Il 21 novembre 2013 a Kyiv scoppiava la protesta di Maidan: cosa è rimasto di quelle rivolte di piazza

Chissà cosa sarebbe successo se l’Unione Europea non avesse posto a Viktor Yanukovich l’ultimatum di liberare Yulia Tymoshenko per poter firmare l’Accordo di associazione (Aa)? Correva l’autunno del 2013, la parte economica dell’Aa tra Bruxelles e Kyiv era stata parafata un anno prima, ma il caso dell’eroina della rivoluzione arancione del 2004 finita in carcere per abuso d’ufficio aveva sbarrato l’intesa politica, con l’Ue impuntata sullo stato di diritto. Tutti in Ucraina sapevano che Yanukovich non avrebbe graziato la storica rivale, mentre la Russia stava aumentando la pressione sul presidente, e tutti già intuivano che il vertice di Vilnius, con la storica firma, sarebbe sfociato in un disastro. Le proteste europeiste di Maidan, cominciate il 21 novembre, non furono quindi certo una sorpresa.

Il 21 novembre 2013 a Kyiv scoppiava Euromaidan: cosa è rimasto di quelle proteste di piazza
Viktor Yanukovych e Vladimir Putin nel dicembre 2013 (Getty Images).

L’Ucraina si ritrovò politicamente e geograficamente spaccata in due 

L’Ucraina era politicamente e geograficamente spaccata: da un parte un presidente e un governo, eletti in maniera democratica nel 2010, rappresentanti in larga parte delle regioni dell’Est e del Sud, dei clan oligarchici del Donbass più vicini alla Russia; dall’altra l’opposizione variegata, fatta dai soliti equilibristi del potere, cioè gli oligarchi che negli anni precedenti erano già saltati da una fazione all’altra e dalle élite politiche ed economiche sostenute da Stati Uniti ed Europa. E proprio per questo le manifestazioni di fine novembre, che avevano portato in Piazza dell’indipendenza a Kyiv decine di migliaia di persone e coinvolto i centri delle regioni occidentali lasciando indifferente mezzo Paese, dall’Est al Sud passando naturalmente dalla Crimea, divennero non solo una questione di politica estera, ma si trasformarono, prevedibilmente, in una rivoluzione interna.

Il 21 novembre 2013 a Kyiv scoppiava Maidan: cosa è rimasto di quelle proteste di piazza
Una bandiera europea a Kyiv nel novembre 2013 (Getty Images).

Le proteste spontanee europeiste divennero azioni coordinate e antirusse

Le proteste genuine e spontanee europeiste divennero ben presto coordinate e antirusse, con l’obiettivo di defenestrare Yanukovich, a ogni costo. Maidan diventò il ritrovo per tutto lo spettro dell’opposizione, da quello politico moderato a quello estremista e pronto alle armi, passando per i tifosi interessati inviati dalle cancellerie occidentali. A dicembre 2013 erano già arrivati ad arringare la gigantesca folla, oltre ai tre leader dell’opposizione – il filo Nato Arseni Yatseniuk, il filo tedesco Vitaly Klitschko e l’estremista di destra Oleg Tiahnibok – anche l’oligarca Petro Poroshenko, vari ministri degli Esteri dell’Ue, il senatore statunitense John MacCain e il falco di Obama, Victoria Nuland. Facevano da contorno i vari gruppi paramilitari neonazisti guidati da Pravy Sektor, Trizyb, C14 e affini. Dopo la stasi natalizia, l’escalation cominciò nel gennaio del 2014 e terminò nel bagno di sangue di febbraio, con Yanukovich costretto a fuggire dopo che il compromesso siglato tra lui e l’opposizione della troika, ratificato per di più dai tre ministri degli Esteri di Polonia, Germania e Francia, era stato dichiarato nullo dall’ala estremista guidata proprio da Pravy Sektor. Il resto si può riassumere con i nomi noti, quello di Yatseniuk, che Nuland aveva definito «il nostro uomo» nella famosa intercettazione del «fuck Europe» a fare il primo ministro del nuovo governo filoccidentale; quello di Poroshenko andato a prendere un paio di mesi più tardi il posto di Yanukovich, e quello di Tymoshenko, uscita dalle patrie galere, ma ormai ininfluente. Poi arrivarono l’annessione della Crimea, la guerra nel Donbass e tutto il resto.

