Cosa manca a Elodie per diventare una vera pop star internazionale

Elodie che si muove sinuosa attorniata da ballerini. Elodie che canta giocando su tinte black. Elodie che si prepara allo show autoconvincendosi di essere una popstar da paura. Elodie che viene accolta da applausi e grida. Elodie che si sente inadeguata. Elodie che in fondo in fondo ancora non ci crede. Elodie che passa con una certa agilità dall’essere la panterona che incanta sul palco alla ragazza che può anche scrollarsi di dosso la borgata che è in lei, borgata che però trova sempre la strada del ritorno, come i cani abbandonati in campagna di certi articoli strappalacrime che a volte si leggono sui giornali.

Cosa manca a Elodie per diventare una vera pop star internazionale
Elodie a Sanremo 2021 (Getty Images).

Elodie, vera popstar in competizione con Annalisa

Elodie Patrizi, con quel nome d’arte inconsapevolmente scelto dai genitori al momento della nascita, una fisicità importante che poco fa il paio con le tante fragilità che ci arrivano guardando il nuovo docu che si trova su Sky, Elodie Show 2023, come in precedenza in Sento ancora la vertigine su Prime Video, una voce soul come ce ne sono poche in Italia poco considerata proprio in virtù della fisicità di cui sopra, è oggi come oggi una delle figure centrali della nostra discografia. Una popstar, diamo i nomi giusti, che per altro ha anche una diretta competitor, come in fondo non accadeva dal periodo che intercorre tra la fine degli Anni 70 e la metà degli 80, almeno in Italia. È da allora infatti che non capitava di avere un paio di popstar donne a dominare in qualche modo la scena, Elodie e Annalisa. Allora, certo, avevamo Anna Oxa, Loredana Bertè, Antonella Ruggiero ancora nei Matia Bazar, Alice, Donatella Rettore, tutte differenti tra loro, tutte dotate di personalità molto molto forti, in quasi tutti i casi ottime voci, con un’estetica importante, di repertorio. Oggi abbiamo lei e abbiamo Annalisa, con la tripletta di platino Bellissima, Mon Amour e Ragazza sola. Due profili completamente diversi, l’una in apparenza più aggressiva, Elodie, l’altra più sofisticata, con quella laurea in Fisica che ogni tanto salta fuori. Entrambe decisamente belle, seppur di bellezze differenti, entrambe dotate di voci importanti, certo Annalisa con una potenza e una limpidezza piuttosto rara nel pop, Elodie con più risultati di pubblico ai live. Annalisa in classifica.

Quattro date al Forum di Assago è una cosa che poche artiste oggi possono permettersi

Ma è di Elodie che stiamo parlando, Annalisa in questa storia veste i panni, pochi e sexy, del suo doppio, non fosse che non siamo in un romanzo di cappa e spada, il villain di turno. Elodie che non solo è diventata icona pop come non se ne vedevano da tempo, ma ha deciso di usare questo suo successo: quattro date al Forum di Assago sono un risultato che si possono permettere in pochi, sul fronte femminile (forse la sola Laura Pausini, che però quest’anno quattro non ne farà), per veicolare messaggi a loro modo politici, femministi, antipatriarcali, inclusivi. Lo ha fatto recentemente, alla presentazione del suo nuovo progetto, Red Light, come lei stessa lo ha definito un clubtape, cioè una via di mezzo tra un album e un EP, sette i brani, tutti legati tra loro senza interruzioni grazie alla sapiente opera di Dardust, qualcosa pensato proprio per le date di Assago e per far ballare il proprio pubblico. Il tutto accompagnato dalle polemiche per il video di A fari spenti, scritta per lei da Elisa, nel quale compare nuda, o quasi, stessa immagine poi finita proprio sulla copertina di Red Light, grazie a un dipinto che riproduce il passaggio del video nel quale Elodie si presenta come una moderna Venere di Botticelli, volendo anche una Lady Godiva senza cavallo, opera di Milo Manara.

In quella occasione Elodie ha tenuto a dire che non vuole un pubblico di uomini eterosessuali. Che preferisce sapersi amata, musicalmente, dalla comunità LGBTQ+, frasi a loro volta finite dentro un vortice di polemiche, come se da una popstar ci si dovesse necessariamente aspettare parole calibrate come fossimo a un lectio magistralis, senza star lì ad applicare un minimo di capacità di comprensione del testo, roba da scuole di primo grado e non, piuttosto, canzoni pop. Ecco, le canzoni pop. Se una cosa in parte sembra mancare a Elodie, è un repertorio più consistente, questo in fondo è anche un po’ il problema che potremmo indicare guardando alla carriera della sua diretta competitor Annalisa. A fronte di alcuni singoli indubbiamente funzionanti e anche funzionali al tipo di show che Elodie ci regala – nello special di Sky è ben visibile: canzoni accompagnate da balletti, in puro stile popstar internazionale – sembra mancare una base di canzoni solide che possano realmente reggere un live così imponente. Live che giocoforza fa molto leva su di lei, meno sulle canzoni. Certo, in questo Elodie è perfetta, con un mood neanche troppo vagamente aggressive, da mangiauomini. È pura interpretazione di un ruolo, la femme fatale, tanto quanto è interpretazione pura di canzoni scritte da altri per lei. Una femmina dominante, personaggio da interpretare, che canta brani che non sempre sono all’altezza di cotanto personaggio. Discorso, questo del non essere “cattiva come la dipingono”, che per altro è ovviamente sottolineato dal mostrare tutte le sue fragilità nei documentari, compresa quella certa coattaggine che poco ha a che fare con la sensuale eleganza che invece viene generosamente palesata alle telecamere e sul palco.

La sensazione è che Elodie debba giocare molto sulla sua bellezza per sopperire alla mancanza di pezzi forti

Che dietro Elodie ci sia una potente macchina da guerra appare evidente. Due speciali televisivi nel giro di nove mesi lo dimostrano. I risultati raggiunti del resto giustificano il tutto. Quel che però viene da chiedersi, magari anche pensando a quanto nel mentre sta capitando ai Maneskin in giro per il mondo, è perché non ci sia stata altrettanta profusione di energie nel cercare canzoni alla sua altezza. Per essere chiari, a parte Due, brano proposto all’ultimo Festival di Sanremo, che avrebbe meritato decisamente di più, e qualche altra canzone di livello – penso a Vertigine, la paolaechiariana Tribale, che quantomeno ha come merito l’aver fatto in qualche modo tornare in auge le sorelle Iezzi, apripista di questa nouvelle vague femminile, volendo anche Ok respira e Pazza musica, in realtà parte del repertorio di Mengoni, e le più leggere Bagno a mezzanotte, Guaranà, Margarita e Andromeda – sembra che Elodie debba giocare ancora molto sulla propria statuaria bellezza per sopperire a una mancanza di pezzi forti. E non si leggano queste parole come frutto di un sessismo patriarcale: una popstar deve saper tenere il palco anche in assenza di canzoni all’altezza, è show, chi dice il contrario non sa di cosa sta parlando.

