Le sparate e le posizioni più controverse di Milei, nuovo presidente dell’Argentina

Occhi di ghiaccio, capelli scompigliati da rockstar, motosega (spesso) tra le mani, atteggiamenti costantemente sopra le righe. Il candidato dell’estrema destra e ultraliberista Javier Milei, dichiaratamente antisistema, quel sistema adesso proverà a scardinarlo dall’interno, visto che “El Loco” è appena stato eletto presidente dell’Argentina, tra l’altro col margine più ampio dal ritorno alla democrazia nel 1983. Il Paese sudamericano, attanagliato da una gravissima crisi economica, tra inflazione alle stelle e povertà sempre più diffusa, ha scelto di cambiare affidandosi per l’appunto a un economista. Ma non il solito economista.

Le sparate e le posizioni più controverse dell'anarcocapitalista Javier Milei, nuovo presidente dell'Argentina.
Sostenitori di Mieli celebrano la vittoria elettorale (Getty Images).

La notorietà come personaggio radiofonico e televisivo antisistema

Figlio di un autista e di una casalinga, Milei è stato portiere nelle giovanili del Chacarita Juniors e si è cimentato pure come cantante con gli Everest, una sorta di cover band dei Rolling Stones. Più che a Mick Jagger (capigliatura a parte), nella vita si è ispirato soprattutto agli economisti della scuola austriaca, punto di riferimento della sua carriera accademica iniziata dopo la laurea conseguita all’Università di Belgrano. Docente per oltre vent’anni in vari atenei argentini, Milei ha acquisito notorietà come personaggio radiofonico e televisivo antisistema, riuscendo a farsi eleggere al Congresso nel 2021. La sua ascesa alla Casa Rosada è stata perciò rapidissima.

Dalla dollarizzazione all’eliminazione della Banca centrale: i suoi cavalli di battaglia

Apprezzato soprattutto dai giovani (in Argentina si può votare a 16 anni), Mieli è su posizioni iperliberiste in economia – si autodefinisce anarcocapitalista – e conservatrici nel sociale. Iniziamo dalle prime. Il fondatore di La Libertad Avanza, coalizione che lo ha sostenuto in queste elezioni, auspica un regime di libero scambio con il resto del mondo da realizzare tramite il ritiro l’Argentina dal Mercosur, il mercato comune dell’America meridionale. Tra i suoi cavalli di battaglia ci sono l’adozione del dollaro statunitense come valuta, l’eliminazione della Banca centrale, la privatizzazione delle aziende statali. Così come il taglio della spesa pubblica, tramite la soppressione di vari ministeri (tra cui Sanità, Istruzione, Sviluppo sociale), l’eliminazione dei sussidi sociali e di buona parte degli impieghi statali. Sullo sfondo c’è poi la questione del Brics. L’Argentina è uno dei Paesi che ha annunciato di voler entrare formalmente nell’alleanza geopolitica composta (al 2023) da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Milei ha promesso che, se fosse diventato presidente, avrebbe cancellato l’adesione del Paese.

Le sparate e le posizioni più controverse dell'anarcocapitalista Javier Milei, nuovo presidente dell'Argentina.
Tra i cavalli di battaglia di Milei c’è la dollarizzazione (Getty Images).

Milei è antiabortista, contrario all’eutanasia, favorevole alla vendita degli organi

Per quanto riguarda invece le idee nel sociale, Milei è antiabortista, anche in caso di stupro, e contrario all’eutanasia. Scettico rispetto al riconoscimento sociale del matrimonio, sia etero sia tra persone dello stesso sesso, ha detto che sarebbe opportuno trasformarlo in un contratto tra privati. Come detto, il nuovo presidente dell’Argentina è un seguace della scuola di Vienna, che proclama una stretta aderenza all’individualismo metodologico, ossia alla corrente di pensiero secondo cui ogni fenomeno è riconducibile a un’azione individuale. Il che si traduce nella minimizzazione dell’intervento statale e in una prospettiva liberale in relazione a una vasta gamma di questioni sociali. Insomma, per Milei lo Stato deve farsi gli affari suoi. Da qui il suo motto: «Viva la libertà, maledizione». Vorrebbe così liberalizzare le droghe, la vendita degli organi e delle armi da fuoco, senza dimenticare la prostituzione.

Le sparate e le posizioni più controverse dell'anarcocapitalista Javier Milei, nuovo presidente dell'Argentina.
Javier Milei festeggia con la sorella Karina (Getty Images).

Fautore di grossi tagli, Mieli si è fatto notare per la sua teatrale campagna elettorale, durante la quale è salito sul palco di numerosi comizi imbracciando una motosega. Ma non è certo l’unica bizzarria di un presidente soprannominato El Loco e accostato più volte a Donald Trump (così come al brasiliano Jair Bolsonaro). Amante dei cani, possiede quattro mastini inglesi battezzati tutti in onore di famosi economisti: Murray per Murray Rothbard, Milton per Milton Friedman, Robert e Lucas per Robert Lucas. Ce n’era anche un quinto, Conan, che però è morto: Milei ha raccontato di parlarci attraverso una medium. Il nuovo presidente argentino considera i cani dei figli ed è a loro che ha dedicato la vittoria elettorale. Un pensiero anche alla sorella Karina, la sua spin doctor, e alla compagna Fátima Florez, comica che annovera tra le sue imitazioni quella all’ex presidente Cristina Fernández Kirchner. In un’intervista a Fox News, Milei ha dichiarato che il cambiamento climatico fa parte dell’agenda socialista, esprimendo poi dubbi sui vaccini anti-Covid. Non finisce qui: se da una parte ha individuato il Al Capone il prototipo del «benefattore sociale», dall’altra ha puntato il dito contro il connazionale papa Francesco, definendo Bergoglio «incarnazione del comunismo». Milei è inoltre apparso più volte in pubblico travestito da Generale Ancap (contrazione di “anarcocapitalista”), il suo alter ego da supereroe.

