L’Apocalisse australiana e l’allarme ignorato di Jared Diamond

Nel 2005 il geografo e biologo metteva in guardia sulla fragilità del continente. Una terra poco fertile, arida e sfruttata come una miniera. Consigliava di puntare sulla viticoltura e sull'export di carne di canguro. Ma nessuno gli diede ascolto.

Esportare vino e carne di canguro invece che lana, carni ovine o cereali: è il consiglio che Jared Diamond, antropologo, biologo e geografo statunitense, diede all’Australia in tempi non sospetti.

Allora, era il 2005, molti australiani si indignarono, snobbando le riflessioni dell’esperto premio Pulitzer. Ma ora, nel mezzo dell’emergenza incendi definita una “Chernobyl australe”, le sue parole tornano attuali.

I NUMERI DELL’APOCALISSE AUSTRALIANA

Dallo scorso settembre oltre 10 milioni di ettari sono ormai andati in fiamme; 25 persone e oltre un miliardo di animali sono morti; oltre 2500 case sono andate distrutte. Nella capitale Canberra sono state distribuite ai cittadini 100 mila maschere con filtri protettivi per permettere alla popolazione di sopravvivere con un livello di respirabilità dell’aria che è stato registrato come «il peggiore al mondo». Per ora sono scattati almeno 183 arresti per incendi nel solo Nuovo Galles del Sud, tra cui una quarantina di minorenni. 

LE RESPONSABILITÀ POLITICHE

Ma per i cittadini ci sono evidentemente anche responsabilità politiche, e il primo ministro Scott Morrison è stato ripetutamente contestato. A parte andarsene in vacanza natalizia alle Hawaii nel mezzo della crisi, a parte aver voltato le spalle durante una visita in una comunità devastata dai roghi a una donna incinta che chiedeva più risorse, a parte fare arrabbiare i connazionali per uno spot in cui si vantava per il dispiegamento di forze quando invece era accusato di aver risposto con colpevole ritardo all’emergenza, Morrison è nel mirino soprattutto per aver dichiarato che il suo governo non farà nulla per combattere i cambiamenti climatici.

Il primo ministro australiano Scott Morrison in visita all’osola dei Canguri devastata dalle fiamme (Getty images)

La Carbon Tax che in due anni aveva ridotto le emissioni di gas serra dell’1,4% è stata tolta nel 2014, e la delegazione australiana al recente vertice delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici è stata accusata di ostacolare i negoziati per concordare piani di riduzione delle emissioni di carbonio a livello globale. L’Australia è il più grande esportatore mondiale di carbone e gas naturale liquefatto, e la relativa lobby è potente. 

LA COMBINAZIONE FATALE DI TRE FATTORI

Incendi dolosi a parte, il Paese in questi ultimi mesi è stato colpito da una eccezionale combinazione di tre fattori. Caldo estremo, innanzitutto: a metà di dicembre la temperatura media era arrivata a 41,9 gradi, e secondo il locale Bureau of Meteorology le temperature sono aumentate di oltre un grado Celsius dal 1920. Poi, siccità prolungata: la primavera più secca da quando 120 anni fa si è iniziato a registrare il dato. Terzo elemento, venti fortissimi: fino a 60 miglia l’ora. Gli incendi boschivi sono cosa normale in Australia, ma se il caldo aumenta anche la loro intensità cresce, fino a oltrepassare il livello di guardia. 

Abitazioni distrutte dalle fiamme nel Galles del Sud (Getty Images).

Vero, l’Australia può contare su centinaia di migliaia di vigili del fuoco volontari che lavorano 24 ore su 24 per cercare di tenere gli incendi sotto controllo. Ma secondo gli esperti bisognerebbe puntare di più sulla prevenzione, a partire dall’edilizia nelle zone a rischio incendi: costruire case resilienti e realizzare zone cuscinetto più ampie tra le proprietà e il Bush, la tipica vegetazione australiana. 

L’ALLARME LANCIATO DA DIAMOND NEL 2005

Forse però occorrerebbe andare oltre. E ricordare Jared Diamond: il biologo, fisiologo, ornitologo, antropologo e geografo il cui best-seller Armi, acciaio e malattie nel 1997 rivoluzionò la storiografia lanciando il genere definito “storia mondiale”. L’Australia è una terra che Diamond conosce bene. Ne parla anche nel suo recentissimo Crisi. Come rinascono le nazioni. Ma a questo Paese un altro capitolo lo aveva dedicato in Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere del 2005. E lì il suo avvertimento era stato proprio questo: l’Australia è il continente ecologicamente più fragile del Pianeta e per sopravvivere la sua economia dovrebbe cambiare in maniera radicale. Non solo sul fronte del carbone.

UN’ECONOMIA BASATA SULLO SFRUTTAMENTO

«L’attività mineraria in senso stretto (ovvero l’estrazione di carbone e metalli) è oggi un fattore chiave nell’economia australiana, perché rappresenta la quota più cospicua delle esportazioni», ricorda Diamond. Aggiungendo: «La miniera è anche una chiave metaforica per comprendere la storia ambientale dell’Australia e la sua difficile situazione attuale». Lo ripetiamo: scriveva nel 2005. «L’estrazione mineraria, fondamentalmente, non è che lo sfruttamento fino all’estremo di risorse che non si rinnovano con il tempo. Dato che l’oro non cresce nei campi anno dopo anno e che dunque non c’è bisogno di tener conto del ritmo con cui si rinnovano i giacimenti, i minatori estraggono il minerale da un filone fino a quando si esaurisce».

Una donna cammina con una mascherina a Sydney (Getty Images).

Dunque, l’estrazione di minerali deve essere «tenuta ben distinta dallo sfruttamento di risorse rinnovabili» che si rigenerano per riproduzione biologica o per la formazione di un nuovo strato di suolo, e che possono essere sfruttate indefinitamente «a condizione che vengano prelevate con un ritmo più lento rispetto a quello con cui si rinnovano». Ma «l’Australia ha sempre trattato le sue risorse rinnovabili (e continua a farlo) alla stregua di minerali: le sfrutta molto più velocemente di quanto non si rigenerino». 

UNA TERRA SENZA MINERALI E POCO FERTILE

Come ricorda Diamond, «ecologicamente, l’ambiente dell’Australia è eccezionalmente fragile». Per questo «sono già diventati gravi molti problemi che potrebbero prima o poi paralizzare anche altri Paesi ricchi (e che già imperversano in molte zone del Terzo Mondo)». La siccità da cui i continui incendi, infatti, è dovuta al fatto che «l’Australia è il continente meno fertile: ha il suolo mediamente meno ricco di sostanze nutrienti, il tasso di crescita vegetale più basso e la più bassa produttività». E questo «perché il suolo australiano è, per la maggior parte, così vecchio che i suoi minerali sono stati trascinati via dalle innumerevoli piogge. Le rocce più antiche presenti sulla superficie terrestre (quasi 4 miliardi di anni) si trovano nella catena montuosa del Murchison Range, nell’Australia occidentale». La mancanza di vulcani, glaciazioni e sollevamenti non ha permesso un ripristino. Di conseguenza l’agricoltura australiana dipende da un uso e abuso di fertilizzanti e carburanti che aumenta non solo i costi di produzione, ma anche l’impoverimento del suolo e l’effetto serra.

UNA RICONVERSIONE MAI AVVENUTA

Diamond consigliava una riconversione massiccia verso prodotti a più alto valore aggiunto, che ridurrebbero questo impatto. Benissimo dunque il vino. La viticultura australiana è fortunatamente in rapida espansione ed è un boom che secondo l’esperto va incoraggiato. Più si brinda con vino degli antipodi e più si contribuisce a salvare l’ambiente. Ma anche gli allevamenti ovini per Diamond dovrebbero lasciare il passo all’esportazione di carne di canguro, che in molti Paesi è apprezzata, e la cui produzione sarebbe perfettamente sostenibile.

Un koala salvato dai Vigili del fuoco.

Però, come osservava lo stesso geografo con sarcasmo, «gli australiani considerano i canguri soltanto degli animali fastidiosi e dannosi, e non credono che la loro carne possa rimpiazzare una buona cena tradizionale all’inglese, a base di carne di montone e di manzo. Molte organizzazioni per la difesa degli animali si oppongono alla caccia dei canguri, dimenticando però che le condizioni di vita e i metodi di macello degli ovini e dei bovini sono molto più crudeli di quelli dei canguri selvatici. Gli Stati Uniti proibiscono esplicitamente l’importazione di carne di canguro perché questo animale è ritenuto ‘carino’ e perché la moglie di qualche senatore deve aver sentito dire che è una specie a rischio di estinzione. In effetti alcune specie di canguro sono in pericolo, ma non (ovviamente) quelle di cui è autorizzata l’uccisione, che sono anzi molto numerose».

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Un crowdfunding per i lavoratori di Prato puniti col decreto Sicurezza

Manifestavano contro condizioni di lavoro insostenibili e sono stati multati per "blocco stradale". La campagna di InOltre ora vuole aiutarli a fronteggiare le spese.

A 21 dipendenti di Prato che avevano protestato contro un datore di lavoro che li teneva senza stipendio da sette mesi è stata inflitta una multa di 4 mila euro a testa. In applicazione del decreto Sicurezza di Matteo Salvini. Per aiutarli ad affrontare le spese, una raccolta di fondi è stata lanciata da InOltre Alternativa Progressista: gruppo di giovani del Pd che si definiscono “oltre tutte le correnti” e che con questa iniziativa vogliono attrarre l’attenzione sulla necessità di abolire il decreto. «Prima o poi sarebbe successo, l’abbiamo sempre saputo», dice il presidente di InOltre Giordano Bozzanca. «Anche stavolta il decreto Sicurezza non ci ha stupiti e ci ha dimostrato uno dei suoi tanti e cupi volti».

LAVORO IN NERO E TURNI DA 12 ORE

La vicenda risale allo scorso 16 ottobre e si riferisce alla Tintoria Superlativa, che ha sede in via Inghirami a Prato. Ventuno lavoratori pakistani della società avevano manifestato davanti alla sede, lamentando non solo il terribile ritardo nei pagamenti ma anche altre condizioni che il sindacato SI Cobas ha così riassunto: «Lavoro nero, turni di 12 ore per sette giorni la settimana, paghe di 1.000 euro, niente ferie, malattie o permessi». «Condizioni confermate dal controllo dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro che per la terza volta in quattro anni procedeva alla sospensione dell’attività e all’apertura di un fascicolo presso la Procura della Repubblica per sfruttamento». Nel 2016 erano stati infatti trovati 21 lavoratori in nero. Nel 2018, 15 senza contratto regolare, di cui 10 irregolari costretti a vivere in condizioni igieniche di lavoro precarie. Il 10 luglio 2019 erano stati scoperti altri 15 lavoratori in nero.

L’IDENTIFICAZIONE DI 21 MANIFESTANTI E LA MULTA

La protesta era contro il mancato rispetto di un accordo «che avrebbe dovuto aprire un percorso di regolarizzazione in un contesto di gravissima illegalità imprenditoriale e sfruttamento della manodopera». Durante la manifestazione in strada un’auto travolse però alcuni operai in sciopero, e la sindacalista Sarah Caudiero rimase lievemente ferita a un piede. Ventuno presenti furono così identificati, e adesso sono stati multati per un “blocco stradale” che secondo il sindacato non c’era assolutamente. Per SI Cobas, «l’applicazione del Decreto Salvini contro le legittime proteste dei lavoratori è un campanello di allarme sullo stato di salute delle libertà democratiche sul nostro territorio. Ancora più grave che questo accada andando a sanzionare lavoratori in sciopero che non recepiscono retribuzioni da sette mesi e sono impegnati nella denuncia di situazioni gravissime di sfruttamento ed illegalità imprenditoriale che purtroppo contraddistinguono ancora il distretto pratese».

IL REATO DI BLOCCO STRADALE REINTRODOTTO COL DECRETO

Insomma, «si tratta della prima applicazione a livello nazionale dei nuovi strumenti di limitazione delle libertà democratiche introdotti dal decreto». In effetti il testo ha reintrodotto il reato di “blocco stradale”, che era stato depenalizzato nel 1999. Sono previste pene fino a sei anni di reclusione e l’estensione delle misure previste dal cosiddetto “Daspo urbano” per chiunque «ponga in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione» non solo di infrastrutture di trasporto ma anche di «aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati e pubblici spettacoli, di zone di interesse turistico o di presidi sanitari». La Questura di Prato ha appunto interpretato come “blocco stradale” la manifestazione davanti ai cancelli dell’azienda. Secondo SI Cobas persone «fedeli all’azienda» avrebbero aggredito per tre volte i manifestanti con cric, spranghe di ferro e da ultimo con l’investimento della sindacalista. Infine i cancelli sono stati sgomberati dalla Polizia in assetto anti sommossa.

Alcuni fanno i crowdfunding per autopromuoversi, noi per cause sociali coerenti con i valori

Giordano Bozzanca, presidente di InOltre

La cosa ha provocato polemiche all’interno del Pd, con Matteo Orfini che via Facebook ha chiesto di abolire i Decreti Sicurezza e la sottosegretaria allo Sviluppo economico Alessia Morani che ha parlato di «vergogna». Ricordando di non aver mai cambiato idea sulla questione i giovani di InOltre annunciano un doppio impegno: «Da un lato continuando a chiedere l’abolizione dei Ds, mettendone in luce tutti i punti deboli e le norme ingiuste, come quella che ha colpito i lavoratori; dall’altra proponendo a tutta la comunità — pratese, toscana ed italiana — un crowfunding col quale raccogliere dei fondi da far pervenire direttamente ai 21 lavoratori, manifestando loro la nostra solidarietà ed il nostro aiuto nella loro lotta». «Alcuni fanno i crowdfunding per autopromuoversi», dice Bozzanca. «Noi per cause sociali coerenti con i valori».

