusy Ferreri la “tormentara”, Samuele Bersani, Noemi, Anna Tatangelo, Alex Britti, Gianluca Grignani. Tra i rapper, Rancore e Tormento, una ventata di positività e gioia di vivere; mormorato anche Michele Bravi, che tornerebbe così alla musica dopo l’annunciato ritiro a seguito del dramma stradale che lo coinvolse. Quindi i solisti rimasti soli: Tommaso Paradiso, che non è più thegiornalista, Francesco Gabbani, che non è più l’erede di Celentano (e quando mai lo è stato?) e nessuno se lo fila già più, secondo profezia Pippobaudesca (“Non dura, questo non dura…”), Francesco Bianconi, dai Baustelle alle fustelle festivaliere, Enrico Nigiotti, che non è più il cocco di Mara Maionchi e, boja dè, torna, forse, sull’Ariston per la seconda volta consecutiva: altro che Nonno Hollywood, questo qui a Sanremo ci stationa, Nonno Ariston.

IL MANUALE CENCELLI DEL FESTIVAL

Ma la vera libidine, come diceva Jerry Calà negli Anni 80, sono gli outsider (maddeché?): Diodato, Gualazzi, la ereditiera di professione Elettra Miura Lamborghini, responsabile dell’epocale singolo Pem Pem, poi i sottokikazè: Fred de Palma, rapperon del reggaeton che ha già rotto i maron, forse in duetto con tale Ana Mena, e sai la menata; Pinguini Tattici Nucleari, perché la quota indie va sempre rispettata (indie de che, li pompa la Sony), Alberto Urso, perché pure sulla quota Maria de Filippi non si scherza, e infine la Quota X Factor, perché a Sanremo si va col vecchio infallibile manuale Cencelli: oltre a un figlio famoso, di cui si dirà tra poco, i nomi che girano sono, purtroppo, quelli di Luna Melis, che il talent di Fremantle ha bruciato come babycantante ma lanciato come babypresentatrice, e di Martina Attili, assai presunta genietta già all’ultima spiaggia sanremese.

Tommaso Paradiso.

Sulla pletoria dei probabili, però, si staglia come un totem lui, l’unico e il solo: Piero Pelù, rockstar stagionata, look da ciucaio di Pinocchio, profeta del vaffanculoooh ante Grillo: Andreotti vaffanculooh, Craxi vaffanculooh, Licio Gelli vaffanculoooh (poi ci finì a Villa Wanda a prendere il tè), Renzi vaffanculoooh, Salvini vaffanculoooh, attualmente in quota grillina. Simpatico, originale, sempre coerente. E va a Sanremo a portare il rock formato mezzo toscano.

Per un Bocellino che non c’è, Matteo, segato o ritirato lui dalle selezioni, un Gassmanino invece c’è, sia pure nel sottoclou dei giovani

Categoria figli di un cognome. Per un Bocellino che non c’è, Matteo, segato o ritirato lui dalle selezioni, un Gassmanino che invece c’è, sia pure nel sottoclou dei giovani: Leo a X Factor non aveva brillato, ma così carino, così educato, così (in)titolato, come fai a dirgli di no? Si toglie anche Brunori sas, che la promozione al nuovo album se la fa altrove. Tutto il cast di Sanremo, condotto da Amadeus, comunque, sotto la direzione artistica di Amadeus, verrà annunciato il 6 gennaio durante I soliti ignoti, presentato da Amadeus, il quale ha appena fatto sapere che il dado è tratto: ha deciso, ha scelto i 22, sempre lui, Amadeus, perché le sinergie sono importanti e Amadeus modestamente è una sinergia umana, sinergia di se stesso, una Matrioska singerica. Tanto la minestra sarà più o meno sempre quella.

METTI UNA SARDINA ALL’ARISTON

In compenso, succose indiscrezioni a livello portineria si sprecano, eccone una dal sen fuggita di uno che sta nel business: «Sai, stiamo valutando se chiamare il capo delle sardine, Mattia Santori, magari infilandolo in extremis nella giuria di qualità: di musica non sa niente, ma effettivamente è molto televisivo. Oh, però mi raccomando, è ancora tutto in forse, dipende anche da come vanno le elezioni in Emilia Romagna [sic!], tu però non scrivere niente, eh!». Io lo scrivo. Perché niente andrà tenuto nascosto al popolo. Aggiungendo, però, che allo stato è solo una pazza idea (o qualcosa di più? Ah, saperlo…). Dulcis in fundo, sembra molto, molto pompata la partecipazione di quest’astro nascente della discografia molto alternativa, oh, un altro “erede di Lucio Battisti” (Dente ci è ormai morto sulle dita mentre scrivevamo, appena ieri, che era l’erede di Lucio Battisti). Ha un nome d’arte vagamente indisponente, tale Fulminacci e, a richiesta se a Sanremo ci va, risponde con decisione: «Sì, no, beh, non lo so, non se n’è parlato, però, chissà, potrebbe anche essere, che ne so». Sardinitas sardinitatum, et omnia sardinitas.

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X Factor 2019, le pagelle della finale

La puntata migliore. Perché è stata l'ultima. E così è finito questo talent che ha perso appeal e spettatori. O si fa un lifting o si chiude. Inadeguati i giudici, bene solo Davide e Sofia. Ma la vincitrice dovrà crescere.

Ma quella lì sarebbe la piccola Luna? Dio mio come si è trasformata in appena un anno, sembra una influencer, sembra già rifatta a 17. Questo sarebbe il magico mondo dello spettacolo oggi? Qualcosa che ti cancella l’anima più che rubartela? Persa ogni freschezza, nell’AnteFactor invita il pubblico a fare «un grande casino» per la finale che sta per partire. E la finale è la puntata migliore. Perché bene o male sforna un vincitore (cui verrà rimossa l’anima), ed è la vincitrice annunciata, almeno da noi, se un vanto è concesso, ed è, in fondo, la più meritevole. E così, in extremis, capisci che X Factor no, non è Canzonissima, non è La Corrida. È Miss Italia, che dopo 12 mesi non la riconosci più, la ragazzina di tremule ambizioni non esiste più e c’è una donna, donna, donna dimmi: cosa vuol dir, sei una popstar ormai? C’è da tremare pensando a cosa diventerà la tenera, ingenua Sofia, che già ci cambia sotto gli occhi.

L’IMMARCESCIBILE CATTELAN RESISTE COMUNQUE

E l’ultimo taglio è più più profondo: tutto si dissolve nel presente già passato ed è già tempo di spingere sull’acceleratore del successo. Mentre tutto si sbaracca a Milano, il Forum di Assago si svuota e il pubblico lento sfila via, i giudici spariscono sulle loro auto nere e difficilmente verranno confermati in una 14esima edizione già annunciata dall’immarcescibile Alessandro Cattelan che ci sarà sempre, stagionerà qui a Xf, ormai è parte del processo, ha legato il suo nome a questo talent, chissà se a gioco lungo gli converrà. Ma forse ha ragione lui, forse la sua dimensione è questa.

TALENTI CHE NON SARANNO MAI TALI

Si smorzano i clamori di X Factor, che quest’anno ha rotolato respirando male come non mai, ha perso appeal e spettatori, formula vecchia: fare un lifting o chiudere proprio? Formula risaputa e cervellotica, estenuante, puntate che non finivano mai, inzuppate nella noia, eliminazioni con ballottaggi difficili da capire, da seguire, e su tutto quell’aria di posticcio, di talenti che non saranno mai tali, che balleranno, forse, un anno solamente.

QUANTE CRISALIDI NON SBOCCIATE IN FARFALLE

Magari non tutti, magari Sofia o Davide ce la faranno, ma la strada di X Factor è costellata di crisalidi mai sbocciate in farfalle. Che rimane di questi tre mesi? Poco, una gran fatica, un profondo senso di stanchezza, la sensazione di una impotenza insormontabile. L’ultima puntata è stata la migliore. Perché è stata l’ultima, perché è finita.

ALESSANDRO CATTELAN 6

Ammazza, ma suona pure il piano. Molto andante. Era meglio il vecchio Pippo. Anche in questo. Arrivederci all’anno prossimo, tu sei l’unico che non ha bisogno di bootcamp, sei l’inesorabilità del talent.

MARA MAIONCHI 4

Quest’anno li ha persi tutti, i suoi, e fa numero, fa tappezzeria. Che mestizia. Sarò cattivo, sarò pazzo, ma a me ha ricordato Peo Pericoli, il personaggio di Teocoli. Triste, solitaria y final.

MALIKA AYANE 4

Da questa esperienza esce conclamata nell’antipatia, nell’affettazione sciocca, una della quale ci si chiede: sì, ma questa che ha mai fatto, dopotutto, in carriera? E la risposta, amici, soffia nel vento.

SFERA EBBASTA 4

Alzi la mano chi l’ha trovato preparato, o carismatico, o adeguato. Va bene, ha vinto anche lui con Sofia, ma in realtà Sofia ha vinto da sola. Una faccia da schiaffi, ma lo sapevano, e tutto il resto… non c’è. Svegliatevi ragazzi, vi stanno prendendo per il coso.

SAMUEL 4

Il nostro “Umarell” torinese, con ragionieristico piglio, ne porta due in finalissima, scandalosamente, ma è la legge del menga: chi più vende (si spera), il pubblico se lo tenga. Come giudice, come personaggio, latitante. Lo truccano, lo pitturano, ma finisce per somigliare curiosamente a Gilberto Govi. Morale: una band finita, i Subsonica, genera una band che mai comincerà, i Booda. Corsi e ricorsi sonici…

BOODA 4

(Heart Beat, Nneka; 212, Azealia Banks; Hey Mama, David Guetta ft Nicky Minaj). La scandalosa finalissima di questa cosa strampalata fin dal nome induce domande esistenziali: che sono questi? Che vogliono? Che fanno? Una band no, giovani no, il pestone ai tamburi ha 40 anni, la cantante pare Cristina d’Avena che canta la canzone dell’Orangutang, quella degli scout. Sembrano più tre tipi che un giorno si dicono: dài, proviamoci; e se poi ci va dritta? Per chi scrive restano una Boodanada, ma forse proprio per questo restano l’ideale di Xf.

SIERRA 4

(Le acciughe fanno il pallone, Fabrizio de Andrè; 7 Rings, Ariana Feande; Dark House, Katy Perry). Terzi, arrivano. Terzi. Su decine e decine di aspiranti. Questi di strada ne faranno, perché il piccolo provinciale music business all’amatriciana ha un bisogno disperato di sempre nuovi coatti da lanciare: una rapperia tappetara, che prima o poi finirà, ma non domani. Auguri.

DAVIDE ROSSI 7

(How Long Has This Time Going On, George Gershwin). Vergogna su di voi, chiunque voi siate: il più talentuoso in assoluto, lo segano in finale; e umilia anche il bolso Robbie Williams. L’ex bambino grasso della Clerici resta l’incognita più grande, un talento che non sapranno assolutamente come gestire. Sarebbe da dirgli: fallo da solo, fatti da solo, ma come si fa? Non sono più i tempi, oggi a 20 anni Satisfaction non la scrive più nessuno e anche col talento di un Davide non esci; non c’è nessuno che te lo riconosce. Auguri, con una stretta al cuore, perché meriti il meglio.

SOFIA TORNAMBENE 7

(Fix You, Coldplay; Papaoutai, Stromae; C’est la Vie, Achille Lauro). Adesso che ha vinto, possiamo pure farle un po’ di pulci. Brava, sì, in tutto: ma dovrà perdere quel non so che di caramelloso, dolciastro, trasognato di provincia. Insomma dovrà crescere, in fretta. Il punto è come: non lo sappiamo, c’è da rabbrividire, creta in ciniche mani, sorde mani che non rispettano la musica, che corrono dietro al soldo facile… La aspettiamo tra un anno, senza illusioni.

ROBBIE WILLIAMS 4

(The Christmas Present: Time for change/Let it snow). Ammazza quant’è scoppiato, pare il fratello anziano di Eros Ramazzotti. In apertura riesce a cantare peggio di tutti, perfino di Cattelan. Uno dei tanti bluff di questi tempi buffi.

ULTIMO 5-

(Tutto questo sei tu). Un po’ Tiziano, un po’ Antonello, un po’ di questo, un po’ di quello. Dicono che è un genietto, un fuoriclasse; lo dicono, e intanto il nuovo singolo, Tutto questo sei tu, clona Gente di mare di Tozzi/Raf (1988). E se invece fosse la costruzione di un atomo?

LOUS AND THE YAKUZA 5

(Gore: Dilemme) Si leggono meraviglie di costei, principalmente per «la sua storia difficile», ci crediamo per carità, solo che questa lagna super patinata e facile facile non va oltre la milionesima variazione, poco variata, sul solito tema world…

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Gianni Morandi, l’eterno e coerente divo di casa

Gesticolare inconfondibile, manone, un po' di furba umiltà. Fa 75 anni il cantante che ha sempre saputo essere, o apparire, il più normale possibile. Di sinistra ma non spocchioso, orgoglioso della sua quinta elementare. Ritratto di un italiano vero con quell'entusiasmo che regge al tempo.

Finiamola con questa storia di Gianni Morandi l’eterno ragazzo, che ci ha fatto incanutire. Morandi è eterno, punto e basta. L’11 dicembre 2019 ha fatto 75 anni, cavalcando stagioni, epoche, mutamenti ma in fondo è sempre lui, senza fronzoli, senza addobbi, la solita giacca e pantaloni, il gesticolare inconfondibile e quell’entusiasmo a prova di tempo.

COSÌ VITALE CHE SEMBRA PIÙ GIOVANE DI NOI

Chi scrive lo vedeva a Sanremo, a mezzanotte ospite sul palco dell’Ariston e alla nove della mattina se lo ritrovava sul tir di un network fresco e pimpante che mitragliava interviste e rideva e cantava e si sbracciava con le manone, completino giacca pantaloni e camicia candida che uno pensava: ma come fa, Dio lo benedica? E a vederlo così libero e bello ti sentivi suo nonno.

NON DOVEVA FARE L’ANTIDIVO PER ESSERE UN DIVO

Morandi, quando un nome diventa un modo di rispecchiare. Come un’autobiografia della nazione nei suoi aspetti più fragranti; un italiano, un italiano vero. Ne ha vista scorrere di acqua sotto i ponti, ha conosciuto il divismo ancora imberbe, quando “andava a cento all’ora“, e di sicuro divo lo è stato, nel bene e nel male (gli dedica passaggi non proprio benevoli, per esempio, Adriano Aragozzini in un suo libro autobiografico), ma ha sempre saputo essere, o apparire, il più normale possibile: un divo che non aveva bisogno di fare l’antidivo per essere un divo.

gianni morandi
Una foto di Gianni Morandi in occasione della presentazione del nuovo album “D’amore d’autore”, diffusa il 16 novembre 2017. (Ansa)

SIMBOLO DELLE MIGLIORI STAGIONI DELL’ITALIA

E non ha, è chiaro, conosciuto solo le rose e i fiori del successo, uno con 60 anni di carriera sfoglia i giorni buoni e quelli tetri e poi quelli buoni ancora. Ma è come se nel suo sorrisone aperto, nel suo gesticolare di manone generose, qualcosa riportasse sempre a stagioni che ricordiamo come le migliori della nostra vita, le più genuine, anche se erano adulterate anche quelle.

RIPORTA A UN PO’ DI INGENUITÀ RESIDUA

Sì, c’è qualcosa nel Gianni nazionale (l’altro è Rivera, e potrebbero valere grossomodo le stesse considerazioni) che riporta sempre all’ingenuità residua, a quando la dimensione del divismo era più irraggiungibile e insieme più a portata di mano. La stagione dei Natali d’oro, delle estati sudate, dei sabati sera delle Canzonissime e dei kolossal di una televisione spettacolosa, delle masse che erano ancora popolo, degli italiani che non si erano ancora montati la testa, salvo alcuni, nati patrizi, stronzi di default. E che la facciamo a fare la storia della carriera di Gianni Morandi, oggi che tutti la stanno spolverando?