«Oggi inizia la fine della decadenza argentina. Iniziamo a ricostruire e a voltare la pagina della nostra storia», ha commentato dopo la vittoria, destinata a «mettere fine alla casta parassitaria, ladra e inutile del Paese» e arrivata con il 56 per cento al ballottaggio contro il candidato peronista progressista Sergio Massa. Nei piani di Milei sarà una ricostruzione rapidissima: «I cambiamenti che servono al nostro Paese saranno drastici, non ci sarà spazio per la gradualità», ha detto il neo presidente, promettendo che «tra 35 anni l’Argentina sarà una potenza mondiale». Non resta che aspettare. Nel frattempo, auguri.

Nel 2024 la Russia organizzerà un concorso musicale in risposta all’Eurovision

Nel 2024 Mosca ha intenzione di organizzare un concorso musicale dal respiro internazionale, una sorta di risposta all’Eurovision Song Contest dal quale la Russia è stata esclusa a partire dal 2022, a causa dell’invasione dell’Ucraina. Il nome c’è già: Intervision, nome già utilizzato per una kermesse tenutasi nella seconda metà degli Anni 70 in Polonia, allora parte del blocco sovietico.

Nel 2024 la Russia organizzerà un proprio concorso musicale in risposta all’Eurovision. C’è già il nome: Intervision.
Loreen, vincitrice dell’Eurovision Song Contest nel 2023 (Getty Images).

Il direttore di Pervyj kanal: «Non ci saranno restrizioni o influenze politiche»

«Non ci saranno restrizioni o influenze politiche in questa competizione. Tutti i Paesi potranno presentare esponenti della loro musica popolare. Contiamo sulla partecipazione attiva dei Brics e invitiamo tutti gli altri Paesi ad aderire all’iniziativa», ha dichiarato Konstantin Ernst, direttore generale di Pervyj kanal, la principale emittente televisiva pubblica della Russia che trasmetterà l’evento.

Nel 2024 la Russia organizzerà un proprio concorso musicale in risposta all’Eurovision. C’è già il nome: Intervision.
Coro cinese durante un’esibizione in Russia (Getty Images).

Le quattro edizioni dell’Intervision “originale”, più il revival del 2008

Il Concorso Intervision della Canzone è stato un concorso canoro organizzato dal 1977 al 1980, a cui prendevano parte Paesi del blocco sovietico e Stati neutrali (come la Finlandia). Equivalente orientale dell’Eurovision Song Contest, di fatto in quel periodo sostituì il Festival internazionale della canzone di Sopot, in Polonia, la cui prima edizione risaliva al 1961, e che ancora oggi è uno dei più grandi concorsi canori in Europa. Nel 1981 la manifestazione venne cancellata a seguito dell’avanzata del movimento sindacale Solidarność, giudicato contro-rivoluzionario dalle altre nazioni del blocco sovietico. Nel 2008 si è svolta un’edizione-revival, ospitata dalla Russia.

In programma nel 2024 anche un festival cinematografico eurasiatico

«Allo scopo di promuovere la diversità delle culture in un mondo multipolare», ha spiegato la ministra della Cultura russa Olga Lyubimova, le autorità russe vogliono proporre, oltre al concorso musicale Intervision, anche un festival cinematografico eurasiatico. Lo aveva già annunciato il capo dell’Unione dei cineasti della Russia, il regista premio Oscar e diventato sostenitore di Putin Nikita Mikhalkov.

Il ruolo della Siria nella guerra tra Israele e Hamas

Il contagio nell’intera regione mediorientale del conflitto tra Hamas e Israele è più di un rischio. In Cisgiordania, territorio amministrato da Fatah di Abu Mazen, si moltiplicano gli scontri con l’esercito di Tel Aviv che, al confine settentrionale, sta affrontando un conflitto a bassa intensità con i miliziani di Hezbollah, formazione libanese foraggiata dall’Iran. Proprio come i ribelli yemeniti Houthi che hanno lanciato droni e missili contro lo Stato ebraico. Inoltre sono state colpite basi statunitensi in Iraq. E poi c’è la Siria, da dove transitano i rifornimenti di Hezbollah e per questo nel mirino di Israele.

Il ruolo della Siria di Assad nella guerra in Medio Oriente tra Israele e i miliziani palestinesi di Hamas.
Bashar al-Assad e il presidente iraniano Ebrahim Raisi (Getty Images).