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L’Epifania negli altri Paesi: viaggio in un mondo di tradizioni

La dodicesima notte inglese raccontata da Shakespeare. Il Dreikönigstag tedesco e i Reyes Magos del mondo ispanico. Come si vive il 6 gennaio all'estero.

La Befana è un personaggio della tradizione tipico dell’Italia, o comunque dei Paesi dove c’è una comunità italiana importante. Ad esempio, in Canada, a Toronto. Dove però si è in parte distaccata dal 6 gennaio, al punto che è durante il solstizio d’inverno che una folla di uomini, donne e bambini vestiti da Befana invade il mercato di Kensington cantando serenate al sole, ballando in strada e distribuendo caramelle in attesa dell’alba. La Befana è una tradizione antica, ma soprattutto nei territori dell’ex Stato Pontificio o comunque in Italia centrale. A livello nazionale si è invece diffusa più di recente.

ALLE ORIGINI DELLA BEFANA

L’origine è la commemorazione della visita e dei doni dei Magi a Gesù. Una “manifestazione” della Divinità di Gesù, in greco appunto Epifania. Non l’unica, in realtà: se ne celebravano varie altre, dal battesimo da parte di San Giovanni al miracolo delle nozze di Cana. Però quella era stata la prima, e soprattutto era stata accompagnata da regali a un bambino. L’ Epifania data in cui si erano portati doni al Bambino Gesù diede dunque origine alla Befana del folklore che porta doni ai bambini. Un personaggio buono, ma che ai bambini cattivi porta “aglio, cenere e carbone”, e con alcuni attributi inquietanti simili a quelli di personaggi malefici come le streghe. La Befana, dunque, è un personaggio quasi al confine tra Bene e Male. Secondo varie leggende era la nonna di Erode, lo sterminatore degli innocenti, o la moglie di quel Ponzio Pilato che aveva condannato Gesù, o la zia di quel Barabba che era stato scelto dal popolo al posto di Gesù per essere salvato dalla Croce. Insomma, un personaggio costretto a fare buone azioni per espiare la colpa di un congiunto.

I SONETTI DI BELLI E LA POESIA DI PASCOLI

Quando nasce la Befana? I primi a citarla sono autori toscani: Francesco Berni nel 1541, Agnolo Firenzuola nel 1549, Domenico Maria Manni con L’Istorica notizia delle origini e del significato delle Befane di cui esiste una edizione del 1792 (quattro anni dopo la sua morte). E in Toscana vi allude la tradizione del “Befano”: un pupazzo in stracci appeso presso la casa di chi si vuole deridere per comportamenti sconvenienti. Il 6 gennaio del 1845 vi dedica tre sonetti il grande poeta romanesco Giuseppe Gioacchino Belli, nel 1889 ne scrive il grande folklorista romano Gigi Zanazzo, nel 1897 vi dedica una intensa poesia il romagnolo Giovanni Pascoli. E in tutta l’Italia Centrale si rappresentano le Befanate, combinazione tra canto di questua e teatro.

È il regime di Benito Mussolini a decidere di “centralizzare” tutte queste tradizioni in una Befana Fascista nazionale a uso dopolavoristico

In questo contesto si forma tutto il folklore relativo ai preparativi per l’arrivo della Befana: dalla calza da lasciare appesa al camino perché sia riempita di doni, al cibo per rifocillare la donatrice che deve essere rigorosamente a base di ricotta, vista la sua proverbiale mancanza di denti. In parte queste tradizioni confluiscono in altre: dai “Morti” del primo e 2 novembre, particolarmente importanti in Sicilia; alla Santa Lucia del 13 dicembre, al Nord. È il regime di Benito Mussolini a decidere di “centralizzare” tutte queste tradizioni in una Befana Fascista nazionale a uso dopolavoristico: prima edizione, nel 1928. Così la tradizione diventa nazionale, anche perché continuata dalle Befane dopolavoristiche della Repubblica democratica.

Se dunque la Befana è legata alla tradizione italiana, l’Epifania è celebrata nel mondo cristiano con sfumature che variano, di Paese in Paese. È William Shakespeare con una commedia rappresentata per la prima volta il 6 gennaio 1601 a informarci di tre particolarità della tradizione inglese. Prima: che l’Epifania è popolarmente definita “La dodicesima notte”, come è appunto il titolo di quell’opera. Seconda: che una cosa che si fa spesso in questo giorno è rappresentare opere teatrali di dilettanti. Una delle più gettonate è proprio La dodicesima notte. Terza: che il 6 gennaio nel mondo anglosassone è data di scherzi, quasi come da noi il primo aprile e nel mondo ispanico il “Giorno dei Santi Innocenti” del 28 dicembre. Infatti la trama è infarcita di inganni: da Viola che si traveste da uomo al maggiordomo Malvolio che per una lettera falsificata crede di essere oggetto di attenzioni da parte della padrona Olivia.

LA CERIMONIA DEL WASSALLING

Nella dodicesima notte inglese si brinda con il sidro: la cerimonia del Wassalling, accompagnata da canti tradizionali. Si consumano cibi e bevande piccanti in ricordo delle spezie dei Re Magi. Si spegne il “ceppo natalizio” che era stato messo nel camino a Natale, che viene poi conservato come portafortuna e spesso riutilizzato per fare il fuoco del Natale successivo. O meglio, si spegneva: attestata in tutta Europa dal XII secolo questa tradizione si estingue in gran parte nel XX. Forse l’Inghilterra è il Paese dove regge ancora di più. Altre tradizioni: la “Torta della Dodicesima Notte” con nascosti dentro un fagiolo cotto, uno spicchio d’aglio, un ramoscello e uno straccio. Chi trova il fagiolo diventa re o regina della festa, l’aglio indica il cattivo, il rametto il folle, lo straccio la ragazza di facili costumi. Altro dessert tipico: una crostata in cui si cerca di mettere 13 tipi di marmellata diversa.

Insomma, si fa di tutto, tranne dare regali. Quelli si danno invece in Spagna, in Portogallo, in America Latina e nelle Filippine. Però a differenza dell’Italia non li porta la Befana ma i Re Magi, che in molte località appaiono il giorno prima in una solenne cavalcata in costume organizzata dalle autorità. I bambini scrivono ai Re Magi una lettera per chiedere i doni, e lasciano alla porta o alla finestra scarpe in cui metterle, oltre a dolci per i Re e acqua e erba per i loro animali. Come in Italia, si può ricevere carbone. E come la Befana italiana anche i Reyes Magos sono in concorrenza con Babbo Natale. Il “Roscón de Reyes” è l’equivalente della “Twelfth night cake” inglese. Solo che lì c’è solo una fava o una figurina o una moneta, che fa pagare una penitenza. In Messico si prende con caffè, cioccolato o atole, e contiene figurine di Gesù Bambino. In alcuni Paese ispanici il giorno dei Reyes Magos è chiamato anche Pacqua de los Negros. Ricordo di quando gli schiavi avevano un giorno libero e lo passavano danzando in strada in onore di Baldassarre, il “Re Magio” di colore.

Una Parata per l’Epifania si fa anche a Praga, dove c’è pure l’abitudine di fare un tuffo nella Moldava gelata presso il Ponte Carlo. In Bulgaria il 6 gennaio si festeggia il Battesimo del Signore con il lancio di una croce di legno in acqua da parte di un sacerdote. I giovani devono sfidare il freddo per recuperarla, e nella città di Kalofer prima del lancio nel fiume Tundzha viene suonato e danzato un horo, danza tradizionale. La croce di legno in acqua viene lanciata anche in Grecia, mentre in Russia si fa un buco nel ghiaccio a forma di croce in cui ci si immerge: ci si è cimentato lo stesso Vladimir Putin.

Anche i bambini del Benelux e della Germania per il 6 gennaio prendono regali: ma andandoseli a cercare. Si chiama Driekoningen in olandese e fiammingo e Dreikönigstag in tedesco il “giorno dei tre re” in cui i bambini vanno in costume di casa in casa cantando canzoni tipiche, portando una lanterna di carta che simboleggia la stella cometa e ricevendo in cambio dolciumi o monete. Nei Paesi di lingua tedesca la questua in costume è fatta anche da giovani più grandi: gli Sternsinger. Piuttosto che regali per sé chiedono però donazioni benefiche. In Polonia la festa dei Tre Re, Trzech Króli, ha come epicentro le sfilate in cui i Magi, spesso in sella a cammelli o altri animali, distribuiscono dolci, mentre bambini vestiti in abiti rinascimentali intonano canti natalizi. C’è poi l’uso di far benedire in chiesa piccole scatole contenenti gesso, un anello d’oro, incenso e un pezzo di ambra, in memoria dei doni dei Magi. Una volta a casa, scrivono “K + M + B +” e l’anno con il gesso benedetto sopra ogni porta della casa, come protezione contro le malattie e le disgrazie. Le lettere, con una croce dopo ognuna, sono interpretate sia come i nomi tradizionalmente applicati dei Tre Re in polacco – Kacper, Melchior e Baltazar; sia come la scritta in latino “Cristo benedica questa casa”.

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L’altra faccia di Consip oltre alle indagini sui renziani

Non c'è solo il caso finito sui giornali che ha riguardato il Giglio magico. La centrale degli acquisti della Pubblica amministrazione dal 1997 ha rappresentato una piccola rivoluzione. Tra web, sistema di contratti, gare e agenda digitale. I conti e la mission di una società per azioni di cui si conosce poco.

Consip significa Concessionaria servizi informativi pubblici, ma c’è il rischio che il grande pubblico finisca per associarla unicamente all’indagine sulla famiglia Renzi. E magari per concepirla come qualcosa da eliminare, in quanto occasione di corruzione. Invece si tratta di una sigla che ha rappresentato una rivoluzione nella Pubblica amministrazione italiana.

UNICO AZIONISTA IL TESORO

Società per azioni il cui unico azionista è il ministero dell’Economia e delle finanze, Consip è stata infatti la prima centrale di committenza in Italia e tra le prime in Europa a ricevere quella certificazione di qualità Iso 9001:2008 per i processi d’acquisto di beni e servizi che è ricercato riconoscimento internazionale. Al servizio esclusivo della Pubblica amministrazione, attualmente definisce la propria missione aziendale come «quella di rendere più efficiente e trasparente l’utilizzo delle risorse pubbliche, fornendo alle amministrazioni strumenti e competenze per gestire i propri acquisti e stimolando le imprese al confronto competitivo con il sistema pubblico».

L’INIZIO CON LA RIVOLUZIONE INFORMATICA

Ma quando nacque, nel 1997, doveva soprattutto adeguare lo Stato italiano alla rivoluzione informatica in corso. Attenzione alla data: è nel 1996 che il fenomeno internet esplose in tutto il mondo. Presto si capì che l’e-government, come venne ribattezzato, poteva rivoluzionare i rapporti tra Stato e cittadini. Il decreto legislativo del 19 novembre 1997 numero 414 affidò dunque alla Consip le attività informatiche dell’Amministrazione statale in materia finanziaria e contabile, mentre con i decreti del ministero del Tesoro del 22 dicembre 1997 e del 17 giugno 1998 fu assegnato alla società l’incarico di gestire e sviluppare i servizi informatici dello stesso ministero.

SISTEMA DA RIVEDERE DOPO TANGENTOPOLI

Se però a livello mondiale quelli erano stati gli anni della ascesa del web, in Italia un tema che era percepito come ancora più importate era di assicurare l’onestà nel sistema dei contratti della Pa, dopo che Tangentopoli aveva portato al passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Poteva essere la tecnologia il modo per assicurare correttezza e professionalità? Il nuovo millennio iniziò con quel decreto ministeriale attraverso il quale il 24 febbraio 2000 il ministero dell’Economia e delle finanze attribuì alla Consip anche l’attuazione del Programma per la razionalizzazione degli acquisti della Pubblica amministrazione, previsto dalla Legge finanziaria per il 2000. Un ruolo ulteriormente rafforzato tra 2013 e 2014.

OLTRE 400 PERSONE E 90 MILA CENTRI DI SPESA ABILITATI

Oggi Consip si presenta come «un’azienda di oltre 400 persone con un know-how ventennale sul procurement». Sono oltre 90 mila i centri di spesa abilitati, attraverso cui gestisce le gare per la Pubblica amministrazione. L’intervento è in tre principali ambiti. Il primo è il Programma di razionalizzazione degli acquisti della Pa. Offre alle amministrazioni strumenti di e-procurement, cioè il modo per gestire i propri acquisti via internet: convenzioni, accordi quadro, mercato elettronico, sistema dinamico di acquisizione, gare su delega e in Application service provider.

AGENDA DIGITALE E REVISIONE DELLA SPESA

Il secondo è il procurement di specifici “progetti-gara”, per singole amministrazioni e per tutte le amministrazioni, sulle iniziative per realizzare l’Agenda digitale italiana. Il terzo è lo sviluppo di Progetti specifici: assegnati con provvedimenti di legge o atti amministrativi, a seguito dell’esperienza maturata nella gestione di iniziative complesse, in tema di revisione della spesa, razionalizzazione dei processi e innovazione nella Pubblica amministrazione.

ANCHE SULL’INNOVAZIONE QUALCHE PROBLEMA GIUDIZIARIO

La Consip sostiene che lo sviluppo della sua attività «è caratterizzato da un modello organizzativo del tutto innovativo nella realtà italiana, che coniuga le esigenze delle amministrazioni con l’attenzione alle dinamiche del mercato, in un’ottica di massima trasparenza ed efficacia delle iniziative». In realtà la vicenda della famiglia Renzi dimostra che neanche l’innovazione riesce a sottrarsi del tutto a un certo tipo di problemi che continuano a scombussolare la politica italiana.