Il 21 novembre 2013 a Kyiv scoppiava Maidan: cosa è rimasto di quelle proteste di piazza
Una cerimonia per ricordare le vittime delle proteste di Maidan nel sesto anniversario della rivolta (Getty Images).

Ora è Zelensky a temere una Maidan 3

Dopo 10 anni è Volodymyr Zelensky a temere una “Maidan 3”, un piano di disinformazione orchestrato però da Mosca per destituirlo. «La nostra intelligence ha raccolto informazioni su questo piano», ha spiegato recentemente alla stampa il presidente ucraino, «e ne arrivano anche dai partner. È un’operazione comprensibile, per loro Maidan fu un colpo di Stato». Resta il fatto che le proteste di Maidan del 2013 hanno due facce: quella della spontaneità europeista e della voglia di parte della società ucraina di cambiare sistema e scollarsi dalla Russia, e quella dello script statunitense ed europeo, adottato per cambiare regime. Si tratta di due dimensioni coesistenti: non solo una o l’altra, come viene ripetuto da 10 anni dalla Russia e dall’Occidente per avvalorare la propria narrazione e giustificare ciò che è arrivato dopo. Non stupisce che dal Cremlino, dove Vladimir Putin ha instaurato nel frattempo un sistema altamente autoritario, la propaganda faccia il suo lavoro; d’altro canto che le democrazie occidentali adottino la stessa visione manichea è sintomo della stessa malattia. E a ben vedere nemmeno cosa nuova.

La crisi della sinistra in Germania e il nuovo partito di Sahra Wagenknecht

La sinistra tedesca ha un problema: sta crollando e se andrà avanti così rischia di diventare insignificante. La Spd, la socialdemocrazia dalla lunga storia e un passato importante, ha perso ormai il suo ruolo di partito di massa e nonostante sia riuscita ad andare al governo con il cancelliere Olaf Scholz è in caduta verticale di consensi. Dimenticati i fasti di Willy Brandt tra gli Anni 70 e 80 e archiviati pure quelli di Gerhard Schröder capace tra il 1998 e il 2005 di tenere il partito intorno al 40 per cento e sbaragliare due volte di fila la Cdu, con e senza Helmut Kohl, oggi Scholz governicchia insieme a Verdi e Liberali e i sondaggi danno il suo partito al 15 per cento, tendenza decrescente.

La crisi della sinistra in Germania e il nuovo partito di Sahra Wagenknecht
Olaf Scholz (Getty Images).

La Linke spaccata dalla ‘ribellione’ di Sarah Wagenknecht

Se alla sinistra moderata socialdemocratica va male, a quella estrema della Linke va pure peggio. Il partito, entrato per un soffio al Bundestag nel 2021 solo grazie al complesso sistema elettorale tedesco, si è spaccato. Il gruppo parlamentare non esiste più e un manipolo di ribelli guidati da Sahra Wagenknecht ha messo in piedi una nuova formazione (Bündnis Sarah Wagenknecht, Bws) che si presenterà per la prima volta alle Europee di giugno 2024. La Linke, erede della Pds a sua volta scaturita dalle ceneri delle vecchia Sed della Ddr e che solo nel 2009 aveva raccolto quasi il 12 per cento, è arrivata insomma al capolinea, o almeno così pare. Per ora nel campo di centrosinistra resistono Scholz alla Cancelleria e il governatore della Turingia, alfiere della sinistra radicale, Bodo Ramelow.

La crisi della sinistra in Germania e il nuovo partito di Sahra Wagenknecht
Sahra Wagenknecht (Getty Images).

Dai Grünen agli eredi di Honecker fino all’Afd: i terremoti della politica tedesca