La Siria non ha mai stipulato accordi di pace con Israele

Martoriata da 12 anni dalla guerra civile, a differenza di altri vicini come Egitto e Giordania, la Siria non ha mai stipulato accordi di pace con Israele, né riconosce lo Stato ebraico con cui si contende le alture del Golan, territorio conquistato dalle forze israeliane nel 1967 nell’ambito della Guerra dei sei giorni e poi annesso unilateralmente nel 1981. Nel Paese, dove il dittatore Bashar al-Assad è sopravvissuto alla sollevazione popolare del 2011 e alla successiva guerra civile grazie all’appoggio di Russia e Iran, sono operative diverse milizie legate a Teheran, compresi miliziani di Hezbollah. L’Idf ha colpito infrastrutture militari nella zona di Daraa, nel sud della Siria, in risposta al lancio di missili verso il Golan. Più “corposa” la campagna aerea di Israele, che in realtà al pari di quella di terra va avanti da anni, sempre con l’obiettivo di impedire i rifornimenti ai combattenti sostenuti dall’Iran: dall’attacco di Hamas, ad esempio, sono stati colpiti più volte gli aeroporti internazionali di Damasco e Aleppo.

Il ruolo della Siria di Assad nella guerra in Medio Oriente tra Israele e i miliziani palestinesi di Hamas.
Siria, manifesto contro il presidente Assad (Getty Images).

Siria-Hamas, storia di un rapporto lungo e complesso

Il rapporto della Siria con Hamas è lungo e complicato. L’organizzazione palestinese trae infatti origine dai Fratelli Musulmani, formazione politica che si richiama al dovere di fedeltà ai valori islamici tradizionali e per questo punto di riferimento per molti integralisti. Anzi, come specificato nel suo stesso statuto del 1988, nacque come suo braccio palestinese. In Siria, i Fratelli Musulmani si sono sempre opposti al potere della famiglia Assad. Nel 1982, mentre era al potere Hafiz al-Assad, padre dell’attuale presidente, le truppe siriane repressero una rivolta guidata proprio dai Fratelli Musulmani ad Hama, uccidendo almeno 10 mila abitanti. Più tardi, il governo di Damasco ha sostenuto con forza la causa palestinese, ospitando circa mezzo milione di rifugiati provenienti da Israele. Tra essi anche uno dei leader di Hamas in esilio, Khaled Mashaal. E questo nonostante la famiglia Assad si trovasse spesso in contrasto con l’organizzazione palestinese. I rapporti si sono davvero inaspriti a partire dal 2011, quando Hamas evitò di schierarsi con Damasco nella guerra civile: l’anno successivo Mashaal riparò in Qatar, dove vive ancora oggi. Successivamente l’esercito regolare prese di mira i civili del distretto di Yarmouk, area che da campo profughi si era trasformata in quartiere a maggioranza palestinese controllata dai ribelli: le forze di Assad nel 2015 assediarono il campo, impedendo l’ingresso di cibo, energia, medicine e altri rifornimenti. Una piccola Gaza.

Il ruolo della Siria di Assad nella guerra in Medio Oriente tra Israele e i miliziani palestinesi di Hamas.
La devastazione di Yarmouk dopo l’assedio (Getty Images).

Altamente improbabile il coinvolgimento diretto di Damasco 

Nel discorso tenuto al vertice della Lega araba che si è svolto a Riad, Assad ha criticato gli accordi di normalizzazione tra altri Paesi del Medio Oriente e lo Stato ebraico, accusando Israele di crimini di guerra contro i civili di Gaza, allineandosi agli altri leader nel chiedere l’immediato cessate il fuoco e la fine dell’assedio della Striscia. Parole che però non possono non suonare ipocrite, considerati gli attacchi chimici di Ghūṭa prima e Khan Shaykhun poi, sferrati dalle forze governative durante la guerra civile siriana. E quanto accaduto a Yarmouk. È altamente improbabile che Damasco entri nel conflitto in corso, cosa che invece potrebbero fare le varie milizie operanti all’interno del Paese sostenute dall’Iran e indipendenti dal governo siriano. Da parte sua, anche Israele finora ha evitato di colpire obiettivi prettamente siriani, concentrandosi sui rifornimenti a Hezbollah. E pure gli Stati Uniti si sono limitati a colpire le presunte basi iraniane in Siria. «Nonostante il susseguirsi di attacchi e contrattacchi, nessuna delle due parti – gli Usa e Israele, da un lato, e l’Iran e i gruppi che sostiene, dall’altro – sembra volere una grande escalation regionale», hanno spiegato i ricercatori del think tank International Crisis. Group. Ma se la guerra a Gaza dovesse continuare, avvertono, «il rischio che proprio ciò accada potrà aumentare».

Cameron, a Kyiv il primo viaggio da ministro degli Esteri britannico

Prima visita ufficiale del nuovo ministro degli Esteri britannico David Cameron, tornato in pista dopo la batista delle Brexit e le conseguenti dimissioni da premier del 2016. L’ex primo ministro del Regno Unito si è recato a Kyiv, dove ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

David Cameron, a Kyiv il primo viaggio da ministro degli Esteri britannico: l'incontro con Volodymyr Zelensky.
David Cameron (Getty Images).