QUANDO IL PAESE MASCHILISTA SI FINGEVA ROMANTICO

No, parliamo di lui, di quello che rappresenta, di come gli italiani lo vedono, lo sentono, lo ascoltano. Lui che in questi giorni è tornato, come per un vezzo, come per un incantesimo contro il tempo, nel teatro che lo vide esplodere, a Bologna, il Duse: Stasera gioco in casa si chiama il suo spettacolo che non è retrospettivo, è eterno e la gente non ne ha abbastanza, 21 serate sono poche, lui ne ha dovute aggiungere altre quattro. E giù con La Fisarmonica, In ginocchio da te, Non son degno di te, l’Italia maschilista che si fingeva romantica e forse, dopotutto, un po’ lo era davvero.

gianni morandi giovane
Un giovane Gianni Morandi. (Ansa)

UGUALE MA NON PER GATTOPARDISMO: È COERENZA

Morandi che ci ricorda come eravamo, perché pur cambiando non è mai cambiato e per una volta non è gattopardismo, è coerenza: io sono questo, sono così e anche se divento una star di Facebook lo faccio a modo mio, lo resto a modo mio. Quando, passato il decennio d’oro, nella seconda metà degli Anni 70 la sua stella s’è offuscata, e lo è rimasta a lungo, Morandi non ha fatto come altri, che ringhiavano, «il pubblico non mi capisce», e magari si tingevano di straziante giovanilismo; s’è infilato al Conservatorio, s’è messo a studiare la musica in modo colto, lui campione del canzonettismo popolare (ma che canzoni, però!), e poi, grazie a Mogol, ma soprattutto a Lucio Dalla, è riemerso.

NON SI È PERSO COME IL PRESUNTO GURU CELENTANO

Da allora ha saputo amministrarsi, piazzando qualche bel gancio, anche stupidino, Banane e lampone, e qualche inno sempreverde, Uno su mille ce la fa. E quell’uno su mille era lui. Cavalcando il tempo, ma senza cambiare troppo. Ci sono coetanei della sua epoca che si son persi, come Adriano Celentano che ha preteso di farsi feticcio, guru onnisciente senza averne i minimi fondamenti culturali. Gianni no: con la sua quinta elementare orgogliosa si è costruito senza mai dimenticare le radici.

DI SINISTRA, PERÒ NON QUELLA FANATICA O INTEGRALISTA

Uomo di sinistra, ma una sinistra vivaddio non spocchiosa, non arrogante, non fanatica o integralista. Il pubblico lo segue, diremmo, perché si riconosce in lui, ci si specchia e gli piace quello che vede: un’Italia che non c’è più, ma che il Gianni tiene ancora presente con le sue Fisarmoniche e il suo look senza fronzoli e senza tempo.

gianni morandi mutande
Un’immagine che mostra Gianni Morandi nel 2002 durante il monologo televisivo in mutande. (Ansa)

TALENTO E ANCHE UNA FURBA UMILTÀ

Il talento, la capacità di essere Morandi, la presenza scenica non si discutono; ma sono presupposti, non è tutto qui. C’è una furba umiltà, c’è l’orgoglio di chi si sa essere, senza pulpiti, senza strafare: ma chi è che non vuol bene al Gianni, chi è che riesce a dirne male? «Ma sarà così davvero o finge, fa il furbo?». Tutti fingono, specie a quel livello di fama.

UNO DI CASA, ANCHE AL RISTORANTE

Ma, se accettate una testimonianza diretta, io l’ho visto tempo fa in un ristorante a Bologna, è entrato e s’è infilato in cucina e giù pacche sulle spalle, sorrisi e saluti, e tutti erano contenti, tutti lo trattavano come uno di famiglia. Certo, sarà stato uno dei suoi locali abituali, ma c’era qualcosa in quell’apparire, qualcosa che non si può recitare. Qualcosa di bolognese, anche, diobò. Qualcosa che non poteva essere che così. Essere Gianni Morandi. Dopo è andato a sedersi, con qualcuno, e la gente diceva: hai visto, c’è Morandi, c’è il Gianni, ma così, come si fa con un divo di casa. Da 60 anni o giù di lì. Cento di questi giorni, Gianni Morandi, per te e per tutti noi.

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Davide e Sofia eccezionali, giudici in confusione perpetua

Tornambene e Rossi restano i due concorrenti più dotati, mentre la giuria pare senza più mordente. Tra gli ospiti si salva il pianista siriano Aeham Ahmad. Le pagelle della semifinale.

Rischioso, mettere una popstar sullo stesso palco con degli aspiranti: può capitare come con la boxe, il ragazzino affamato che mette alle corde il campione sazio e pasciuto, gli fa fare una magra figura. Davide di X Factor, per esempio, canta meglio di Tiziano Ferro. Meglio sotto tutti gli aspetti, dal timbro all’espressività; 15 anni fa, lo avrebbero costruito e ci avrebbero costruito una carriera, magari fino in America, adesso rischia di bruciarsi al sole fatuo di un talent, lui come Sofia, stelline di due mesi e poi l’oblio.

Se questo X Factor – che per tutta questa tredicesima edizione ha rantolato, annaspato, ha mostrato muscoli che non aveva per mascherare il declino – una chiave di lettura ancora la conserva, è la seguente: testimonia del totale sbando di una discografia che ai talent ha appaltato il suo vivaio, almeno quello del mainstream, del commerciale che è il genere di riferimento. Una formula che dovrebbe, doveva scoprire quelli bravi, i talenti e troppo spesso li manda a sicuro macello, privilegiando il qui e ora della faccetta bella e possibile, spendibile, del personaggino dalle spinte giuste, da fiondare subito a Sanremo, da spremere e buttare.

Quando va bene: che è di Lorenzo Licitra,”tenor di grazia” vincitore nel 2017 e subito evaporato, uno che da due anni annuncia un disco che nessuno ha più visto? Voi direte: e allora i Maneskin? Allora Anastasio? I Maneskin non esistono, esiste il cantante Damiano che presto proseguirà da solo, per quel che durerà, Anastasio invece è talmente atipico che sarebbe uscito fuori anche senza talent. Ma quanti cadaveri di possibili artisti disseminano il cammino di queste 13 edizioni di X Factor? Domande che ci poniamo alla vigilia, ormai, di una finale che schiera due bravi, Davide e Sofia, una coppia di trapper per ragazzi, la Sierra, e un non so cosa che non ha il non so che, questi Booda che, azzardiamo, non avranno alcun futuro.

TUTTA LA GIURIA SOTTO LA SUFFICIENZA

ALESSANDRO CATTELAN: 6. Del color del suo vestito. Grigio. Senza sfumature.

MARA MAIONCHI: 4. A immagine e somiglianza del programma che l’ha lanciata a 70 anni: spremuta, spenta, ripetitiva, fuori dai tempi e dal tempo; senilmente fissata con «l’erotismo» (dei Booda, che le manca). Arriva in finale senza nessun candidato, lei che in passato tanti ne aveva fatti vincere (e di più ne aveva affogati).

MALIKA AYANE: 4. Sera dopo sera, ha affilato il birignao a livelli d’afasia: quand che la parla, se capiss nagott. Magari modulasse così quando canta. Tanto look, zero sostanza; ha ragione solo su una cosa, quando difende Davide dai colleghi, in malafede o stupidi, che non ne vedono «il percorso», che lo considerano datato: giudizi a pera, anche Mozart a questa stregua è datato.

SFERA EBBASTA: 4. Vedi sopra. Per lui tutto ciò che non è truffa rappettara è vecchio, non ha senso. Ma a non aver senso è lui. «Ah, mi rompono le balle perché dicono sempre hai spaccato». Mah, chissà con chi ce l’ha. Glielo ripetiamo una tantum, perché la zucca, sotto il color porporina, è notoriamente dura: Sfera, hai spuaccuato. Le bualle.

SAMUEL: 4. Il nostro Umarell fals e corteis, come si dice dei piemonteis (ma è un pettegolezzo a livello portineria) se ne porta ben due alla finale. E bravo. Ma certi giudizi, proprio… «Ah, Davide, sei bravissimo ma non so dove vai». Perché, lui Samuel dove va? A scaldar la poltrona a XF. Mai un guizzo, mai un sussulto, azzarederemmo che per lui XF finisce giovedì prossimo.

SOFIA E DAVIDE SOPRA TUTTI, BOODA SPROFONDA

SIERRA (Born Slippy, Nuxx, Underworld/ Ni Ben Mal, Bad Bunny): 5. Candidati alla vittoria ormai. Sarebbe scandaloso, ma li pompano: hanno visto che su internet sono i più consumati. Come se bastasse ad una credibilità; forse qui sì, qui è tutto quello che conta. Ma se questo due di rapperminkia («fra bro c’è aria che tira stasera che tiro») fosse solo fumo per ragazzi?

SOFIA TORNAMBENE (Human nature/Michael Jackson/Love of my life, Queen): 7 1/2. Dicevano: ah, che difficile però il pezzo della Sierra coatta, gli Underworld: e allora Sofia? Ma se una è brava, non teme neanche il fantasma di Michael Jackson. E infatti. Questa ragazzina sa cantare, ha un istinto che supplisce alla tecnica, e impara in fretta. Ha un bel timbro, caldo e fresco. Dio le ha dato tutto. Anche se sui Queen convince meno. Tra parentesi, l’arrangiamento di entrambi i brani, in termini freddamente analitici, faceva desiderare e questa è un’altra tara di X Factor.

DAVIDE ROSSI (Toxic, Britney Spears/Uptown Funk, Bruno Mars): 8 1/2. Se penso che era un bambino grasso alla corte della tortellona Antonella Clerici. Qui è il migliore, senza discussioni. Anche più di Sofia. Lui ha anche tecnica, oltre che doti naturali, ha un timbro che a volte ricorda Freddie Mercury, a volte Elton John, se la cava anche molto bene al piano, ha confermato una versatilità che gli contestavano; davvero appaiono meschini i rilievi di certi “giudici”, «ah, ma tu non hai un percorso». Loro, invece… Straniante, sentirlo criticare da gente che non vale un suo sputo.

BOODA (Dibby Dibby Sound, Dj Fresh vs Jay Fay/Level up, Ciara): 4. E fu così che il cronista, a 55 anni, dopo un’onorata carriera anche a volte pericolosa, si ritrovò a parlare di tre che fanno dibidibidi dibidibidù. Ma XF è quel posto dove vogliono far fuori uno come Davide, e non ce la fanno perché davvero non possono, perché sarebbe oltre l’indecenza, e però mandano in finale ‘ste tre app, ‘sta Cristina d’Avena liofilizzata. Erotici come sardine, e tutto il resto è Booda, dibidibidù.

EUGENIO CAMPAGNA (Una buona idea, Niccolo Fabi/Nessuno vuol essere Robin, Cesare Cremonini): 5. L’hanno spinto fin dove hanno potuto, lui ci credeva pure, gli davano, spericolatamente, della nuova grande cosa della canzone d’autore, del poeta: Eugenio Montato. Ma se poi ti fanno i complimenti perché non hai fatto orrore come la settimana scorsa, che senso ha? Ora, non sapremo mai se ha stancato “il pubblico dei social” o se si son fatti due calcoli. Sconta anche l’invecchiamento di nonna Mara, che difficilmente potrà imporlo come un nuovo Nigiotti.

💥 SBAM 💥Ospite della Semifinale di #XF13 per la prima volta in TV 😇 tha Supreme 😈 con “Blun7 A Swishland”!

Posted by X Factor Italia on Thursday, December 5, 2019

TRA GLI OSPIDI SOLO AEHAM AHMAD COMUNICA QUALCOSA

THA SUPREME: ??. Potevamo anche mettere: WTF? (la traduzione evitiamola). E come fai a commentare un cartone animato? Che non c’è, oltretutto, vecchissimo trucco, basti pensare ai Residents. Insomma, la recensione su questo ignoto già l’ho fatta, e forse è stata la più difficile della vita mia.

TIZIANO FERRO: 5.Sto Tiziano poesse Fero e poesse Piuma: oggi è stata ‘na lagna. Non si sta un po’ appesantendo, imbolsendo? A metà della sua maturazione, basta non incanutisca precocemente: il rischio c’è.

AEHAM AHMAD (I forgot my name): 6. Suggestivo. Per come ha vissuto, per come suona. Per quello che dice. Se non canta è meglio.

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X Factor 2019, le pagelle del sesto Live

Davide, uno dei concorrenti più dotati, al ballottaggio. Sofia è azzoppata da Sfera Ebbasta. Scandalosa la promozione di Eugenio. Il talent perde credibilità di puntata in puntata. I voti.

Un fatto apparentemente logico: Giordana l’Arpa che uccide e Nicola il parà-gnosta fuori.

Da non credere: entrambi si giocano uno sballottaggio (lo chiamiamo così perché quest’anno gli spareggi li hanno resti quanto mai cervellotici) con Davide, il più prossimo a un talento.

Ci crediamo, che dipende tutto e solo dal pubblico? Se uno come Eugenio fa una esibizione da circo o da galera, e lo tengono su perché «una serata storta può capitare a tutti», ed è una frase ribalda, vergognosa questa di Cattelan, che credibilità resta?

INDEDITI DELUDENTI

Comunque limitiamoci a constatare il risultato, e anche a rimarcare che gli inediti, architrave commerciale di XF, sono poca cosa, per andare di eufemismo, anche se sono quelli che ufficialmente, sulla base delle preferenze del pubblico, determinano una scala di probabilità: tu resti, tu te ne vai. E se la piccola Sofia ha dalla sua l’attenuante dell’età, fino a un certo punto, gli altri non trovano alibi: davvero i tanto strombazzati «autori internazionali» non avevano di meglio che questi scarti evidenti da offrire? Davvero è questo il gusto, il linguaggio musicale di XF? E cosa dovrebbe mai sortire da tanta piattezza?

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Se così è, la sentenza è senza appello: quivi si pensa solo all’immediato, quivi si cerca solo chi è venduto, subito, adesso, senza complicazioni, senza implicazioni. Ma nessuno può credere che talenti in boccio come Sofia, come Davide, possano venire allevati, gestiti da una Ayane, da uno Sfera Ebbasta; e già solo l’apparenza offende. Va pur detto, va lasciato nero su bianco, non credete?

GIUDICI SOTTO LA MEDIA

ALESSANDRO CATTELAN: 5. Stavolta manco la sufficienza gli do: più spento, più svogliato, più distratto e vacuo del solito. 

MARA MAIONCHI: 4. Spiace, ma ormai è vecchia. Vecchia. I suoi concorrenti, dà l’idea di abbandonarli a loro stessi, ci pensi qualcun altro, se uno ha le spalle coperte, come l’insopportabile Eugenio, continua, se no precipita (il parà-pendio Nicola). E forse è proprio così. Non sa i titoli, si perde, si incasina e allora dice: cazzo!, e tutti ridono. Anche basta, per rispetto suo e nostro.

La giuria di XF13 (dal profilo Fb di X Factor).

MALIKA AYANE: 4. Kraftwerk, banana, albero di Natale, lampadario: il look è più umano e più seducente. Ma giusto per questo, per i look, resterà all’archivio di XF. E per come non ha saputo gestire i suoi concorrenti, Davide su tutti, dall’alto della sua incompetenza condita di fumosi birignao pretenziosi.

SFERA EBBASTA: 3. Niente. Nuttata persa e figlia fimmena, come direbbe Montalbano. Quando non capisce una scelta, un brano antico, cioè il 99% delle volte, lui dice: ma dove vai, io non so dove vai. È un ragazzino che non ha storia, non ha cultura musicale, vive in un presente fatto di soldi svelti e di non-musica, di inganni sonori. Niente. Il niente.  

SAMUEL: 5. «C’è gente che studia una vita!», scandisce l’Umarell, riferito ai musicisti. Roba da maestro Perboni. Dà consigli, instrada, orienta: certo, il carisma è rasoterra, e chissà l’imbarazzo, in bagno, la mattina, quando si fa la barba, parlar bene di cose come i Booda o “la” Sierra. Ma forse la barba non se la fa, e così risolve. 

CHE SCANDALO LA PROMOZIONE DI EUGENIO

NICOLA CAVALLARO (The sound of silence – Simon & Garfunkel): 4. La celeberrima canzone del silenzio come la farebbe Tom Waits. Ah, no, aspetta, come la farebbe Springsteen. Ah, no, aspetta, come la farebbe un camionista sull’A14. Tanti auguri, Cavallaro, ma forse non è neanche questa la tua strada. 

Sofia durante il sesto live di XF (dal profilo Fb di X Factor).

SOFIA TORNAMBENE (I love you – Woodkid): 6+. Canzone sbagliata, arrangiamento sbagliato, look sbagliato. Hanno già cominciato a violentarla. Ecco cosa è un talent: strangolare in culla il talento. Ma non è colpa sua, lei è giusta, è sempre giusta. Troppo brava, le dicono i “giudici”: sì, troppo per voi che la strangolate così, e solo una Malika può dirle: «Brava stai crescendo».

La Sierra hanno presentato un brano di Morricone (dal profilo Fb di X Factor).