Mostrare fragilità non sempre paga: meglio seguire l’esempio di Madonna e di Beyoncé

Certo, neanche i Maneskin hanno in effetti un repertorio all’altezza del loro saper tenere il palco, ma almeno ci stanno provando testando il gotha degli autori internazionali, sforzo produttivo che il team di Elodie dovrebbe potersi permettere, anzi, dovrebbe proprio fare, perché Elodie magari non diventerà un’altra Dua Lipa – che non solo è viva e lotta insieme a noi, ma ha anche cinque anni meno della cantante romana – ma potrebbe darci delle belle soddisfazioni. Anche in virtù dei messaggi che Elodie ha deciso di lanciare, la sua lotta contro una mascolinità tossica che caratterizza pure chi la segue, magari attratto più dal suo aspetto che dalle sue canzoni. Riguardo l’ostentare, dietro le quinte, una certa insicurezza e fragilità, Elodie dovrebbe prendere le mosse da quanto fatto a suo tempo da Madonna, ma guardando più a oggi anche da Beyoncé: mostrare orgoglio e tirare su un muro. Un personaggio è tale sempre, lasciare intravedere l’attrice che è in camerino non serve, meglio i lustrini, le guepierre e quella cazzimma che al momento nessun’altra riesce a esibire in Italia. La mascolinità tossica, in fondo, la si può affossare anche a unghiate da pantera, non solo a parole. Niente fa più paura di una donna sicura di sé. Una donna sicura di sé con un repertorio più alla sua altezza sarebbe Bingo.

Pucci e l’Ambrogino d’oro, l’assurda premiazione del politicamente scorretto e lo sbandamento di Sala

Sono uscite le liste dei personaggi che il 7 dicembre, festa di Sant’Ambrogio, verranno insigniti dal sindaco di Milano Beppe Sala del prestigioso encomio meneghino, l’Ambrogino d’oro. A leggere la lista ci è scappata una risata, e cosa ancor più strana, ci è scappata una risata leggendo il nome di un personaggio che, fino a oggi, di risate non ce ne aveva strappata mai una, neanche per sbaglio: quello di Andrea Pucci. Il comico – così recita Wikipedia – milanese, lanciato a suo tempo da Simona Ventura e da tempo immemore onnipresente dentro le nostre televisioni (almeno quelle televisioni che non subiscono una qualche forma di selezione da parte dei loro possessori), viene quindi considerato, inspiegabilmente, un milanese che abbia fatto qualcosa di abbastanza meritevole per venir insignito di quella che è la massima benemerenza da parte dell’amministrazione pubblica locale.

Sala è passato dai calzini arcobaleno a premiare Pucci

Ora, è chiaro che negli ultimi tempi Sala stia sbandando, viste le tante, troppe scelte fatte in ambito di urbanistica, una svolta green in forte odor di svendita del capoluogo a fondi di investimento e immobiliaristi, un presenzialismo ormai solo di facciata – si pensi alla promo fatta in video per il ritorno dei Club Dogo, passati dall’essere antieroi lì a rappare di bamba, fighe e pistole all’essere omaggiati dal primo cittadino milanese -, ma che ora il tutto converga nella premiazione simbolo di un chiaro caso di comico politicamente scorretto sembra davvero troppo. Specie da chi si è fregiato a lungo di essere inclusivo e open mind: lo testimoniano l’incontro coi rapper di Seven 7oo a Piazza Selinunte, tutti di seconda generazione, e i famosi calzini arcobaleno esibiti a favore di camera per dare sostegno alla comunità Lgbtq+ su tutto.

Battute contro le minoranze e non sul potere, sia mai che Pucci faccia satira

Infatti, neanche il tempo di metabolizzare la notizia – non che l’Ambrogino d’oro sia poi così centrale nella nostra vita, di italiani e anche di milanesi – che sui social è montata la polemica. Ovunque sono apparse tante battute e meme che Pucci ha diffuso negli ultimi mesi, tutte scorrette e anche poco divertenti, tutte per altro rivolte contro quelle minoranze che già di loro vengono discriminate, mai contro il potere, sia mai che Pucci intenda fare satira. Ecco quelle in cui il nostro eroe si chiede se Tommaso Zorzi sia uso fare il tampone non dal naso ma dal retto, per altro al termine di un “pezzo” che intendeva criminalizzare l’atto del fare tamponi: più volte durante il periodo Covid Pucci si è dimostrato intollerante alle restrizioni, con tesi non troppo distanti dai no vax.

Pucci e l'Ambrogino d'oro, l'assurda premiazione del politicamente scorretto e lo sbandamento di Sala
La battuta di Pucci su Tommaso Zorzi.

Repertorio di omofobia, sessismo e body shaming

Ecco quelle in cui si paragona Elly Schlein di volta in volta a Pippo Franco o Alvaro Vitali, suggerendole interventi di chirurgia estetica per correggere dentatura e orecchie a sventola. Insomma, un giusto mix di omofobia, sessismo e body shaming, ma tutto per comicità, ci mancherebbe pur altro. Un pensiero che sembra essere il medesimo di quello contenuto nel libro del generale Vannacci, Il mondo al contrario: mai prendersela con chi è parte della maggioranza, solo con chi è già di suo tenuto a bordo campo. Le voci su un suo passato da picchiatore allo stadio e anche quelli su certi suoi precedenti penali, voci appunto, hanno ripreso a circolare vorticosamente, come già era accaduto in passato, quando il nome di Pucci era cominciato a essere una costante dei programmi del servizio pubblico.

Pucci e l'Ambrogino d'oro, l'assurda premiazione del politicamente scorretto e lo sbandamento di Sala
Le stories di Pucci su Elly Schelin.

Il fatto è che Beppe Sala sembra oggi come oggi incarnare alla perfezione un certo pensiero ricorrente, da bravo politico sempre sul pezzo. Cioè da una parte sembra essere in costante necessità di praticare di volta in volta green washing come rainbow washing, con tutta una serie di iniziative di facciata che poco riscontro trovano poi nella vita di tutti i giorni; dall’altra sembra costantemente interessato a dare alla maggioranza quel che la maggioranza vuole, cioè pane e circo, appunto. Così un premio a un comico dal repertorio assai discutibile appare perfettamente coerente con una modalità d’azione che negli ultimi tempi sembra aver davvero poca aderenza col comune sentire dei suoi cittadini.

Becere sparate da bar e da caserma elevate a comicità

Però, questo dicono sui social coloro che stanno alzando barricate in difesa di Pucci e del suo prossimo Ambrogino d’oro, la maggior parte della gente ride di quelle battute bieche e triviali, si riconosce in chi attacca gay e pratica il body shaming, in chi ostenta un modo di vivere da Milanese Imbruttito, senza però avere in quel caso ambizioni comiche, e in chi, più che altro, cerca il plauso della pancia della gente, elevando a comicità, o presunta tale, le battute da bar, da caserma, insomma, quelle che solitamente nessuno avrebbe provato a portare in televisione perché troppo becere, oltre che poco divertenti.