Lo spettro politico tedesco si è modificato progressivamente negli ultimi decenni. Se negli Anni 80 erano stati i Grünen, allora davvero verdi e pacifisti, a scardinare il quadro tripartitico fatto da socialdemocratici (Spd), conservatori (Cdu-Csu) e liberali (Fdp), la riunificazione del 1990 aveva portato gli eredi di Erich Honecker in parlamento a sinistra della Spd (Pds-Linke). Nel 2017 poi a sparigliare le carte è stata l’Alternative für Deutschland diventata il quinto partito a livello nazionale, stavolta più a destra dell’Unione (Cdu-Csu). Oggi l’Afd, il partito più giovane al Bundestag, dopo aver mancato l’ingresso nel 2013, anno della sua fondazione, mancando la soglia del 5 per cento per un soffio, è dato dai sondaggi in seconda posizione oltre il 20 per cento dietro l’Unione, prima con circa il 30 per cento. Seguono, a livello della Spd, i Verdi, mentre Liberali e Linke sono sul filo dell’esclusione dal parlamento. Dovrebbe invece superare senza problemi la soglia il partito di Wagenknecht, mina vagante che potrebbe dare un altro scossone alla struttura del Bundestag.

L’incognita Wagenknecht, variante rossobruna in grado di scippare voti all’Alternative für Deutschland

L’arco parlamentare vedrebbe dunque a Berlino, andando dall’estrema destra all’estrema sinistra: Afd, Unione, Fdp, Spd, Verdi, Linke, Wagenknecht. Tre partiti di destra e quattro di sinistra. Così in teoria, ma in realtà se i verdi hanno perso la loro innocenza già dal primo governo nel 1998 e la Spd ha smesso di fare la sinistra proprio con Schröder, anche il Bws non è proprio per puristi e si presenta come una sorta di variante rossobruna destinata a pescare molto nell’elettorato della AfD. Se infatti il nuovo movimento di Wagenknecht facesse il botto al Bundestag, salendo da zero al 14 per cento accreditato dagli ultimi sondaggi, l’Alternative für Deutschland potrebbe scendere a livello di tutti gli altri.

La crisi della sinistra in Germania e il nuovo partito di Sahra Wagenknecht
Stephan Brandner e Alice Weidel leader della Afd (Getty Images).

L’elettorato alla fine sceglie l’originale: Spd e Cdu sono avvisati

I numeri e le previsioni di oggi dovranno essere messi alla prova alle urne, sia alle Europee che alle Amministrative dell’autunno del prossimo anno, con il voto in tre regioni dell’est: Turingia, Sassonia e Brandenburgo. Per la sinistra si tratterà di un disastro annunciato, eccetto che per Wagenknecht; per l’AfD il botto è prevedibile, visto che al momento è nei tre Länder in questione il primo partito. Per i moderati dell’Unione basterà il disastro della Spd alle Europee per sentirsi vincitori. Quel che è certo è che visto come stanno andando le cose, e ciò vale sia per i socialdemocratici che per i conservatori, è che se si predicano politiche radicali di destra da pulpiti che dovrebbero essere moderati, allora gli elettori tedeschi dimostrano di preferire l’originale, non i surrogati.

Putin, il difficile equilibrio del sistema di potere russo

Vladimir Vladimirovic Putin è sempre stato un arbiter, più che un dominus. Da quando è al Cremlino, le cui molteplici torri sono anche il simbolo di un potere condiviso, VVP ha sempre dovuto bilanciare le spinte dei vari gruppi concorrenti: dagli oligarchi ai siloviki, gli uomini dell’apparato amministrativo, militare e d’intelligence, dai liberali ai battitori più o meno liberi, dagli eredi del decennio yeltsiniano degli Anni 90 ai nuovi rampanti del Terzo millennio. In questo processo di selezione delle élite guidata dall’alto, il ruolo di Putin è stato quello di mantenere un certo equilibrio che però è andato sempre più problematizzandosi accompagnato dall’involuzione autoritaria all’interno e dal peggioramento delle relazioni internazionali. Gli ultimi 10 anni, in sostanza dallo scoppio della crisi ucraina e dall’avvio della guerra nel Donbass nel 2014, il sistema si è irrigidito, ristretto e i meccanismi stabilizzatori hanno mostrato i loro limiti.

Putin, il difficile equilibrio del sistema di potere russo
Putin con Sergei Shoigu e Valery Gerasimov (Getty Images).