SIERRA (The exstasy of gold – Ennio Morricone): 4. Colpo bassissimo, una cinesinfonia di Morricone. Sfigurata ovviamente dal testo, per giunta in autotune da bimbiminkia. Ma dai, su, ma che davero davero vogliamo pigliarci per i fondelli? Sarebbero questi i campioncini, «sia me che te siamo dinamite, io volevo avere solo tue notizie»? Penoso (risultano “i più scelti” dai regazzini social: detto tutto).

DAVIDE ROSSI (Treat you better – Shawn Mendes): 6+. Ma perché debbono trasformarlo per forza in un Mika? Vale quando detto per Sofia: siamo all’assurdo, al parossismo. Ma lascialo libero. E questi ragazzi scontano l’incompetenza di chi dovrebbe farli nascere. Ma cosa è mai diventata, ma che razza di pazzia è mai diventata la discografia italiana?

I Booda cantano Hold up di Beyoncé (dal profilo Fb di X Factor).

BOODA (Hold up – Beyoncé): 5-. Più erotici, più erotici, li incita nonna Maionchi. I Booda han rotto: ma basta! Ma cosa sarebbero questi tre? Cosa avrebbero? Sì, va bene, è bello sognare da ragazzi, ma insomma non è che poi i sogni li debba per forza scontare un pubblico. 

EUGENIO CAMPAGNA (Cosa mi manchi a fare – Calcutta): 2. Rubo le parole a Mara: «Nel nostro tour cantautorale ci mancava Calcutta». Ecco, ci mancava proprio. Calcutta di Campagna: una matrioska di spocchiette. Il ragazzo se la tira molto, già dalla faccetta, ma stecca da plotone d’esecuzione, altro che promessa: sì, di sventura. «Perché una serata storta può capitare»: ma se vince lui, non è uno scandalo: è una porcata.

ANASTASIO DA 9

DARDUST: 3. Ricordati di Yanni. O, per i più stagionati, come chi scrive, anche del Guardiano del Faro. Che però, quanto a sigle, gli dava la polvere a questo qui.

FRANCESCA MICHIELIN: 2. Alzi la mano chi sa dire in cosa spicchi questa lagnosetta senza senso; l’hanno spinta in tutti i modi, ci hanno buttato valanghe di soldi, non ha combinato niente: e il pubblico se n’è accordo, anzi non se n’è accorto, non se la fila proprio. 

ANASTASIO: 9. In quest’anno è stato dappertutto, si è inflazionato, adesso è pronto l’atteso primo disco, intanto propone una scelta spiazzata, Er Fattaccio der vicolo del Moro di Americo Giuliani, cavallo di battaglia di Gigi Proietti: renditi conto, questo tira fuori un testo del 1911. Lo riscrive (splendida anche la risoluzione sonora). E ti distrugge. Sei uscito da un talent tuo malgrado: per l’amor di Dio non normalizzarti, non lasciarti guidare, sbaglia sempre di testa tua, che c’è bisogno del nuovo antico che sei. 


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Quelle canzoni di successo svilite dalla pubblicità

Alcune nascono fuori dal tempo, destinate all'eternità. Anche troppo, perché un bel giorno ti ritrovi a odiarle, t'ingenerano nausea e quasi disprezzo.

Ci sono canzoni che nascono fuori dal tempo, destinate all’eternità. Magari non lo sanno, o non lo sanno i loro autori o forse sì, le hanno fatte proprio con quell’obiettivo lì, sta di fatto che diventano modi di dire, di essere, di sentire, patrimonio dell’umanità. Anche troppo patrimonio, perché un bel giorno ti ritrovi a odiarle, t’ingenerano nausea e quasi disprezzo: sono diventate tormentoni pubblicitari, jingle, sigle di trasmissioni becere, sonerie, musichette maledette di attesa infinita al call center. Canzoni spot che vivranno per sempre da rinnegate. Nessuno si salva, né vivi né trapassati: è il post capitalismo, bellezza, ovvero è sempre una faccenda di soldi (il resto è conversazione, parola di Gordon Gekko). E, siccome è una faccenda di soldi, qualcuno che dà il permesso, dietro pingue compenso, ci sarà pure: di solito gli inconsolabili eredi, così pronti, anche a mezzo fondazione, a preservare la purezza antimercantile del caro estinto, in tanti sensi.

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I SUCCESSI CANNIBALIZZATI

Abbiamo visto imbastardire così Sergio Endrigo (Io che amo solo te), Rino Gaetano (Il cielo è sempre più blu), gente intransigente, che in vita mai si sarebbe sognata (forse) di finire a reclamizzare istituti di credito, merendine, cibo per cani, carte igieniche. Abbiamo visto, e vediamo, ribelli organici come Vasco Rossi, che, «eh, oh, capito», molla le sue creazioni alle compagnie dei cellulari, «eeeh già». Abbiamo visto inni anticapitalisti degli Anni 60 finire come colonne sonore di auto di lusso, gioielli, abiti griffati, i feticci del capitalismo hard. Abbiamo visto, sentito momenti epocali come She’s a rainbow dei Rolling Stones usata come sigla di una compagnia telefonica, per fortuna non di una marca di assorbenti, visto che di quello poi parla (e speriamo che a qualche genio, leggendoci, non s’accenda la lampadina). Abbiamo trovato una ammiccante, allusiva Guarda come dondolo di Edoardo Vianello relegata a réclame dei reggiseni

DIRITTI ASTRONOMICI A CUI È DIFFICILE RESISTERE

Eh, già, le compagnie della comunicazione: sono cannibalesche, macinano hit con voracità da squali, a decine, a centinaia: come resistere a sirene così spietate? Edoardo Bennato è tra quelli che resistono meno, anzi per niente, dei suoi brani un tempo sarcastici, intransigenti, finiti negli spot dei telefoni si è perso il conto. Anche Sting, l’ambientalista dell’Amazzonia, concede praticamente di tutto, è stato calcolato che coi soli diritti pubblicitari guadagna cifre astronomiche, la sola Every breath you take gli fa cascare in bocca all’incirca un milioncino d’euro l’anno, nella solenne incazzatura degli ex compagni, cui il principe dei solidali egualitari e perequativi non scuce un ghello. Ma si concede anche con Puff Daddy, insomma c’è da sospettare che da un bel pezzo lui le canzoni le faccia per tutt’altri motivi. 

IL CEDIMENTO DI BOB DYLAN

E Bob Dylan, il bardo, che nel 2009 autorizzò la epocale Blowin’ in the wind per una multicorporation britannica (la Co-operative Group) che, tra le altre cose, provvedeva, pensate un po’, ai servizi funebri? Praticamente l’inno della cremazione. Nel 2015 lo scontroso menestrello si è ripetuto prestando la faccia a uno spot della Ibm. E, per rimanere nel settore, ancora i Rolling Stones diedero, per un compenso clamoroso, la loro Start Me Up a Bill Gates in occasione del lancio del sistema operativo Windows 95 (che s’impallò proprio alla solenne presentazione, rimasta memorabile).

David Bowie, imprendibile in esistenza come in spirito, ha sponsorizzato di tutto, automobili, profumi, acque minerali. La sola Heroes ha rivestito il carisma di così tanti prodotti, oltre a trasmissioni di tutto il mondo e alle Olimpiadi di Londra 2012, da disperdere completamente il senso del significato originario.

DAL CAROSELLO ALLE HIT

Segno dei tempi che stanno cambiando, aveva ragione Bob, cambiano, cambiano sempre, non aspettano nessuno (come diceva Mick) e chi non si adegua è fuori. Ma si adeguano. Le aziende hanno capito che non sanno più concepire i motivetti di Carosello, che s’inchiodavano al cervello, preferiscono risparmiarsi la fatica e pescare nel mare magno dei successi.

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Così «il gusto pieno della vita» di un celebre amaro lascia il posto agli Aerosmith di I don’t wanna miss a thing. Altro che perdersi qualcosa, qui c’è tutto da guadagnarci. Tranne la faccia, qualche volte.

CANZONI CONSUMATE DA PROGRAMMI SCONFORTANTI

Ci sono programmi sconfortanti che consumano canzoni, L’Anno che verrà di Lucio Dalla è snaturato in un eterno Capodanno, I migliori anni della nostra vita di Renato Zero servono a condire qualsiasi scempiaggine televisiva, Ti amo di Umberto Tozzi ci esce dalle orecchie, e così Zucchero, Ligabue, De Gregori («La storia siamo noi, bella ciao» è finita a reclamizzare il Monte dei Paschi di Siena).

Enrico Ruggeri ha fatto di meglio, ha ricantato la sigla dei salumi Negroni, «le stelle sono tante, milioni di milioni…». Ma perfino Il pescatore, scelta per presentare il recente, e deludente, ritratto di De Andrè, è stata svilita a una assurda sigletta da tivù dei ragazzi. Perché in Rai debbono sempre sputtanare tutto così? Qualche volta, l’effetto vira sul grottesco. C’è un programma insulso, uno dei tanti, della mattina. A un certo punto scatta l’aria di «Buona Domenica, con quegli idioti che ti guardano e che continuano a giocare». E gli «idioti», senza il minimo imbarazzo, zompettano, ammiccano, fanno le facce, insomma: giocano.


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Tiziano Ferro, un miracolo riuscito (a metà)

Con il nuovo cd, il cantautore cerca svecchiarsi. Anche grazie al tocco internazionale di Timbaland. Dimostrando, in questi 50 minuti di autoanalisi, il coraggio di riscriversi. Il risultato è un disco riuscito anche se con qualche caduta nel sentimentalismo prima maniera. Ma lo sforzo va comunque apprezzato.

Tiziano Ferro ha un problema, si chiama Mengoni. Marco Mengoni. Uno che, per molti motivi, gli si può sovrapporre e nei fatti lo fa e lui rischia di uscirne sbiadito.

È sempre un po’ lo specchio di Biancaneve, anche nella musica: «Chi è la popstar più bella del reame?», e lo specchio: «Qualcuna c’è che è più bella di te».

Anche così si spiega, a 40 anni o giù di lì, la scelta di voltare pagina, per non lasciarsi imbrigliare, per non ridursi a clone di se stesso, a inseguitore dell’altrui successo. Oltre all’umanissimo artistico bisogno di mettersi alla frusta, di verificarsi e verificare un pubblico assuefatto.

E allora: via il produttore storico, quel Michele Canova che ha instaurato una sorta di dittatura del gusto sul pop mainstream, dentro il sogno di una vita, il guru sonico che dai 90 detta legge nell’hiphop e nel R&B commerciale americano, dunque mondiale.

IL TOCCO INTERNAZIONALE DI TIMBALAND

L’intento è chiaro: svecchiare il respiro, renderlo internazionale. Timbaland produce così nove pezzi, più i due di Davide Tagliapietra (chi è? L’ex di Mietta, chitarrista, turnista, uomo da palco), più uno a cura dello stesso Ferro; più lo spirito fratino di Jovanotti, altro sogno raggiunto per Tiziano; più la serenità esistenziale che ai quattro venti dichiara d’aver raggiunto; più la tempestiva polemicuzza con Fedez; più la copertina in sfumature di grigio meditabondo. Insomma non ci si fa mancar niente, signore e signori: voilà Accetto Miracoli. Per vendere. Per rimanere se stesso. Per cambiare. Per dire: sono un uomo adulto, un artista adulto, col coraggio di reimpacchettare il successo e giocarmelo. C’è riuscito, Tiziano?

CINQUANTA MINUTI DI AUTOANALISI

Ferro non è Leonard Cohen (che esce anche lui oggi, postumo, con lo struggente Thanks for the dance, assemblato sul figlio che ha cucito suoni e musiche sulle parti vocali lasciate in eredità). Il lavoro comunque si apre con un beat lento, profondo, e un cantato che già chiarisce il senso del gioco: Vai ad amarti, forse vaghissimamente dalle influenze Massive Attack, è l’incipit di questi 50 minuti di autoanalisi dove, in effetti, la mano americana di Timbaland si sente eccome. In modo accorto, senza stravolgere la matrice dell’artista, cui anzi viene lasciato ogni spazio – il tappeto sonoro è fatto più di richiami, echi, sospensioni, battiti, ma resta sempre la voce cantante in prima linea.

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Amici per errore si sposta verso il Beck più folk, ed è un altro pezzo riuscito, sorretto da chitarre acustiche piene e pulite, contrappuntate da singole gocce di piano: rischia la melensaggine, e invece la sua semplicità cattura.

IN BALLA CON ME SI FA PALESE LA SFIDA A MENGONI

Balla con me, giustamente, aumenta le pulsazioni e qui sì che la sfida, discreta ma chiara, a Mengoni, è gettata: spunta un Jovanotti e il gioco è fatto: orecchiabilità a eccedere, risolta con un gioco scaltro di trasporti e modulazioni. Se sfida è, la è sullo stile, sull’esperienza di una semplicità ruffiana che, per usare le parole del pezzo, «ci sta». In mezzo a questo inverno è l’unica prodotta direttamente dall’artista e si sente: recupera calligrafie autoriali fin dalla intro di piano, che, di solito, annuncia qualcosa di zuccherino e però di sciapo. «C’eri tu c’eri tu c’eri tu in mezzo a questo inverno» fa tanto Pausini, ovvero il Tiziano “vecchio”, che, per paradosso, era più vecchio a 20, 30 anni di questo nuovo che ne ha 40. Insomma, il branuccio fila via senza sussulti particolari: la promessa di smielaggine è mantenuta. Come farebbe un uomo è ancora classic Ferro, ma risolta in modo più moderno e conferma che la scelta di Timbaland è stata felice davvero.

Tiziano Ferro ha preso a metà il coraggio di riscriversi. Ma quella metà c’è, e va apprezzata. Da domani, da oggi la corsa sarà sempre più su se stesso

CON SECONDA PELLE TORNA IL SENTIMENTALISMO FACILE

Quanto a Seconda pelle, insiste nel romanticismo, o se si preferisce sentimentalismo anche facile – «una fotografia della fotografia» -, ma in un disco come questo è proprio il sentimento la chiave che fa entrare nel vissuto, il viatico per i conti con se stesso; se poi sia scelta autentica o solo astuta, è questione che pertiene a Ferro, basti qui dire che è un altro brano che non lascia particolari impressioni. Ma in un disco lungo, prolisso, è chiaro che non tutte le canzoni riescono col buco. Il destino di chi visse per amare è ancora e sempre autobiografia del cuore, virata al passato: la perdita è la carta d’identità, siamo fatti di assenze, di quel che abbiamo lasciato o ci ha lasciato lungo la strada. C’è un raccontarsi qui, tra nostalgie, fischi e successi, che deve anche più di qualcosa al Renato Zero della maturità. Le 3 parole sono 2 gioca sugli equilibri precari, sul ricomporre le scissioni: Tiziano l’italiano, il melodico, che si apre, a volte timidamente, a suggestioni diverse, meno nazionali, meno annunciate. È un brano emblematico dell’album, col suo oscillare tra il già sentito e sprazzi di inaspettato: Ferro avrebbe potuto osare di più, ha tenuto la briglia corta alla tanto annunciata smania di cambiamento, eppure il disco funziona.

PER RINNOVARSI È QUASI SEMPRE NECESSARIO TORNARE AI MAESTRI

Perché un disco, alla fine, vive di un suo carisma, di quella impalpabile atmosfera complessiva, e questa o c’è o non c’è. In questo senso, si può dire che l’obiettivo sia raggiunto. Casa a Natale, ad esempio, al di là di certe ingenuità testuali («di deserto sono esperto») sfodera perfino impensabili acutezze vocali alla Fabio Concato. A conferma che, per rinnovarsi, quasi sempre bisogna ritornare ai maestri.

Accetto Miracoli. Per vendere. Per rimanere se stesso. Per cambiare. Per dire: sono un uomo adulto, un artista adulto, col coraggio di reimpacchettare il successo e giocarmelo

Un uomo pop è tra i momenti più interessanti: di eleganza patinata, si ascolterebbe bene (anche) a una sfilata di moda, ma la costruzione è intrigante, il vestito sonico perfettamente bilanciato nelle sue sincopi e sospensioni, e il testo sembra quasi esaltarsi. È uno dei momenti in cui la cifra adulta di Tiziano risalta, amara, piccata, ironica ma finalmente diretta, scevra da ulteriori implicazioni. Buona (cattiva) sorte è un ballabile pseudolatino, di quelli che francamente hanno stuccato: sembra un riempitivo, o forse un acchiapparadio. Nelle pieghe dei beat si nasconde lo spettro del Battisti di metà Anni 70, ma, probabilmente, è un oltraggio non voluto.