Dalla stessa parte Pio e Amedeo, Maurizio Battista, Pino Insegno…

E se da una parte Pio e Amedeo, che potrebbero essere additati come i capostipiti di questa genia di non-comici, sembrano avere una marcia in più, visto che in loro il rovesciamento delle istanze del politicamente corretto ha un filo conduttore preciso, come per Checco Zalone, sbattendoci in faccia i nostri peggiori vizi e i nostri più evidenti tic, dall’altra ci sono poi figure come appunto Pucci, Maurizio Battista, gente che ride alle proprie battute, come per necessità di imboccare il pubblico, ma anche lo stesso Pino Insegno, ormai capace di farci ridere solo quando non è in onda, a metà mattina, nel momento in cui escono impietosi i dati Auditel che dimostrano come neanche il pubblico immobile di mamma Rai lo apprezzi più.

Ambrogino d’oro negato a chi lo meritava davvero, cioè Marracash

Un florilegio di comici triviali, pronti a mettersi dalla parte del vincitore, che il 7 dicembre vedranno un loro rappresentante celebrato dal sindaco Sala a Palazzo Marino, con un Ambrogino d’oro che, per la cronaca, è stato negato a quel Marracash che giusto qualche settimana fa ha portato per la prima volta in zona Ippodromo oltre 80 mila persone a un concerto interamente dedicato al rap, Marragheddon, dimostrandosi King di una scena che comunque domina il mercato musicale ormai da parecchi anni. Ma sia mai che a Palazzo Marino ci finisca qualcuno di davvero meritevole.

Pucci fa ridere quelli che rigettavano i tamponi e le mascherine

L’idea che il politicamente corretto sia un capestro imposto da non si sa bene chi – immagino intellettualoni e radical chic -, qualcosa che in fondo è lontano dal mondo reale, in concreto abitato da una pletora di analfabeti funzionali incapaci di distinguere una battuta da una offesa gratuita, l’assenza di sensibilità rivendicata neanche fosse un vanto si sta diffondendo come un virus. Normale che i primi a prenderselo siano quelli come Pucci, che rigettavano i tamponi e le mascherine e ne facevano oggetto di battute, incuranti delle emergenze.

Proposta di candidatura arrivata da Silvia Sardone della Lega

Resta l’imbarazzo di sapere che, stando a quanto ha deliberato Sala, che ha diritto di veto sulle indicazioni ricevute dalla giunta comunale, non abbia fatto nulla per impedire questo scempio, indicando come Milano si senta rappresentata da chi ha costruito la sua carriera di comico su battute su gay e donne, così come dal rap in stile gangsta dei Club Dogo. Sappiamo che a caldeggiare il nome di Pucci è stata Silvia Sardone della Lega, forse in assenza di degni rappresentanti da che per ovvie ragioni non ci sono più i Fichi d’India. Ci manca solo di vedere un post si Sala con l’hashtag #FreeShiva, il medesimo che molti trapper e rapper stanno usando, discutibilmente, per chiedere la scarcerazione, appunto, di Shiva, agli arresti per aver sparato a due suoi presunti aggressori, e sarà compiuto il salto da uomo eletto dal centrosinistra a prossimo rappresentante di quel neoliberismo accelerazionista che già nel decennio scorso faceva tremare intellettuali e filosofi, Mark Fisher in testa.

La strada del salto della quaglia, con un ritorno a destra, nel suo caso decisamente più repentino, è stato già indicato da Letizia Moratti. Mica è un caso che proprio Sala fosse al suo fianco ai tempi di Expo. In questa Milano che nel video di lancio dei Club Dogo viene descritta come novella Gotham City – percezione piuttosto diffusa tra i milanesi – non ci sarebbe da stupirsi se il primo cittadino decidesse di seguire le orme di colei che un tempo è stata la mamma di Batman.

Pucci e l'Ambrogino d'oro, l'assurda premiazione del politicamente scorretto e lo sbandamento di Sala
Silvia Sardone e Matteo Salvini (Imagoeconomica).

Il 21 giugno è la Festa della Musica, ma ne abbiamo davvero bisogno?

Dal 1985 il 21 giugno si festeggia in Europa la Festa della Musica. Ne avevamo davvero bisogno? In genere si tende a dire che queste giornate siano utili per accendere l’attenzione dell’opinione pubblica intorno a un tema altrimenti tenuto sottotraccia, quasi invisibile. Per questo, per dire, esiste una Giornata contro la violenza sulle donne e non una contro la violenza sugli uomini. O una giornata contro l’omotransfobia e persino un mese dedicato al Pride. La musica è argomento sicuramente sensibile, se vi si guarda pensando ai lavoratori della filiera, quelli che durante i periodi di fermo a causa della pandemia sono rimasti letteralmente a bocca asciutta, senza lavoro e senza sostegno economico, ma non è a loro che è dedicata la giornata del 21 giugno, quanto proprio alla musica. E mai come oggi la musica è ovunque, pervasiva, onnipresente. Pensateci un attimo, quando avete passato una intera giornata senza che una canzone o un motivetto vi sia arrivato anche involontariamente alle orecchie? Certo, parlo di una condizione di vita quotidiana tipo, non certo di chi magari opera come guardiano del faro di un’isola deserta. Ecco, la musica, quella cui è dedicata la giornata del 21 giugno, è ovunque. Sempre.

Se Lars Von Trier girasse oggi il sequel de Le onde del destino lo infarcirebbe di musica

Facciamo un salto indietro nel tempo. È il 1996, è appena uscito quello che viene considerato, a ragione, il film che ha regalato al controverso regista danese Lars Von Trier la fama che di lì in poi lo ha sempre accompagnato: Le onde del destino. Ai tempi si parlò molto di questa pellicola, la cui protagonista era una ancora sconosciuta Emily Watson, e se ne parlò anche per l’adesione del regista al manifesto del movimento Dogma 95 sui valori di un cinema dedito alla recitazione, lontano da effetti speciali e tecnologie elaborate. Una sorta di purismo non troppo diverso da quello portato in letteratura, qualche anno dopo, dai New Puritans, capitanati da Nicholas Blincoe. Chiunque, ai tempi, fosse incappato nel trailer del film sarebbe rimasto affascinato dal susseguirsi suggestivo delle scene ambientate nei mari del Nord, accompagnate da una colonna sonora a suon di rock, dai Mott The Hopple ai Roxy Music, passando per i Procol Harum e i T-Rex. Chi, invece, fosse poi andato a vedere il film, due ore e mezzo circa di storia iperdrammatica, avrebbe notato come di quella colonna sonora vi fosse poca traccia. E come fosse tutta concentrata nelle cornici tra un capitolo e l’altro, praticamente assente durante lo svolgimento della trama. Del resto, un film che ambisca a una onestà di fondo, cioè a una adesione totale e totalizzante con il reale, ai tempi, non poteva che muoversi così. Dubito che in un borgo scozzese ci fosse costantemente musica nell’aria. Ecco, se oggi Lars Von Trier, per ragioni che onestamente ci sfuggono, dovesse provare a fare un remake del suo stesso film, ambientandolo negli stessi luoghi e volesse ancora essere fedele al Dogma 95, come non sempre ha fatto in tutti questi anni, credo che potrebbe regalarci una colonna sonora costante, onnipresente, invasiva e capillare. Perché nel mentre, qui volevo arrivare, certo avendola presa decisamente alla lunga, oggi la musica non ci molla mai un attimo, è presente in ogni istante del nostro vivere, in ogni spazio e in modi molteplici.