REALTÀ IMPONENTE AL DI LÀ DEI GUAI

Tuttavia, la Consip resta una realtà imponente. Alla fine del 2019 il valore di tutti gli acquisti della Pubblica amministrazione effettuati nel 2019 attraverso la Consip è arrivato a 14,5 miliardi: il 16% in più rispetto all’anno precedente, e con un risparmio di spesa per la Pa che è stato stimato in oltre 3 miliardi. Sono stati 700 mila gli ordini di spesa, con aggiudicatari oltre 130 mila fornitori: per il 99% Piccole e medie imprese. Negli ultimi tre anni il valore degli acquisti è aumentato del 77%, mentre nell’ultimo biennio è salito del 38% il numero delle gare aggiudicate.

UTILE NETTO 2019 A 7 MILIONI

Altri dati appena resi noti: 87 gare sopra la soglia comunitaria da 200 mila euro, per un totale di 350 lotti e un valore bandito di 14 miliardi, 80 aggiudicate per un totale di 190 lotti e un valore offerto sul mercato di oltre 7 miliardi. Oltre 1.150 le gare bandite dalle singole amministrazioni in autonomia sulla piattaforma di e-procurement Mef/Consip, per un valore di 5,2 miliardi. Un utile netto di esercizio che la società prevede in chiusura 2019 a 7 milioni di euro, con un aumento del 30% rispetto al 2018.

L’AZIENDA PROVA A RIPOSIZIONARSI

L’amministratore delegato della Consip Cristiano Cannarsa ha commentato dicendo che «tutti gli indicatori della gestione da luglio 2017 indicano una crescita a doppia cifra, confermando la fiducia di amministrazioni e imprese nel progetto di riposizionamento dell’azienda e premiando il nostro sforzo per soluzioni efficaci e innovative». Particolare orgoglio è mostrato per inclusione delle piccole e medie imprese «che oggi hanno raggiunto una partecipazione media di 5,7 pmi per ogni lotto messo a gara con un aumento del 73% rispetto a due anni fa».

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Guida ai regali di Natale 2019 più stravaganti e inaspettati

Giochi per bambini con escrementi protagonisti. Monopoli rivisitati. Scacchi cinesi. Profumi al sushi o all'hamburger. Salva-Nutella. Accessori per fare i selfie al gatto. Tutte le idee last minute più originali (e un filo trash) se siete in crisi di ispirazione.

È spesso un problema fare i regali di Natale. Soprattutto quando vanno talmente a ruba che spariscono. A quanto pare, il regalo più gettonato dai bambini su Amazon è in uno scatologico “Acchiappa la cacca in cui i concorrenti devono far schizzare via un modello di escremento da un gabinetto a colpi di sturalavandino.

«Devi spingere lo sturalavandini sul water per il numero di volte indicato sul dado. Quando la cacca salta fuori dallo scarico, afferrala per primo. Se riesci a prenderla al volo, guadagni due gettoni! Vince chi ottiene più gettoni!», è la pubblicità. «Gioco per serate all’insegna delle risate e del divertimento, da due a quattro giocatori da 5 anni in su». Una icona dei tempi non del tutto gradevoli che stiamo vivendo? A ogni modo è andato totalmente sold out: su Amazon non è disponibile prima di due mesi. Chi ci tiene, forse può iniziare a prenotarsi per il Natale prossimo.

ESCREMENTI DA EVITARE A OCCHI BENDATI

In attesa si può ripiegare su “Non calpestarla. Il gioco dello sorprese birichine”, che è al numero 13 tra le vendite. Tanto la materia prima è sempre la stessa. «Evita le pupù a occhi bendati. Modella il composto incluso con lo stampo per farlo sembrare una vera pupù. Calpesta meno pupù possibile per vincere. Sfida i tuoi amici o gareggia contro te stesso».

IL REGALO FATEVELO DA SOLI: CON I BUONI

Anche quando l’articolo non è esaurito, c’è ovviamente poi il problema della scelta. Cosa si può prendere che il destinatario gradisca veramente e soprattutto non abbia già? Non sarebbe tutto più facile se la gente i regali se li facesse da sola? Fermi tutti! Proprio pensando a ciò Amazon ha inventato i Buoni regalo. E best seller in questo momento sono quelli presentati in formato natalizio. Primo quello da 30 euro in Cofanetto Fiocco, secondo da 50 in Cofanetto renne di Natale, terzo da 30 in Cofanetto Babbo Natale, eccetera.

MONOPOLI: CHI PIÙ NE HA PIÙ NE METTA

Ma torniamo ai giochi e giocattoli, che secondo tutte le rilevazioni sono al primo posto tra i regali natalizi. A parte quelli per bambini, tra i più intellettuali spopola sempre il Monopoli, che fu inventato ai tempi della grande crisi per esorcizzare quello che stava accadendo, e in qualche modo può forse continuare a svolgere una funzione del genere. Il Monopoli classico, sia pure rinnovato con una serie nuova di pedine, è al numero 7 delle vendite.

VERSIONI CON FORTNITE, ELETTRONICA E TEX

Al numero 19 è il Monopoly Fortnite, che integra il gioco sul capitalismo al videogioco del 2017 ambientato invece in un mondo apocalittico, sposando in modo originale lo schema del monopolio a quello del combattimento senza tregua. Numero 20 è Monopoly Ultimate Banking, con banca elettronica e carta di credito. Numero 59 Monopoly Junior, con pedine per bambini piccoli. Ma forse la variante più originale può essere il Monopoli di Tex. Le pedine sono cactus, stivali, ferri di cavallo, stelle da sceriffo, cappelli da cowboy e totem. Case e hotel sono in stile West, e anche la toponomastica. Il “per tutti i Satanassi”! lo potete aggiungere voi, per entrare meglio nella parte durante il gioco.

SCHERZI CINESI: COME QUESTI SCACCHI

La Cina è vicina, e anzi sempre più invadente. Dalla Belt and Road all’ambasciatore a Roma che incontra Beppe Grillo, passando per Donald Trump che blocca il Wto appunto perché dice che da quando ci sta in mezzo Pechino tutte le regole sono saltate. È vero che i cinesi hanno regole loro che sembrano partire dagli stessi principi nostri, ma poi diventano una cosa incomprensibile? Forse per verificarlo empiricamente nulla è più efficace di una partita di Xiangqi: o scacchi cinesi, perché si tratta dell’evoluzione cinese dello stesso ancestrale wargame che da noi ha dato gli scacchi.

SIMBOLOGIA DI UN ESERCITO ANTICO

Alcuni pezzi sono gli stessi. I pedoni in particolare, anche se sono solo cinque e non otto, mangiano come muovono, e una volta passato il fiume simbolico a metà della scacchiera possono andare anche di lato. O i cavalli, che però non possono scavalcare. Altri sono rimasti fedeli alla originale simbologia descrittiva di un esercito dell’antichità, che nelle traduzioni occidentali si è persa. Le torri sono dunque carri da guerra, con le stesse mosse. Quelli che in Occidente sono diventati alfieri o vescovi sono elefanti, solo che in diagonale possono muovere solo di due passi alla volta. Senza regina, un re o generale e due consiglieri o mandarini che non possono uscire da una “casa” o “reggia” dividono le mosse del re occidentale: solo avanti o indietro o di lato; solo in diagonale; sempre di una mossa.

NON HANNO DISEGNI MA IDEOGRAMMI

Ma ci sono soprattutto due cannoni o bombarde che sparano in avanti come un carro ma devono avere una pedina di mezzo per colpire: una cosa che da sola basta a mandare il giocatore occidentale fuori fase, quasi come le nostre aziende quando si trovano alle prese con il codice cinese sulla proprietà intellettuale. In più le pedine non hanno disegni ma ideogrammi: però, giusto per condiscendenza, ne sono state create versioni appunto simili agli scacchi occidentali. Chi vuole può provare anche a cimentarsi online con il computer: versione iconica o ideografica. Per regalare, su Amazon si può compare una magnifica versione iconica ispirata al famoso esercito di terracotta, o un’altra un po’ più cara ispirata al Romanzo dei Tre Regni. Versioni ideografiche ve ne sono in quantità.

ALLA CONQUISTA DEL MONDO: I VIDEOGIOCHI STRATEGICI

Il percorso idealmente iniziato con scacchi e xiangqi passando per il classico RisiKo! e varianti arriva ai videogiochi strategici di oggi, dove non si cerca più di vincere una semplice battaglia simbolica, ma addirittura di conquistare il mondo. Dalla tattica alla strategia. Da regalare sia ai sovranisti nostalgici di guerre tra nazioni sia ai globalisti vogliosi di dimostrare che di riffa o di raffa comunque a un mondo integrato si arriva. La svedese Paradox ha per esempio come sue ultime offerte Imperator: Rome e Age of Wonders: Planetfall. Nella prima si deve a provare a gestire una superpotenza del Mediterraneo nell’anno 450 a.C.: la Roma repubblicana, malgrado il nome, ma anche Cartagine o l’Egitto. Nel secondo invece si è proiettati in un futuro alla Star Wars. Comunque le regole della strategia e del potere restano le stesse: ieri, oggi, domani. Al massimo le si può prendere con un sorriso: cosa che suggerisce di fare Tropico, videogioco di God Games che affronta la lotta per il potere dal 1950 in poi in un immaginario Paese caraibico con un tono da dittatore dello Stato Libero di Bananas.

PROFUMI APPETTITOSI: DAL SUSHI ALL’HAMBURGER

Non ci sono comunque solo i giochi a Natale, anche se piacciono a grandi e piccini. Come spiegano le rilevazioni della Unione nazionale consumatori, al secondo posto dopo giochi e giocattoli tra i regali preferiti ci sono i prodotti per la cura della persona: profumi, cosmetici, creme viso-corpo, trousse trucchi. Gli alimentari sarebbero invece solo decimi, ma perché comunque più che regalarli a Natale e Capodanno li si consuma direttamente. Sarebbe possibile un regalo che rientri sia nella categoria profumi sia in quella cibo? Ormai, sì! In particolare, l’americana Demeter mette in vendita una fragranza per donne al profumo di sushi. L’azienda avverte che comunque non c’è odore di pesce ma «sentori di alghe, riso, zenzero e limoni». Quasi a ricambiare il favore agli Usa, in Giappone avevano creato una fragranza al Burger King, ma purtroppo non è più in vendita. O forse la si può trovare ancora?

INDOVINA CHI VIENE A CENA? L’INSETTO

Dal panettone al torrone passando per pandoro, tacchino, lenticchie e cotechino o zampone, gran parte della spesa alimentare per Natale è comunque tradizionale. Ma se qualcuno volesse sperimentare qualcosa di diverso? Ormai con l’e-commerce la gastronomia esotica non è più qualcosa solo da leggere nei libri di Tarzan o di Sandokan. In particolare carne di serpente «eccezionalmente buona» e carne di coccodrillo secca sono in vendita a prezzi competitivi su Multivores: un sito la cui principale specializzazione sono comunque gli insetti commestibili. In proposito c’è un “pacco scoperta” che permette di gustare uno snack che esplora tutte le principali specialità della casa: cavallette, grilli, bachi da seta e tarme della farina.

TOGLIETEMI TUTTO MA NON LA MIA NUTELLA

Anche i casalinghi sono un must: sesta categoria nelle vendite. E un gadget domestico lanciato qualche anno fa ma tornato di grande attualità è il lucchetto per non farsi rubare la Nutella. È stato infatti un tema delle ultime settimane la grande sfida tra la Barilla che ha lanciato una crema Pan di Stelle rivale della Nutella e la Ferrero che ha risposto con i Nutella Biscuits: una guerra commerciale con retroscena la polemica sull’olio di palma, che la Ferrero si vanta di usare come materia prima sostenibile e la Barilla invece si vanta di non usare.

SALVINI E IL BOICOTTAGGIO DELLE NOCCIOLE TURCHE

Sembra che qualche esperto in algoritmi abbia suggerito a Salvini di «dire qualcosa di sovranista» sul tema, per finire in testa ai clic. E così lui ha avuto la pensata di chiamare al boicottaggio della Nutella per “uso di nocciole turche”: ignorando del tutto che un anno e mezzo prima proprio la Ferrero aveva lanciato un programma per ridurre la dipendenza dalla materia prima turca (70% della produzione mondiale) facendo aumentare la produzione italiana dal 13 al 30% planetario entro il 2025 (la Nutella per la sua fabbricazione succhia da sola ogni anno tra il 25 e il 33% della produzione mondiale).

Avvertito che la battuta era risultata controproducente, Salvini ha corretto il tiro, tornando a farsi vedere mentre si abbuffa di Nutella. Insomma, per chi se lo vede girare davanti al frigo, il Nutella Lock-protect può essere indispensabile.

ROBA DA GATTI: L’ACCESSORIO PER I SELFIE

Anche l’elettronica è sempre un genere che va: quinto posto tra i settori merceologici. E qua ovviamente le offerte si sprecano. Nell’epoca di smartphone, selfie e social, sembra essere però sorto un grave problema: come postare il ritratto del proprio micio? Come ricorda il sito che mette in vendita questo accessorio, «a) i gatti hanno la fastidiosa abitudine di girare la testa, senza preavviso, b) preferiscono ampiamente dare un colpo di zampa sul telefono o graffiarti piuttosto che posare per una foto c) non hanno abbastanza pazienza per prestarsi a un gioco umano spesso scomodo. Ciononostante, lo sappiamo bene: le foto con più like su Instagram sono quelle in cui mettiamo le nostre palle di pelo». Allora come fare? L’idea è, appunto, un accessorio per fare il selfie al gatto. «Un gadget con una campanella che si collega al telefono e inizia a squillare quando lo sposti. Un modo per catturare immediatamente l’attenzione del tuo gatto». I venditori mettono però le mani avanti: «Dovrai essere reattivo perché i gatti non si lasciano ingannare facilmente e potrebbero capire lo stratagemma in pochi minuti». Anche perché «potrebbe non funzionare con gatti con problemi di udito, ipovedenti o di cattivo umore».