FERRO HA TROVATO IL CORAGGIO DI RISCRIVERSI E VA APPREZZATO

Della chiusura (salvi i due remix in appendice) s’incarica il brano eponimo, Accetto miracoli con le sue ambizioni classicheggianti: tutto è sorretto dal piano, sopra discreti battiti sintetici e una brezza d’archi; è il momento del bilancio definitivo, almeno per ora. Il miracolo, musicalmente parlando, non c’è, c’è una canzone che sconta tutti i limiti di una generazione artistica e che tenta orgogliosamente di sciogliersi da quei limiti. Tiziano Ferro ha preso a metà il coraggio di riscriversi. Ma quella metà c’è, e va apprezzata. Da domani, da oggi la corsa sarà sempre più su se stesso, e meno sugli eredi possibili.


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X Factor 2019, le pagelle del quinto Live

Più che a testare il talento dei concorrenti, la puntata degli inediti serve a capire la loro vendibilità. Al ballottaggio torna Giordana. Davide, nonostante la trappola di un brano non memorabile, è sempre il migliore con Sofia. I voti.

Finalmente ci siamo, finalmente il gioco di X Factor entra nella sua carne viva: eccoci agli inediti, importanti non perché decisivi a stabilire la consistenza artistica degli autori e/o interpreti, ma semplicemente perché sono quelli che finiscono nelle raccolte che poi finiscono sulle piattaforme digitali che poi finiscono nei clic di chi li scarica che poi finiscono nelle tasche di chi sta all’estremo della catena alimentare.

Il business sta qui. I produttori di grido, i compositori, i demurghi del futuro prossimo delle orecchie dei consumatori giovani e giovanissimi: sta tutto qui. 

D’ora in avanti, il nome che conta è quello dell’inedito, cui attaccare una faccia, un nome, un possibile vincitore.

TRA I FAVORITI EUGENIO, SOFIA E I SIERRA

E, dai resoconti del giorno dopo, ma in qualche frettoloso caso pure del giorno prima, si coglie anche il senso di una segnalazione condivisa: c’è questo Eugenio, per esempio, salutato come un nuovo De Gregori, Tenco, Bindi o De André o Dalla o Gaetano, non si capisce come, o magari si capisce benissimo; c’è la piccola Sofia, che dotata la è, ma bisognerà pure capire come plasmarla, come stravolgerla; e ci sono i Sierra, che per forza di cose passano da prossima grande cosa della trap. Così, per profezia, per discreto passaparola. Sono i nomi più martellati, quelli considerati più in grado di vendere da domani. Anche alla luce delle prime reazioni dai social.

LEGGI ANCHE: Al quarto Live brillano solo Davide e Sofia

Al più bravo in assoluto, invece, Davide Rossi, han dato un pezzullo un po’ andante, giusto per bruciarlo, nella migliore tradizione di X Factor: perché questa è anche una trappola, e soprattutto una trappola, per i più bravi, per i più meritevoli, che non necessariamente coincidono con i più spendibili. Lo stesso ballottaggio stavolta si gioca sul mercato ed è la prima volta: lo decide la suggestione di un pubblico praticamente chiamato a raccolta su Spotify, sui social, convocato per consumare. Mai vista una meritocrazia così dipendente dal successo prima ancora che sia decretato. Ma i tempi sono questi: è bello ciò che piace, subito, senza assimilazione, senza pensiero, è bello cosa colpisce, tramortisce e hai 100 ore per colpire, dopodiché sei fuori.

CHE FINE FANNO IL TALENTO E L’ORIGINALITÀ?

E si parla di artisti, e si prestano artisti-giudici che giurano di anteporre l’attimo fuggente della creazione, l’essenza, la sincerità al calcolo e alla cassetta. Diciamolo, fa un po’ schifo. Ma Sony e Fremantle puntano tutto su questo e non lo nascondono: non hanno lesinato e si attendono grandi ritorni o almeno soddisfacenti. La qualità, il talento, l’originalità? Ehi, bro, yo, fra, ma tu, che sei, venuto qua a cercare rogne? Chi credi di essere, il bell’addormentato nel talent?

IN GIURIA SAMUEL SEMPRE PIÙ SIMILE A UN UMARELL

ALESSANDRO CATTELAN: 6. Ma si possono perdere cinque minuti, un’eternità in televisione, con la gag del pronostico di Antonio Conte? E lui li perde proprio, ce la mette tutta, non sarà neanche colpa sua, ma è proprio tempo perso, senza ironia, senza sale, senza niente. 

MARA MAIONCHI: 5+. Anche lei, poranonna, dice tante di quelle banalità avvolte nella stagnola dell’esperienza! Almeno nel suo caso c’è davvero, a differenza di Malika.

MALIKA AYANE: 5-. Tutto questo sfoggio di competenza, di scienza infusa, non sarà solo birignao? Perché se è così brava a capire tutto, non si spiega che le sue proposte le abbia ammazzate tutte e le resti solo Davide, che il più bravo ma pure tanto, ma tanto malgestito.

SFERA EBBASTA: 5-. «Tutto bene, raga?». E certo, raga, ‘n sai fa gnente, come direbbe Alberto Sordi, raga, e chi te la guasta, raga? Che insostenibile leggerézza, con la e aperta come una padella, mi raccomando. 

SAMUEL: 5. Ma solo a me pare terribilmente invecchiato dalla prima puntata? Sembra il nonno di Mara. Abbozza qualche polemica sugli inediti: lo trattano come un Umarell. Perfino Mara, che pare sua nipote, e non ha alcun rispetto per l’understatement piemontese falso e cortese.

De Gregori e Venditti super ospiti del quinto Live (dalla pagina Fb di X Factor).

MAHMOOD DA PROMESSA AL RISCHIO CLICHÉ

MAHMOOD: 6. Un anno fa con quel canto da muezzin seduceva, ora comincia già a romper le palle. Certo, quantum mutatum ab illo: il ragazzo insicuro è svanito, appena un anno dopo c’è un professionista fin troppo consumato che rischia già di chiudersi nel suo cliché.

VENDITTI-DE GREGORI: S.V. Dite la verità: li avreste immaginati, 40 anni fa, bomba non bomba, arrivare a Monza? Il duo più spocchioso della spocchiosa scuola romana, per non dire italiana? Ma bisogna vendere, vendersi, evitiamo d’infierire: Antonello pare zio Tibia, Francesco, Kit Karson sulle montagne rocciose. Eppure, che storia sono loro: fuori categoria, in tutti i sensi. Malgrado voi.

GEMITAIZ-MADMAX: S.V. Anche questi, che storia sono. Diciamo il contrario di due artisti veri. Tu senti la poesia di Francesco, di Antonello, poi ascolti «col culo che pare un esagono» e ti vien voglia di suicidarti. Perché capisci che a vivere una vita ci hai rimesso. Però una cosa giusta la dicono, anzi la rappano: «Siamo un Paese di falliti». 

I Booda hanno presentato Elefante (dalla pagina Fb di X Factor).

SI SALVANO SEMPRE E SOLO SOFIA E DAVIDE

BOODA – Elefante (Alessio Sberzella, Martina Bertini, Federica Buda, Samuel Romano, Davide Napoleone, Alessandro Bavo): 5. Come un elefante non in cristalleria ma sul palco del talent. Sembra Cristina d’Avena che fa i Puffi allo zoo sotto anfetamina. Tutta una roba strampalata, ma basta far casino, bum burubumbumbum.

Giordana canta Chasing Papaer e finisce al ballottaggio (dalla pagina Fb di X Factor).

GIORDANA PETRALIA – Chasing Paper (Sia Furler, Pineapple Lasagne, Samuel Ronald Dixon): 4. Giordana l’arpa che uccide (le palle, anzitutto), non fa prigionieri neanche senza l’arpa: all’ennesima conferma, e all’ennesimo ballottaggio, che probabilmente vincerà, diciamolo: ma perché non torna all’arpa e tace? Perché canta come una sirena portuale. La tengon su, fatica non da poco, e lei minaccia di credersi davvero una vocalist. Circonvenzione d’arpista.

I Sierra presentano Enfasi (dalla pagina Fb di X Factor).

SIERRA – Enfasi (Giacomo Ciavoni, Massimo Gaetano): 4. «Cantano la strada che si rompe sotto i piedi e ti fa cadere in motorino». Così parlò Samuel, che dev’essere caduto lui, da ragazzo. Di testa. Bòn, avranno anche «il respiro contemporaneo, la penna contemporanea», ma il dramma è proprio questo: non è un gran tempo, questo contemporaneo. «Prima o poi ritornerà/E dei graffi mi libererà». Un altra rimetta in verbo al futuro da parrocchia, ce l’abbiamo? Se questa è scrittura, Calabrese, Evangelisti, Bigazzi, Endrigo cosa sono? Ma forse l’Umarell non li conosce. Sbadiglio con enfasi: due maroni come quelli di un toro, olè.

Nicola Cavallaro presenta Like I Could (dalla pagina Fb di X Factor).

NICOLA CAVALLARO – Like I Could (Tom Walker, Jon Green, Jordan Riley): 4. Francamente, si continua a non capire cosa sia (beata Malika, che invece giura d’averlo finalmente capito). Non si capisce lui, né la canzoncina che fa schifo perché i tanto pompati Sia, Walker e compagnia bella fanno pena o almeno qui ci lasciano gli scarti; né il look, né il senso, né ‘sta voce che gorgoglia come una caffettiera, né che ci faccia qua, dopo aver fatto il marine, lo studente di Medicina e chissà diavolo che altro. Pure, va avanti.

Sofia canta la sua A Domani per sempre (dalla pagina Fb di X Factor).

SOFIA TORNAMBENE – A Domani Per Sempre (S. Tornambene, Valeria Romitelli): 7. Adolescenziale, e per forza. Una Edie Brickell, l’abbiamo detto, che fosse americana, sai quanto folk: sta invece al centro d’Italia, dove solo può aver senso un verso come «La Nazionale sembra una frontiera». Ed è un bel verso, la Nazionale essendo la Statale Adriatica che divide l’abitato dal nulla. Non siamo mica gli americani: ma va bene lo stesso, il brano (scritto a 14 anni) regge, anche se l’arrangiamento è stucchevole.

Davide Rossi canta Glum (dalla pagina Fb di X Factor).

DAVIDE ROSSI – Glum (Roberto Vernetti, Michele Clivati): 7-. «È pieno di ossimori», dice Malika, che anche lei, in un certo senso, è un ossimoro, anzi un’aporia. Il 20enne (scrissi 16enne, faccio ammenda) swinga, il brano non è granché. Robetta Anni 80. Lui è bravissimo malgrado voi, maledetti tutti.

Eugenio Campagna canta Cornflakes (dalla pagina Fb di X Factor).

EUGENIO CAMPAGNA – Cornflakes (Eugenio Campagna): 4. Faccia da Tiromancino, da Zampaglione. Più fumo che arrosto, infatti. Il fratello maggiore di Ultimo, che proprio non ci mancava. Dicono tutti: ah, vince lui. Noi ce ne catafottiamo. Dici che il voto è troppo duro? Allora pensa che questo a 28 anni canta Cornflakes, «io faccio ohi tu fai ahi», che è pure preoccupante come lirica. A 28 anni i Rolling Stones facevano Wild Horses (e Hendrix era già andato).

BALLOTTAGGIO: la solita Giordana, contro il meno “votato” da qui a martedì. Si decide giovedì prossimo…

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The Supreme, anche i bimbiminkia nel loro piccolo spaccano

Un linguaggio incomprensibile in un tappeto sonoro su misura. Il disco d'esordio del giovane rapper romano in 24 ore ha stracciato ogni record. Un album che è come una caramella, stordente, gommosa, acre, coloratissima, allusiva. E ci dice molto dei tempi in cui viviamo.

È difficile per chi abbia più di 16 anni capire, raccontare il successo folgorante di Tha Supreme, questo hip hopper, questo rapper classe 2001 che con un primo disco uscito da una settimana ha sbancato, anzi ha «spuaccuato», come direbbe Sfera Ebbasta.

Difficile non compiacere per il rischio di tradirsi e risultare “out of time”, obsoleto, superato: meglio fare quello mentalmente aperto, che mente a se stesso e a chi lo legge, tessere – per pararsi il culo, come stanno facendo tutti – l’elogio di un anonimo ragazzino romano, Davide Mattei, che però come pseudonimo, Tha Supreme, è già un mito e vogliono farlo passare per epocale. E qui serve un passettino indietro, piccolo perché la storia è esigua.

L’imberbe Davide si rivela, sedicenne, con un pezzo per Salmo, Perdonami, ripetuto da altri brani singoli, tutti fortunati, che via via vanno a costruire l’ossatura dell’album d’esordio, 23 6451, venti episodi, alcuni con le stelline nostrane del rap/trap/hiphop, Salmo, Mahmood, Marracash, Lazza, Nitro, Dani Faiv, Gemitaiz e Madman.

23 6451, UN DISCO D’ESORDIO DA RECORD

Il disco esce, targato Epic/Sony, e in poche ore razzola record a manetta: tutti e 20 i brani nella top 50 Italia, sette nella Top 200 global di Spotify, 13 milioni di streaming nel giro di 24 ore. Fine della storia, per ora. Ma anche inizio. Perché tutto parte da qui, e tutto da qui sarà possibile. Di fronte a questi numeri, il recensore medio si spertica nelle lodi automatiche: scampa alla tempesta di rabbia social degli adolescenti, passa nel novero di quelli che hanno capito l’incomprensibile, perché capaci di sintonizzarsi sui linguaggi delle giovani generazioni, bla, bla, bla.

È tutto un bla bla bla sapientemente decostruito, un pidgin hip hop fatto apposta per non essere capito

Ecco, il linguaggio: ingrediente primario di Tha Supreme. Perché non c’è. È tutto un bla bla bla sapientemente decostruito, un pidgin hip hop fatto apposta per non essere capito, e quindi a maggior ragione seducente: «Ciascuno ci trova quello che vuole», spiegano i recensori che hanno capito, come a dire la scomparsa del senso compiuto, universalmente accettato per comunicare. Tutto e il contrario di tutto, che è anche un bell’esercizio, volendo, di viltà: lo stesso dei politici, che si smentiscono mentre affermano.

Tranne quando Tha Supreme vuol farsi capire: allora i concetti li scandisce chiari, mitragliati, ripetuti, ma chiari e, vedi caso, sono regolarmente termini-sirene, che seducono i fanciulli: le canne, il fumo, la scuola no, «una puttana quindi figlio di puttana», il profluvio strategico di turpiloquio da scuola dell’obbligo, anzi del non obbligo, perché c’è l’espresso, irriverente invito a segarla. «MilevolacintatumifaiunbelBIP». Per fomentare, è chiaro, la ribellione alla panna che tanto funziona oggi: «coglionerottilcazzo», non manca neppure l’afflato sul qualunquista-grillesco, «politicidimmerda».

TESTI INCOMPRENSIBILI SU UN TAPPETO SONORO PERFETTAMENTE CALIBRATO

La trovata del pidgin non è nuova, molti artisti, quando compongono, lo fanno in un inglese stralunato, masticato lì per lì: poi ci metton sopra le parole dei testi. La genialata di Supreme è quella di lasciare, debitamente rifinito, la masticatura per quella che è, velocissima, trapanante. Ne esce una totale apparente mancanza di senso, una licenza dal senso che fa il paio con il suono: morbido, fruibile, perfettamente calibrato – il lavoro figura composto e prodotto dallo stesso Mattei, in realtà si deve alla Salmo Crew che sviluppa un flusso ossessivo e raffinato, bilanciando influenze americane, senza strafare, con istanze squisitamente locali.

I temi? Per quel che è dato intuire, sono i soliti: la ribellione del ghetto, le droghe, la Ferrari, monili e diademi vistosi, vita bella e sfrontata

È una inoffensività apparentemente aggressiva (7rapper ma1 è una fiondata particolarmente riuscita), di sicuro molto ben costruita: funziona bene da cellulare come da impianto stereo (e questo è aspetto da non sottovalutare assolutamente), come sottofondo come da ispirazione diretta. I temi? Per quel che è dato intuire, sono i soliti: la ribellione del ghetto, figlia dell’incomprensione, che sfocia nella passione per i piaceri facili, edonistici come le droghe, la Ferrari, monili e diademi vistosi, vita bella e sfrontata.