Zelensky: «Grati per il costante sostegno da parte del Regno Unito»

Zelensky si è congratulato con Cameron per la nomina e lo ha ringraziato per aver scelto Kyiv come meta della sua prima visita ufficiale all’estero. «È molto importante, soprattutto ora che il mondo sta prestando attenzione non solo alla situazione sul campo di battaglia in Ucraina», ha detto Zelensky, alludendo al Medio Oriente. «Siamo grati per il costante sostegno all’Ucraina da parte del Regno Unito. Siamo grati per la calorosa accoglienza che hanno ricevuto i cittadini ucraini nel Regno Unito. E siamo lieti che lei sia venuto in Ucraina».

Cameron: «Volevo che fosse questa la mia prima visita»

Il presidente ucraino ha pubblicato un breve filmato dell’incontro sui social media, durante il quale si può sentire Cameron dire: «Volevo che fosse questa la mia prima visita». Il nuovo ministro degli Esteri britannico ha poi dichiarato: «La mia presenza qui significa che continueremo a darvi il sostegno morale, il sostegno diplomatico, il sostegno economico e soprattutto il sostegno militare di cui avete bisogno non solo quest’anno e l’anno prossimo, ma per tutto il tempo necessario». Le parti hanno discusso della fornitura di armi destinate al fronte, del rafforzamento della difesa aerea, della protezione del popolo ucraino e delle infrastrutture critiche.

Frontex: 331 mila arrivi di migranti nell’Ue, record dal 2015

Gli attraversamenti irregolari rilevati alle frontiere esterne dell’Ue sono aumentati del 18 per cento nei primi dieci mesi del 2023 arrivando a quasi 331.600, il totale più alto dal 2015. Lo riportano i dati pubblicati dall’agenzia europea di frontiera, Frontex. La rotta dell’Africa occidentale ha registrato il maggiore aumento nel numero di attraversamenti irregolari, che nell’anno in corso sono quasi raddoppiati arrivando a oltre 27.700. Il Mediterraneo centrale è rimasta la rotta migratoria più trafficata verso l’Ue nel 2023, con oltre 143.600 rilevamenti segnalati dalle autorità nazionali nei primi tre trimestri dell’anno.

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Russia, come i fratelli Rotenberg hanno protetto i loro beni dalle sanzioni

Tra i fedelissimi che hanno sostenuto Putin fin dalla sua ascesa ci sono sicuramente i fratelli Boris e Arkady Rotenberg, partner chiave del Cremlino: alle loro società sono stati affidati nel corso degli anni i progetti più ambiziosi, tra cui i lavori per i Giochi Olimpici invernali di Sochi. Oggetto di sanzioni occidentali dal 2014, i Rotenberg sono riusciti però a “salvare” yacht, palazzi, aerei e altri beni di lusso e oggi, a distanza di quasi un decennio, hanno un patrimonio stimato intorno ai 5 miliardi di dollari. Come hanno fatto? Lo rivelano i Rotenberg Files, un’inchiesta dell’Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp) organizzazione giornalistica non-profit, basata sulla fuga di oltre 50 mila email e documenti dalla società russa Evocorp.

Russia, come i fratelli Rotenberg hanno protetto i loro beni dalle sanzioni occidentali e aiutato la figlia di Putin.
Vladimir Putin (Imagoeconomica).

Maxim Viktorov, la figura chiave che ha aiutato i fratelli Rotenberg

Figura chiave dello schema che ha permesso ai due oligarchi di occultare i loro beni è l’uomo d’affari moscovita Maxim Viktorov, il quale tramite il suo studio legale li ha aiutati a dribblare le sanzioni. Grazie a Viktorov, per esempio, i due hanno mantenuto a lungo la loro partecipazione nella Helsinki Halli, arena polivalente finlandese che ospita concerti, partite di hockey e altri eventi sportivi, tramite il trasferimento delle quote al figlio di Boris, Roman. Il bene è stato congelato solo nel 2022, quando anche Roman è stato raggiunto dalle sanzioni occidentali. Nel 2016, riporta il dossier, Viktorov aveva aiutato i Rotenberg quando una parte del loro impero finanziario era finito sotto la lente d’ingrandimento delle autorità di regolamentazione delle Isole Vergini Britanniche. Ma chi è Maxim Viktorov? Oggi 50enne, poco prima del collasso dell’Urss lavorò  come impiegato del dipartimento investigativo dell’ufficio del procuratore generale per passare poi al Kgb. In seguito ha iniziato a fornire servizi legali a imprenditori e funzionari. Nel 2012, è diventato consigliere dell’ex ministro della Difesa Anatoly Serdyukov. Successivamente assieme al medico Mikhail Kovalchuk, fratello del “banchiere di Putin” Yury, ha fondato l’Associazione russa per il progresso della scienza, a cui si è poi unita Maria Vorontsova, figlia maggiore del presidente. Collezionista di violini, nel 2005 Viktorov a un’asta di Sotheby’s, ne ha acquistato uno realizzato dal maestro italiano Carlo Bergonzi, precedentemente appartenuto a Niccolò Paganini, per 1,1 milioni di dollari.