GIOIELLI DELL’ELETTRONICA: AURICOLARI SWAROVSKI

Infine, una cosa che costa, ma che permette di regalare due al prezzo (sia pure non modico) di uno: gioielli e elettronica attraverso appunto una coppia di auricolari rosa con cristalli Swarovski. Trovata del brand indiano iWave. Se non si sente bene, se non altro abbellisce.

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Il racconto della vita quotidiana stravolta da Piazza Fontana

Milano piena di operaie che chiedevano pari trattamento economico con gli uomini. All'insegna dello slogan Anni 70 «riprendiamoci la vita». Un fumetto della Bonelli scritto da Manfredi ripercorre il contesto sociale in cui scoppiò la bomba. Libri, musica, teatro e cinema: la strage nella cultura italiana.

A 50 anni di distanza, la strage di Piazza Fontana diventa un fumetto della Bonelli. Milano, 12 dicembre è il titolo: copertina e disegni sono di Roberto Rinaldi, soggetto e sceneggiatura di Gianfranco Manfredi.

STORIA INSERITA DENTRO “CANI SCIOLTI”

Già cantautore e scrittore, Manfredi si è poi segnalato soprattutto come autore per la Bonelli, per cui oltre a storie di Tex e Dylan Dog ha realizzato varie serie autonome: il western horror Magico Vento: Volto Nascosto, che è ambientata attorno alla battaglia di Adua e ha un seguito in Shangai Devil, durante la Rivolta dei Boxers; Adam Wild, che si svolge nell’Africa coloniale; e appunto Cani sciolti, in cui si inserisce questa storia.

TRA OCCUPAZIONI UNIVERSITARIE E UTOPIE

«Cani sciolti si svolge dal 1968 al 1989: dalla contestazione alla caduta del Muro di Berlino», spiega a Lettera43.it. «Protagonisti sono un gruppo di ragazzi attorno ai 20 anni che si conosco durante le occupazioni universitarie a Milano. Mostra la loro crescita, anche contrapponendo il come erano al come sono diventati. È un intervallo non casuale, perché la generazione dei baby boomer è cresciuta nell’epoca della Guerra fredda, e bene o male la caduta dei muri ha segnato la fine dei blocchi e una certa compiutezza nella loro esperienza, anche se la caduta del Muro di Berlino non ha certo realizzato loro utopie. Non è che il mondo venuto dopo sia assomigliato in maniera particolare a Imagine di John Lennon».

La copertina di “Cani sciolti”.

DOMANDA. Questo numero come mette i Cani sciolti a confronto con la Strage di Piazza Fontana?
RISPOSTA. Si tratta di una esperienza tra le più scioccanti vissuta nella storia di Milano. Siccome ovviamente avevo previsto che sarebbero usciti molti libri di rievocazione politica dell’evento, ho voluto invece trattarlo dal punto di vista della vita quotidiana.

In che modo?
Ho raccolto oltre a ricordi personali anche ricordi di amici, cui ho chiesto dove erano e cosa facevano quando è scoppiata la bomba. Quindi molti spunti finiti nella storia sono autentici.

Per esempio?
Alla casa discografica e musicale Ricordi, che è in Via Berchet a due passi da piazza Fontana, quando è scoppiata la bomba era in corso una riunione per decidere sulla partecipazione di Bobby Solo al Festivalbar. Lo scoppio fece uscire tutti fuori a vedere cosa era successo, e quindi mi hanno raccontato lo spaesamento del passare da un appuntamento di lavoro che sembrava divenuto improvvisamente futile a qualcosa che in quel momento era sconvolgente e inimmaginabile.

Quindi un fumetto per ricollocare Piazza Fontana nel suo contesto?
L’impatto che questo evento ha avuto sulla vita quotidiana, ma anche il periodo che lo aveva preceduto. Quando si seguono le piste complottistiche e spionistiche si tende un po’ a smarrire il contesto sociale di quella che era stata l’ultima grande agitazione operaia della storia italiana.

Cosa stava succedendo?
A Milano l’autunno caldo era stato vissuto in modo molto particolare perché, come racconto appunto nel fumetto, la città era piena di fabbriche a prevalenza femminile. Quindi le manifestazioni di donne erano continue: non solo le operaie, ma anche le infermiere della clinica Melloni, le portinaie, le sarte di Via Montenapoleone, le donne dell’editoria che chiedevano pari trattamento economico con gli uomini perché non facevano più semplicemente le segretarie.

E gli operai uomini?
Le loro rivendicazioni erano prevalentemente salariali e contrattuali, le lotte delle lavoratrici si aprivano ad altri campi come i servizi in città, le case, la vivibilità. Si annunciano tutta una serie di tematiche che poi percorreranno gli Anni 70 all’insegna dello slogan «riprendiamoci la vita».

Ipotesi?
Era evidente che quella forzatura violenta era dovuta da una parte a dinamiche che riguardavano il Mediterraneo. Con regimi autoritari di destra al potere in Grecia, in Spagna e in Portogallo, l’Italia era rimasta l’unico Paese democratico dell’area. Allo stesso tempo le lotte avevano suscitato una spinta di reazione autoritaria. Quella di Piazza Fontana fu la prima, ma poi di bombe nella storia italiana ce ne sono state per anni e anni, e ancora aspettiamo l’individuazione dei responsabili.

Cos’è rimasto?
Possono cambiare governi di ogni tipo, si può fare la Terza Repubblica, possono arrivare quelli che dicono «cambiamo tutto, facciamo una nuova classe politica», ma ancora oggi appurare cosa è successo, chi ha messo le bombe, chi ha pagato, chi ha ordito, nomi e cognomi, resta un grido inascoltato dei parenti delle vittime e della società civile.

Se ne parla nel fumetto?
Non ho voluto fare il giornalista detective o cose del genere, per non infognarmi in qualche deriva complottista. Ho voluto però dare alcune indicazioni soprattutto fondate sulla base del famoso libro che uscì a caldo: La strage di Stato. Fu opera di un team di giornalisti rimasti poi anonimi: per autoprotezione, perché non era facile esprimersi nell’Italia di quel periodo.

Cosa diceva?
Si basava molto su documenti già pubblicati prima dell’estate su giornali inglesi, tra cui l’Observer. Sostenevano che era in atto una grossa provocazione in Italia, sulla base di documenti provenienti evidentemente dai Servizi britannici, che non gradivamo una eccessiva preponderanza degli Stati Uniti nel Mediterraneo.

Altre opere da ricordare su Piazza Fontana?
Il Corriere della Sera ha ora pubblicato un libro: La strage di Piazza Fontana. Ma penso che sarebbe stato corretto fare autocritica ricordando il comportamento tenuto dal giornale a quell’epoca, con Valpreda coperto di fango e descritto come una sorta di Charles Manson italiano. Invece da quella storia vennero varie opere di intellettuali non conformi, che la affrontarono con più coraggio dei giornali.

Tipo?
In teatro su Pinelli Dario Fo fece Morte accidentale di un anarchico. Non parlavano direttamente di Pinelli e Valpreda ma erano evidentemente ispirati a quello che si era visto film come Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo o Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio.

Altro?
Anche Pier Paolo Pasolini dedicò al 12 dicembre un documentario, che però hanno visto in pochi. Lo stesso Pasolini, consigliato da avvocati che temevano conseguenze in tribunale, lo firmò come anonimo. Comunque vi si faceva una lettura del silenzio dei milanesi in chiave quasi di omertà che era completamente sbagliato: era un silenzio di indignazione, non di connivenza mafiosa.

LA STRAGE NELLA CULTURA ITALIANA

Ma sulla strage di Piazza Fontana l’arte e la cultura negli anni è tornata diverse volte.

LIBRI

Wikipedia cita in bibliografia 40 libri, 17 sentenze e sette trasmissioni televisive. Tra i libri usciti o riusciti in occasione di questo 50esimo anniversario ci sono innanzitutto La strage. Il romanzo di piazza Fontana di Vito Bruschini (Newton Compton), che è l’unico di genere narrativo. Di genere saggistico sono invece Piazza Fontana: 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta di Giorgio Boatti (Einaudi), La strage di piazza Fontana di Saverio Ferrari (Red Star Press), Cronache autoptiche. La strage di Piazza Fontana attraverso i verbali necroscopici dell’Istituto di Medicina Legale di Milano di Umberto Genovese, Michelangelo Casali e Sara Del Sordo (Maggioli), La strage degli innocenti di Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin (Feltrinelli), La maledizione di Piazza Fontana. L’indagine interrotta. I testimoni dimenticati. La guerra tra i magistrati di Guido Salvini e Andrea Sceresini (Chiarelettere), Piazza Fontana. Per chi non c’era. Cosa c’è da sapere su una pagina decisiva della nostra storia di Mario Consani (Nutrimenti), Piazza Fontana di Carlo Lucarelli (Einaudi), Il segreto di Piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli (Ponte alle Grazie), La bomba: Cinquant’anni di Piazza Fontana di Enrico Deaglio (Feltrinelli).

MUSICA

La Ballata del Pinelli, composta al funerale, è l’ultima traccia di un famoso doppio del Canzoniere Internazionale del 1973 dedicato a un’antologia della canzone anarchica in Italia. L’anno prima Enzo Jannacci aveva raccontato la storia di una ragazza morta a piazza Fontana in Una tristezza che si chiamasse Maddalena. E nel 1975 una canzone dedicata a Piazza Fontana è incisa dal gruppo Yu Kung, pioniere del Folk Rock in Italia. Altre canzoni invece si limitano a citazioni. “Viva l’Italia, l’Italia del 12 dicembre”. Francesco De Gregori in Viva l’Italia. “Qualcuno era comunista perché piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica eccetera, eccetera, eccetera”: Giorgio Gaber in Qualcuno era comunista. “Agosto. Che caldo, che fumo, che odore di brace / Non ci vuole molto a capire che è stata una strage,/ Non ci vuole molto a capire che niente, niente è cambiato/da quel quarto piano in questura, da quella finestra./ Un treno è saltato”: Claudio Lolli in Agosto. “Con il cuore in quella piazza / tiene a mente Piazza Fontana: I Litfiba in Il Vento. “E non fu solo un sogno e non ci credemmo poco / mettere il mondo a ferro e fuoco, / mentre un’altra stagione già suonava la campana / il primo rintocco fu a piazza Fontana”: Vittorio Sanzotta in Novecento.

TEATRO

A parte la Morte accidentale di un anarchico realizzata da Dario Fo nel 1970 e dedicata alla morte di Giuseppe Pinelli, al 2009 risale Piazza Fontana, il giorno dell’innocenza perduta di Daniele Biacchessi, “spettacolo di teatro civile” realizzato per il quarantennale.

CINEMA

Risale al 1972 La pista nera, documentario di Giuseppe Ferrara. Nel 2012 da Il segreto di piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli, Marco Tullio Giordana ha tratto Romanzo di una strage, che è l’unico vero film sulla vicenda. 12/12 – Piazza Fontana, realizzato da Matteo Bennati e Maurizio Scarcella nel 2019, è infatti pure un documentario.

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Alle radici della banana di Maurizio Cattelan

I richiami al Ready-Made di Duchamp. Gli incroci e le contaminazioni con dadaismo e spazialismo. Storia e significato delle opere dell'artista italiano.

La banana di Maurizio Cattelan affonda le radici in una ruota di bicicletta e in uno scolabottiglie. Centosei anni fa, nel 1913, con la “Ruota di bicicletta” Marcel Duchamp diede inizio all’arte Ready-Made: un tipo di arte in cui l’artista si appropria di un oggetto già disponibile sul mercato, trasformandolo in opera d’arte con la sua firma. Molti storici dell’arte ritengono però che non si trattasse di Ready-Made puro, dal momento che c’era stata manipolazione. Quella ruota, del diametro di 63,8 cm, era stata stata tolta dal mezzo cui era appartenuta e montata su uno sgabello in legno verniciato attraverso le forcelle del telaio. Un “esperimento personale” realizzato a New York, e interpretato come una parodia delle statue classiche. Così anche Cattelan ha preso una banana, l’ha attaccata a un muro con uno spesso nastro adesivo grigio e la ha esposta alla fiera d’arte contemporanea Art Basel Miami col titolo di “Commediante”, vendendola per 120 mila dollari.

L’OGGETTO COMUNE DIVENTA ARTE

La “Ruota di bicicletta”, dunque, sarebbe una premessa allo “Scolabottiglie” del 1914, sempre di Duchamp. L’artista nativo di Blainville-Crevon, in Francia, lo comprò in un negozio. Poi andò negli Stati Uniti e nel 1915 la sorella lo buttò, facendo pulizia nel suo studio. Lui allora, semplicemente, ne comprò un altro. Allo stesso modo, anche la banana originale è stata distrutta. In questo caso non per ignoranza dell’arte, ma come contro-esibizione artistica di David Datuna, che si è fatto filmare. “Artista Affamato”, sarebbe il titolo dell’arte che ha distrutto l’arte. Subito la banana è stata sostituita con un’altra. A trasformare l’oggetto comune in arte è la firma: in questo caso, assieme a un certificato di autenticità, che autorizza l’acquirente al “ricambio” del frutto, quando questo marcisce.

LA “FONTANA” DI DUCHAMP E “AMERICA” DI CATTELAN

A un secolo di distanza, Duchamp dà la mano a Cattelan anche attraverso la parentela che c’è la tra la funzione originale della “Fontana” e di “America”. La prima (Duchamp, 1917) è un orinatoio rovesciato. Come lo Scolabottiglie è stato visto come simbolo alchemico di un albero. La “Fontana” rappresenterebbe l’utero femminile. Non a caso Duchamp l’ha firmata con lo pseudonimo “R.Mutt”, che traslitterato evoca il sostantivo tedesco Mutt(e)R, ossia Madre. Altri pensano invece a un francese muter: cambiare, defunzionalizzare e rifunzionalizzare appunto. Quasi un secolo dopo, “America” (Cattelan, 2016), un gabinetto di oro massiccio. Realizzato da una fonderia di Firenze e collocato in un bagno del Solomon R. Guggenheim Museum per essere utilizzato dai visitatori, è stato rubato il 14 settembre mentre era esposto nel Regno Unito in quel Blenheim Palace dove nacque Winston Churchill.