Il cerchio magico di Putin si è ridotto al minimo

L’avvio del conflitto su larga scala nel 2022 ha segnato la cesura definitiva, con il cerchio magico del Cremlino ridotto al minimo, l’emarginazione o i silenziamento delle componenti tecnico-liberali e l’emergere di elementi poco controllabili. Che tradotto significa: Putin si è isolato ancor più, circondato solo da un pugno di fedelissimi, come il segretario del Consiglio di sicurezza Sergei Patrushev e i capi dei servizi, Alexander Bortnikov (Fsb) e Sergei Naryshkin (Svr), a cui si aggiungono, volenti o nolenti, il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, quello della Difesa Sergei Shoigu, il generale Valery Gerasimov, i vertici dell’Amministrazione presidenziale, la macchina che muove tutto ciò che il capo di Stato vuole, guidata da Anton Vaino e Sergei Kirienko. Gli oligarchi più in vista o si sono dati alla fuga, come Oleg Tinkoff o Alexander Tchubais, o si sono allineati, come la grande maggioranza, mantenendo un basso profilo, tra vicinanza obbligata al regime e sanzioni occidentali, da Oleg Deripaska ad Alisher Usmanov. I tecnici come il premier Mikhail Mishustin e la governatrice della Banca centrale Elvira Nabiullina hanno dovuto fare buon viso a cattivo gioco e sono rimasti al loro posto; infine il partito della guerra, del quale Ramzan Kadirov e Evgeni Prigozhin sono gli elementi di spicco, si è diviso tra chi obbedisce, il leader ceceno, e chi invece semina zizzania, il capo della compagnia Wagner.

Putin, il difficile equilibrio del sistema di potere russo
Putin con il leader ceceno Ramzan Kadyrov (Getty Images).

Vertici istituzionali, da Shoigu a Gerasimov, contro l’ala radicale di Prigozhin 

In questa costellazione e con la guerra in casa che per il Cremlino e la Russia è diventata esistenziale, il Putin arbiter si è trovato a mediare soprattutto tra le correnti di maggior peso, quelle militari, e quelle più rumorose e ribelli e così lo scontro interno, amplificato dal corso del conflitto, si è cristallizzato tra i vertici istituzionali, da Shoigu a Gerasimov, e l’ala radicale, incarnata da Prigozhin. Quest’ultimo, diventato l’icona sul campo di battaglia del nazionalismo russo e anti-ucraino, ha coltivato negli ultimi 16 mesi di guerra la sua immagine di uomo forte, grazie anche al ruolo, per certi versi essenziale, giocato sul terreno dalla Wagner. Sino ad ora VVP si è mostrato relativamente equidistante: da un lato Shoigu e Gerasimov, al netto di errori e difficoltà, non sono pedine sostituibili facilmente e non si tratta solo di una questione militare, ma politica; dall’altro Prigozhin non ha risparmiato critiche nemmeno al Cremlino, in modi nemmeno velati e dai toni poco oxfordiani, rimanendo comunque un perno di quella che viene chiamata ancora a Mosca ‘operazione speciale’. Putin non può e non vuole nemmeno fare a meno degli uni e degli altri, almeno per adesso, proprio perché paradossalmente pur minando da vari punti la stabilità del sistema, ne sono in qualche modo anche le travi portanti e togliendone una verrebbe meno quel contrappeso che concede al Cremlino di decidere sugli equilibri interni. Fino quando il conflitto non avrà preso per Mosca una piega chiara sarà difficile vedere cambiamenti nei gangli decisivi, poi le cose cambieranno.

Gli ostacoli sulla strada del disgelo tra Russia e Ucraina

I segnali positivi non mancano. E il 2020 può portare a un riavvicinamento. Ma la pacificazione resta lontana. Dalla questione del gas allo scambio di prigionieri: perché non bisogna essere (troppo) ottimisti.

Il 2019 si è concluso tra Russia e Ucraina con alcuni segnali positivi, che pur non riavvicinando i due paesi – in rotta di collisione dopo il regime change a Kiev, l’annessione della Crimea e l’avvio della guerra nel Donbass – hanno evitato di allargare il fossato in un momento in cui si poteva aprire una voragine e inghiottire ogni speranza di riposizione di un duello che caratterizzerà non solo l’anno appena iniziato, ma l’intero decennio.