Il 21 giugno è la Festa della Musica, ma ne abbiamo davvero bisogno?
Emily Watson in una scena di Le onde del destino.

Dalla filodiffusione alle cuffiette, siamo sottoposti a un bombardamento musicale

Se un tempo, neanche troppi anni fa – Le onde del destino è, ripeto, del 1996 – per ascoltare musica toccava impegnarsi, a meno che non ci fosse una qualche radio in filodiffusione, non così comune come adesso, oggi dai negozi ai ristoranti ai bar, siamo bombardati ogni secondo da canzoni, siano esse fornite da chi ci circonda, al supermercato come in metropolitana, o ascoltate tramite i device e le immancabili cuffiette che ci accompagnano mentre camminiamo, facciamo jogging, studiamo, lavoriamo, cuciniamo e chi più ne ha più ne metta. Questo oltre alla musica che ascoltiamo in auto, a casa, in ufficio. Musica che diventa sottofondo, con buona pace di chi a suo tempo ha pensato a quali motivetti usare come colonna sonora nei nostri viaggi in ascensore (parlo degli ascensori dei grattacieli, quelli destinati a ospitarci per più di qualche secondo) o, Brian Eno santo subito, negli aeroporti. Musica da ascoltare distrattamente e in quanto tale scritta proprio con una cifra destinata a essere coerente al tipo di ascolto preposto.

Viva il Giorno senza musica proposto da Drummond

Musica, musica ovunque. Musica sempre. Musica molto spesso prescindibile, irrilevante, destinata a non lasciare traccia nel tempo. Figuriamoci per noi che la ascoltiamo mentre facciamo altro. Musica che proprio oggi, 21 giugno, primo giorno d’estate, celebra la sua festa, con tutta una serie di iniziative che, toh, vedranno artisti e addetti ai lavori propiziarci altra musica, in nome della musica stessa. A tal proposito potrebbe essere cosa buona e giusta riprendere una vecchia proposta fatta da quel genio situazionista di Bill Drummond, già a capo del gruppo The KLF, oltre che parte dei Big In Japan, scrittore e artista. Anni fa, infatti, Drummond – che già si era fatto notare nel 1994 per aver dato alle fiamme in una performance punk senza precedenti qualcosa come un milione di sterline in banconote, tanto aveva guadagnato con la sua band e divenuta un video artistico dal titolo Watch the K Foundation Burn a Million Quid, quando si dice essere eversivi – buttò lì di istituire il 21 novembre il Giorno senza musica, un digiuno auricolare atto a specificare come esista musica deprecabile, destinata a fungere da colonna sonora di sottofondo per qualsiasi luogo e qualsiasi momento, e musica invece preposta a accompagnarci in momenti specifici, quella che appunto col tempo rischia di scomparire sepolta dal rumore di fondo. Iniziativa, questa, andata avanti per cinque anni, dal 2005 al 2009. L’idea, lanciata da Drummond attaccando alla maniera di artisti quali Banksy, manifesti all’ingresso del Mercey Tunnel di Liverpool, era quella di un piano quinquennale atto a salvaguardare la musica, certo, ma anche l’umanità, ma mai come oggi suona necessario, se non addirittura salvifico.

Il 21 giugno è la Festa della Musica, ma ne abbiamo davvero bisogno?
Bill Drummond (da YouTube).

Giancane e le colonne sonore che l’hanno reso alter ego di Zerocalcare

Non è facile risalire al giorno esatto in cui tutto ciò è successo, ma da qualche parte nel passato prossimo, un po’ prima della pandemia, forse, o durante quei mesi allucinanti, Zerocalcare è diventato, suo malgrado e non certo senza un qualche suo disagio, il portavoce di una intera generazione. Così, di colpo in molti, tra Millennial e Generazione Z, certo con qualche squarcio abbondante anche nella Generazione X, si sono ritrovati a riconoscersi in quella voce, letteraria e letterale così biascicata, romanesca, disincantata e apatica, certo, ma anche malinconica e sentimentale, ironicissima e pungente, certo, ma capace di squarci di poesia lirici come forse nessun altro autore sa e ha saputo fare negli ultimi anni.

Giancane e le colonne sonore che l'hanno reso alter ego di Zerocalcare
Giancarlo Barbati, in arte Giancane (da Instagram).

Giancane e Zerocalcare, cioè Giancarlo Barbati e Michele Rech

Con lui, sempre presente, un cantautore che in qualche modo ne è la versione musicale, seppur i piccoli corti che Zerocalcare ha pubblicato sui social durante il Covid, come le due serie tivù uscite per Netflix – quella di enorme successo nel 2021, Strappare lungo i bordi, e la recentissima Questo mondo non mi renderà cattivo – siano infarcite di canzoni che spaziano in quell’enorme calderone che può stare tra Max Pezzali e i Radiohead. Giancane, questo il nome del cantautore in questione, non me ne vorrà chi si occupa di Seo in questo giornale se ho portato alle lunghe l’apparizione sul palco dell’artista (un po’ di climax non guasta mai) è indubbiamente l’alter ego di Zerocalcare. Già a partire dal fatto che entrambi abbiano scelto due nomi d’arte così surreali, l’uno si chiama in realtà Giancarlo Barbati, e Il muro del canto è la band nella quale si è fatto le ossa, l’altro Michele Rech.

Le canzoni e una lingua sdrucciola, parlata più che scritta

Ma è soprattutto nella poetica che entrambi sono riusciti nel miracoloso intento di essere quasi in simbiosi, che loro ovviamente farebbero passare per casuale, provando quasi disagio nel venire identificati come qualcosa di più che due nerd che passano le giornate nella stanca routine di chi prova a non rimanere schiacciato sotto le incombenze di una vita che è assolutamente inaffrontabile. Strappati lungo i bordi, brano che di Strappare lungo i bordi era tema principale, è una sorta di canzone/manifesto alla The Smiths, parlo di intenti, di una generazione, quella lì, non più adolescente ma che a fatica si riconosce tra gli adulti e soprattutto a fatica è identificata come adulta dagli adulti stessi. Con una scrittura che attinge a piene mani dallo stesso immaginario di Zerocalcare, e che dell’immaginario di Zerocalcare è diventata parte integrante, tra punk e una forma di elettronica contemporanea, l’idea del poter fare tutto in casa, giocando magari al ribasso sempre presente, e con una lingua sdrucciola, parlata più che scritta – si parla di apparenza, si badi bene, tutto quel che è scritto è mediato, anche quello che si vuole far passare per naturale – le canzoni di Giancane si sono cominciate a muovere al seguito dei fumetti e delle serie di Zerocalcare, finendo per trovare un successo sulla carta quasi impensabile.