LA STOCCATA DI MANZONI ALLA SOCIETÀ DEI CONSUMI

In questo gioco di rimandi, orinatoi e gabinetti evocano la “Merda d’Artista” realizzata il 21 maggio 1961 da Piero Manzoni. Che non è tecnicamente Ready-Made. Primo, perché non c’è acquisto dell’oggetto. Secondo, perché con l’inscatolamento c’è stata una manipolazione. Analoga è però la provocazione, con l’etichetta-certificato di autenticità, in varie lingue. “Merda d’artista. Contenuto netto gr. 30. Conservata al naturale. Prodotta ed inscatolata nel maggio 1961”, è la versione in italiano. E sulla parte superiore è apposto un numero progressivo da 1 a 90, insieme alla firma dell’artista. Il prezzo corrispondente a 30 grammi di oro rappresentava una satira del modo in cui la società dei consumi può far diventare di valore qualunque cosa. Ma in effetti i 220 mila euro cui il barattolo 69 è arrivato il 6 dicembre 2016 in un’asta a Milano vanno ben oltre questo stesso sberleffo. Un amico di Manzoni ha garantito che in realtà dentro c’è solo gesso. Ma nessuno si è mai azzardato a verificare.

GLI INCROCI CON DADAISMO E WHITE PAINTING

Duchamp è stato spesso accostato al dadaismo, ma essendo quel movimento nato nel 1916 ne sarebbe piuttosto un anticipatore. Un dadaista doc come Man Ray nel 1921 realizzò un famoso Ready-Made: “Il dono”, un ferro da stiro con 14 chiodi a testa piatta incollati alla suola. Non solo. Dopo aver realizzato la “Fontana” Duchamp andò per due anni in Argentina. Terra natale di Lucio Fontana, il cui movimento spazialista realizzava un’operazione dalla portata provocatoria parallela al Ready-Made, anche se di tipo diverso. Fontana, infatti, non si affidava a oggetti comuni, ma tornava alla tela dei pittori. Solo che invece di dipingerla la fendeva con coltelli, rasoi e seghe: i suoi famosi “Concetti spaziali”. Più radicale ancora, il White painting neanche dipinge, ma lascia la tela in bianco. Dal “Bianco su Bianco” realizzato nel 1918 dal russo Kazimir Malevich ai “Dipinti Bianchi” fatti dall’americano Robert Rauchsenber nel 1951, l’artista scompare per spiegare che l’arte non deve per forza indicare qualcos’altro. Come spiegava Frank Stella, «quel che vedi è quel che vedi».

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Chi è Luis Alberto Lacalle Pou, nuovo presidente dell’Uruguay

Il 46enne ha vinto il ballottaggio del 24 novembre. Figlio e bisnipote d'arte, ha riportato il Paese nelle mani del Partito Nazionale. Il profilo.

Per la prima volta in 15 anni, un candidato che non appartiene al Frente Amplio è stato eletto presidente dell’Uruguay.

Luis Alberto Lacalle Pou che ha battuto al ballottaggio Daniel Martínez, è il leader del Partito Nazionale detto anche Bianco, in contrapposizione agli storici rivali Colorados.

FIGLIO E BISNIPOTE D’ARTE

Il neo-presidente 46enne, che si insedierà il primo marzo, appartiene a una famiglia storica per la politica del Paese. Suo padre, Luis Alberto Lacalle, è stato presidente dal 1990 al 1995. La madre Julia Pou è stata senatrice tra il 2000 e il 2005.

Luis Alberto Lacalle​, padre del neo presidente dell’Uruguay e a sua volta ex presidente del Paese (Getty Images).

Infine il bisnonno Luis Alberto de Herrera, storico caudillo dei Blancos, a parte avere un ruolo assimilabile a primo ministro tra 1925 e 1927 ed essere stato membro del Consiglio nazionale di governo collegiale dal 1952 alla sua morte nel 1959, fu soprattutto colui che alle elezioni del 1958 sconfisse i Colorados dopo 93 anni. Personaggio leggendario, in alcune foto giovanili appare vestito da guerrigliero con un cappello da gaucho.

LEGGI ANCHE: Il giornalista Chamorro denuncia la repressione di Ortega in Nicaragua

LA PASSIONE PER IL MARE E PER IL SURF

Proprio dal bisnonno Lacalle Pou ha ereditato una collezione di National Geographic. Di qui la sua passione per il mare. Il suo sogno, infatti, era diventare un nuovo Jacques-Yves Cousteau tanto che anche ora dice di essere un oceanografo mancato. In compenso, però, è diventato un abilissimo surfista. Ha girato mezzo mondo a cercare onde da cavalcare: Hawaii, California, Nicaragua, Panama, El Salvador, Costa Rica, Messico, Brasile, Sumatra. Ama ripetere che «il surf insegna l’armonia con ciò che ci circonda e a integrarsi con il Pianeta». Quando non ha il mare a disposizione, si arrangia con uno skateboard.

LEGGI ANCHE: Jeanine Añez e Monica Eva Copa: le due donne alla guida della Bolivia

Proprio ai festeggiamenti per la vittoria del padre Luis Lacalle Pou conobbe sua moglie Lorena Ponce de León appartenente a una famiglia colorada, ma portata all’evento da una amica. Con lei ha avuto tre figli. Deputato dal 2000 al 2015, presidente della Camera dal 2011 al 2012, candidato alla presidenza nel 2014 e senatore dal 2015, Lacalle Pou è ora alla prova del governo.

LOTTA ALLA CRIMINALITÀ E SGRAVI FISCALI

Dopo Lacalle padre e dopo due altri mandati di presidenti colorados, nel 2004 vinse per la prima volta il Frente Amplio, versione tra le più soft della Marea Rosa dei governi di sinistra dell’area. Tre i mandati: Tabaré Vázquez, poi il mediatico Pepe Mujica, poi di nuovo Vázquez. Ma dopo 15 anni anche il modello uruguayano ha iniziato ad appanarsi.

Il neo presidente dell’Uruguay Luis Lacalle (Getty images).

Non ci sono state le involuzioni autoritarie di altri governi di sinistra e l’Uruguay resta uno dei Paesi meglio governati della regione, ma la delinquenza è cresciuta: da 284 omicidi nel 2017 si è passati ai 414 nel 2018. Carta che Lacalle Pou ha giocato in campagna elettorale. Il suo programma prevedeva anche sgravi fiscali per i produttori agricoli, la riduzione del deficit e il mantenimento dello Stato sociale.

LA VITTORIA DI MISURA AL BALLOTTAGGIO

Al primo turno del 27 ottobre Luis Alberto Lacalle Pou aveva conquistato il 28,62% dei voti, contro il 39,02% di Martínez, il 12,34% del colorado Ernesto Talvi e l’11,04% di Guido Manini Ríos, ex-comandante dell’esercito destituito da Vázquez per aver preso le difese del regime militare e fondatore del partito Cabildo Abierto chiaramente ispirato a Jair Bolsonaro.

Il candidato del Frente Amplio, Daniel Martinez con la sua candidata vice Graciela Villar (Getty).

Il suo successo ha allarmato gli uruguayani al punto da consentire a Martínez un forte recupero al ballottaggio del 24 novembre. Un risultato che però non è stato sufficiente a garantirgli la vittoria. E ora, grazie a 30 mila voti, è la volta del presidente-surfista. Alla domanda su cosa avrebbe fatto con la tavola se eletto aveva risposto: «Sognare», visto che «il presidente deve lavorare anche nei fine settimana». Ma, ha assicurato, continuerà a insegnare surf alla figlia Violeta.


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Chi è Luis Alberto Lacalle Pou, nuovo presidente dell’Uruguay

Il 46enne ha vinto il ballottaggio del 24 novembre. Figlio e bisnipote d'arte, ha riportato il Paese nelle mani del Partito Nazionale. Il profilo.

Per la prima volta in 15 anni, un candidato che non appartiene al Frente Amplio è stato eletto presidente dell’Uruguay.

Luis Alberto Lacalle Pou che ha battuto al ballottaggio Daniel Martínez, è il leader del Partito Nazionale detto anche Bianco, in contrapposizione agli storici rivali Colorados.

FIGLIO E BISNIPOTE D’ARTE

Il neo-presidente 46enne, che si insedierà il primo marzo, appartiene a una famiglia storica per la politica del Paese. Suo padre, Luis Alberto Lacalle, è stato presidente dal 1990 al 1995. La madre Julia Pou è stata senatrice tra il 2000 e il 2005.

Luis Alberto Lacalle​, padre del neo presidente dell’Uruguay e a sua volta ex presidente del Paese (Getty Images).

Infine il bisnonno Luis Alberto de Herrera, storico caudillo dei Blancos, a parte avere un ruolo assimilabile a primo ministro tra 1925 e 1927 ed essere stato membro del Consiglio nazionale di governo collegiale dal 1952 alla sua morte nel 1959, fu soprattutto colui che alle elezioni del 1958 sconfisse i Colorados dopo 93 anni. Personaggio leggendario, in alcune foto giovanili appare vestito da guerrigliero con un cappello da gaucho.

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LA PASSIONE PER IL MARE E PER IL SURF

Proprio dal bisnonno Lacalle Pou ha ereditato una collezione di National Geographic. Di qui la sua passione per il mare. Il suo sogno, infatti, era diventare un nuovo Jacques-Yves Cousteau tanto che anche ora dice di essere un oceanografo mancato. In compenso, però, è diventato un abilissimo surfista. Ha girato mezzo mondo a cercare onde da cavalcare: Hawaii, California, Nicaragua, Panama, El Salvador, Costa Rica, Messico, Brasile, Sumatra. Ama ripetere che «il surf insegna l’armonia con ciò che ci circonda e a integrarsi con il Pianeta». Quando non ha il mare a disposizione, si arrangia con uno skateboard.

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Proprio ai festeggiamenti per la vittoria del padre Luis Lacalle Pou conobbe sua moglie Lorena Ponce de León appartenente a una famiglia colorada, ma portata all’evento da una amica. Con lei ha avuto tre figli. Deputato dal 2000 al 2015, presidente della Camera dal 2011 al 2012, candidato alla presidenza nel 2014 e senatore dal 2015, Lacalle Pou è ora alla prova del governo.

LOTTA ALLA CRIMINALITÀ E SGRAVI FISCALI

Dopo Lacalle padre e dopo due altri mandati di presidenti colorados, nel 2004 vinse per la prima volta il Frente Amplio, versione tra le più soft della Marea Rosa dei governi di sinistra dell’area. Tre i mandati: Tabaré Vázquez, poi il mediatico Pepe Mujica, poi di nuovo Vázquez. Ma dopo 15 anni anche il modello uruguayano ha iniziato ad appanarsi.

Il neo presidente dell’Uruguay Luis Lacalle (Getty images).

Non ci sono state le involuzioni autoritarie di altri governi di sinistra e l’Uruguay resta uno dei Paesi meglio governati della regione, ma la delinquenza è cresciuta: da 284 omicidi nel 2017 si è passati ai 414 nel 2018. Carta che Lacalle Pou ha giocato in campagna elettorale. Il suo programma prevedeva anche sgravi fiscali per i produttori agricoli, la riduzione del deficit e il mantenimento dello Stato sociale.

LA VITTORIA DI MISURA AL BALLOTTAGGIO

Al primo turno del 27 ottobre Luis Alberto Lacalle Pou aveva conquistato il 28,62% dei voti, contro il 39,02% di Martínez, il 12,34% del colorado Ernesto Talvi e l’11,04% di Guido Manini Ríos, ex-comandante dell’esercito destituito da Vázquez per aver preso le difese del regime militare e fondatore del partito Cabildo Abierto chiaramente ispirato a Jair Bolsonaro.

Il candidato del Frente Amplio, Daniel Martinez con la sua candidata vice Graciela Villar (Getty).

Il suo successo ha allarmato gli uruguayani al punto da consentire a Martínez un forte recupero al ballottaggio del 24 novembre. Un risultato che però non è stato sufficiente a garantirgli la vittoria. E ora, grazie a 30 mila voti, è la volta del presidente-surfista. Alla domanda su cosa avrebbe fatto con la tavola se eletto aveva risposto: «Sognare», visto che «il presidente deve lavorare anche nei fine settimana». Ma, ha assicurato, continuerà a insegnare surf alla figlia Violeta.


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Il giornalista Chamorro denuncia la repressione di Ortega in Nicaragua

Centinaia di contestatori arrestati. Chiese attaccate dai paramilitari. Il Paese da un anno vive in uno stato d'assedio. Tornato dall'esilio in Costa Rica, il direttore de El Confidencial si dice pronto a lottare contro il regime di Managua. E ripercorre la speranza tradita della rivoluzione sandinista. L'intervista.

«Non torno in Nicaragua perché la situazione è migliorata. Torno per lottare», dice a Lettera43.it Carlos Fernando Chamorro, direttore del settimanale El Confidencial ed erede di una famiglia che ha fatto la storia del Paese centroamericano da un anno infiammato dalle proteste anti-Ortega.

L’omicidio nel 1978 del padre di Chamorro, il giornalista Pedro Joaquín Chamorro Cardenal scatenò la rivoluzione contro il regime dei Somoza. Sua madre Violeta Barrios Torres de Chamorro a capo dell’opposizione sconfisse i sandinisti alle Presidenziali del 1990.

In quell’occasione, i quattro figli si divisero: due si schierarono con la madre, due con Daniel Ortega, tra cui Carlos Fernando al tempo direttore del giornale sandinista Barricada. Dopo quella parentesi, è però passato all’opposizione e lo scorso gennaio ha deciso di lasciare il Nicaragua per trasferirsi in Costa Rica. Da pochi giorni, però, ha fatto ritorno in patria. «Il regime non è riuscito a schiacciare gli oppositori», spiega, «continua la resistenza degli studenti universitari, dei prigionieri politici, delle madri delle vittime che reclamano giustizia, dei giornalisti. Sono tornato proprio per unirmi alla loro lotta».