IL CONTRATTO SUL GAS NON RISOLVE TUTTI I PROBLEMI

In primo luogo la questione del gas: dal primo gennaio è in vigore il nuovo contratto tra Mosca e Kiev, firmato in zona Cesarini, che evita un’ennesima guerra energetica e le prevedibili conseguenze per mezza Europa. In sostanza però è stata messa solo una pezza temporanea, valida per i prossimi cinque anni, e al di là dei dettagli (ripianamento dei debiti di Gazprom, riduzione del transito e ridefinzione delle tariffe) è evidente che si tratta solamente di una tregua che non appiana certo le contraddizioni di fondo. In attesa di vedere come andrà a finire il caso Nordstream 2, il progetto russo-tedesco per aggirare Europa centrale e Ucraina, che a causa delle sanzioni americane è bloccato. La partenza sarà ritardata, ma da quando potrà funzionare a pieno regime è ancora un’incognita.

IL DONBASS E LE RESISTENZE DEI FALCHI

In secondo luogo la questione del Donbass: a fine anno si è svolto lo scambio di prigionieri, concordato il 9 dicembre nel vertice di Parigi, in cui si sono incontrati per la prima volta faccia a faccia il presidente ucraino Volodymir Zelensky e quello russo Vladimir Putin. Non è stato semplice, viste soprattutto le resistenze dei falchi ucraini – l’ala radicale nazionalista composta in parlamento dal partito dall’ex presidente Petro Poroshenko e fuori dal variegato spettro della destra radicale e paramilitare – nel rilasciare alcuni membri delle forze speciali Berkut in carcere con l’accusa di aver partecipato al massacro di Maidan nel febbraio del 2014. Se alla fine l’ha spuntata la diplomazia e la volontà di dare uno slancio al processo di pace da troppo tempo in stallo, in realtà c’è poco da sorridere. Già negli accordi di Minsk firmati nel 2015 era in programma lo scambio totale di prigionieri: è arrivato con quasi cinque anni di ritardo e non si sa nemmeno se sia stato davvero completo. Fonti ucraine hanno parlato ancora di decine se non centinaia di persone rinchiuse nelle carceri delle repubbliche ribelli di Donetsk e Lugansk.

Il nodo principale rimane quello del voto nel Donbass, con tempistica e modalità che non solo non sono state chiarite, ma che guardando le differenti posizioni di Russia e Ucraina, rimangono un’utopia

Nel summit di Parigi è stata inoltre accennata una road map per intensificare nei prossimi mesi il processo di pacificazione, dalla demilitarizzazione della linea di contatto fino alle elezioni locali nel Donbass. Anche in questo caso non si tratta altro che di indicazioni riprese dagli accordi di Mnsk che sino ad oggi nessuno, da Mosca a Kiev passando per i leader separatisti che sottostanno in parte agli ordini di Putin e in parte giocano la loro partita, ha voluto veramente rispettare. Ad aprile è previsto un nuovo incontro in formato normanno (Putin, Zelensky e i due arbitri Angela Merkel ed Emmanuel Macron), ma le speranze che qualcosa cambi davvero sono al minimo. Il nodo principale rimane quello del voto nel Donbass, con tempistica e modalità che non solo non sono state chiarite, ma che guardando le differenti posizioni di Russia e Ucraina, rimangono un’utopia. Se a questo si aggiunge il fatto che il cessate il fuoco è tutt’altro che duraturo e il conflitto continua sottotraccia, con il numero dei morti che ha già oltrepassato le 13 mila unità, non è difficile intuire che l’ottimismo è fuori luogo.

A DETTARE LE REGOLE RIMANE IL CREMLINO

È vero comunque che qualcosa si è mosso, soprattutto sul versante ucraino, dopo l’elezione alla Bankova di Zelensky. Il nuovo presidente, sebbene continui sostanzialmente il corso del suo predecessore Poroshenko, ha aperto un minimo dialogo con Putin che si è mostrato più disposto all’ascolto. Zelensky è stato eletto a furor di popolo con la promessa di mettere la parola fine alla guerra ed è disposto a più compromessi rispetto a Poroshenko. A dettare le regole rimane comunque il Cremlino: la soluzione definitiva per il Donbass rimane lontana e i rapporti tra le due ex repubbliche sovietiche non potranno certo più tornare quelli di prima. Kiev ha scelto di stare sotto l’ombrello occidentale, con gli Stati Uniti a fare da guardaspalla, e Mosca farà sempre fatica ad accettarlo, tentando in ogni modo di condizionare il vicino, con cui i rapporti rimangono, anche solo per ragioni geografiche. L’Ucraina resta spaccata, tra il centro e le regioni dell’Ovest che tendono verso l’Europa e quelle orientali verso la Russia. Se alla guerra non verrà davvero posta la parola fine, il rischio è che il paese si possa ancora lacerare.