Collaborazione nata nel 2018, con la clip di Ipocondria

La loro collaborazione risale al 2018, quando il fumettista più famoso d’Italia ha disegnato e animato la clip di Ipocondria – entrambi hanno qualche conto in sospeso con la protagonista della canzone – iniziando per altro a lavorare proprio in quell’occasione alle animazioni che poi sarebbero atterrate a Propaganda Live durante il Covid, con le storie di quarantena, e in seguito finite su Netflix col successo che tutti conosciamo. I due si erano incrociati già ai tempi in cui Giancane militava nella band romana – Zerocalcare aveva disegnato una copertina per loro -, ma è con Ipocondria che la collaborazione spicca il volo. E da quel momento ci sono state due colonne sonore importanti, l’ultima delle quali, quella di Questo mondo non mi renderà cattivo, contenuta nel nuovo album Tutto male, è se possibile anche più triste di quanto la nuova serie tivù già non sia. Il titolo, in effetti, lascia già indicazioni piuttosto precise a riguardo.

Grazie alle serie Netflix i suoi concerti sono aumentati esponenzialmente

Non è dato sapere se Giancane si viva il successo, certo non esattamente il medesimo da rockstar di Zerocalcare – ricordiamo la copertina de l’Espresso targato Marco Damilano che lo indicava come uno degli ultimi intellettuali italiani -, ma comunque un successo, con concerti che grazie alle serie Netflix sono aumentati esponenzialmente e che comunque presentano un pubblico decisamente più ampio, non solo coloro che poi, suppergiù, finiscono come tipologia antropologica dentro le serie di Zerocalcare, ma intere famigliole al gran completo, gente elegante che magari non ha neanche idea cosa significhi esattamente lo-fi, genere che un tempo un critico musicale avrebbe affibbiato alla musica di Giancane per dare indicazioni ai venditori di dischi su che ripiano posizionare i suoi cd o vinili. Sarebbe bello sapere, ma sono dettagli da nerd che guardano serie scritte da nerd che hanno su colonne sonore scritte da nerd, se anche Giancane ha un qualche animale guida a vestire i panni della sua coscienza, come l’Armadillo splendidamente interpretato, a livello vocale, da Valerio Mastandrea nelle due serie tivù. Chissà se prima o poi, anche lui baciato dal successo come il suo compare, non arriverà qualche giornalista gossipparo a chiederglielo.

Berlusconi tra canzoni denuncia, parodie e inni politici

Silvio Berlusconi è morto. Si dirà che con lui è morta un’epoca, come a voler dimenticare le tante ombre che lo hanno accompagnato in questi suoi 86 anni di transito terrestre, per dirla col maestro Battiato. Quel che è certo che almeno per gli anni nei quali il suo essere sul pianeta Terra ha coinciso anche con l’essere un leader politico, diciamo gli ultimi 30 anni, Silvio Berlusconi non è stato solo un tycoon visionario baciato dal plauso del pubblico votante – lui che si era già tolti parecchi sfizi in ambito imprenditoriale da Fininvest a Mediaset, passando per il Milan e la Mondadori – ma anche uno dei protagonisti indiscussi della cultura popolare, oggetto di imitazioni, parodie, attacchi più o meno feroci dentro i libri, i film, le canzoni.

Berlusconi tra canzoni denuncia, parodie e inni politici
Silvio Berlusconi nel 2010 (Getty Images).

Berlusconi oggetto di film e imitazioni grottesche

E se pensando a personaggi anche popolarissimi come Maurizio Crozza o Sabina Guzzanti è quasi naturale vederseli nei panni del Cavaliere, i suoi tic e le sue caratteristiche rese grottesche ma al tempo stesso simpatiche, se pensando a giornalisti e scrittori come Marco Travaglio o Gianni Barbacetto vien quasi impossibile non associare i loro nomi a quelli di Berlusconi, trattato e ritrattato in così tante loro opere, se anche pensando a un maestro del cinema come Nanni Moretti, volendo anche un premio Oscar come Paolo Sorrentino, risulta difficile non correre col pensiero a opere quali Aprile e Il Caimano, nel caso del regista e attore romano, Loro, parte uno e due, nel caso del regista partenopeo, è indubbio che il mondo della canzone, specie quello militante, che un tempo si sarebbe indicato come quello dei centri sociali, abbia dedicato tante canzoni e quindi tante energie a provare a contrastare quello che appariva, a ragione, come uno strapotere non solo politico, ma anche mediatico.

Ovviamente, parlando di canzoni, c’è chi ha usato la linea retta, colpendo in maniera forse anche troppo chiara colui che riconosceva come il proprio nemico. Penso a parte della produzione di artisti quali la Banda Bassotti, con brani quali Una storia italiana, che rifaceva il verso al libricino mandato nelle case di tutti gli italiani, o i Modena City Ramblers che con la loro El Presidente riprendevano invece alla famosa campagna “un presidente operaio”, nella quale Berlusconi si presentava interpretando tutta una serie di lavori umili, che mai aveva praticato in vita sua.

La critica poetica di Silvestri e Battiato

E chi invece, penso proprio al Daniele Silvestri del brano Il mio nemico, o al Franco Battiato di Inneres Auge, ha scelto la via della poesia, tratteggiando un uomo di potere. L’incipit del brano del maestro siciliano è in questo da antologia con quel «Uno dice, che male c’è a organizzare feste private con belle ragazze per allietare primari e servitori dello stato? Non ci siamo capiti, e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti», andando a colpire altrettanto a fondo, seppur richiedendo all’ascoltatore un minimo sforzo interpretativo.

Devi andartene, l’invito di Paola Turci poi convolata a nozze con l’ex del Cav Pascale

La lista continua con AAA Cercasi di Carmen Consoli, che parla di un 80enne miliardario affascinante che cerca cagne di strada per offrire loro un’opportunità di vita, sorta di metafora neanche troppo metaforica di quanto per anni si è imputato a Berlusconi, dal bunga bunga in poi e Devi andartene di Paola Turci, ironicamente poi convolata a nozze con l’ex di Berlusconi Francesca Pascale, nella quale si parla di un satrapo sempre indaffarato tra donnine e lusso. Passando per brani più tipicamente figli dei nostri tempi, come Swag Berlusconi del guascone Bello Figo, nel quale il rapper di Pasta con tonno si vanta di scopare parecchio perché le ragazze pensano che lui sia il presidente; Penisola che non c’è di Fedez, dove i riferimenti al Cavaliere sono diretti e troppi da essere riportati, arrivando a un vero gioiello come Legalize the premier, che vede un ispirato Caparezza, in compagnia del rasta Alborosie, ipotizzare un mondo nel quale il capo politico del centro-destra invece che legalizzare le droghe leggere legalizzi se stesso, una sorta di esplosione del fenomeno delle leggi ad personam che ha decisamente accompagnato tutta la carriera di Berlusconi, da ancora prima della sua discesa in campo fino a quando è rimasto sulla cresta dell’onda. Discorso a parte meriterebbe Il sosia di Antonello Venditti, cantautore romano che con Berlusconi ha avuto sempre un rapporto fatto di frecciatine neanche troppo velate. Nella canzone in questione, forse non conoscendo un fatto realmente avvenuto, l’autore di Roma capoccia ipotizza un premier che sia di sinistra e tifoso sfegatato dell’Inter, facendo chiaramente riferimento alla lunga storia che Berlusconi ha avuto col Milan, anche se, è noto, l’acquisto dei rossoneri da parte del tycoon è avvenuto perché non fu possibile acquistare l’Inter, squadra per la quale il Cavaliere ha sempre tifato sin da piccolo.