Musicalmente l’album è ridondante, prolisso, venti momenti, quasi tutti brevi o brevissimi, ma non c’è solo la tachicardia ritmica, ogni tanto affiorano conati melodici (Gua10; Blun7 A Swishland, che dovrebbe raccontare del desiderio di cambiare fumo), e sono i momenti in cui la capacità compositiva, sfrondata un po’ dell’ottundimento sintetico-ritmico mostra drammaticamente la corda. Altri sprazzi sono un po’ così: Parano1a K1d schiera Fabri Fibra, ma paga pesante tributo a J-Ax; M12ano, con Mara Sattei, chiarisce il gusto minorenne ai tempi di X Factor: qualcosa di troppo lontano, anche per chi sia appena uscito dalla fase puberale, per essere davvero compreso. Ma c’è perfino, nel pezzo con Salmo, Sw1n60, una sorta di strampalato swing, tanto per non farsi mancare niente: «Dellascenarapneholepallepiene, guardachegrandestocazzochemene, pensocolcazzoperchémiconviene».

UN ALBUM PIENO DI IDEE RICICLATE MA CHE RIESCE AD ANDARE OLTRE

A un disco come questo, ci si può solo girare intorno: è una caramella, stordente, gommosa, acre, coloratissima, allusiva (la copertina, che cita Dalì, è a sua volta tripudio citazionista, ovviamente adeguato ai tempi: il coniglio Bunny, carte da gioco, astronavi, finta originalità, trita e ritrita). Con gli ospiti che fanno gli ospiti, Mahmood recita Mahmood e così via. Un mondo di idee riciclate ma insospettate da chi non ha abbastanza tempo addosso da scoprire qualcosa di remoto, dunque di nuovo.

Tutto calcolato per un disco di record perfetti per un tempo quando «non fidarti di quella troia, mi toglie il follower» passa per lirica leopardiana

Cinica truffa, ma fatta come si deve. Tredici milioni di streaming in 24 ore. I beat giusti nei cervelli giusti. Spirali di fumo ovunque, come giustificazione all’apatia, all’impossibilità, perfino al vittimismo da «politici ci avete tolto i sogni ci avete rubato il futuro e noi allora ci sballiamo ci sbattiamo di canne sempre ogni traccia ogni momento come se non ci fosse un domani come se non ci fosse un’altra dieta».

Eppure in questa monotonia rap, in questa polluzione del già sentito, c’è come un punto e a capo. Come uno spingersi oltre. Come se la totale, assoluta vacanza concettuale avesse raggiunto nuove misure, travolto vecchi limiti. Come se la cura formale diventasse funzionale come mai prima. C’è un avatar di Tha Supreme, lo trovate, mastodontico pupazzo, nelle stazioni dei treni di Milano e di Roma. Tutto calcolato per un disco di record, effimeri magari, ma perfetti per un tempo quando «non fidarti di quella troia, mi toglie il follower» passa per lirica leopardiana, e per questa volta la dittatura del politicamente corretto che si fotta, anzi chesifotta, yo yo yo, raga raga raga.

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Antonello Falqui, quando il bianco e nero colorava l’Italia

Con i suoi programmi, da Canzonissima a Milleluci e Studio Uno, il grande regista scomparso ha fatto sognare generazioni di connazionali. Creando una televisione piena di talento, professionalità e pazzia che non ha lasciato eredi. Ma solo tanta nostalgia.

Ci son di quei nomi che profumano d’epoca. Racchiudono passaggi storici, società che cambiano, si divertono, passano dal Dopoguerra post rurale alla post modernità da bere e da trangugiare. Antonello Falqui è un nome così, scomparso a 94 anni.

Mina e Antonello Falqui durante la trasmissione Rai ”Milleluci”.

Un secolo lungo il suo, lunghissimo, e fecondo altrettanto. Professionalmente inaugurato con la televisione, prima ancora che la televisione fosse: ancora in fase sperimentale, ma il giovane Falqui, figlio d’un critico e scrittore, era già lì, a sperimentare, proveniente dal Centro Sperimentale di Cinematografia.

FALQUI HA ACCOMPAGNATO I NOSTRI MIGLIORI ANNI

Il nuovo, futuribile mezzo l’ha rapito dalla facoltà di Giurisprudenza, e le due vite andranno sempre insieme: è lui a inaugurarla, la tivù, col primo Arrivi e Partenze con cui dirige un giovane occhialuto italoamericano, tale Mike Bongiorno, scoperto da Vittorio Veltroni. Da quel momento, Antonello Falqui accompagna i migliori anni della nostra vita: c’è lui dietro i programmi che diventano modi di dire che cambiano gli italiani, Musichiere, Canzonissima, Studio Uno, i cicli degli Stasera: Stasera Rita (Pavone), Stasera Patty Pravo, Gianni Morandi, eccetera.

Lo staff della prima edizione del Musichiere: da sinistra Patrizia Della Rovere, Garinei, Antonello Falqui, Giovannini, Patrizia De Blanck e Mario Riva (LaPresse).

Sono gli anni della grande televisione in bianco e nero, tra i Sessanta e i Settanta, «quando», per scippare le parole a Giorgio Gaber, «si faceva un tipo di televisione sontuosa, meravigliosa, attenta a ogni dettaglio e oggi quella televisione lì non si fa più». 

UNA VITA GRANDE, DIVERTENTE E DIVERTITA

Falqui prosegue, Sai che ti dico?, con gli irresistibili Sandra e Raimondo, Milleluci (ah, quella Carrà e quella Mina insieme!), Dove sta Zazà e Mazzabubù entrambe con l’immensa Gabriella Ferri, il ciclo di Bambole, non c’è una lira, in sei puntate, tratto dalla commedia teatrale, e avanti ancora dentro gli Anni 80 e 90.

Antonello Falqui con Mina nel 1961 (foto LaPresse).

Quando Falqui, ormai assurto al ruolo di storico, memoria vivente del mezzo televisivo, giustamente si riposa. Mai del tutto, quelli così hanno sempre una scintilla da scoccare, fino alla fine. Il suo congedo testimonia di una vita grande, divertente e divertita: «Sono partito per un lungo lungo lungo viaggio, potete venire a salutarmi lunedì 18 novembre alle 11 alla chiesa di Sant’Eugenio a viale Belle Arti a Roma». Parole che qualcuno ha messo sui social.

Sono partito per un Lungo Lungo Lungo Viaggio……potete venire a salutarmi LUNEDI 18 NOVEMBRE alle ore 11 alla…

Posted by Antonello Falqui on Friday, November 15, 2019

UN’ITALIA INGENUA, BUGIARDA E SENTIMENTALE

Dalla televisione che non c’era alla post televisione di internet, del tablet. Parole di un uomo sereno, consapevole di essere stato una compagnia di vita per i suoi connazionali: arrivava il sabato sera e la schedina era un rito e il giro delle botteghe liturgia, e dopo le serrande si calavano, una per una, cadeva un dolce silenzio sulla città sconcertata e ci si tappava in casa e arrivava la trasmissione che ci divertiva, ci intontiva, il lunedì a scuola ne avremmo replicato tutte le battute. Un’Italia più ingenua, che si vedeva apparecchiare scenette e balletti da gente come Antonello Falqui, Gino Landi, Mario Landi, Romolo Siena, fiato alle trombe Turchetti! Un video immaginario: le facce stravolte, indimenticabili di Walter Chiari, Paolo Panelli e Bice Valori, Alberto Sordi, Franca Valeri, le gemelle Kessler, «la notte è piccola per noi, troppo piccolina», e cento altri in un‘Italia sfocata, scintillante, eccitata, crudele, bugiarda e sentimentale che si perdeva in vapori d’etere e di misteri, segreti che avremmo saputo tardi o forse mai. 

SPETTACOLI RIMASTI NELLA NOSTRA MEMORIA GENETICA

Antonello Falqui era uno dei demiurghi. Ci ha reso più sopportabile la difficile transizione democratica, ha aiutato tre o quattro generazioni a crescere senza prendersi troppo sul serio, magari inseguito dai rimbrotti di una classe intellettuale che ci vedeva ottundimento, manipolazione delle masse: ma che si doveva fare con quel popolo ancora acerbo, che si riuniva in 50 in un bar davanti a una scatola magica? Le cose hanno bisogno di tempo. I mutamenti hanno bisogno di tempo. Quegli spettacoli, tra il geniale e lo sciocchino, però sono rimasti e non solo nella nostra memoria genetica: non è venuto niente di meglio a sbiadirli.

UNA TIVÙ DI PAZZI PIENI DI TALENTO

«Quella televisione lì oggi non si fa più». Perché era un’epoca di pazzi, ma veri. Tognazzi e Vianello anche loro praticamente inaugurano la televisione italiana, Un due tre e siamo nel 1954, bavagli vaticani e democristiani a piovere. Eppure, già parodie carogna, magliaie, ciclisti, mondine, tronci della Val Camonica, chissà come fanno a farle passare.

Antonello Falqui riceve il premio Via Condotti nel 2004 (LaPresse).

Nel 1959, il Presidente Giovanni Gronchi nel palco reale della Scala casca dalla sedia e, inesorabile, pochi giorni dopo, Ugo rifà la scena con il finto candido Raimondo che lo apostrofa: «Ma chi ti credi di essere?». Il programma finisce lì, in quel momento.

LEGGI ANCHE: L’Italia del pop paralizzata tra passatismo e giovanilismo ostinato

Quando i due tornano in camerino, ci trovano già le lettere di siluramento. Li tengono in ghiacciaia un anno e mezzo, poi li richiamano: «Abbiamo deciso di perdonarvi, avete qualcosa di nuovo per la televisione?». Pronti, Tognazzi e Vianello rispondono: «Sì, ci sarebbe una cosettina sul papa» che è il bergamasco Angelo Roncalli, e a Bergamo, lo sanno tutti, si smoccola che è un piacere e Ugo, spietato: «Mi sun de Bèrghem, porco…». Fuori! Pazzi completi, incontrollabili, meravigliosi. Mica solo loro. Guardali nel video immaginario, quelle facce parlano. E quelli come Antonello Falqui a dover contenere, dirigere, organizzare una banda di scatenati senza ritegno e con troppo talento. O ci crepi, o ti diverti una vita. Per questo un 94enne artista degli artisti può congedarsi dal mondo con tanta garbata serenità. Come chi sa che aveva una missione da compiere nella vita, e l’ha compiuta.


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Gianna si tuffa nel passato e fa davvero La differenza

Nell'ultimo disco della Nannini si sente, in tutto e per tutto, la tensione della sfida, un rispetto autentico per la musica, la voglia di ribadirsi senza troppi calcoli, senza fronzoli ma con estrema cura per i dettagli. C'è un ritorno marcato a una asciuttezza che fa risaltare l'unicità dell'artista.

Gianna Nannini è di quelli che possono piacere e non piacere, con il suo modo da scavezzacolla di buona famiglia, di Gian Burrasca col culo parato, la ricca borghesia senese che ti permette di fare quello che vuoi, vizi capricci pretese, tanto se caschi, caschi in piedi.

Lei voleva fare la rockstar, e l’ha fatto. Anzi ha cominciato proprio da dura, per poi via via normalizzarsi, come succede a chi ha un successo esagerato. Ma la gavetta l’ha avuta, le sue porte da sfondare le ha avute: e le ha sfondate.

S’è anche persa, come è doveroso per una rockstar, dandosi al caos, allo sbando, all’ossessione da coca («Ne ero dipendente, non restavo mai senza», ha detto qualche tempo fa a Vanity Fair).

CON LA DIFFERENZA GIANNA RITORNA AL PASSATO

Allo stesso tempo, quelle pose zompettanti che nascondevano Rossini, «questo amore è una camera a gas», potevano irritare i puristi, potevano indurre a dire: chi vuoi prendere in giro, Giannina? Noi non ce la beviamo. Ma lei tirava dritto per la sua strada, faceva come sempre il comodo suo, giocava con la sua libertà viziata ma imprescindibile, si permetteva una figlia fuori tempo massimo, facendo incazzare i moralisti, faceva dischi magari non sempre a fuoco, e teneva botta: una sua raccolta, qualche anno fa, arrivò a vendere la per questi tempi astronomica cifra di cento e passa mila copie. Anche se il rock, vero o presunto, era sempre più lontano. Anche se altri generi, altre facce premevano. Lei avanti, dritta a modo suo.

A 63 anni arriva un album come questo, e capisci che chiamarlo La differenza non è altro che la verità, tutta la verità

È che i conti si fanno alla fine, ci vuole una vita per capire chi si è e soprattutto per dimostrarlo. Poi, a 63 anni, arriva un album come questo, e capisci che chiamarlo La differenza non è altro che la verità, tutta la verità. Non nel senso che Gianna sia snaturata o rinnegata, tutt’altro: c’è se mai una diversità che fa la differenza, c’è un ritorno marcato a una asciuttezza che fa risaltare l’unicità: io sono altro da voi, e posso esserlo perché me lo sono guadagnato e non ho bisogno di rincorrere le mode. Faccio corsa su di me e, per quanto possa coinvolgere qualche ragazzino, sia chiaro che sono io a condurre il gioco.

Ed è andata a Londra, dove vive per lo più attualmente, in cerca di aspirazioni e ispirazioni, e poi è finita a Nashville, perché serviva incontrare certi sogni, certe radici magari immaginifiche ma non meno forti. Ed è arrivato questo punto e a capo, dove si sente, in tutto e per tutto, la tensione della sfida, un rispetto autentico per la musica, la voglia di ribadirsi senza troppi calcoli, senza fronzoli ma con estrema cura per i dettagli.

DAL REGGAE AL ROCK DURO, LA NANNINI NON SI TRADISCE MAI

L’album si presenta col primo singolo, l’eponimo La differenza che ha accenti vocali alla Brunori Sas (o non sarà il contrario?): è subito un colpo dritto al centro, una ballata che non vuole travolgere ma avvolgere, dove tutto è calibrato, dalla strofa al ritornello che si apre, ma senza esagerare, con l’intensità controllata che ci vuole. Romantico e bestiale è un reggae sporco, fatto con Dave Stewart, e dà modo a Gianna di liberare la parte più istintiva, se si vuole istrionica, ma qui ancora misurata, su bordoni d’organo. Motivo torna alla ballata e potrebbe sapere di risaputo, appesantita dalla pochezza interpretativa e compositiva di Coez; ma in questo album breve, 36 minuti e andare, di elaborata essenzialità, niente va sprecato e anche questo pezzo, in sé piuttosto ruffiano e tra i più deboli della raccolta, si salva nell’economia complessiva del lavoro.

Si ascoltano echi di Nashville, dove il disco è stato rifinito, opportunamente, dopo la gravidanza inglese

Molto meglio Gloucester Road, arpeggiata in pizzico di dita, inglese ma in fondo italiana, perfino napoletana, il sapore è quello del vecchio compagno di «notti magiche» Edoardo Bennato. L’aria sta finendo sfodera il rock venato di country, si ascoltano echi di Nashville, dove il disco è stato rifinito, opportunamente, dopo la gravidanza inglese; discretamente mainstream, senza dubbio, e qua e là affiorano certe tentazioni liriche a gola spiegata; ma trovala, una che dopo tanta strada ancora non si fa scrupolo nel tirare fuori questa carica, più matura, forse anche più sincera di prima nel ritornare ad una certa idea de “l’America”.

NEL DISCO NON MANCANO LA VENA CANTAUTORIALE E LE MELODIE ITALIANE

Più canonica, subito dopo, Canzoni buttate, per dire più cantautorale, la classica canzone destinata ad essere adorata, adottata dagli hardcore fan. Per oggi non si muore continua il gioco, solo asciugandolo un poco: rinchiudendosi in un microcosmo emotivo e fisico, qui Gianna canta per tutti ma soprattutto per se stessa, come sotto la doccia o dentro un bicchiere di whisky; ed è una melodia italiana quella che dipana sotto flussi morbidi di chitarre elettriche. Simpaticamente celentanesca Assenza, giusta giusta per cavarne fuori un secondo singolo, e vedrete se non sarà così.

La cantautrice e musicista italiana Gianna Nannini posa per i fotografi durante il photocall per la presentazione del suo ultimo album ‘La differenza’.

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A chi non ha risposte, e siamo già in vista della fine, è piuttosto di routine ma serve a ricordare che qui c’è una interprete inconfondibile, tuttora in grado di alternare il registro roco, aggressivo con quello alto, quasi adolescenziale, sempre con quella intensità tra folk e il melodramma; e la coda col controcanto di una corista soul è un modo interessante di uscirne. L’esito di Liberiamo va sul sicuro, è Every breath you take dei Police, che poi è Stand by me di Ben E. King: in questi casi non conta il giro armonico standard, conta la capacità di rileggerlo con intensità adeguata: la Nannini non è una blueswoman, ma ha abbastanza esperienza e talento per cavarsela.