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Perché il nuovo summit sull’Ucraina si risolverà in un nulla di fatto

A tre anni di distanza, riprendono le trattative per il Donbass. Questa volta a Parigi si incontreranno Macron, Merkel, Putin e Zelensky. Lo stallo però è destinato a continuare. Un compromesso tra Kiev e Mosca pare impossibile, soprattutto senza un accordo tra Russia e Usa. L'analisi.

L’ultimo incontro nel cosiddetto “formato normanno” risale all’ottobre del 2016. A Berlino si riunirono con Angela Merkel e l’allora presidente francese François Hollande, Petro Poroshenko e Vladimir Putin, i quattro che si erano visti per la prima volta in Normandia nel 2014 alle celebrazioni per il 60esimo anniversario dello sbarco degli Alleati e che avevano poi sottoscritto gli Accordi di Minsk nel 2015 impostando la road map del processo di pacificazione nel Donbass.

Da allora un sostanziale stallo, con la diplomazia internazionale incastrata sulla crisi ucraina, il conflitto nel Sud-Est della repubblica ex sovietica di fatto congelato, il numero delle vittime salito a oltre 13 mila e quello dei profughi, interni e verso la Russia, nell’ordine dei milioni.

Una tragedia sparita dai radar dei media occidentali che solo saltuariamente torna sotto i riflettori, evidenziando ogni volta la situazione critica in un Paese nel cuore dell’Europa dove si combatte una vera proxy war, una guerra per procura, tra Russia e Stati Uniti con l’Unione europea a fare in sostanza da spettatrice.

IL PRIMO FACCIA A FACCIA TRA ZELENSKY-PUTIN

Il summit di lunedì 9 dicembre a Parigi, padrone di casa Emmanuel Macron, è dunque il tentativo di fare un passo in avanti per smuovere i macigni che hanno ostruito la via verso la pace. Operazione quasi impossibile, ma il solo fatto che gli attori principali si vedano direttamente deve essere valutato positivamente, anche se alla fine la montagna partorirà il solito ridicolo topolino. Oltre a Macron, l’altra novità del quartetto è rappresentata da Volodymyr Zelensky. Eletto quest’anno – ha sostituito Poroshenko, trionfatore della rivoluzione di Euromaidan finito però disgrazia dopo il mandato fallimentare alla Bankova – Zelensky sta tentando di trovare la via del compromesso con la Russia. Spalleggiato da Francia e Germania della sempre presente cancelliera Merkel, si incontrerà per la prima volta faccia a faccia con Vladimir Putin che oggi come allora ha ancora in mano i destini del Donbass: i separatisti filorussi possono infatti sopravvivere solo con l’aiuto di Mosca, cui basta il minimo sforzo per tenere in scacco l’Ucraina sul fronte sudorientale.

UN COMPROMESSO TRA MOSCA E KIEV È ANCORA MOLTO DIFFICILE

Zelensky, Putin, Merkel e Macron ripartono quindi dagli accordi di Minsk, vecchi ormai quasi cinque anni (sottoscritti nel febbraio del 2015, sulla base del primo patto bielorusso del 2014), e riproposti adesso nella cosiddetta formula Steinmeier, una versione semplificata sulla quale ci sarebbe un’intesa preliminare. Il condizionale è d’obbligo, visto che se i punti chiave sono più o meno chiari (status speciale alle regioni di Donetsk e Lugansk ed elezioni libere e monitorate), la tempistica è invece ancora nella nebbia.

Il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky.

In sostanza, ed è qui il duello tra Russia e Ucraina, Kiev vorrebbe ottenere il controllo del confine prima delle elezioni, mentre Mosca il contrario. Dato che vie di mezzo non ce ne sono, è assai improbabile che si arrivi presto a un compromesso accettabile da tutti, soprattutto da Zelensky che a casa propria è incalzato dai falchi nazionalisti (vasta fazione dentro e fuori il parlamento, quest’ultima numericamente minoritaria, ma più pericolosa) che invece di una soluzione diplomatica preferirebbero una suicida resa dei conti militare.