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Lo chalet in Austria comprato dalla figlia di Putin con un prestito segreto

Studiando i file del dossier, i giornalisti dell’Occrp hanno scoperto poi che, grazie a un prestito segreto da parte dei Rotenberg (Arkady in particolare), Vorontsova sarebbe entrata in possesso di un lussuoso chalet a Kitzbühel, località sciistica austriaca. Come hanno spiegato i residenti, la primogenita dello zar è stata avvistata più volte in città assieme all’ex marito, l’olandese Jorrit Faassen. Sulla carta, a detenere la proprietà dell’immobile è la società cipriota Wayblue Investments, che l’ha acquistata nel 2013 per 10,8 milioni di euro. La Wayblue dal 2015 appartiene a Velidom Ltd. Purtroppo non è dato sapere, spiegano i giornalisti, a chi faccia riferimento quest’ultima società.

Russia, come i fratelli Rotenberg hanno protetto i loro beni dalle sanzioni occidentali e aiutato la figlia di Putin.
Il centro di Kitzbuhel, in Austria (Getty Images).

Tuttavia, è emerso che la cipriota Olpon Investments, controllata da Arkady Rotenberg, all’inizio del 2013 ha accettato di affidare 11,5 milioni di euro alla banca lettone SMP – all’epoca di proprietà dei Rotenberg che ha investito il denaro nella neonata Wayblue. A metà del 2014, i Rotenberg hanno venduto la banca che, ribattezzata Meridian Trade Bank, due anni dopo ha trasferito il prestito all’estone Cresco Securities. Wayblue non ha rimborsato il capitale del prestito. Secondo Tom Keating, direttore del Centre for Financial Crime and Security Studies con sede a Londra, il piano contorto per l’acquisto dello chalet in Austria è «tipico» degli affari che coinvolgono le persone vicine alla famiglia di Putin.

L’acquisto di un terreno nei Paesi Bassi ha invece lasciato una traccia cartacea 

Se l’acquisizione dello chalet è stata nascosta, un’altra operazione nei Paesi Bassi ha lasciato una traccia cartacea che ha condotto a Faassen. Sempre nel 2013 la società cipriota Gietrin Investments fondò la società olandese Molenkade Ontwikkeling e acquistò un terreno nella periferia di Amsterdam. I veri proprietari della Gietrin Investments sono sconosciuti, ma sono emersi legami con Wayblue Investments a cui ha prestato 750 mila euro, così come con SMP Bank. Il direttore di Molenkade era il marito della cugina di Faassen che poi ha assunto in prima persona la guida della società nel 2019. A settembre di quell’anno, dopo la fine del matrimonio con Vorontsova, l’uomo d’affari ha venduto a sé stesso il terreno, per poi chiudere l’azienda. A maggio 2023, l’ufficio del procuratore olandese ha confiscato l’appezzamento di terra.

Russia, come i fratelli Rotenberg hanno protetto i loro beni dalle sanzioni occidentali e aiutato la figlia di Putin.
Boris Rotenberg (Getty Images).

Il ruolo di Marina e Karina, le compagne dei Rotenberg

Nei documenti trapelati, i giornalisti hanno trovato numerosi altri beni di valore di proprietà di società o persone associate ai Rotenberg, a lungo nascosti grazie alle “magie” di Viktorov e soci. Oltre alla villa in Austria, ci sono due appartamenti nel centro di Riga, una villa in un resort spagnolo alla periferia di Valencia (acquistata per quasi 9 milioni di euro), un aereo Bombardier (valore 42 milioni), una villa sulla Costa Azzurra (4,25 milioni), un appartamento a Monte Carlo, un club ippico e altre residenze sparse per la Francia per un valore di quasi 16 milioni di euro. Molte di queste proprietà appartengono a una cittadina lettone di 36 anni, Maria Borodunova, che in alcuni documenti appare come Maria Rotenberg: si tratta della compagna di Arkady. Altre sono intestate a Karina, consorte di Boris, presidente della Federazione equestre di Mosca. Dai documenti trapelati è emerso che Karina, così come almeno due dei suoi tre figli, ha la cittadinanza statunitense e che questo, in diversi casi, ha permesso al marito di eludere le sanzioni.

Maturità 2023, gli auguri di Meloni e dei politici agli studenti

Chi c’è passato sa come sono, chi non c’è ancora arrivato può solo intuire l’emozione mista a tensione che sono capaci di provocare. E poi c’è chi li sta sostenendo a partire dal 21 giugno. Stiamo ovviamente parlando degli gli esami di maturità, cominciati con la prima prova, quella scritta di italiano. Per l’occasione sono stati diversi gli esponenti del mondo della politica, premier Meloni in primis, che hanno fatto gli auguri ai 536 mila maturandi.

Meloni: «Siate creativi, buttatevi a capofitto nel vostro sogno, qualsiasi sia»

«Ricordo ancora quei giorni carichi di tensione: lo studio a perdifiato che precedeva gli esami finali, l’adrenalina, la consapevolezza che lì si metteva, in qualche giorno, in poche ore, tutto il lavoro che era stato fatto per anni. Ma ricordo anche l’emozione, sapendo che che di lì a poco si sarebbe aperto un capitolo completamente vuoto per la propria vita. Così sarà anche per voi», detto Giorgia Meloni, parlando del suo esame di maturità, in un videomessaggio per Skuola.net.

«C’è chi proseguirà negli studi universitari, chi sceglierà di abbracciare un’esperienza lavorativa: qualsiasi sia la scelta che farete ricordate che voi siete i padroni del vostro destino. Siate creativi, buttatevi a capofitto nel vostro sogno, qualsiasi sia». E poi: «Voi siete i protagonisti di quel libro che si chiama vita. Vale la pena di vivere e di leggere quel libro con tutta l’intensità possibile».