UN ALBUM IMPORTANTE DI UNA ARTISTA DI TALENTO

E così Gianna reimpacchetta il passato e lo riporta a casa. Fa un giro lungo, dall’Inghilterra all’America, mette nel sacco quello che conta, che serve, poi lo sparpaglia per confezionare un album importante, ambizioso, coraggioso nella sua scaltra onestà. C’è una purezza, una bellezza di suono che rende il disco godibilissimo specialmente in cuffia. C’è la sfida, sfrontata, evidente, di consegnarsi a una sensibilità poetica personale, dunque fuori tempo – niente ammiccamenti qui, niente costruzioni buone per Spotify, solo la riaffermazione di un talento consapevole della sua storia ma che allo stesso tempo non rinuncia a rinfrescarsi, solo alle sue condizioni. Ci sono i limiti, ma c’è anche tanta vitalità, tanta forza, l’orgoglio e l’entusiasmo che alla fine ti fa dire: però, mica male questa Nannini. E chi se l’aspettava, così cazzuta ancora.

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X Factor, brillano solo Davide e Sofia

Non c'è niente da fare: sono loro due i veri talenti di questa edizione. Nonostante tutor incapaci che in alcuni casi arrivano persino a sabotarli. Le pagelle.

A X Factor c’è chi fa la maglia. Lo fa vedere Cattelan in persona e, più che di ironia, sa tanto di mettere le mani avanti. Sferruzzando sferruzzando, comunque, si consuma la matassa che porta alla finale ormai tra un mese: proprio così, aspettando Godot XF si consuma nell’attesa di qualcosa che non viene. Perché non c’è. La gioventù degli aspiranti ha bisogno di esempi, e XF questa volta apre con Gianna Nannini, in magico collegamento, vedi un po’, da Berlino: sembra proprio lì, la fanno duettare virtualmente coi concorrenti. Ma che distanza! Non continenti ma mondi diversi.

GIANNA NANNINI, UNA VERA RAGAZZA DELL’EUROPA

Gianna porta addosso, sul completo giallo, tutta la sua età, una storia cominciata quando i dischi si facevano in tutt’altro modo e così gli artisti e così il successo, che giungeva costruito con orgoglio, ostinazione, presunzione nel proprio talento.

Gianna Nannini super ospite in ologramma (da Facebook).

Nannini, di cui parliamo diffusamente altrove, presenta il nuovo singolo che introduce il nuovo album e lo fa con l’energia stropicciata e maramalda di sempre: ancora non ha smesso di crederci e “la differenza” la fa eccome, particolarmente in questa serata (7). Perché quella cosa, quel Godot che a XF non viene, o ce l’hai o è meglio andare a pescare, come dice Keith Richards. Prendessero nota i ragazzi del talent, per quel che potrà servire. Gianna è una ragazza dell’Europa di 60 anni, ma il futuro di domani, di questa sera, cosa porta? Davide e Sofia dimostrano ogni settimana di avere quel qualcosa, le carte in regola: ai tempi, li avrebbero costruiti come artisti, oggi un talent li lancia o li brucia? Li fa volare una sola stagione e poi li consegna a un repertorio infame? E la risposta, credeteci, mette i brividi.

IN GIURIA SI SALVA GIUSTO MARA

ALESSANDRO CATTELAN: 6. Lui è facile da “votare”: è un regolarista, non rischia, non sbraca, non crea, non distrugge, non è simpatico, non è antipatico, non è cattivo, non è buono. Oggi solo questo possiamo dirti, quel che non sei, quel che non vuoi. Chissà chissà chi sei, Cattelan, chissà che sarai, chissà che sarà di te. E di noi, che ti subiamo.

MARA MAIONCHI: 6-. Lei invece si fa complicata da soppesare, perché ormai è larger than talent. Intanto, vecchia volpona truccata da rezdora, si trascina i suoi Nicola, i suoi Eugenio, come le catene di Jackob Marley.

MALIKA AYANE: 4. Ecco, lei sì che è cresciuta lungo la strada di XF. Cresciuta nel birignao, nel modo di ciacolare affettato e peraltro incomprensibile: ma parlet cume te manget, no con quel cicaleccio all’insù, dai, che non hai fatto niente in carriera. Ha bruciato tutti i suoi, le rimane Davide che è obiettivamente inaffondabile, ma lei è un disastro, una carie, anche se fa la pubblicità dell’igiene orale, uau, hey.

SFERA EBBASTA: 4. Ciao raga, come state, hai spuaccuato, mi sei piaciuto, cioè che siete bravi lo sapete. Difficile, anche questo, da giudicare. Impossibile. Inutile. È molto affezionato alle sue idee, forse perché ne ha così poche, e le ripete immutabili, a tutti, tutte le volte. Tipo un fissato.

SAMUEL: 4. Il nostro Monsù Travet, col suo ragionieristico piglio, perde finalmente qualcosa, i noiosi sopravvalutati Seawards, e sarebbe forse il più complicato da valutare: quindi la finiamo qui ebbasta, anche perché, yahwn. Viene un tal botta di sonno, yahwn, che le dita cascano sulla tastiera e non riusciamo più a scr….

MABEL: 5. Figlia di Neneh Cherry, e di conseguenza nipote (adottiva) di Don: la classe non è acqua, buon sangue non mente? Certo, però la canzoncina che roba da far cascare le palle e tutto, anche perché dappertutto rimbalza. Una domanda, ma è solo stratruccata o è già sfatta e rifatta alla sua età? Perché mette un po’ terrore, eh.

DAVIDE E SOFIA: GLI INAFFONDABILI

DAVIDE ROSSI (Don’t stop me now, Queen): 8 ½. Ricordare sempre che 16 anni ha, questo. E Freddie Mercury nelle corde vocali. Dico Freddie: che gli vuoi dire? Come talento, qui è il più puro – e versatile, anche. Mara non capisce dove vada a parare, per la semplice ragione che è vecchia. E sì che dovrebbe saperlo, che andrà a parare dove un vero mentore, mica la Ayane, lo porta. Speriamo bene, perché rovinarlo sarebbe un crimine.

GIORDANA PETRALIA (Highest in the room, Travis Scott): 5. Se le danno un pezzo uscito da una settimana, c’è puzza di sinergie, insomma di manfrine pubblicitarie; se la spingono avanti, (s)ballottaggio dopo sballottaggio, è perché deve arrivare a presentare un inedito di Sia, e siamo sempre lì: girala come vuoi, ma questa piagnona di formidabile ha solo le spinte. Fossi uno degli altri, m’incazzerei di brutto, ma chi vuoi che osi ammetterlo? Ma una che al talent vive di autotune, che roba è?

I Sierra ripropongono i RHCP (da Facebook).

SIERRA (Snow -Hey on Red Hot Chili Peppers): 3. Trapper che canta ha fatto l’uovo. Per la carbonara, così rimpianta da che non stanno a Roma, Monte Sacro. Uomini duri. Anche noi dobbiamo essere duri per reggere la loro rottura di palle, tanto più patetica in quanto infantile riscrittura dei Red Hot. Piccola roba da talent. «Non serve combattere». Infatti, meglio farsi di schiuma, che con gli sponsor giusti magari ti dice bene e diventi i nuovi Fedez e J-Ax. Madò, che raccomandatoni, anche questi.

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NICOLA CAVALLARO (90min, Salmo): 5/6. Io un parà con le unghie smaltate mica l’avevo mai visto. Ma, soprattutto, non ne avevo mai visto uno struggersi tanto con la fidanza via Skype, manco fosse in Afghanistan. Invece sta a Monza. De ceteribus, se invece che alle follie di Mara si desse, che so, al grindcore, con quella grattugia che sforza in gola, forse troverebbe infine la sua strada.

Nicola Cavallaro canta 90 min di Salmo (da Facebook).

EUGENIO CAMPAGNA (Delicate, Damien Rice): 5-. Che non si può più nominare col nome d’arte forse perché è lo stesso di uno sponsor di peso del programma. «Troppo bravo» dice Mara, la quale, non dimentichiamolo mai, ha scoperto Tiziano Ferro, punto esclamativo. Se lo dice lei.

BOODA (M.I.L.F. $, Fergie): 5 ½. Sai chi mi ricordano? Sai er sor Mario Brega padre di “Ruggiero” in Un sacco forte? «Ah Ruggiè: com’è che facevi co’ ‘sta bbatteria?». E giù un bombardamento a tappeto che i trashmetallari se lo sognano. «Ah papà, e bbasta, sempre co’ ‘sta violenza, e che ppalle!».

I Booda (da Facebook).

SEAWARDS (Feel, inedito): 4. Sarà anche colpa del rag. Samuel che gli fa su un arrangiamento esangue ma questi due son proprio sciapi insipidi desalati anodini surgelati: loro e la loro canzoncina. Escono, infine, allo sballottaggio con Giordana l’arpa che uccide, effettivamente più tonica.

L’esibiziomne di Sofia Tornambene (da Facebook).

SOFIA TORNAMBENE (Papaoutai, Stromae): 7 ½. Mostrificarla come una maschera di morte da cabaret di Raimondo Vianello è roba implausibile e non ci credo manco se mi ammazzano che è farina del sacco vuoto di Sfera. Ma questa bambina d’oro salva sempre tutto, ribalta una potenziale sciagura in chiave elettropoo/world in qualcosa di fresco e intrigante. Mille volte lo abbiam detto, ha un talento naturale nell’entrare in ogni pezzo. Il voto, alto, si spiega in questo senso.


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Avere il cancro al tempo dei social network

Sono sempre di più le persone che, specialmente su Twitter, rivelano di avere un tumore cercando conforto nelle interazioni. Lo strazio di una verità che nessuno vorrebbe pronunciare ma un giorno si ritrova a urlare a una platea virtuale, sperando che diventi vera e curi almeno la solitudine.

Si parla tanto di tendenze in Rete, di insulti e controinsulti, di hate speech e free speech e c’è chi vuole metter dei sacchi di sabbia vicino alle finestre dei social, per dire il controllo anagrafico, capillare, maniacale che poi non serve a niente. Ecco, si parla sempre delle autostrade dell’odio che viaggiano tra Facebook e Twitter e non c’è dubbio, perché la pianta storta dell’umanità non può raddrizzarsi nel mondo virtuale, anzi si esalta nelle sue contorsioni, l’uomo storto nasce e storto muore.

Però, poi, c’è un però. Però non è solo questo, la Rete. Non sono solo questi, i social. Qui c’è tanta solitudine. Qui c’è paura, e disperato urlo muto di speranza, e sconcertata richiesta di qualcosa, qualcuno cui aggrapparsi anche per finta, anche senza conoscerlo. Qui c’è il grido: io sono vivo, io voglio restare vivo. Malgrado tutto, a dispetto della cattiveria degli umani, della loro distanza, di un domani che mi aspetta tremendo come un percorso di guerra.

Perché sui social, Twitter in particolare, sono sempre di più quelli che annunciano: ho un cancro, comincio la chiemioterapia, restatemi vicino. E li vedi, ci inciampi contro, e non sai come reagire, non sai cosa pensare: è giusto, dare in pasto il proprio male? È normale, chiedere aiuto in questo modo così drammatico e volatile? Serve a qualcosa, o è solo patetico? Ma poi, non siamo tutti patetici di fronte al nostro male, che minaccia di spegnerci? Che senso ha chiedere parole sconosciute, se siamo lastre di vetro dove parole scorrono?

QUELLE GRIDA DI AIUTO COSÌ DIVERSE E COSÌ UGUALI

Eppure, i social scoppiano di queste grida quiete, gentili, quasi titubanti, quasi esitanti. C’è la signora in età, i capelli bianchi, vaporosi, c’è la ragazzina che non penseresti mai, così fresca, così ragazzina. E c’è la donna fatta, coi suoi percorsi speciali, la fatica e il lavoro, donna madre con figli da rassicurare, mentre è lei a tremare. E c’è il signore che ti guarda fisso, vorrebbe dimostrarsi uomo, forte, sicuro anche in questa prova, ma cos’è un uomo senza la paura da sfidare?

Ho paura, non so chi sei, ma stammi vicino perché la vita mi sta mettendo alla prova più estrema e allora non c’è più spazio per l’odio, l’anonimato, il mondo virtuale, quello reale

Sono tanti, e sono sempre di più; anche a voler sospettare che qualcuno cerchi solo attenzione, o che, pure in buona fede, sia caduto nell’emulazione di quella spinosa tendenza tra i vip a raccontare proprio tutto, anche questo, anche la malattia, buona ultima Emma Marrone, la cantante di cui non si è mai capito del tutto il nemico, ma tutti abbiamo immaginato il peggiore, e finalmente, dopo un mese, eccola sulle pareti di tutte le stazioni della metropolitana col volto del suo nuovissimo disco; anche a calcolare la malizia degli uomini e donne che restano piante deboli e storte, la maggior parte di questi profili sono umani, troppo umani.

A questi non serve l’anonimato, non lo cercano. Vogliono solo che qualcuno, o tanti, tutti sconosciuti, che non incontreranno mai, che non li vedranno mai sulle loro poltrone di dolore, però si prendano cura di loro per un attimo: ho paura, non so chi sei, ma stammi vicino perché la vita mi sta mettendo alla prova più estrema e allora non c’è più spazio per l’odio, l’anonimato, il mondo virtuale, quello reale, le autostrade della follia.

LA RICERCA DI QUALCUNO NELLA SOLITUDINE DELLA MALATTIA

Adesso è solo assenzio, che brucia e, speriamo, guarisce, e pazienza, e dietro le vetrate quel sole che speriamo di poter riprendere in mano un giorno. Presto. Stammi vicino, ho un tumore, «domani inizio la chemioterapia, ma io sono forte, ce la farò». E, sotto, le centinaia le migliaia di cuori, di condivisioni, di auguri magari di circostanza, ma almeno ci sono: non sarebbe atroce se un urlo così cadesse in un imbuto di disattenzione? Forse, malgrado le storture, nella pianta umana qualcosa da salvare ancora c’è. C’è la fragilità di chi è colpito, la solidarietà automatica, distante, distratta, ma presente, di chi se ne accorge. «Aiutami», l’invocazione che rende umano un essere umano. «Ci sono», la risposta che rende umano un essere umano.

Nei social ci sono anche istanti di eternità, c’è lo strazio di una verità che nessuno vorrebbe pronunciare ma un giorno si ritrova ad urlare a una platea possibile, sperando che diventi vera

Magari, è solo un’illusione. Magari invece fa bene per davvero. Ma, ecco, è per dire che le autostrade dei social non sono solo piene di scontri di ego, carambole di meschinità, epocali cazzate senza speranza, finzioni di finzioni avvolte nella bugia. Ci sono anche istanti di eternità, c’è lo strazio di una verità che nessuno vorrebbe pronunciare ma un giorno si ritrova ad urlare a una platea possibile, sperando che diventi vera. L’incubo di tutti, ho un cancro, comincio una cura difficile, aleatoria, statemi vicino, vi cercherò inchiodato alla mia poltrona di dolore, mentre l’assenzio scorre in me insieme alla paura e alla speranza.

Non è un discorso d’odio e non lo è di libertà. È solo spavento, pietà. E sono così tanti, e poi sempre di più. Sì, probabilmente qualcuno ha pensato che se succede a un vip, se lo fa anche un vip, allora può farlo anche lui. E dopo di lui un altro, e un altro, e un altro. Tu ci inciampi e ti chiedi se sia giusto poi metterci un cuore, se sia giusto tirare via. In tutti i casi è strano, imbarazzante e ingrato. Ma, mentre vai via, più o meno leggero di un cuore distante, non puoi fare a meno di specchiarti. Perché un giorno quel grido muto su Twitter potresti lanciarlo tu.

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Avere il cancro al tempo dei social network

Sono sempre di più le persone che, specialmente su Twitter, rivelano di avere un tumore cercando conforto nelle interazioni. Lo strazio di una verità che nessuno vorrebbe pronunciare ma un giorno si ritrova a urlare a una platea virtuale, sperando che diventi vera e curi almeno la solitudine.

Si parla tanto di tendenze in Rete, di insulti e controinsulti, di hate speech e free speech e c’è chi vuole metter dei sacchi di sabbia vicino alle finestre dei social, per dire il controllo anagrafico, capillare, maniacale che poi non serve a niente. Ecco, si parla sempre delle autostrade dell’odio che viaggiano tra Facebook e Twitter e non c’è dubbio, perché la pianta storta dell’umanità non può raddrizzarsi nel mondo virtuale, anzi si esalta nelle sue contorsioni, l’uomo storto nasce e storto muore.