Caro Berlusconi di Malgioglio e Meno male che Silvio c’è di Andrea Vantini: letterine e inni

Per chiudere questa veloce carrellata, sicuramente non esaustiva – e che comunque potrebbe comprendere anche alcune delle canzoni che lo stesso Berlusconi, con un passato da cantante nelle navi da crociera e da contrabbassista nella stessa orchestrina nella quale suonava anche il suo antico sodale Fedele Confalonieri, recentemente autore per Michele Apicella quando ormai da tempo era sceso in campo – non si possono non citare brani come Caro Berlusconi, a firma Cristiano Malgioglio, il quale, riprendendo una sua vecchia canzone degli Anni 80, Caro direttore, scrive una lettera immaginaria al premier, chiedendo una spintarella a colui che di spintarelle, negli anni, ne ha dispensate decisamente tante, o Meno male che Silvio c’è che Andrea Vantini scrisse per il Cav nel 2010, quando la morsa della magistratura cominciava a chiudersi intorno a lui. Brano entrato nell’immaginario comune, non certo senza alcune ironie, e divenuto inno delle convention del Popolo delle Libertà, prima, e di Forza Italia, poi, e anche di tante gag e tanti meme che hanno avuto Berlusconi come protagonista. Anche questo, in fondo, è il segno di una pervasività che nessun altro politico italiano può a oggi vantare.

 

Annalisa si è spogliata, alleggerita e ha fatto boom (pure) su TikTok

Il curioso caso di Annalisa Scarrone. Un pezzo leggero su l’artista che in questo momento sta letteralmente impazzando con la hit Mon amour, dopo aver letteralmente impazzato con Bellissima si potrebbe serenamente intitolare così. Facendo riferimento al film di David Fincher con Brad Pitt, dove si narra la storia di Benjamin Button, uomo che invece di invecchiare ringiovanisce, ribaltando il normale corso delle cose.

Ormai si muove sulle scene da diversi anni: Amici, 2010

Annalisa Scarrone, per tutti semplicemente Annalisa, per i suoi tanti fa addirittura solo Nali, è un’artista che ormai si muove sulle scene da diversi anni: il suo passaggio per la scuola e quindi il programma di Amici di Maria De Filippi, nel 2010, fu il primo momento davvero rilevante. Un secondo posto che proprio in questi giorni è tornato di attualità quando un tweet di colui che quell’edizione, la decima, la vinse, Virginio – tweet nel quale sottolineava il ruolo dell’artista, evidenziando come a suo dire l’arte non fosse solo divertimento -, è da molti stato interpretato come un attacco proprio a lei, nel mentre lì a giocare, letteralmente e letterariamente, con un brano riempipista, si sarebbe detto un tempo, come Mon Amour, solo in apparenza partito come una Bellissima in scala ridotta e invece hit capace, se possibile, di far meglio di quanto già non abbia fatto la precedente.

Annalisa si è spogliata, alleggerita e ha fatto boom (pure) su TikTok
Annalisa detta Nali. (Getty)

Una bellezza elegante che ha a lungo relegato in secondo piano

Un secondo posto che però l’ha vista subito sbocciare, la sua canzone amiciana, Diamante lei e luce lui, a imporsi come una hit, dando il via a una carriera che la vedrà faticare un po’ a trovare una propria cifra precisa, lei con una voce importante, intonata come pochissime colleghe, anche dotata di una bellezza elegante che ha a lungo relegato in secondo piano, Benjamin Button, appunto, che punta su una classicità forse a lei poco contemporanea. Tanti i passaggi a Sanremo senza mai una vittoria – la posizione più alta nel 2018 -, un terzo posto più che meritato con il brano Il mondo prima di te, Annalisa è riconosciuta come talento ma alla costante ricerca di un repertorio che potesse in qualche modo farla esplodere. Una voce talmente pulita, la sua, e usata con gran stile, da farla forse risultare a tratti algida, tanto che quando nel 2015, in seguito a un altro passaggio sanremese, arriva l’album Se avessi un cuore, qualcuno ha pensato si trattasse di una una prima persona singolare, non di una seconda.

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Laurea in Fisica per poter poi provare a fare i conti con la musica

Poi la vita tende a dimostrarci sempre come le cose, a volte, arrivino quasi per caso, quando meno te lo aspetti, e lei che aveva esordito anche incidendo una versione strepitosa di Mi sei scoppiata dentro il cuore di Mina, classica quando sarebbe potuta assolutamente essere sbarazzina, quella laurea in Fisica ottenuta per poter poi provare a fare i conti con la musica a tenerla un po’ legata, ecco che quella famosa cifra comincia a farsi più nitida, grazie a un alleggerimento della stiva, direbbero dalle parti in cui è nata, Savona, o in una qualsiasi città di mare. Conscia di non dover necessariamente dimostrare sempre e comunque chi è e cosa sa fare, infatti, Annalisa ha cominciato a ringiovanirsi, iniziando a collaborare su canzoni in apparenza troppo leggere, in realtà semplicemente ottime per intrattenere – la musica è anche questo, mica solo esistenzialismo spinto -, e facendolo sempre come una spada.

Il brano della svolta leggera, Avocado toast

Ecco quindi i duetti con Benji e Fede, Tutto per una ragione, ecco quello che oggi potremmo leggere come il suo brano della svolta, Avocado toast, il primo di una serie di canzoni atte a alleggerirla, appunto, e soprattutto a mostrarcela per quello che è, una giovane donna che vive nel mondo di oggi, ecco altre collaborazioni, come quelle con Mr Rain, con J-Ax, rispettivamente con Un domani, a nome suo, e Supercalifragili, del rapper milanese, ecco Tropicana, tormentone dell’estate 2022 con i Boomdabash, giusto il tempo di arrivare in autunno e pubblicare quella Bellissima che ancora oggi imperversa su Spotify e sui social.