Maturità 2023, gli auguri della premier Giorgia Meloni e dei politici agli studenti che oggi iniziano gli esami.
Studenti pronti per l’esame di maturità (Imagoeconomica).

Salvini: «Sono giorni che vi ricorderete ovunque sarete»

Anche Matteo Salvini ha voluto mandare il suo “in bocca al lupo” ai maturandi con un videomessaggio: «Se ai miei tempi avessi visto il video di uno di 50 anni (il leader della Lega è un classe 1973, ndr) che mi diceva “goditela”, lo avrei mandato a quel paese, però vi assicuro che questi sono giorni che vi ricorderete ovunque voi sarete».

Renzi: «Dateci dentro, alla grandissima»

«Un abbraccio speciale a chi sta entrando nelle aule per la maturità 2023. Sappiamo che è dura ma vi resterà addosso come uno dei momenti più intensi della vostra vita. E allora dateci dentro, alla grandissima. In bocca al lupo», ha twittato Matteo Renzi, leader di Italia Viva.

«Godetevi questi momenti, queste ore. Le ricorderete per sempre. E dopo niente sarà più come prima. In bocca al lupo ragazzi!», ha scritto su Twitter Maria Elena Boschi.

Maturità 2023, gli auguri della premier Giorgia Meloni e dei politici agli studenti che oggi iniziano gli esami.
Studentesse impegnate nell’esame di maturità (Imagoeconomica).

Valditara: «L’esame di Stato non è il giudizio divino, affrontatelo con serenità»

«Oggi abbiamo dato il via agli Esami di Stato 2023. Con l’occasione, mando un augurio alle ragazze e ai ragazzi. Un grazie particolare allo straordinario lavoro di docenti, dirigenti, personale scolastico e di tutto il Ministero dell’Istruzione e del Merito», ha twittato il titolare del Mit Giuseppe Valditara, che alla vigilia aveva detto: «L’esame di Stato non è la prova finale, non è il giudizio divino. E i commissari non sono degli inquisitori. Un consiglio: affrontatelo senza timori e con serenità».

Usa-Cina, Joe Biden definisce Xi Jinping «dittatore»

In California, durante un discorso fatto a braccio nel corso di un evento per la raccolta di fondi elettorali, il presidente americano Joe Biden è tornato sul caso dei palloni-spia definendo «dittatore» il suo omologo cinese Xi Jinping. Le parole dell’inquilino della Casa Bianca rischiano di cancellare i «progressi» confermati dal capo della diplomazia a stelle e strisce Anthony Blinken che, primo segretario di Stato a visitare la Cina in cinque anni, sta cercando di allentare le tensioni tra i due Paesi.

«Non sapeva che il pallone-spia fosse lì, è una cosa che suscita imbarazzo nei dittatori»

«Il motivo per cui Xi Jinping si è molto arrabbiato quando ho abbattuto quel pallone pieno di equipaggiamento per spionaggio perché non sapeva che fosse lì», ha detto Biden riferendosi all’incidente di febbraio. «Era andato fuori rotta. È stato portato fuori rotta attraverso l’Alaska e poi giù attraverso gli Stati Uniti e lui non lo sapeva. Quando è stato abbattuto era molto imbarazzato e ha negato che fosse anche lì. È una di quelle cose che suscita grande imbarazzo nei dittatori». E poi: «Ora siamo in una situazione in cui vuole avere di nuovo una relazione. Blinken è appena andato là. Ha fatto un buon lavoro e ci vorrà del tempo».

Usa-Cina, Joe Biden definisce Xi Jinping «dittatore». Pechino: «Giudizi assurdi e irresponsabili». A rischio i progressi diplomatici.
L’incontro tra Antony Blinken e Xi Jinping (Getty Images).

La risposta di Pechino: «Le parole di Biden violano la dignità politica della Cina»

La risposta di Pechino non si è fatta attendere: la portavoce del ministero degli Esteri Mao Ning, nel corso del briefing quotidiano, ha detto che le parole di Biden sono «assurde e irresponsabili» e che violano la «dignità politica della Cina». La Repubblica Popolare, ha aggiunto, esprime «disappunto e forte disapprovazione». Le parole di Biden sono arrivate a stretto giro dalla visita di Blinken a Pechino: nella capitale cinese il segretario di Stato Usa ha anche incontrato il presidente Xi.

Blinken in Cina, gli accordi raggiunti su cinque fronti dai due Paesi

Al termine della visita di Blinken a Pechino Yang Tao, direttore generale del Dipartimento per gli Affari nordamericani e dell’Oceania del ministero degli Esteri cinese, ha dichiarato che Cina e Stati Uniti hanno raggiunto accordi su cinque fronti. In primo luogo i due Paesi attueranno le intese comuni raggiunte dai presidenti Xi e Biden a Bali nell’incontro a margine del G20 di novembre 2022, al fine di «gestire efficacemente le divergenze e di promuovere il dialogo, gli scambi e la cooperazione». Cina e Usa hanno poi concordato di mantenere interazioni «di alto livello». Al terzo punto Yang ha riferito che c’è l’impegno a continuare a portare avanti le consultazioni «sui principi guida delle relazioni bilaterali»: Al quarto, invece, che le parti continueranno a portare avanti le consultazioni attraverso il gruppo di lavoro congiunto per affrontare questioni specifiche nelle relazioni. Infine, Cina e Usa hanno concordato di incoraggiare più scambi interpersonali ed educativi, con discussioni positive sull’ipotesi di aumentare i voli passeggeri tra i due Paesi, per favorire più visite reciproche di studenti, accademici e uomini d’affari.