Carlos Fernando Chamorro con aka moglie Desiree Elizondo al suo ritorno in Nicaragua lo scorso 25 novembre.

DOMANDA. Perché a gennaio ha deciso di lasciare il Nicaragua?  
RISPOSTA. C’era una situazione critica. La mia redazione era stata occupata dalla polizia senza alcun mandato, il giornale sequestrato. Erano stati arrestati i giornalisti Miguel Mora e Lucia Pineda. Inoltre ero venuto a conoscenza di piani e ordini per catturare altri colleghi, me compreso. Così sono andato in esilio per preservare la mia libertà e quella di mia moglie.

Non ha abbandonato il giornalismo, però.
Esatto, non ho mai smesso di lavorare. In Costa Rica siamo riusciti a riorganizzare la nostra produzione televisiva grazie alla solidarietà di Teletica. Espulsi dall’etere e dal cavo, ci siamo trasferiti su YouTube e sui social network. La mia redazione si è dispersa: una parte è andata in esilio, molti giornalisti sono rimasti in Nicaragua. Ma abbiamo sempre continuato a raccontare storie.

La situazione in Nicaragua è ancora tesa. Cosa l’ha spinta a fare ritorno?
Abbiamo valutato il rischio, e ci siamo presi una grande responsabilità, perché in effetti in Nicaragua non ci sono garanzie. Ma torno per fare pressione, per chiedere la restituzione del Confidencial, e per riprendere a fare giornalismo in questo Paese a contatto diretto con la sua realtà e la sua gente. In Costa Rica restano decine di migliaia di rifugiati che non possono tornare fino a quando non ci sarà un cambio democratico e saranno smantellati i paramilitari. Si vive di fatto in uno stato d’assedio. Dopo la crisi in Bolivia nelle ultime settimane si è registrata una escalation nella repressione. Ma il regime ha fallito, perché non è riuscito a schiacciare l’opposizione. Continua la resistenza degli studenti universitari, dei prigionieri politici, delle madri degli assassinati che reclamano giustizia, dei giornalisti che cercano di garantire la libertà di stampa. La mia decisione di tornare è per appoggiare la loro lotta.

Proteste anti-governative a Managua, Nicaragua.

A luglio la Rivoluzione sandinista ha celebrato i suoi 40 anni. Immaginava nel 1979 che si sarebbe ritrovato in una situazione del genere? 
La rivoluzione, con il rovesciamento di Somoza, fu un momento di speranza in un cambio profondo. Ma in seguito ha generato i suoi demoni. Il Paese ha vissuto grandi trasformazioni, ma la guerra civile ha causato ferite profonde. La rivoluzione si concluse nel febbraio 1990, con la sconfitta elettorale del Fronte sandinista che da allora entrò in crisi. Ci fu un tentativo di democratizzazione con la creazione del Movimento rinnovatore sandinista che cercò e che cerca ancora di essere un partito di sinistra democratica.

Cosa non ha funzionato?
Ortega ha monopolizzato i simboli e le bandiere della rivoluzione. E quando è tornato al potere, nel 2007, ha dato vita a un governo autoritario, neoliberale, sfociato in una dittatura sanguinaria. Come avremmo potuto prevedere che un rivoluzionario che aveva contributo a sconfiggere Somoza si sarebbe trasformato in un dittatore? È qualcosa che supera ogni immaginazione.

Daniel Ortega con la moglie e vicepresidente Rosario Murillo.

Lei era uno stretto collaborare di Ortega. Riesce a spiegare i motivi profondi di questa trasformazione?
Ortega non era il solo leader del Fronte sandinista, è uno Stalin tropicale, assolutamente incapace di ogni autocritica, e completamente manipolato dalla moglie, vicepresidente. Ormai la gente non parla più di Ortega, ma di Ortega e Murillo: gli Ormu. Un duo indissolubile che si aggrappa disperatamente al potere, sono una coppia che è peggio di quella di House of Cards

Eppure la storia insegna che a ogni rivoluzione segue un “Terrore”. Davvero non era prevedibile anche in Nicaragua?
Forse abbiamo sofferto la carenza di cultura democratica a causa del cosiddetto caudillismo latinoamericano. Ortega non è stato l’unico ad avere intrapreso un percorso del genere. Credo che il peccato originale della rivoluzione sia stato non aver sottoposto il potere al controllo dei cittadini. Ne è derivato un regime assoluto non solo di un partito, ma di una famiglia. Esattamente come era accaduto con Somoza.

Tutta l’America Latina in questo momento si sta infiammando. Cosa accade?
Sono movimenti spesso imprevedibili come nel caso cileno. Fenomeni con dinamiche e soggetti differenti. In alcuni casi si protesta per la mancanza di opportunità, per la mancanza di equità, per la mancanza di partecipazione politica. In altri contro brogli elettorali, come in Bolivia. Ma il mondo di Ortega è chiuso tra Caracas e L’Avana. Le dimissioni e la fuga di Evo Morales, secondo l’analisi del regime, sono solo il frutto di un complotto. La soluzione è semplice: aumentare la repressione.

Dopo l’assedio della cattedrale di Managua, i paramilitari hanno circondato una chiesa di San Miguel a Masaya dove un sacerdote e 13 madri di detenuti politici erano in sciopero della fame.
E dire che quando Ortega cominciò la campagna per tornare al potere, tra il 2003 e il 2004, chiese pubblicamente perdono per gli errori della rivoluzione sandinista e gli abusi contro la Chiesa. Con la crisi del regime, si era rivolto ai vescovi per instaurare un dialogo nazionale, visto che erano gli unici a godere del rispetto e della fiducia della popolazione. Ma quando il tentativo è fallito Ortega non ci ha pensato due volte e ha cominciato ad attaccare chiese e prelati. Adesso si assiste a una nuova escalation perché la Chiesa continua a stare a fianco delle vittime del regime. Ciò che è accaduto nella chiesa di San Miguel dimostra che il regime è in fase terminale ed è quindi più pericoloso. Attaccando la Chiesa, Ortega si sta tagliando tutte le possibili vie di fuga.


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Il giornalista Chamorro denuncia la repressione di Ortega in Nicaragua

Centinaia di contestatori arrestati. Chiese attaccate dai paramilitari. Il Paese da un anno vive in uno stato d'assedio. Tornato dall'esilio in Costa Rica, il direttore de El Confidencial si dice pronto a lottare contro il regime di Managua. E ripercorre la speranza tradita della rivoluzione sandinista. L'intervista.

«Non torno in Nicaragua perché la situazione è migliorata. Torno per lottare», dice a Lettera43.it Carlos Fernando Chamorro, direttore del settimanale El Confidencial ed erede di una famiglia che ha fatto la storia del Paese centroamericano da un anno infiammato dalle proteste anti-Ortega.

L’omicidio nel 1978 del padre di Chamorro, il giornalista Pedro Joaquín Chamorro Cardenal scatenò la rivoluzione contro il regime dei Somoza. Sua madre Violeta Barrios Torres de Chamorro a capo dell’opposizione sconfisse i sandinisti alle Presidenziali del 1990.

In quell’occasione, i quattro figli si divisero: due si schierarono con la madre, due con Daniel Ortega, tra cui Carlos Fernando al tempo direttore del giornale sandinista Barricada. Dopo quella parentesi, è però passato all’opposizione e lo scorso gennaio ha deciso di lasciare il Nicaragua per trasferirsi in Costa Rica. Da pochi giorni, però, ha fatto ritorno in patria. «Il regime non è riuscito a schiacciare gli oppositori», spiega, «continua la resistenza degli studenti universitari, dei prigionieri politici, delle madri delle vittime che reclamano giustizia, dei giornalisti. Sono tornato proprio per unirmi alla loro lotta».

Carlos Fernando Chamorro con aka moglie Desiree Elizondo al suo ritorno in Nicaragua lo scorso 25 novembre.

DOMANDA. Perché a gennaio ha deciso di lasciare il Nicaragua?  
RISPOSTA. C’era una situazione critica. La mia redazione era stata occupata dalla polizia senza alcun mandato, il giornale sequestrato. Erano stati arrestati i giornalisti Miguel Mora e Lucia Pineda. Inoltre ero venuto a conoscenza di piani e ordini per catturare altri colleghi, me compreso. Così sono andato in esilio per preservare la mia libertà e quella di mia moglie.

Non ha abbandonato il giornalismo, però.
Esatto, non ho mai smesso di lavorare. In Costa Rica siamo riusciti a riorganizzare la nostra produzione televisiva grazie alla solidarietà di Teletica. Espulsi dall’etere e dal cavo, ci siamo trasferiti su YouTube e sui social network. La mia redazione si è dispersa: una parte è andata in esilio, molti giornalisti sono rimasti in Nicaragua. Ma abbiamo sempre continuato a raccontare storie.

La situazione in Nicaragua è ancora tesa. Cosa l’ha spinta a fare ritorno?
Abbiamo valutato il rischio, e ci siamo presi una grande responsabilità, perché in effetti in Nicaragua non ci sono garanzie. Ma torno per fare pressione, per chiedere la restituzione del Confidencial, e per riprendere a fare giornalismo in questo Paese a contatto diretto con la sua realtà e la sua gente. In Costa Rica restano decine di migliaia di rifugiati che non possono tornare fino a quando non ci sarà un cambio democratico e saranno smantellati i paramilitari. Si vive di fatto in uno stato d’assedio. Dopo la crisi in Bolivia nelle ultime settimane si è registrata una escalation nella repressione. Ma il regime ha fallito, perché non è riuscito a schiacciare l’opposizione. Continua la resistenza degli studenti universitari, dei prigionieri politici, delle madri degli assassinati che reclamano giustizia, dei giornalisti che cercano di garantire la libertà di stampa. La mia decisione di tornare è per appoggiare la loro lotta.

Proteste anti-governative a Managua, Nicaragua.

A luglio la Rivoluzione sandinista ha celebrato i suoi 40 anni. Immaginava nel 1979 che si sarebbe ritrovato in una situazione del genere? 
La rivoluzione, con il rovesciamento di Somoza, fu un momento di speranza in un cambio profondo. Ma in seguito ha generato i suoi demoni. Il Paese ha vissuto grandi trasformazioni, ma la guerra civile ha causato ferite profonde. La rivoluzione si concluse nel febbraio 1990, con la sconfitta elettorale del Fronte sandinista che da allora entrò in crisi. Ci fu un tentativo di democratizzazione con la creazione del Movimento rinnovatore sandinista che cercò e che cerca ancora di essere un partito di sinistra democratica.

Cosa non ha funzionato?
Ortega ha monopolizzato i simboli e le bandiere della rivoluzione. E quando è tornato al potere, nel 2007, ha dato vita a un governo autoritario, neoliberale, sfociato in una dittatura sanguinaria. Come avremmo potuto prevedere che un rivoluzionario che aveva contributo a sconfiggere Somoza si sarebbe trasformato in un dittatore? È qualcosa che supera ogni immaginazione.

Daniel Ortega con la moglie e vicepresidente Rosario Murillo.

Lei era uno stretto collaborare di Ortega. Riesce a spiegare i motivi profondi di questa trasformazione?
Ortega non era il solo leader del Fronte sandinista, è uno Stalin tropicale, assolutamente incapace di ogni autocritica, e completamente manipolato dalla moglie, vicepresidente. Ormai la gente non parla più di Ortega, ma di Ortega e Murillo: gli Ormu. Un duo indissolubile che si aggrappa disperatamente al potere, sono una coppia che è peggio di quella di House of Cards

Eppure la storia insegna che a ogni rivoluzione segue un “Terrore”. Davvero non era prevedibile anche in Nicaragua?
Forse abbiamo sofferto la carenza di cultura democratica a causa del cosiddetto caudillismo latinoamericano. Ortega non è stato l’unico ad avere intrapreso un percorso del genere. Credo che il peccato originale della rivoluzione sia stato non aver sottoposto il potere al controllo dei cittadini. Ne è derivato un regime assoluto non solo di un partito, ma di una famiglia. Esattamente come era accaduto con Somoza.

Tutta l’America Latina in questo momento si sta infiammando. Cosa accade?
Sono movimenti spesso imprevedibili come nel caso cileno. Fenomeni con dinamiche e soggetti differenti. In alcuni casi si protesta per la mancanza di opportunità, per la mancanza di equità, per la mancanza di partecipazione politica. In altri contro brogli elettorali, come in Bolivia. Ma il mondo di Ortega è chiuso tra Caracas e L’Avana. Le dimissioni e la fuga di Evo Morales, secondo l’analisi del regime, sono solo il frutto di un complotto. La soluzione è semplice: aumentare la repressione.

Dopo l’assedio della cattedrale di Managua, i paramilitari hanno circondato una chiesa di San Miguel a Masaya dove un sacerdote e 13 madri di detenuti politici erano in sciopero della fame.
E dire che quando Ortega cominciò la campagna per tornare al potere, tra il 2003 e il 2004, chiese pubblicamente perdono per gli errori della rivoluzione sandinista e gli abusi contro la Chiesa. Con la crisi del regime, si era rivolto ai vescovi per instaurare un dialogo nazionale, visto che erano gli unici a godere del rispetto e della fiducia della popolazione. Ma quando il tentativo è fallito Ortega non ci ha pensato due volte e ha cominciato ad attaccare chiese e prelati. Adesso si assiste a una nuova escalation perché la Chiesa continua a stare a fianco delle vittime del regime. Ciò che è accaduto nella chiesa di San Miguel dimostra che il regime è in fase terminale ed è quindi più pericoloso. Attaccando la Chiesa, Ortega si sta tagliando tutte le possibili vie di fuga.