L’album Nuda ha indicato una presa di coscienza

Chiaramente questa è una carrellata veloce, perché fossimo andati con calma avremmo dovuto specificare come l’album Nuda, di settembre 2020, abbia segnato davvero un passo importante nella sua carriera, e come il tutto sia passato attraverso un serissimo lavoro di pacificazione col suo corpo. Nuda è un titolo metaforico, spero non serva dirlo, ma il vederla nuda in copertina – lei che ha a lungo tenuto il suo corpo nascosto, come se la sua bellezza fosse un problema da gestire, o qualcosa da non sbandierare per non passare per chi cerca scorciatoie, in barba a quanto il pop internazionale femminile ha nel mentre fatto – in qualche modo ha indicato una presa di coscienza, un volersi spogliare, anche qui metaforicamente, di una serie di sovrastrutture che in qualche modo l’avevano tenuta ferma fino a quel momento.

Annalisa si è spogliata, alleggerita e ha fatto boom (pure) su TikTok
Annalisa. (Getty)

Annalisa non è stata presa in ostaggio da TikTok

E come spesso capita, quando decidi di prendere le cose un po’ più alla leggera, ecco che le cose hanno iniziato a farsi davvero interessanti, perché il ringiovanimento di Annalisa – Bellissima, prima, e Mon Amour, ora, lo dimostrano – ha coinciso con un preciso momento storico della musica contemporanea, quello in cui la Rete ha definitivamente preso il posto dei supporti fisici, stabilendo, era già successo a tutti i passaggi nodali della storia della discografia, altri istante e altri canoni. Ora, leggo quanto ha detto Gino Castaldo col solito ritardo, lui che per altro è stato, organico al sistema quale è, parte di questa deriva: ci si accorge che la musica è diventata ostaggio di TikTok, e si usa proprio le ultime due hit di Annalisa, seppur specificandone il talento, come esempio e monito per le prossime generazioni, ma di fatto Annalisa mi sembra piuttosto l’unica, a oggi, o una delle poche, in Italia, ad aver capito come funziona la contemporaneità e averla forzata per fare quel che voleva, non viceversa.

Canzoni pensate per i contesti social e con riferimenti Anni 80-90

Mi spiego: se inizialmente la musica era stata composta per essere eseguita dal vivo e le prime incisioni con quello avevano dovuto fare i conti, salvo poi diventare primarie per la composizione, lì a ragionare su quanto durasse un lato di un long playing, prima, e un cd, poi, solo in un secondo momento a provare a replicare dal vivo quanto si era composto per essere inciso e veicolato, non viceversa, oggi è lo streaming a farla da padrona. Quindi si scrivono canzoni che stiano in un tempo assai basso, che non tocchino frequenze troppo alte o troppo basse, assenti o distorte sui device, e che quindi ruotino giocoforza su un numero limitato di possibilità armoniche e quindi melodiche, chi dice il contrario mente. TikTok, se possibile, ha reso il tutto ancora più estremo, riducendo a pochi secondi la replicabilità di un brano, quindi ritornelli veloci e che arrivino subito, entro i 40 secondi massimo, qualche gesto da ripetere nei video a beneficio di chi poi viralizza. In questo conteso arrivano Bellissima e Mon Amour di Annalisa. Canzoni sì pensate per funzionare in quei contesti, ma in realtà costruite facendo riferimento a un immaginario musicale che è quello dei tardi Anni 80, più che altro Anni 90, il medesimo a cui guardano artiste quali Dua Lipa.

Il pop può anche essere veicolo di girl empowerment

Se però un certo passatismo in ambito, Dio mi perdoni, rock ha fatto tanto esaltare firme come Gino Castaldo – parlo dei Maneskin -, sembra che in questo caso quel che rimane nel pettinino per le lendini con cui il collega ha provato a passare le hit di Annalisa sia solo quello che passa nei balletti del social cinese, come se il pop dovesse necessariamente ambizioni colte (parlo di cultura alta) e come se, piuttosto, l’intrattenimento fosse sempre da guardare con sospetto. Il tutto mentre legittimamente impazzano Paola e Chiara con Furore e mentre Elodie annuncia un sold out al Forum. Il pop, specie quello a firma di artiste donne, può essere veicolo di un girl empowerment che evidentemente per questioni anagrafiche Castaldo non coglie, mentre siamo arrivati alla liberazione di Annalisa, che letteralmente si è ringiovanita smettendo di aderire a una idea di chanteuse decisamente passatista, giocando sul e con il suo corpo che fino a ieri nascondeva, il tutto mentre crea brani destinati a farci ballare anche per tutta l’estate, che sia per i 15 secondi di un video virale su TikTok o più anticamente su una spiaggia.

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L’essere popolari o popolani non è più un’onta

Il gioco delle contrapposizioni tra alto e basso, in questo caso, non è utile, né necessario, perché altri sono gli spazi che chi fa musica di approfondimento e d’autore giustamente insegue, non certo perché il proprio posto è “rubato” da brani di tale guisa. Si dovrebbe, è quel che ha provato a fare Tosca sui social, finendo a sua volta sommersa da hater (oggi sembra funzionare solo così), provare a ipotizzare un mondo in cui c’è spazio per tutta la musica, e chi si occupa di critica, come chi scrive, ben lo sa e a lungo si è battuto per aprire nuovi spazi, non certo per evocare l’abbattimento, più o meno figurato, di chi porta avanti altri discorsi. Il pop perfetto di una Lady Gaga o di una Dua Lipa fa spesso balzare sulla sedia la critica anche nostrana, incapace magari di cogliere appieno il senso di una rilettura attualizzata di un passato che vedeva troppo spesso il pop relegato quasi in uno sgabuzzino, qualcosa di cui vergognarsi, come se l’essere popolari o popolani fosse un’onta. Ben venga allora un pop italiano ambizioso, ancor più se portato avanti anche da noi da donne fiere e consce. Annalisa è bellissima e bravissima.

Nella società iper veloce anche una hit dura quanto un meme

La SPA – no, non quelle dove andiamo a rilassarci sbocconcellando sedani e tisane avvolti da accapatoi immacolati tra una sauna e un massaggio col sale – è la Sindrome da Pensiero Accelerato. Qualcosa di molto vicino alla cristallizzazione dell’oggi, quell’oggi in cui siamo talmente sommersi da continui input, spesso virtuali, frammentati, iperveloci, continui, da rimanere come intossicati dalle troppe informazioni, sul punto di entrare in overdrive e collassare, psicoticamente. Più in concreto la SPA è quella condizione per la quale possiamo passare qualche minuto, pochi, a leggere un articolo, una pagina di libro, a parlare distrattamente con qualcuno, a guardare una puntata di una serie tv, senza però trattenere nessun tipo di informazioni, tabula rasa, o per dirla coi CSI, tabula rasa elettrificata. Questo ovviamente nei casi più leggeri, perché la SPA è una patologia, quindi gli effetti sul nostro corpo, meglio sulla nostra mente, possono essere anche gravi, dagli attacchi di panico al disturbo dell’attenzione, passando per i burnout, altra caratteristica saliente dei nostri tempi, via via fino a disturbi cardiaci e veri e propri attacchi psicotici.