Usa-Cina, Joe Biden definisce Xi Jinping «dittatore». Pechino: «Giudizi assurdi e irresponsabili». A rischio i progressi diplomatici.
L’intervento di Biden al National Safer Communities Summit (Getty Images).

Biden e quel «God save the Queen» diventato virale sui social

Le parole di Biden hanno provocato un certo imbarazzo negli Stati Uniti. Ed è la seconda volta che accade nel giro di pochi giorni. Sabato 17 giugno il presidente Usa aveva chiuso il suo intervento al National Safer Communities Summit in Connecticut, dopo aver parlato per una trentina di minuti chiedendo leggi più severe sul controllo delle armi, con la frase «Alright? God save the Queen, man», forse “scambiandola” con il «God bless America» spesso usato dai presidenti Usa per congedarsi. Ovviamente, la gaffe di Biden è diventata virale sui social.

Chi è Joseph Tsai, nuovo presidente di Alibaba

Cambio al vertice del gigante cinese dell’e-commerce Alibaba. Daniel Zhang a settembre lascerà la carica di presidente e amministratore delegato, per dedicarsi alla guida della divisione cloud computing del gruppo. Come ceo sarà sostituito da Eddie Wu, ora presidente delle divisioni commerciali Taobao e Tmall, mentre come presidente dal miliardario taiwanese Joseph Tsai.

Chi è Joseph Tsai, nuovo presidente di Alibaba. Il profilo del miliardario taiwanese proprietario dei Brooklyn Nets.
La sede di Alibaba a Hangzhou (Imagoeconomica).

Nel 2019 ha acquistato i Brooklyn Nets per la cifra record di 2,1 miliardi di dollari

Nato nel 1964 a Taipei in una famiglia fuggita a Taiwan durante l’esodo del Kuomintang dopo che il Partito Comunista Cinese aveva preso il controllo della Cina continentale, Joseph Tsai a 13 anni fu mandato negli Stati Uniti dai genitori per frequentare le scuole superiori nel New Jersey. Successivamente ha studiato giurisprudenza a Yale, università che aveva frequentato anche il padre, laureandosi in Economia nel 1986 e successivamente in legge presso la Yale Law School. Ammesso come avvocato all’ordine degli avvocati di New York nel 1991, dopo pochi anni nello studio legale Sullivan & Cromwell è passato al private equity, entrando a far parte di Rosecliff, Inc., piccola società di management buyout. Poi il salto a Hong Kong nel 1995, dove ha conosciuto Jack Ma. Colpito dall’idea di quest’ultimo di creare un mercato internazionale di importazione ed esportazione, ha lasciato il lavoro da 700 mila dollari all’anno presso Investor AB, unendosi a Ma e altri 16 co-fondatori di Alibaba. Diventato nel 2013 vicepresidente esecutivo della società oltre che secondo azionista individuale dopo Ma, nel 2019 ha acquisito i Brooklyn Nets per la cifra record di 2,1 miliardi, la più alta mai pagata per una franchigia Nba: la valutazione era stata concordata l’anno prima, quando il magnate era entrato in società con il russo Mikhail Prokhorov, proprietario della squadra dal 2010. Oggi Tsai ha un patrimonio stimato di 7,7 miliardi di dollari.

Chi è Joseph Tsai, nuovo presidente di Alibaba. Il profilo del miliardario taiwanese proprietario dei Brooklyn Nets.
Joseph Tsai (Getty Images).

Secondo cambio al vertice per Alibaba: quattro anni fa Jack Ma era stato sostituito da Daniel Zhang

Si tratta del secondo cambio al vertice di Alibaba: la multinazionale con sede ad Hangzhou dal 1999 al 2019 è stata guidata dal fondatore Jack Ma, che ora si dedica alla filantropia, a cui appunto era succeduto il già citato Daniel Zhang. Il colosso cinese sta rispondendo con un’imponente riorganizzazione alle sfide del post-Covid: a marzo ha infatti annunciato l’intenzione di dividersi in sei unità separate (tra cui cloud, e-commerce, logistica, media e intrattenimento), supervisionate da un proprio amministratore delegato, per permettere a ciascuna di esse di cercare finanziamenti indipendenti.