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Jeanine Añez e Monica Eva Copa: le due donne alla guida della Bolivia

La prima di destra è presidente ad interim. La seconda, del Mas, è la numero uno del Senato. Insieme cercano di riappacificare il Paese traghettandolo fuori dalla crisi politica.

Da Evo a Eva, è l’ovvia battuta che è stata fatta. Ma sarebbe più corretto dire: da Evo a Jeanine e Eva. Stiamo parlando di Jeanine Añez Chávez e Mónica Eva Copa Murga: due donne dal profilo apparentemente opposto che hanno preso in mano la situazione in Bolivia dopo la fuga di Evo Morales, e che ora tentano di riportare la pace nel Paese dopo gli scontri costati finora 32 morti e 715 feriti.

LE DUE DONNE ALLA GUIDA DELLA BOLIVIA

Capelli ossigenati e ben pettinati, Jeanine Añez Chávez, classe 1967, direttrice di un canale tivù e senatrice del partito di destra Movimento Democratico Sociale, dopo la fuga di Morales e del suo vice Álvaro García Linera e le dimissioni dei presidenti di Senato e Camera Adriana Salvatierra e Víctor Borda – tutti esponenti del Movimento al socialismo (Mas) e davanti a lei nella linea di successione costituzionale – è diventata presidente a interim della Bolivia. L’altra donna forte della Bolivia, Mónica Eva Copa Murga, ha invece capelli bruni, la treccia e grandi occhiali. Classe 1987, attivista femminista ed esponente del Mas, dal 14 novembre è la nuova presidente del Senato.

Jeanine Anez, presidente ad interim della Bolivia.

LA FOTO DELLA RIAPPACIFICAZIONE

Jeanine e Monica, il giorno e la notte, una «oligarca bianca razzista» e una «india comunista» sono state definite. Eppure il 24 novembre si sono fatte fotografare insieme a Palacio Quemado, mentre reggevano il testo della legge con cui sono state indette entro 120 giorni nuove elezioni. Le due donne si sono anche abbracciate a favore di flash, un segno ancora più esplicito di riappacificazione, dopo che anche i militanti del Mas avevano rimosso i blocchi che impedivano l’arrivo di alimenti e carburante nelle principali città. 

La foto di rito.

LA NOMINA DEL TRIBUNALE

In maggioranza a Camera e Senato, il Mas aveva fatto mancare il numero legale al momento dell’insediamento di Jeanine Añez. La successione è avvenuta dunque con una procedura non regolare, che però è stata convalidata dal Tribunale costituzionale plurinazionale per «stato di necessità». Lo stesso tribunale che aveva consentito a Evo Morales di ricandidarsi per la quarta volta, in barba all’articolo 168 della Costituzione e a un referendum. Da qui erano nate le prime contestazioni che si erano infiammate con le accuse di brogli. Infine le forze armate hanno indotto Morales a dimettersi e abbandonare il Paese. 

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L’arrivo di Evo Morales in Messico.

IL MURO CONTRO MURO

Con il boicottaggio delle istituzioni e la strategia dei blocchi, il Mas sembrava aver seguito l’invito di Morales, riparato in Messico, alla lotta dura contro i “golpisti”. Jeanine Añez dal canto suo aveva sposato la linea del muro contro muro come dimostra il decreto con cui il 14 novembre aveva garantito una sostanziale impunità ai militari impegnati nella repressione delle proteste. 

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Disordini scoppiati vicino a Cochabamba, in Bolivia.

SEGNALI DI DISTENSIONE

Con l’elezione di Eva Copa, il Mas però ha lanciato un primo segnale di distensione e la volontà di cooperare per una soluzione condivisa della crisi. Non a caso la legge approvata il 23 novembre stabilisce che alle prossime elezioni né Morales né García Linera potranno candidarsi, ma il Mas sarà in corsa e potrebbe persino ottenere un buon risultato se l’opposizione tornerà a dividersi. Eva Copa potrebbe a questo punto essere una eccellente candidata alla Presidenza. Da Evo a Eva, appunto. «Stiamo tornando alla normalità dopo un momento tanto duro e tanto drammatico», ha dichiarato Jeanine Añez. «Le donne non hanno paura di guidare questo Paese, ce ne incaricheremo tutte. Governo e opposizione, in pollera (la tipica gonna indigena, ndr) o in calzoni, classe media e classe alta, tutte lavoreremo assieme per la Bolivia». Certo, non ha aggiunto «anche per impedire agli uomini degli due schieramenti di distruggerlo». Ma sembrava sottinteso. 

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Storia, significato e numeri del Black Friday

Nato negli Usa, il giorno di saldi speciali segna l'inizio del periodo natalizio. La storia di un appuntamento che dalla fine degli Anni 90 ha conquistato il mondo. Italia compresa.

Conto alla rovescia per il Black Friday, il venerdì nero dello shopping sfrenato e scontato che quest’anno cade il 29 novembre (anche se molte offerte sono cominciate a partire dal 22). Tutti pronti a cercare l’occasione, soprattutto online. In una caccia all’oggetto del desiderio che, però, già nel nome ha qualcosa di sinistro. Quel “nero” associato a un giorno della settimana richiama infatti i tonfi della Borsa di Wall Street del 1929 a partire dal tristemente noto Giovedì nero. E venerdì nero era stato ribattezzato il 24 settembre 1869 quando crollò il prezzo dell’oro a causa di una manovra speculativa. Ma come ha fatto il Black Friday a trasformarsi da giorno nefasto in giorno di festa per i compulsivi dell’acquisto?

L’INIZIO DELLA STAGIONE NATALIZIA

La data è legata al calendario delle ricorrenze Usa. Il quarto giovedì di novembre, il giorno del Ringraziamento, ricorda la gratitudine dei Padri Pellegrini del Massachusetts per il primo raccolto. Celebrato per la prima volta nel 1621, il Thanksgiving Day fu formalizzato nel 1623, proclamato festa nazionale nel 1777, e sancito definitivamente dal 1862. Poco dopo, scorrendo il calendario, arriva il Natale, occasione si spese e regali. Quasi ovvio, dunque, che a qualcuno venisse l’idea di far iniziare la stagione natalizia a partire dal giorno successivo al Ringraziamento. Accadde il 27 novembre 1924 quando la catena di distribuzione Macy’s organizzò per prima una parata per celebrare l’inizio degli acquisti natalizi proprio il venerdì successivo al Ringraziamento.

GIORNO NERO SÌ, MA PER LE IMPRESE E PER IL TRAFFICO

Solo nel novembre 1951, però, il giornale specializzato Factory Management and Maintenance usò l’espressione “Black Friday”. Ma con tutt’altro significato: si trattava di un giorno sì nero ma per le imprese visto che i lavoratori dipendenti spesso si mettevano in malattia per poter fare ponte e godersi quattro giorni di ferie consecutivi. Molti di loro ne approfittavano anche per andare a far compere, intasando il traffico delle città. I termini “Black Friday” e “Black Saturday” cominciarono così a essere usati dalla polizia di Filadelfia e Rochester per indicare la congestione delle strade. Per i negozianti era naturalmente un giorno felice, e dunque nel 1961 su loro pressione la città di Filadelfia tentò di lanciare le espressioni “Big Friday” e “Big Saturday”. Ma non attecchirono. 

Saldi a Londra.

DAI BILANCI IN ROSSO AI BILANCI IN NERO

Il 29 novembre 1975 il termine arrivò all’attenzione nazionale quando il New York Times spiegò che a Filadelfia chiamavano Black Friday «il giorno di shopping e traffico più intenso dell’anno». Il 21 novembre del 1981 The Philadelphia Inquirer – per spiegare l’incongruenza di un aggettivo nefasto per indicare un giorno allegro – scrisse che «nero» non andava inteso in senso iettatorio ma contabile: era il giorno da cui grazie alle vendite anche i commercianti più sfortunati potevano far passare i loro bilanci dal rosso del passivo al nero dell’attivo. Ma sembra piuttosto una classica «invenzione di una tradizione» alla Hobsbawm. Insomma, adesso sembra quasi che sia sempre esistito, ma negli stessi Stati Uniti il Black Friday è diventato appuntamento nazionale solo dalla fine degli Anni 80. Nel resto del mondo approdò sostanzialmente grazie al contagio di Internet, alla fine degli Anni 90.

DAL 2005 GIORNATA RECORD DI VENDITE

Negli Stati Uniti, dal 2005, il Black Friday è diventato il giorno record per le vendite. Una tendenza continuata fino al 2014 quando la mole di compere scese dell’11% restando comunque a 51 miliardi di dollari. Secondo gli analisti, il calo non fu dovuto alla crisi, ma al fatto che sempre più commercianti avevano cominciato a spalmare le promozioni lungo tutto l’arco dei mesi di novembre e dicembre, senza concentrarle più in una giornata sola. Il venerdì nero è però caratterizzato dall’apertura straordinaria dei negozi: serrande alzate alle 5, poi alle 4. Nel 2011 persino a mezzanotte. Dall’anno successivo Walmart aveva spostato l’apertura alle 20 del Thanksgiving Day, record peraltro battuto da alcuni esercizi che nel 2014 avevano aperto alle 17 dello stesso giorno.

IL BLACK FRIDAY IN ITALIA

In Italia, si è detto, il fenomeno è limitato quasi solo a Internet. E l’appuntamento ha i suoi effetti: secondo l’Istat, nel penultimo mese del 2018 si è registrato un aumento degli affari dello 0,7% rispetto a ottobre, sia in valore sia in volume. Per i beni alimentari si è registrato un +0,3% in valore e +0,2 in volume; per i beni non alimentari un +0,8% in valore e un +1,0% in volume. Per quest’anno ci si aspetta un giro d’affari di 2 miliardi di euro. Una ricerca di ManoMano.it indica poi che il 69% degli italiani inizierà a fare acquisti per il Natale dal Black Friday. E un’altra ricerca di Toluna aggiunge che l’80% degli interpellati farà acquisti tramite Amazon. Tra i desiderata dominano con il 31% gli articoli di elettronica, seguiti da abbigliamento (13%) ed elettrodomestici (10%). Una sorta di Cyber Monday in anticipo. Già perché negli States, dal 2005, esiste questa giornata tutta dedicata agli sconti sui negozi on line che cade il lunedì dopo il Black Friday. Quindi tastiere e cellulari in mano. Anche il 2 dicembre.

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Lilli Gruber su machismo, politica, Salvini e Südtirol

La conduttrice di Otto e mezzo, autrice di Basta!, punta il dito contro l'Internazionale del testosterone. E sul leader della Lega dice: «Chi non è in grado di passare dallo stile sbracato a quello istituzionale ha un problema nel gestire certi ruoli». L'intervista.

La «recrudescenza del machismo è la spia di una paura diffusa, quella di perdere il controllo e il potere». Così Lilli Gruber spiega Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone (Solferino), l’ultimo libro scritto per rispondere a quella che la giornalista definisce «l’Internazionale del testosterone». 

Lilli Gruber alla presentazione del suo libro ‘Basta’.

DOMANDA. L’ondata di leader “testosteronici” è una sorta di autodifesa del potere maschile davanti alla richiesta sempre più insistente di politiche femminili?
RISPOSTA. Attenzione, il problema non è il potere maschile ma il potere machista che si perpetua per cooptazione. Che trova nell’insulto, nella legge del branco e nella violenza il collante per generare lealtà. E che è pericoloso perché è privo di ideali, persino di ideologie: ha solo lo scopo distruggere le strutture della convivenza democratica, che tutelano la libertà dei cittadini.

L’opinionista francese Éric Zemmour sostiene che il vero problema sta nella femminilizzazione eccessiva della società. Cosa ne pensa?
Zemmour ha diritto alle sue opinioni, io sono andata a cercare i fatti. Mi sembra difficile definire “femminilizzata” una società in cui parlamenti, governi, palazzi presidenziali, consigli d’amministrazione, redazioni di grandi media sono ancora in larghissima maggioranza gestiti da dirigenti uomini. I numeri parlano, il resto sono appunto opinioni che non ci portano granché lontano.

Se la struttura politica e sociale in cui viviamo è strutturata per promuovere uomini, è chiaro che le poche donne arrivate ai vertici hanno dovuto adattarsi

Non sono esistite e non esistono anche leader donne “testoteroniche”?
Il punto non sta nell’opporre femminile e maschile: discussioni come quella sull’essenza della leadership saranno interessanti per la filosofia ma sono piuttosto sterili. Più interessante, invece, analizzare la struttura del potere e le regole su cui si basa. Si vede che questa struttura è stata creata da maschi e oggi è gestita da maschi. Lo dicono i dati e lo dicono millenni di storia. A quante condottiere, cape di stato, scienziate e artiste riusciamo a ricordare? Ebbene, se la struttura politica e sociale in cui viviamo è strutturata per promuovere uomini, è chiaro che le poche donne arrivate ai vertici hanno dovuto adattarsi. Non hanno ancora avuto il potere di cambiare le regole. Ma se al potere ci fosse un numero di donne pari a quello degli uomini, questa struttura cambierebbe. 

Dai cda alla strada: qualche esempio nella vita quotidiana?
I farmaci verrebbero sperimentati anche sul corpo femminile invece che quasi esclusivamente su quello maschile e avremmo un diverso sistema sanitario. Le città verrebbero riprogettate per le esigenze di chi da sempre deve muoversi per commissioni multiple nel corso della giornata – scuole, genitori anziani – e avremmo un diverso sistema di mobilità urbana. Il lavoro domestico e di cura, oggi svolto al 75% dalle donne, verrebbe redistribuito generando un diverso modello di lavoro e di convivenza. E così via. Io desidero vedere questo cambiamento strutturale. Perché sarà un mondo più giusto.