Però, poi, c’è un però. Però non è solo questo, la Rete. Non sono solo questi, i social. Qui c’è tanta solitudine. Qui c’è paura, e disperato urlo muto di speranza, e sconcertata richiesta di qualcosa, qualcuno cui aggrapparsi anche per finta, anche senza conoscerlo. Qui c’è il grido: io sono vivo, io voglio restare vivo. Malgrado tutto, a dispetto della cattiveria degli umani, della loro distanza, di un domani che mi aspetta tremendo come un percorso di guerra.

Perché sui social, Twitter in particolare, sono sempre di più quelli che annunciano: ho un cancro, comincio la chiemioterapia, restatemi vicino. E li vedi, ci inciampi contro, e non sai come reagire, non sai cosa pensare: è giusto, dare in pasto il proprio male? È normale, chiedere aiuto in questo modo così drammatico e volatile? Serve a qualcosa, o è solo patetico? Ma poi, non siamo tutti patetici di fronte al nostro male, che minaccia di spegnerci? Che senso ha chiedere parole sconosciute, se siamo lastre di vetro dove parole scorrono?

QUELLE GRIDA DI AIUTO COSÌ DIVERSE E COSÌ UGUALI

Eppure, i social scoppiano di queste grida quiete, gentili, quasi titubanti, quasi esitanti. C’è la signora in età, i capelli bianchi, vaporosi, c’è la ragazzina che non penseresti mai, così fresca, così ragazzina. E c’è la donna fatta, coi suoi percorsi speciali, la fatica e il lavoro, donna madre con figli da rassicurare, mentre è lei a tremare. E c’è il signore che ti guarda fisso, vorrebbe dimostrarsi uomo, forte, sicuro anche in questa prova, ma cos’è un uomo senza la paura da sfidare?

Ho paura, non so chi sei, ma stammi vicino perché la vita mi sta mettendo alla prova più estrema e allora non c’è più spazio per l’odio, l’anonimato, il mondo virtuale, quello reale

Sono tanti, e sono sempre di più; anche a voler sospettare che qualcuno cerchi solo attenzione, o che, pure in buona fede, sia caduto nell’emulazione di quella spinosa tendenza tra i vip a raccontare proprio tutto, anche questo, anche la malattia, buona ultima Emma Marrone, la cantante di cui non si è mai capito del tutto il nemico, ma tutti abbiamo immaginato il peggiore, e finalmente, dopo un mese, eccola sulle pareti di tutte le stazioni della metropolitana col volto del suo nuovissimo disco; anche a calcolare la malizia degli uomini e donne che restano piante deboli e storte, la maggior parte di questi profili sono umani, troppo umani.

A questi non serve l’anonimato, non lo cercano. Vogliono solo che qualcuno, o tanti, tutti sconosciuti, che non incontreranno mai, che non li vedranno mai sulle loro poltrone di dolore, però si prendano cura di loro per un attimo: ho paura, non so chi sei, ma stammi vicino perché la vita mi sta mettendo alla prova più estrema e allora non c’è più spazio per l’odio, l’anonimato, il mondo virtuale, quello reale, le autostrade della follia.

LA RICERCA DI QUALCUNO NELLA SOLITUDINE DELLA MALATTIA

Adesso è solo assenzio, che brucia e, speriamo, guarisce, e pazienza, e dietro le vetrate quel sole che speriamo di poter riprendere in mano un giorno. Presto. Stammi vicino, ho un tumore, «domani inizio la chemioterapia, ma io sono forte, ce la farò». E, sotto, le centinaia le migliaia di cuori, di condivisioni, di auguri magari di circostanza, ma almeno ci sono: non sarebbe atroce se un urlo così cadesse in un imbuto di disattenzione? Forse, malgrado le storture, nella pianta umana qualcosa da salvare ancora c’è. C’è la fragilità di chi è colpito, la solidarietà automatica, distante, distratta, ma presente, di chi se ne accorge. «Aiutami», l’invocazione che rende umano un essere umano. «Ci sono», la risposta che rende umano un essere umano.

Nei social ci sono anche istanti di eternità, c’è lo strazio di una verità che nessuno vorrebbe pronunciare ma un giorno si ritrova ad urlare a una platea possibile, sperando che diventi vera

Magari, è solo un’illusione. Magari invece fa bene per davvero. Ma, ecco, è per dire che le autostrade dei social non sono solo piene di scontri di ego, carambole di meschinità, epocali cazzate senza speranza, finzioni di finzioni avvolte nella bugia. Ci sono anche istanti di eternità, c’è lo strazio di una verità che nessuno vorrebbe pronunciare ma un giorno si ritrova ad urlare a una platea possibile, sperando che diventi vera. L’incubo di tutti, ho un cancro, comincio una cura difficile, aleatoria, statemi vicino, vi cercherò inchiodato alla mia poltrona di dolore, mentre l’assenzio scorre in me insieme alla paura e alla speranza.

Non è un discorso d’odio e non lo è di libertà. È solo spavento, pietà. E sono così tanti, e poi sempre di più. Sì, probabilmente qualcuno ha pensato che se succede a un vip, se lo fa anche un vip, allora può farlo anche lui. E dopo di lui un altro, e un altro, e un altro. Tu ci inciampi e ti chiedi se sia giusto poi metterci un cuore, se sia giusto tirare via. In tutti i casi è strano, imbarazzante e ingrato. Ma, mentre vai via, più o meno leggero di un cuore distante, non puoi fare a meno di specchiarti. Perché un giorno quel grido muto su Twitter potresti lanciarlo tu.

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L’Italia del pop paralizzata tra passatismo e giovanilismo ostinato

Da un lato venerabili maestri come Celentano e Mina, dall'altra giovani promesse che si rifanno a vecchi modelli come Cattelan e Achille Lauro. Tutte retoriche che ci lasciano in un perenne vuoto artistico.

Ci sono retoriche parallele che reggono il Paese come architravi di luoghi comuni. I veterani sono la memoria, l’esperienza; i giovani il futuro, la speranza: e tutti sono risorse. Mica vero, poi dipende dal singolo, le categorie lasciano il tempo (perso) che trovano.

Prendi Adriano Celentano, uno che non ha più scuse: se non c’è il suo programma va a picco, se c’è va a picco. Non c’è esperienza che tenga, neanche di precedenti fallimenti, Adrian sconclusionato era e tale resta nella sua pretesa di immanenza, Celentano pensa ancora basti la sua faccia, la sua mitomania Anni 70 a tirare un pubblico, che poi taccia o sproloqui non fa differenza, ma non è così, i risultati non gli danno scampo. Siamo al paradosso: uno che non sa fare televisione, che la fa vecchia come cinquant’anni fa, si mette a dare lezioni agli ospiti, tu non vai bene, tu sei prolisso. Dall’abisso dei suoi disastri.

La retorica della storia, del successo, del come eravamo non salva e a volte si risolve in pretese strampalate. C’è Piero Angela che passati i 90 anni si tiene come un santone dell’onniscienza, su tutto pontifica, ha fatto un libro dove, come tutti quelli che hanno avuto fortuna, celebra i suoi figli come estensioni del sé e, essendo un divulgatore provetto di cose scientifiche, si considera scienziato egli stesso. Un po’ come se uno che legge abitualmente Maupassant col sottofondo di Bach si ritrovasse, per osmosi, sommo romanziere e celestiale compositore barocco.

IN ITALIA IL GIOVANILISMO GUARDA SEMPRE AL PASSATO

Il giovanilismo ostinato, peterpanesco non è meglio, il giovane a vita ma sempre mano favoloso, Alessandro Cattelan è rimasto, si direbbe, inchiodato a una proiezione fanciullesca, gli fanno indossare certe giacchette, certe scarpette infantili a 40 anni ma sta perdendo tutte le occasioni, è inchiodato al ruolo di portinaio di X Factor ma X Factor ha perso la metà degli spettatori, è programma bolso, senza idee e Cattelan ne risente.

Achille Lauro.

Poi, certo, i suoi impresari, la potente macchina che ha dietro sapranno rilanciarlo, sapranno svecchiarne l’immagine giovanilistica, ma insomma non lo si paragoni ai modelli del passato, a 40 anni gente come Pippo Baudo, come Enzo Tortora o lo stesso Mike Bongiorno avevano un curriculum mostruoso, per spessore e quantità, altro che le pallonate da oratorio di Cattelan.

A 40 anni gente come Pippo Baudo, come Enzo Tortora o lo stesso Mike Bongiorno avevano un curriculum mostruoso

«I giovani sono la brezza del futuro» è affermazione in perenne bisogno di conferme, gente come Sfera Ebbasta è inconsistente, non inventa niente perché non ha niente da innovare, Fedez ha ricalcato gli Anni 80 ed è più conosciuto come influencer, marito di influencer, che come artista, Tommaso Paradiso è corso dietro a Luca Carboni, Achille Lauro non sa che indossare i costumi smessi di Renato Zero o atteggiarsi a David Bowie di borgata.

Il conduttore di X Factor Alessandro Cattelan.

La cosa strana, e un po’ allucinante, è che questi assai presunti giovani guardano a un passato che quando arrivò era davvero futuro, era innovativo e rompeva gli schemi; adesso questi si limitano a ricostruirli, per una pura tensione lucrativa, monetaria. Proprio a X Factor va in scena, mai come quest’anno, un festival del vecchio, un cortocircuito per cui ragazzi di sedici, vent’anni hanno movenze, apparenze polverose e inseguono stilemi forse inevitabili, ma troppo scontati e in modo troppo scontato; non ce n’è uno che sappia proporre un’idea di attuale, di contemporaneo, una rilettura di qualcosa, un fremito di novità. E già incombe Sanremo, che al suo settantesimo compleanno si rivelerà autobiografia di una nazione corrosa, con le sue nuove proposte anchilosate e i senatori plastificati che sembrano mummie di cera.

SIAMO ANCORATI A UN ETERNO PASSATO, MANCA UN PRESENTE

Celentano invece ricostruisce perennemente se stesso, in un riedizione sempre più patetica. Se gli si dice che non è più cosa, se gli si fa notare che non è il caso, che sarebbe meglio soprassedere, piomba la moglie manager e scaglia anatemi: ah, voi non lo meritate Adriano, non lo capite. E per fortuna non minacciano di andarsene dall’Italia, come i giovani cervelli in fuga.

Celentano è uno che non si capisce da solo: ecologista cementifero, rivoluzionario conservatore

Anche lui, l’ex Molleggiato, al suo eterno ritorno – e complimenti a Mediaset, a Piersilvio che ci ha rimesso una barca di soldi -, il “Cretino di talento” non ha saputo resistere: «Non avete capito Adrian, non mi avete capito». Celentano è uno che non si capisce da solo: ecologista cementifero, rivoluzionario conservatore, democristiano, berlusconiano, anti-berlusconiano, grillino della prima ora, anti-grillino dell’ultima ora, e a non capire è sempre il mondo, che non gira dove vuole lui. Celentano vede gli 81 anni ma non pare avere imparato altro che la presunzione, forse ha dimenticato tutto il resto. Ma la presunzione alla lunga si usura pure quella.

Un fermo immagine mostra un momento di “Adrian” lo show ideato, scritto e diretto da Adriano Celentano.

Anche Mina è in vista degli ottanta e i media italiani, in modo assurdo, si sono paralizzati su uno scatto “rubatole” dalla figlia Benedetta e sparato sui social: «Ah, Mina che non si fa mai vedere, eccola qua». C’era una signora, di spalle, seduta sul sofà a guardare la televisione. Così siamo al feticismo museale. Eh, ma Mina è la storia, è i migliori anni della nostra vita. Anche Celentano. Anche Angela. Mentre i giovani che hanno niente da dire (e il tempo gli rimane), sarebbero l’anno che verrà, la storia che ci attende. E così, tra storia andata e storia che non c’è, manca un presente cui aggrapparci. Un presente non di venerabili maestri, non di retoriche da social.

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L’Italia del pop paralizzata tra passatismo e giovanilismo ostinato

Da un lato venerabili maestri come Celentano e Mina, dall'altra giovani promesse che si rifanno a vecchi modelli come Cattelan e Achille Lauro. Tutte retoriche che ci lasciano in un perenne vuoto artistico.

Ci sono retoriche parallele che reggono il Paese come architravi di luoghi comuni. I veterani sono la memoria, l’esperienza; i giovani il futuro, la speranza: e tutti sono risorse. Mica vero, poi dipende dal singolo, le categorie lasciano il tempo (perso) che trovano.

Prendi Adriano Celentano, uno che non ha più scuse: se non c’è il suo programma va a picco, se c’è va a picco. Non c’è esperienza che tenga, neanche di precedenti fallimenti, Adrian sconclusionato era e tale resta nella sua pretesa di immanenza, Celentano pensa ancora basti la sua faccia, la sua mitomania Anni 70 a tirare un pubblico, che poi taccia o sproloqui non fa differenza, ma non è così, i risultati non gli danno scampo. Siamo al paradosso: uno che non sa fare televisione, che la fa vecchia come cinquant’anni fa, si mette a dare lezioni agli ospiti, tu non vai bene, tu sei prolisso. Dall’abisso dei suoi disastri.

La retorica della storia, del successo, del come eravamo non salva e a volte si risolve in pretese strampalate. C’è Piero Angela che passati i 90 anni si tiene come un santone dell’onniscienza, su tutto pontifica, ha fatto un libro dove, come tutti quelli che hanno avuto fortuna, celebra i suoi figli come estensioni del sé e, essendo un divulgatore provetto di cose scientifiche, si considera scienziato egli stesso. Un po’ come se uno che legge abitualmente Maupassant col sottofondo di Bach si ritrovasse, per osmosi, sommo romanziere e celestiale compositore barocco.

IN ITALIA IL GIOVANILISMO GUARDA SEMPRE AL PASSATO

Il giovanilismo ostinato, peterpanesco non è meglio, il giovane a vita ma sempre mano favoloso, Alessandro Cattelan è rimasto, si direbbe, inchiodato a una proiezione fanciullesca, gli fanno indossare certe giacchette, certe scarpette infantili a 40 anni ma sta perdendo tutte le occasioni, è inchiodato al ruolo di portinaio di X Factor ma X Factor ha perso la metà degli spettatori, è programma bolso, senza idee e Cattelan ne risente.

Achille Lauro.

Poi, certo, i suoi impresari, la potente macchina che ha dietro sapranno rilanciarlo, sapranno svecchiarne l’immagine giovanilistica, ma insomma non lo si paragoni ai modelli del passato, a 40 anni gente come Pippo Baudo, come Enzo Tortora o lo stesso Mike Bongiorno avevano un curriculum mostruoso, per spessore e quantità, altro che le pallonate da oratorio di Cattelan.

A 40 anni gente come Pippo Baudo, come Enzo Tortora o lo stesso Mike Bongiorno avevano un curriculum mostruoso

«I giovani sono la brezza del futuro» è affermazione in perenne bisogno di conferme, gente come Sfera Ebbasta è inconsistente, non inventa niente perché non ha niente da innovare, Fedez ha ricalcato gli Anni 80 ed è più conosciuto come influencer, marito di influencer, che come artista, Tommaso Paradiso è corso dietro a Luca Carboni, Achille Lauro non sa che indossare i costumi smessi di Renato Zero o atteggiarsi a David Bowie di borgata.

Il conduttore di X Factor Alessandro Cattelan.

La cosa strana, e un po’ allucinante, è che questi assai presunti giovani guardano a un passato che quando arrivò era davvero futuro, era innovativo e rompeva gli schemi; adesso questi si limitano a ricostruirli, per una pura tensione lucrativa, monetaria. Proprio a X Factor va in scena, mai come quest’anno, un festival del vecchio, un cortocircuito per cui ragazzi di sedici, vent’anni hanno movenze, apparenze polverose e inseguono stilemi forse inevitabili, ma troppo scontati e in modo troppo scontato; non ce n’è uno che sappia proporre un’idea di attuale, di contemporaneo, una rilettura di qualcosa, un fremito di novità. E già incombe Sanremo, che al suo settantesimo compleanno si rivelerà autobiografia di una nazione corrosa, con le sue nuove proposte anchilosate e i senatori plastificati che sembrano mummie di cera.

SIAMO ANCORATI A UN ETERNO PASSATO, MANCA UN PRESENTE

Celentano invece ricostruisce perennemente se stesso, in un riedizione sempre più patetica. Se gli si dice che non è più cosa, se gli si fa notare che non è il caso, che sarebbe meglio soprassedere, piomba la moglie manager e scaglia anatemi: ah, voi non lo meritate Adriano, non lo capite. E per fortuna non minacciano di andarsene dall’Italia, come i giovani cervelli in fuga.