In Ucraina mezzi inutilizzabili e armi obsolete: cosa non va nelle forniture militari

Dall’indipendenza nel 1991, l’Ucraina nel corso degli anni ha venduto un’ampia porzione delle sue vaste scorte di armi dell’era sovietica, ottenendo grossi profitti: l’arsenale del Paese, in particolare, si è ridotto durante la presidenza del filorusso Viktor Yanukovich. Il problema della scarsità degli armamenti è venuto alla luce in occasione dell’annessione unilaterale della Crimea da parte della Federazione Russa, poi con la guerra del Donbass e, ancor di più, con l’invasione su larga scala iniziata il 24 febbraio 2022. Quando la Russia ha attaccato l’Ucraina, Kyiv si è trovata alla disperata ricerca di armi e munizioni. Come sottolineato a inizio aprile dal segretario generale della NatoJens Stoltenberg, «gli alleati hanno erogato quasi 150 miliardi di euro di sostegno all’Ucraina, inclusi 65 miliardi di euro di aiuti militari». Ma, come riporta un’inchiesta del New York Times, le autorità ucraine hanno pagato più di 800 milioni di dollari ai fornitori occidentali nel corso dell’anno passato, in base a contratti rimasti in tutto o in parte inadempiuti: moltissime le armi che non sono state consegnate, tanti i mezzi incapaci di muoversi o sparare, buoni tutt’al più per recuperare qualche pezzo di ricambio.

Mezzi inutilizzabili e armi obsolete, cosa non va nelle forniture militari all'Ucraina
La bandiera ucraina apposta su un mezzo arrivato dagli Usa (Getty Images).

Il 30 per cento dell’arsenale di Kyiv è costantemente in riparazione

Che qualcosa vada male, nella frenesia della corsa alle armi, ci sta. Molti delle forniture da parte degli alleati occidentali comprendevano armi di ultima generazione, come i sistemi di difesa aerea americani che si sono dimostrati altamente efficaci contro droni e missili russi. Ma in altri casi gli alleati hanno fornito attrezzature finite da tempo nei magazzini che, nella migliore delle ipotesi, necessitavano di ampie revisioni. Come scrive il Nyt, il 30 per cento dell’arsenale di Kyiv è costantemente in riparazione: un tasso elevato, soprattutto per un esercito che ha bisogno di tutte le armi per dare il via all’attesa controffensiva.

Il caso dei 33 obici donati dall’Italia, poi riparati (male) in Florida

L’inchiesta del quotidiano statunitense cita la consegna di 33 obici semoventi M109 messi fuori servizio alcuni anni fa, donati all’Ucraina dall’Italia, «richiesti, comunque, da parte ucraina, nonostante le condizioni, per essere revisionati e messi in funzione, vista la urgente necessità di mezzi per fronteggiare l’aggressione russa», come precisato dal ministero della Difesa. Non è tanto il fatto che gli obici fossero da revisionare: Roma lo ha messo in chiaro e Kyiv li ha voluti lo stesso. Ma quanto successo dopo. Come scrive il New York Times, il governo ucraino ha inviato i pezzi d’artiglieria alla Ultra Defense Corporation di Tampa, in Florida, pagando quasi 20 milioni di dollari per la riparazione. Quando 13 dei 33 obici sono finalmente arrivati in Ucraina, si sono rivelati «non adatti a missioni di combattimento».

Mezzi inutilizzabili e armi obsolete, cosa non va nelle forniture militari all'Ucraina. L'inchiesta del New York Times.
Un Humvee dell’esercito americano (Getty Images).

Gli Humvee arrivati in Polonia con le gomme a terra

Nell’estate del 2022 a un’unità dell’esercito americano è stato ordinato di spedire 29 Humvee in Ucraina da un deposito a Camp Arifjan, una base in Kuwait. Alla fine di agosto, gli appaltatori privati incaricati di revisionare i mezzi avevano riparato trasmissioni, batterie scariche, perdite di fluidi, luci rotte, serrature delle porte e cinture di sicurezza sugli Humvee, facendo sapere che tutti e 29 gli automezzi militare da ricognizione dell’esercito americano erano pronti per l’Ucraina. Il lavoro era stato verificato, a quanto pare, dall’unità dell’esercito Usa di stanza in Kuwait. Ma, quando gli Humvee sono arrivati in Polonia, si è scoperto che le gomme di 26 mezzi su 29 erano inutilizzabili. Ci è voluto quasi un mese per trovare abbastanza pneumatici sostitutivi, il che «ha ritardato la spedizione di altre attrezzature in Ucraina e ha richiesto manodopera e tempo significativi», ha rilevato un rapporto del Pentagono. Ma gli appaltatori si sono fatti comunque pagare a caro prezzo per il loro servizio.

Manutenzione pessima, ma pagata a caro prezzo

La stessa cosa, aggiunge il Nyt, è successa con una fornitura di obici M777, sempre da parte della stessa unità. I pezzi di artiglieria erano in condizioni talmente pessime da essere stati rimandati al mittente, che dunque li ha riparati due volte. Ma sono solo alcuni esempi, riguardanti peraltro mezzi e armi che, alla fine, sono arrivate nella disponibilità di Kyiv.

Mezzi inutilizzabili e armi obsolete, cosa non va nelle forniture militari all'Ucraina. L'inchiesta del New York Times.
Lo sparo di un obice M777 a Bakhmut (Getty Images).

Come hanno precisato gli interlocutori del New York Times, che hanno partecipato all’acquisto di armi, in diversi casi la fornitura non è nemmeno avvenuta e non sempre gli intermediari hanno restituito il denaro. Diversi i contratti che non sono stati rispettati dall’inizio della primavera 2023, come persi nella frenesia da controffensiva. Che, forse non a caso, tarda ad arrivare.