LA RUMOROSA ASSENZA DEGLI USA AL TAVOLO DIPLOMATICO

Nulla di nuovo perciò all’orizzonte, se non la volontà, diplomatica, di riaprire il dialogo dopo il silenzio di tre anni. La partita, inoltre, si gioca su più fronti: il quartetto normanno è uno specchietto per le allodole, dato che esclude in partenza uno dei player maggiori e decisivi, cioè gli Stati Uniti. Così come Barack Obama aveva delegato la mediazione ad Angela Merkel, Donald Trump si guarda bene dall’entrare direttamente in gioco, nonostante da Kiev Poroshenko prima e Zelensky poi abbiano cercato di tirarlo per la giacca per allargare il tavolo delle trattative. È evidente però che senza un accordo tra Russia e Stati Uniti non ci potrà essere alcuna vera e duratura soluzione del conflitto, al di là di qualche accorgimento cosmetico e temporaneo.

IL MACIGNO DELLE SANZIONI

Il lavoro sporco è riservato insomma tra Parigi e Berlino che si devono accollare oltretutto gli svantaggi della strategia delle sanzioni, volute in primo luogo da Washington, ultima però a subirne riflessi e contromisure. Nonostante i malumori fino a ora si è andati avanti su questa linea, anche se ora appaiono i primi tentativi reali di smarcamento guidati da Macron. Angela Merkel, che nonostante le pressioni a stelle e strisce mai ha mollato il progetto Nordstream, il gasdotto russo-tedesco sotto il Baltico che aggira l’Ucraina, ha sempre giocato su due fronti.

Attivisti dell’estrema destra ucraina manifestano davanti all’ufficio del presidente prima del summit del 9 dicembre.

L’UCRAINA È LACERATA SENZA SOVRANITÀ DAL 1991

L’Ucraina è insomma il teatro di braccio di ferro tra Cremlino e Casa Bianca che va oltre il nome dei rispettivi inquilini e dove l’Europa di Germania e Francia ha dimostrato la propria debolezza. A Kiev – dove dopo il cambio di regime del 2014 che ha lasciato immutato l’establishment politico-economico, l’onda verde di Zelensky sembra più incline adesso al compromesso con il sistema oligarchico che non alla sua distruzione – l’aiuto degli Stati Uniti e dell’Europa è necessario per non sprofondare nel baratro, ma non certo sufficiente per avere quella piena sovranità che gli ucraini attendono dal 1991, cioè dall’indipendenza dall’Urss. Il Paese è lacerato, la Crimea annessa dalla Russia e il Donbass de facto un protettorato di Mosca: impossibile ricomporre i cocci se Mosca e Washington non si metteranno d’accordo in qualche modo, anche sopra la testa di Kiev.

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Nordstream 2 e la geopolitica del gas russo

Russia e Germania hanno vinto la partita sul gasdotto, a discapito degli Stati centrali dell'Europa, in particolare dell'Ucraina. Mentre Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati con la Cina assetata di energia e per accaparrarsi le risorse dell'Artico.

Con il via libera della Danimarca a Nordstream 2, bloccato temporaneamente per questioni ambientali, si è chiusa, salvo imprevisti, la telenovela del gasdotto russo-tedesco sotto il Baltico.

Già in dirittura d’arrivo, si era incagliato nelle acque territoriali danesi e senza la luce verde di Copenaghen avrebbe dovuto allungare il percorso. Niente chilometri in più e altri ritardi, quindi, e così il progetto trainato dal colosso Gazprom dovrebbe chiudersi nei prossimi mesi e partire a pieno regime nel 2020.

Si tratta del raddoppio di Nordstream 1, già in funzione da quasi 10 anni, che porterà altri 55 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno direttamente in Germania. Aggirando da Nord l’Europa centrale e soprattutto l’Ucraina. Voluto con forza da Mosca e Berlino, Nordstream 2 è stato ostacolato fortemente da alcuni Stati dell’Ue, guidati dalla Polonia, e soprattutto dagli Stati Uniti, interessati a indebolire il legame energetico tra Russia ed Europa e sostituirsi almeno in parte a Mosca attraverso forniture di gas liquido proveniente da Oltreoceano.