Celentano è uno che non si capisce da solo: ecologista cementifero, rivoluzionario conservatore

Anche lui, l’ex Molleggiato, al suo eterno ritorno – e complimenti a Mediaset, a Piersilvio che ci ha rimesso una barca di soldi -, il “Cretino di talento” non ha saputo resistere: «Non avete capito Adrian, non mi avete capito». Celentano è uno che non si capisce da solo: ecologista cementifero, rivoluzionario conservatore, democristiano, berlusconiano, anti-berlusconiano, grillino della prima ora, anti-grillino dell’ultima ora, e a non capire è sempre il mondo, che non gira dove vuole lui. Celentano vede gli 81 anni ma non pare avere imparato altro che la presunzione, forse ha dimenticato tutto il resto. Ma la presunzione alla lunga si usura pure quella.

Un fermo immagine mostra un momento di “Adrian” lo show ideato, scritto e diretto da Adriano Celentano.

Anche Mina è in vista degli ottanta e i media italiani, in modo assurdo, si sono paralizzati su uno scatto “rubatole” dalla figlia Benedetta e sparato sui social: «Ah, Mina che non si fa mai vedere, eccola qua». C’era una signora, di spalle, seduta sul sofà a guardare la televisione. Così siamo al feticismo museale. Eh, ma Mina è la storia, è i migliori anni della nostra vita. Anche Celentano. Anche Angela. Mentre i giovani che hanno niente da dire (e il tempo gli rimane), sarebbero l’anno che verrà, la storia che ci attende. E così, tra storia andata e storia che non c’è, manca un presente cui aggrapparci. Un presente non di venerabili maestri, non di retoriche da social.

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L’Italia del pop paralizzata tra passatismo e giovanilismo ostinato

Da un lato venerabili maestri come Celentano e Mina, dall'altra giovani promesse che si rifanno a vecchi modelli come Cattelan e Achille Lauro. Tutte retoriche che ci lasciano in un perenne vuoto artistico.

Ci sono retoriche parallele che reggono il Paese come architravi di luoghi comuni. I veterani sono la memoria, l’esperienza; i giovani il futuro, la speranza: e tutti sono risorse. Mica vero, poi dipende dal singolo, le categorie lasciano il tempo (perso) che trovano.

Prendi Adriano Celentano, uno che non ha più scuse: se non c’è il suo programma va a picco, se c’è va a picco. Non c’è esperienza che tenga, neanche di precedenti fallimenti, Adrian sconclusionato era e tale resta nella sua pretesa di immanenza, Celentano pensa ancora basti la sua faccia, la sua mitomania Anni 70 a tirare un pubblico, che poi taccia o sproloqui non fa differenza, ma non è così, i risultati non gli danno scampo. Siamo al paradosso: uno che non sa fare televisione, che la fa vecchia come cinquant’anni fa, si mette a dare lezioni agli ospiti, tu non vai bene, tu sei prolisso. Dall’abisso dei suoi disastri.

La retorica della storia, del successo, del come eravamo non salva e a volte si risolve in pretese strampalate. C’è Piero Angela che passati i 90 anni si tiene come un santone dell’onniscienza, su tutto pontifica, ha fatto un libro dove, come tutti quelli che hanno avuto fortuna, celebra i suoi figli come estensioni del sé e, essendo un divulgatore provetto di cose scientifiche, si considera scienziato egli stesso. Un po’ come se uno che legge abitualmente Maupassant col sottofondo di Bach si ritrovasse, per osmosi, sommo romanziere e celestiale compositore barocco.

IN ITALIA IL GIOVANILISMO GUARDA SEMPRE AL PASSATO

Il giovanilismo ostinato, peterpanesco non è meglio, il giovane a vita ma sempre mano favoloso, Alessandro Cattelan è rimasto, si direbbe, inchiodato a una proiezione fanciullesca, gli fanno indossare certe giacchette, certe scarpette infantili a 40 anni ma sta perdendo tutte le occasioni, è inchiodato al ruolo di portinaio di X Factor ma X Factor ha perso la metà degli spettatori, è programma bolso, senza idee e Cattelan ne risente.

Achille Lauro.

Poi, certo, i suoi impresari, la potente macchina che ha dietro sapranno rilanciarlo, sapranno svecchiarne l’immagine giovanilistica, ma insomma non lo si paragoni ai modelli del passato, a 40 anni gente come Pippo Baudo, come Enzo Tortora o lo stesso Mike Bongiorno avevano un curriculum mostruoso, per spessore e quantità, altro che le pallonate da oratorio di Cattelan.

A 40 anni gente come Pippo Baudo, come Enzo Tortora o lo stesso Mike Bongiorno avevano un curriculum mostruoso

«I giovani sono la brezza del futuro» è affermazione in perenne bisogno di conferme, gente come Sfera Ebbasta è inconsistente, non inventa niente perché non ha niente da innovare, Fedez ha ricalcato gli Anni 80 ed è più conosciuto come influencer, marito di influencer, che come artista, Tommaso Paradiso è corso dietro a Luca Carboni, Achille Lauro non sa che indossare i costumi smessi di Renato Zero o atteggiarsi a David Bowie di borgata.

Il conduttore di X Factor Alessandro Cattelan.

La cosa strana, e un po’ allucinante, è che questi assai presunti giovani guardano a un passato che quando arrivò era davvero futuro, era innovativo e rompeva gli schemi; adesso questi si limitano a ricostruirli, per una pura tensione lucrativa, monetaria. Proprio a X Factor va in scena, mai come quest’anno, un festival del vecchio, un cortocircuito per cui ragazzi di sedici, vent’anni hanno movenze, apparenze polverose e inseguono stilemi forse inevitabili, ma troppo scontati e in modo troppo scontato; non ce n’è uno che sappia proporre un’idea di attuale, di contemporaneo, una rilettura di qualcosa, un fremito di novità. E già incombe Sanremo, che al suo settantesimo compleanno si rivelerà autobiografia di una nazione corrosa, con le sue nuove proposte anchilosate e i senatori plastificati che sembrano mummie di cera.

SIAMO ANCORATI A UN ETERNO PASSATO, MANCA UN PRESENTE

Celentano invece ricostruisce perennemente se stesso, in un riedizione sempre più patetica. Se gli si dice che non è più cosa, se gli si fa notare che non è il caso, che sarebbe meglio soprassedere, piomba la moglie manager e scaglia anatemi: ah, voi non lo meritate Adriano, non lo capite. E per fortuna non minacciano di andarsene dall’Italia, come i giovani cervelli in fuga.

Celentano è uno che non si capisce da solo: ecologista cementifero, rivoluzionario conservatore

Anche lui, l’ex Molleggiato, al suo eterno ritorno – e complimenti a Mediaset, a Piersilvio che ci ha rimesso una barca di soldi -, il “Cretino di talento” non ha saputo resistere: «Non avete capito Adrian, non mi avete capito». Celentano è uno che non si capisce da solo: ecologista cementifero, rivoluzionario conservatore, democristiano, berlusconiano, anti-berlusconiano, grillino della prima ora, anti-grillino dell’ultima ora, e a non capire è sempre il mondo, che non gira dove vuole lui. Celentano vede gli 81 anni ma non pare avere imparato altro che la presunzione, forse ha dimenticato tutto il resto. Ma la presunzione alla lunga si usura pure quella.

Un fermo immagine mostra un momento di “Adrian” lo show ideato, scritto e diretto da Adriano Celentano.

Anche Mina è in vista degli ottanta e i media italiani, in modo assurdo, si sono paralizzati su uno scatto “rubatole” dalla figlia Benedetta e sparato sui social: «Ah, Mina che non si fa mai vedere, eccola qua». C’era una signora, di spalle, seduta sul sofà a guardare la televisione. Così siamo al feticismo museale. Eh, ma Mina è la storia, è i migliori anni della nostra vita. Anche Celentano. Anche Angela. Mentre i giovani che hanno niente da dire (e il tempo gli rimane), sarebbero l’anno che verrà, la storia che ci attende. E così, tra storia andata e storia che non c’è, manca un presente cui aggrapparci. Un presente non di venerabili maestri, non di retoriche da social.

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Le pagelle del terzo Live di X Factor

Questa edizione davvero non decolla. I giudici sono totalmente inadeguati. I concorrenti non bucano. Tranne Davide che riesce a "resistere" persino alla disastrosa Malika Ayane.

«Sono successe un sacco di cose; due eliminati, ma questo è il meno». Avete capito, cari sognatori. Voi vi credete il lievito del talent, invece siete il pretesto. Siete il meno, specie se fallite. Parola del presentatore Alessandro Cattelan, al quale mettono in bocca dei lapsus rivelatori, ma lui non perde mai, è sempre lì, nessuno lo elimina. Invecchia con X Factor.

LEGGI ANCHE: Le pagelle del secondo Live di X Factor

A 40 anni, mette delle strane giacchette peterpanesche, o, come si vanta, «quattro vestiti uno sopra l’altro», per fare lo spiritoso o così pretende chi lo addobba. Del resto, stanno trasformando il giovane cespuglioso Lorenzo in uno strano boschetto glam, il non tanto rude parà Nicola in un arcobaleno vivente, la stentorea Giordana in una meringa spaziale, la genuina Sofia in qualcosa che non si capisce. E anche questo conferma la confusione di una edizione che va per conto suo, ma senza sapere dove.

UNO SHOW ABBELLITO E CHE SA DI FINZIONE

Cattelan stesso si abbevera ai social, alla reazioni del pubblico, naturalmente sorvola sui troppi commenti sbadiglianti. Evidentemente tanto altro da dire non ce l’ha, non ce l’hanno, non c’è. Sembra tutto così forzato, così costruito, mai come quest’anno, e non si capisce come uscire dall’impasse: s’inventano perfino l’eliminazione preventiva, secca, diretta, ma sa tanto di espediente incasinato. Poi ci resta sotto Marco, il rasta, il no-global, che invece era tra i pochi possibilmente personaggi, comunque il meno peggio insieme al pianista Davide Rossi, che sarà anche démodé, ma è di un altro pianeta qua. Ma è colpa di “quelli a casa”, del “popolo dei social”, che non l’han votato. Davvero? X Factor è truccato, quantomeno nel senso di abbellito.

I giudici Samuel, Mara Maionchi, Malika Ayane e Sfera Ebbasta (pagina Fb X Factor).

Anche quando gl‘illustri giudici si mettono a cantare, in apertura, sa un po’ di sagra agostana, di ospitata in discoteca, fate vobis. Che poi uno sente lo Sfera affogato nella melassa d’autotune e pensa, ma questo qui è un artista, questo qui giudica? Ma sì, è tutto per finta, come le scarpe aranciate di Cattelan, come gli scazzetti tra Sfera e Malika, che servon solo a citare i network del principale sponsor (i due ridono sotto i baffi con ribalda impudenza), come la moccioseria che, oooh, si eccita per tutto, come la gara che c’è e non c’è, arranca, e, vedi un po’, alla fine va avanti qualcuno che si porta addosso un insopportabile odore di raccomandazione

L’INADEGUATEZZA TOTALE DEI GIUDICI

ALESSANDRO CATTELAN: 6. Cambiano gli ornamenti, non il voto. Lo pronosticano a Sanremo, a Miss Italia, sulla luna, ma se fosse solo una profezia che si autoadempie?

MARA MAIONCHI: 5. Sei forte, sei bravo, hai cantato bene, sei stato bravo, sei proprio forte, non so i titoli, non so l’inglese, sono vecchia, Ah! Ah! Ah! Un vecchio disco che salta sulla puntina. Però è una volpona lei, tutor sì ma di se stessa, quante copertine, interviste, celebrazioni. Quante banalità. Intanto perde Marco, che peccato. 

MALIKA AYANE: 5-. L’antipatia innata ha finora velato una profonda verità: come coach è una incapace totale, non sa valorizzare i suoi, li appanna uno dopo l’altro. Però giudica, in Italia chi non sa giudica (vale anche per chi scrive, certo).

Ospite del terzo Live Marracash (pagina Fb di X Factor).

SFERA EBBASTA: 5-. Sembra tanto disinvolto, ma è la scioltezza ribalda di chi non ha niente da dire. Infatti, se ci fai caso, più che banalità piccoloborghesi con cannetta d’ordinanza, non spreme. Cultura musicale prossima allo zero, chissà se pure lui, come Fedez, è un Ambro Angiolini radiocomandato (Morgan dixit). Certo i suoi aspiranti sembrano procedere per conto loro, senza una guida: e per forza!

SAMUEL: 5-. Bisogna giudicare i giudici sul doppio livello. Come resa televisiva, svanisce. Come coach, alleva i superflui Booda e qualche portato dell’esperienza si vede. Ma se uno che fa ‘sto mestiere da 30 anni si «scioglie in lacrime» per lo stupro sul cadavere di Tenco dai due pesci lessi Seawards, due son le cose: o ha sbagliato mestiere, o cialtroneggia duro. 

MARRAKASH: 2. «La scrittura per me è in primo luogo una sorta di catarsi». Per te: per noi è una tortura. «La mia razza si estingue». Ma magari.

DAVIDE ROSSI, IL MIGLIORE MA NON SARÀ MAI ROCKSTAR

BOODA (All or Nothing, Elliphant): 5 ½. I Booda pestoni, partiti come outsider, recuperano e sono sempre più quotati. Chissà poi perché. Gli vanno costruendo addosso la tipica sessualità da talent, ma che altro c’è?

La performance dei Booda: All or Nothing, Elliphant (pagina Fb di X Factor).

NICOLA CAVALLARO (Happy, Pharrell Williams): 5-. Meritava di uscire subito, alle preselezioni: non canta, ringhia, ma un ringhio forzato, sforzato, e non inconfondibile. Ma lui si sente performer dentro, e qualche volta la convinzione fa miracoli.

SOFIA TORNAMBENE (C’est la vie, Achille Lauro): 6. Scelta da paragnosta, Sfera. Achille sta nel business XF, il compare assegna una sua cacatina, tutta ‘na famigghia. Poi la ragazzina, che par timidina ma non ha paura di nessuno, ci pensa lei. Va bene, solo che a lungo andare troppo zucchero causa il diabete, attenzione.

Sofia interpreta C’est la vie di Achille Lauro (Pagina Facebook X Factor).

LORENZO RINALDI (Baby I love you, Ramones): 3. Malika gli affibbia, o perché è sciocca o per ammazzarlo, una scelta fatale: al ragazzo triste manca completamente la carica debosciata per un pezzo come questo, ma a uno così gli dai i Ramones? Ma cos’hai nella testa, la sigla del dentifricio? Ma dai, tanto valeva sparagli. Difatti, vedi un po’: esce. 

EUGENIO CAMPAGNA (Cornflakes, inedito): 4. La sua canzone. La sua storia. Il suo amore. «Quando a notte ti scrivo oh e tu rispondi ehi» (ma non bastava Ultimo?). Il suo modo di essere cantautore. Di mettersi a nudo. Di raccontarsi. Che due maroni.

Eugenio presenta il suo inedito: Cornflakes (pagina Fb di X Factor).

SIERRA (Le acciughe fanno il pallone, Fabrizio de André): 3. Va detto che dei trapper hanno almeno un requisito fondamentale: l’insopportabilità. Sfregiano la salma di De André, con la complicità del musicalmente delinquenziale Samuel. Dice: trattatelo con rispetto. E loro: «Tu sei bella tanto che fai male, guarda questo è ridotto male, eyaya». De André riposa in fama di poeta, forse sopravvalutato, ma questo è davvero troppo.

Giordana canta Bellyache (Pagina Fb di X Factor).

GIORDANA PETRALIA (Bellyache, Billie eilish): 5-. Insomma non si capisce perché si deve pretendere (all’americana: fare finta di credere) che una pizza sia Ella Fitzgerald. E più questa va avanti, meno si capisce. E basta!

SEAWARDS (Vedrai Vedrai, Luigi Tenco): 3. Ecco come ammazzare un pezzo immortale. Senza sangue, senza pelle, senza intonazione: senza un c…. Gli ottoni degli amici di Samuel, Bandacadabra, aggiungono un delicato tocco di rottura di palle. Oh, che fenomeni ‘sti due. Ma se sembrano due becchini. 

I Seawards in Vedrai Vedrai di Tenco (Pagina Fb di X Factor).

DAVIDE ROSSI (Why d’you only…, Artic Monkey): 7 ½. Di bravi, ma proprio bravi, c’è rimasto solo lui. Un gioiellino che neppure la polverosa disastrosa Ayane riesce a opacizzare. Oh, 16 anni ha! Sempre più evidente l’ispirazione da Elton John, ma potrà vivere di luce propria, anche se il nostro caro Davide, rockstar non sarà mai.


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