Il cretino giovane, che non ha paura di risultare idiota su TikTok
L’app TikTok (Getty)

Dai 15 minuti di Andy Warhol ai 15 secondo di un reel

Lasciando però da parte l’ambito sanitario, che non ci compete, è evidente che una certa accelerazione della comunicazione sia tratto saliente di questi malsani tempi. Niente a che vedere con la fretta che un tempo associavamo, quasi ingenuamente, a chi viveva nelle città industriali, specie quelle del Nord, contrapposta a una lentezza quasi marqueziana, tipica dei luoghi che nella vulgata sono associati al viversi la vita come viene. Piuttosto la vaporizzazione dei contenuti, estremizzazione della realtà liquida ipotizzata o fermata su carta da Bauman, le informazioni che si affastellano una sull’altra, disordinatamente, riempiendo velocemente la memoria, non solo quella digitale, e rendendo di conseguenza impossibili l’utilizzo di molte applicazioni, mi si passi la metafora. Siccome però viviamo in questi tempi qui – non dentro un romanzo di fantascienza, ma in una perenne connessione, come ipotizzato dai cattivi ragazzi del cyberpunk (cattivi ragazzi si fa per dire, William Gibson è un anziano signore di 75 anni) e nessuno vive su Marte: non siamo in guerra con gli alieni né i robot sono sul punto di soppiantarci dal dominio del pianeta Terra (bè, sì, forse questo sì, credo a giorni arriverà un nuovo Asimov a vergare le tre leggi dell’Intelligenza artificiale) – continuiamo a stare pragmaticamente coi piedi per terra. Questa frammentazione iperveloce la possiamo riscontrare non nel vivere fisicamente tutta una vita in poche settimane, quanto piuttosto in un processo di esposizione sotto i riflettori e relativa scomparsa che ha trasformato i famosi 15 minuti di andywarholiana memoria nei 15 secondi scarsi di un reel.

Damiano David e Giorgia Soleri si sono lasciati: il leader dei Maneskin ufficializza la rottura dopo un video. In una clip mostrato il cantante che bacia un'altra
La story di Damiano (Instagram)

Da Damiano che limona a Luis Sal fino al dito medio di Arisa: la trottola social-mediatica

Prendiamo i trending topic, un tempo oggetto di discussioni per giorni, a volte anche settimane. Oggi si susseguono alla velocità della luce, vecchio retaggio di un linguaggio che appunto a una fantascienza quasi verniana fa riferimento, spesso senza lasciare traccia dietro di sé, alla faccia della lunga memoria della Rete, quella per cui tutto tornerebbe a galla con una certa celerità. Succede quindi, ma magari è un caso limite, che un breve video nel quale Damiano David dei Maneskin limona con una tipa, tale Martina Taglienti, professione modella, non la sua Giorgia Soleri, scateni l’inferno di voci sulla fine della relazione tra i due, voci che lo stesso Damiano conferma, da una parte prendendosi colpe per aver incautamente spoilerato la notizia che i due avrebbero dovuto annunciare insieme, dall’altra chiedendo un rispetto e una discrezione che limonare in discoteca potrebbe non comprendere. Così Giorgia Soleri defollowa tutti i membri della band. Neanche il tempo di commentare che ecco che Luis Sal risponde alle stories con cui Fedez ci aveva, da parte sua, spiegato che fine avesse fatto il suo ex socio di Muschio Selvaggio, andando a creare il meme dei meme «Dillo alla mamma, dillo all’avvocato», scatenando a sua volta una serie di risposte del rapper di Rozzano, letteralmente seppellite da una sorta di plebiscito a favore di Luis. E via, ecco che Arisa sfancula Paola Iezzi, rea di aver cautamente risposto a esplicita domanda riguardo le uscite della prima su Giorgia Meloni, sede la conferenza stampa del Pride di Roma, una risposta assai scomposta, quella di Arisa, con tanto di dito medio finale, prontamente rinnegato dalla medesima, nel mentre divenuta ovvio oggetto a sua volta di meme e di critiche piuttosto feroci sui social. Una notizia via l’altra, senza modo di lasciare però traccia nella memoria, a meno che la memoria non sia quella cosa flebile che ci permette di fare di quel “dillo alla mamma…” o quel “dito medio” qualcosa di facilmente decodificabile, scorciatoia ulteriore verso una frammentazione che ha sempre più bisogno di essere stringati, veloci, sintetici.

Fedez svela i motivi della rottura con Luis Sal: «Tutto nato a Sanremo». L'addio dell'influencer spiegato su Youtube dal rapper
Luis Sal e Fedez (Getty)

Anche in musica si brucia velocemente per dirla alla Kurt Cobain

Tutto questo, atterrando sul pianeta musica, si traduce in un vero bombardamento di brani, tipo notte di Dresda, quasi sempre collaborazioni tra più artisti, spesso lì a scambiarsi ruoli di brano in brano con la certezza di rimanere impigliati nella memoria dell’ascoltatore, quindi nelle classifiche di vendita, ci si passi un termine decisamente fuori tempo massimo, tanto quanto il termine discografia, lo spazio di un meme, poco più. E lo spazio di un meme, poco più, sembra oggi il tempo medio di durata delle carriere di artisti, Dio ci perdoni, che danno il senso all’immagine del “bruciare velocemente” evocata da Kurt Cobain nella sua lettera d’addio, anno del Signore 1994, anche se in questo caso non è certo la volontà degli artisti in questione a rendere possibile il tutto. Pensiamo, che so?, a gente come Benji e Fede, che a lungo hanno dominato le classifiche coi loro singolini leggeri leggeri e oggi sono praticamente relegati al ruolo di comparse. E il resto che scorre velocemente in un piano inclinato che prevede un cestino dell’immondizia alla fine, come certi scivoli per i panni sporchi degli hotel nei quali personaggi in fuga trovano scampo dai propri inseguitori. Volendo lasciare da parte pensieri anche sensati come quello che vuole che ci si faccia molto male se quando si cade lo si fa dall’alto, indicando nel “sei un talento” o nei “dove eri nascosto fino a oggi” tipici dei complimenti che si ascoltano dai giudici dei talent una qualche aggravante, illudere è sempre qualcosa di abietto, resta che la carriera media di un artista, pregate per la mia anima, oggi dura davvero il tempo che un tempo si concedeva a un pari artista per capire che nome usare nel primo album, spesso anche meno. Certo, ascoltando le musiche che detti artisti producono si potrebbe chiosare che non tutti i mali vengono per nuocere; come diceva un vecchio inciso di quando non era ancora stato codificato il politicamente corretto, era meglio ammazzarli da piccoli, ma in questa continua accelerazione della realtà anche la colonna sonora sembra destinata a durare pochi secondi, giusto il tempo di arrivare a un inutile ritornello per scomparire dai radar, breve ma intenso, diremmo in un meme. È proprio vero, mai come oggi in cui siamo tutti sempre connessi, connettere sembra essere diventato un privilegio per pochi.