Lei si è occupata del machismo di leader come Donald Trump, Matteo Salvini, Recep Tayyp Erdoğan, Vladimir Putin. Perché non ha approfondito anche casi che coinvolgono personaggi più vicini alla sinistra come Strauss-Kahn, Assange, Chávez?
Perché non sono più al potere, e Julian Assange non lo è mai stato. In un pamphlet che si occupa dell’attualità avrebbero avuto un interesse piuttosto limitato. Per ragioni di spazio, se è per quello, non ho parlato nemmeno di Viktor Orbán o del primo ministro indiano Nanendra Modi, che pure sono al potere e piuttosto pericolosi. Ma soprattutto, nulla lega fra loro tutti gli uomini citati: è un semplice elenco. Invece a fare da collante alla lega l’internazionale machista è una rete tessuta con interessi ben precisi e che minaccia la tenuta delle nostre democrazie. È molto evidente se guardiamo in modo sistemico alla loro azione politica e alle forze che li finanziano. È questo che trovo pericoloso e che dovrebbe spaventare tutti noi.

I toni delle paginate di critiche che mi hanno riservato i quotidiani diretti da maschi, tra cui Feltri, sono un perfetto esempio della deriva del linguaggio e del comportamento che trovo pericolosa

Lei ha raccontato che l’idea del libro è nata dopo la polemica con Salvini. Più recentemente ha battibeccato anche con Vittorio Feltri a causa di un articolo che la riguardava…
L’articolo polemico è del tutto legittimo. Quella che io notavo, con interesse, era la levata di scudi di tutta la stampa di destra il giorno dopo l’uscita del mio libro. Paginate di critiche su quotidiani diretti da maschi, tra cui Feltri, i cui toni sono un perfetto esempio della deriva del linguaggio e del comportamento che trovo pericolosa. Ma fa piacere vedere che quando assumono una dose della loro medicina sessista il livore di questi opinionisti si trasforma in un singhiozzo politicamente corretto: forse possono essere redenti.

Restando alla comunicazione: come è cambiata in questi decenni quella dei politici?
La comunicazione è cambiata per tutti, è diventata più veloce, molti dicono che ormai non ci sono più contenuti ma solo slogan. In realtà non credo che la comunicazione del passato mancasse di slogan: quante parole d’ordine democristiane o comuniste abbiamo sentito ripetere a pappagallo? Però noto che la comunicazione tra politico ed elettore oggi tende a rifugiarsi in un’idea di mimesi: votami perché io sono come te. Ma io non voglio che chi mi rappresenta sia “come me”, voglio che sappia fare cose che io non so fare, per esempio gestire l’economia di un sistema complesso come l’Italia. Voglio la competenza. Ecco, il difetto della comunicazione politica oggi è la pigrizia di sostituire all’idea della competenza l’ideologia dell’identificazione.

La peculiarità di Salvini è l’incapacità di passare dalla forma sbracata a quella istituzionale. Chi non è in grado di fare questo ha un problema nel gestire un ruolo istituzionale

Salvini è “campione” nella comunicazione, sovraesposto sia sui social sia sui media tradizionali.
La sovraesposizione è di tutti, i social hanno sdoganato un certo modo di autorappresentarsi, di mettere in piazza la propria vita privata. È evidente che tutti abbiamo spazi di relax, di déshabillé e di relazione, ma oggi questi spazi sono diventati strumento di azione politica. Non si può tornare indietro ed è stupido ripetere: «Si stava meglio quando si stava peggio», ormai è così. Però la forma è sostanza: la peculiarità di Salvini è l’incapacità di passare dalla forma sbracata a quella istituzionale. Chi non è in grado di fare questo ha un problema nel gestire un ruolo istituzionale.

E quali sono i problemi della comunicazione della sinistra, visto che continua a perdere?
La sinistra non perde per mancanza di comunicazione, ma per mancanza di coraggio. E perché non ha saputo valorizzare i talenti femminili al proprio interno, lasciandosi incredibilmente superare a destra nella corsa alla parità dato che oggi il partito che guadagna più consensi è guidato da una donna: Giorgia Meloni.

Ma esistono poi ancora destra e sinistra, o sono categorie superate?Come molte altre categorie, nel postmoderno destra e sinistra sono diventate più liquide, per dirla nei termini di Zygmunt Bauman. Ma destra e sinistra esistono ed esisteranno sempre: guardiamo la campagna elettorale negli Stati Uniti dove una delle candidate al top, Elizabeth Warren, è portatrice di una proposta politica che viene definita “socialista”. Se capiamo ancora cosa significa questo aggettivo, è perché la distinzione tra destra e sinistra è ancora chiara e pregnante.

Lei è probabilmente la sudtirolese più famosa d’Italia, e alla sua terra ha dedicato una intensa trilogia. Che pensa dell’ultima polemica sul nome Südtirol/Alto Adige?
Ho scritto tre libri per cercare di far capire meglio anche a chi non conosce la storia del Sud Tirolo quali ferite storiche si porti addosso quel fazzoletto di terra. Dalle reazioni e dalle lettere dei lettori, credo di esserci in parte riuscita. Le polemiche sulla toponomastica sono un portato di quella storia, la storia di un popolo che ha visto il fascismo cancellare i nomi dei propri padri dalle tombe di famiglia e non è ancora riuscito a dimenticare. Per superare questi traumi è stato fatto molto, ma una parte e dall’altra occorrono ancora buonsenso e generosità.

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Lilli Gruber su machismo, politica, Salvini e Südtirol

La conduttrice di Otto e mezzo, autrice di Basta!, punta il dito contro l'Internazionale del testosterone. E sul leader della Lega dice: «Chi non è in grado di passare dallo stile sbracato a quello istituzionale ha un problema nel gestire certi ruoli». L'intervista.

La «recrudescenza del machismo è la spia di una paura diffusa, quella di perdere il controllo e il potere». Così Lilli Gruber spiega Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone (Solferino), l’ultimo libro scritto per rispondere a quella che la giornalista definisce «l’Internazionale del testosterone». 

Lilli Gruber alla presentazione del suo libro ‘Basta’.

DOMANDA. L’ondata di leader “testosteronici” è una sorta di autodifesa del potere maschile davanti alla richiesta sempre più insistente di politiche femminili?
RISPOSTA. Attenzione, il problema non è il potere maschile ma il potere machista che si perpetua per cooptazione. Che trova nell’insulto, nella legge del branco e nella violenza il collante per generare lealtà. E che è pericoloso perché è privo di ideali, persino di ideologie: ha solo lo scopo distruggere le strutture della convivenza democratica, che tutelano la libertà dei cittadini.

L’opinionista francese Éric Zemmour sostiene che il vero problema sta nella femminilizzazione eccessiva della società. Cosa ne pensa?
Zemmour ha diritto alle sue opinioni, io sono andata a cercare i fatti. Mi sembra difficile definire “femminilizzata” una società in cui parlamenti, governi, palazzi presidenziali, consigli d’amministrazione, redazioni di grandi media sono ancora in larghissima maggioranza gestiti da dirigenti uomini. I numeri parlano, il resto sono appunto opinioni che non ci portano granché lontano.

Se la struttura politica e sociale in cui viviamo è strutturata per promuovere uomini, è chiaro che le poche donne arrivate ai vertici hanno dovuto adattarsi

Non sono esistite e non esistono anche leader donne “testoteroniche”?
Il punto non sta nell’opporre femminile e maschile: discussioni come quella sull’essenza della leadership saranno interessanti per la filosofia ma sono piuttosto sterili. Più interessante, invece, analizzare la struttura del potere e le regole su cui si basa. Si vede che questa struttura è stata creata da maschi e oggi è gestita da maschi. Lo dicono i dati e lo dicono millenni di storia. A quante condottiere, cape di stato, scienziate e artiste riusciamo a ricordare? Ebbene, se la struttura politica e sociale in cui viviamo è strutturata per promuovere uomini, è chiaro che le poche donne arrivate ai vertici hanno dovuto adattarsi. Non hanno ancora avuto il potere di cambiare le regole. Ma se al potere ci fosse un numero di donne pari a quello degli uomini, questa struttura cambierebbe. 

Dai cda alla strada: qualche esempio nella vita quotidiana?
I farmaci verrebbero sperimentati anche sul corpo femminile invece che quasi esclusivamente su quello maschile e avremmo un diverso sistema sanitario. Le città verrebbero riprogettate per le esigenze di chi da sempre deve muoversi per commissioni multiple nel corso della giornata – scuole, genitori anziani – e avremmo un diverso sistema di mobilità urbana. Il lavoro domestico e di cura, oggi svolto al 75% dalle donne, verrebbe redistribuito generando un diverso modello di lavoro e di convivenza. E così via. Io desidero vedere questo cambiamento strutturale. Perché sarà un mondo più giusto.

Lei si è occupata del machismo di leader come Donald Trump, Matteo Salvini, Recep Tayyp Erdoğan, Vladimir Putin. Perché non ha approfondito anche casi che coinvolgono personaggi più vicini alla sinistra come Strauss-Kahn, Assange, Chávez?
Perché non sono più al potere, e Julian Assange non lo è mai stato. In un pamphlet che si occupa dell’attualità avrebbero avuto un interesse piuttosto limitato. Per ragioni di spazio, se è per quello, non ho parlato nemmeno di Viktor Orbán o del primo ministro indiano Nanendra Modi, che pure sono al potere e piuttosto pericolosi. Ma soprattutto, nulla lega fra loro tutti gli uomini citati: è un semplice elenco. Invece a fare da collante alla lega l’internazionale machista è una rete tessuta con interessi ben precisi e che minaccia la tenuta delle nostre democrazie. È molto evidente se guardiamo in modo sistemico alla loro azione politica e alle forze che li finanziano. È questo che trovo pericoloso e che dovrebbe spaventare tutti noi.

I toni delle paginate di critiche che mi hanno riservato i quotidiani diretti da maschi, tra cui Feltri, sono un perfetto esempio della deriva del linguaggio e del comportamento che trovo pericolosa

Lei ha raccontato che l’idea del libro è nata dopo la polemica con Salvini. Più recentemente ha battibeccato anche con Vittorio Feltri a causa di un articolo che la riguardava…
L’articolo polemico è del tutto legittimo. Quella che io notavo, con interesse, era la levata di scudi di tutta la stampa di destra il giorno dopo l’uscita del mio libro. Paginate di critiche su quotidiani diretti da maschi, tra cui Feltri, i cui toni sono un perfetto esempio della deriva del linguaggio e del comportamento che trovo pericolosa. Ma fa piacere vedere che quando assumono una dose della loro medicina sessista il livore di questi opinionisti si trasforma in un singhiozzo politicamente corretto: forse possono essere redenti.

Restando alla comunicazione: come è cambiata in questi decenni quella dei politici?
La comunicazione è cambiata per tutti, è diventata più veloce, molti dicono che ormai non ci sono più contenuti ma solo slogan. In realtà non credo che la comunicazione del passato mancasse di slogan: quante parole d’ordine democristiane o comuniste abbiamo sentito ripetere a pappagallo? Però noto che la comunicazione tra politico ed elettore oggi tende a rifugiarsi in un’idea di mimesi: votami perché io sono come te. Ma io non voglio che chi mi rappresenta sia “come me”, voglio che sappia fare cose che io non so fare, per esempio gestire l’economia di un sistema complesso come l’Italia. Voglio la competenza. Ecco, il difetto della comunicazione politica oggi è la pigrizia di sostituire all’idea della competenza l’ideologia dell’identificazione.

La peculiarità di Salvini è l’incapacità di passare dalla forma sbracata a quella istituzionale. Chi non è in grado di fare questo ha un problema nel gestire un ruolo istituzionale

Salvini è “campione” nella comunicazione, sovraesposto sia sui social sia sui media tradizionali.
La sovraesposizione è di tutti, i social hanno sdoganato un certo modo di autorappresentarsi, di mettere in piazza la propria vita privata. È evidente che tutti abbiamo spazi di relax, di déshabillé e di relazione, ma oggi questi spazi sono diventati strumento di azione politica. Non si può tornare indietro ed è stupido ripetere: «Si stava meglio quando si stava peggio», ormai è così. Però la forma è sostanza: la peculiarità di Salvini è l’incapacità di passare dalla forma sbracata a quella istituzionale. Chi non è in grado di fare questo ha un problema nel gestire un ruolo istituzionale.

E quali sono i problemi della comunicazione della sinistra, visto che continua a perdere?
La sinistra non perde per mancanza di comunicazione, ma per mancanza di coraggio. E perché non ha saputo valorizzare i talenti femminili al proprio interno, lasciandosi incredibilmente superare a destra nella corsa alla parità dato che oggi il partito che guadagna più consensi è guidato da una donna: Giorgia Meloni.

Ma esistono poi ancora destra e sinistra, o sono categorie superate?Come molte altre categorie, nel postmoderno destra e sinistra sono diventate più liquide, per dirla nei termini di Zygmunt Bauman. Ma destra e sinistra esistono ed esisteranno sempre: guardiamo la campagna elettorale negli Stati Uniti dove una delle candidate al top, Elizabeth Warren, è portatrice di una proposta politica che viene definita “socialista”. Se capiamo ancora cosa significa questo aggettivo, è perché la distinzione tra destra e sinistra è ancora chiara e pregnante.

Lei è probabilmente la sudtirolese più famosa d’Italia, e alla sua terra ha dedicato una intensa trilogia. Che pensa dell’ultima polemica sul nome Südtirol/Alto Adige?
Ho scritto tre libri per cercare di far capire meglio anche a chi non conosce la storia del Sud Tirolo quali ferite storiche si porti addosso quel fazzoletto di terra. Dalle reazioni e dalle lettere dei lettori, credo di esserci in parte riuscita. Le polemiche sulla toponomastica sono un portato di quella storia, la storia di un popolo che ha visto il fascismo cancellare i nomi dei propri padri dalle tombe di famiglia e non è ancora riuscito a dimenticare. Per superare questi traumi è stato fatto molto, ma una parte e dall’altra occorrono ancora buonsenso e generosità.

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