UNA BATTAGLIA VINTA DA PUTIN E MERKEL

Se dunque è stata detta davvero l’ultima parola sui tubi della discordia, ad averla vinta sono stati in primo luogo Vladimir Putin e Angela Merkel, in questi ultimi mesi sotto pressione da Washington per lasciare incompiuto il lavoro fatto dal suo predecessore Gerhard Schröder, che all’inizio degli anni Duemila aveva detto il primo sì a Nordstream 1. A nulla sembra essere in definitiva servito il pesante lavoro di lobby americano, sia su Bruxelles che su singoli Stati europei: il Cremlino continua a essere in posizione di forza nella guerra del gas che va avanti, tra cambiamenti di scenari anche repentini, già da un paio di lustri, ma che vede come attori principali sul Vecchio continente sempre Russia e Germania. Se sul versante meridionale Mosca ha dovuto cambiare le carte, con l’abbandono di Southstream poi in parte sostituito con Blustream a fianco della Turchia, su quello settentrionale l’asse Mosca-Berlino non ha dato segni di cedimento, nonostante la crisi ucraina e le sanzioni occidentali, europee e statunitensi, che comunque non sono andate a toccare i progetti energetici.

KIEV E LA QUESTIONE DELLA DIPENDENZA UCRAINA DAL GAS RUSSO

Anche le minacce di ritorsioni economiche verso le aziende europee, non solo tedesche, ma anche olandesi, austriache, francesi e italiane, sono andate a vuoto. Putin e Merkel possono dirsi soddisfatti, Donald Trump un po’ meno, così come polacchi e baltici, insieme con gli ucraini, i perdenti. Sarà infatti Kiev a essere la più penalizzata dal doppio Nordstream, che in sostanza la taglierà fuori dal sistema di transito, o comunque da gran parte di esso. Addio quindi a 3 miliardi di dollari all’anno e la necessità a questo punto di dover affrontare la questione della dipendenza dal gas russo, in realtà non così complicata. Negli anni passati, già prima del regime change a Kiev e la guerra nel Donbass, il braccio di ferro tra Russia e Ucraina sulle questioni energetiche è stato ampiamente strumentalizzato da entrambe le parti per ragioni geopolitiche ed economiche, quando in realtà l’Ucraina, senza troppi sforzi come dimostrato proprio negli ultimi anni, potrebbe sensibilmente diminuire l’import di gas russo per il proprio fabbisogno interno.

Alcune tubazioni di gas in Ucraina (foto ©AP/Lapresse).

Gli interessi di Gapzrom e Naftogaz e degli oligarchi di riferimento, da una parte e dall’altra, hanno segnato i rapporti tra Mosca e Kiev nel settore più opaco e corrotto dell’economia di entrambi i Paesi. Yulia Tymoshenko, l’eroina della rivoluzione arancione del 2004, era stata sbattuta in galera dal presidente Victor Yanukovich nel 2011 con l’accusa di abuso di ufficio per aver firmato i contratti con Putin nel 2009, gli stessi che sono ancora in vigore fino alla fine di quest’anno e devono essere rinegoziati con la mediazione dell’Unione europea.

ORA MOSCA PUÒ APRIRE NUOVI MERCATI DEL GAS CON LA CINA

Tra battaglie legali e successi alterni davanti ai tribunali, Gazprom e Naftogaz sono di fronte a una nuova sfida sulla quale l’avvio di Nordstream pesa non poco. Il Cremlino ha anche stavolta il coltello dalla parte del manico, anche perché l’Ucraina, pur avendo ricevuto assicurazioni di massima da parte di Berlino e Bruxelles, è rimasta isolata e gli aiuti trasversali americani, non certo disinteressati, sono finiti in un disastro. Basti pensare al 2014 e all’entrata in scena di Hunter Biden, figlio dell’allora vicepresidente americano John, in Burisma, una delle maggiori società ucraine private energetiche.

Dal Cremlino intanto Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale

In un contesto che ha visto l’Ucraina post Euromaidan commissariata con addirittura tre ministri stranieri, tra cui l’americaca Natalia Yaresko alle Finanze, il terreno di conquista si era allargato: controllata inizialmente da un oligarca vicino a Yanukovich, il suo consiglio di amministrazione è diventato dopo il cambio di governo filoccidentale a Kiev una cabina di regia proamericana dove sono finiti tra gli altri l’ex presidente polacco Aleksander Kwasniewski e l’ex capo dell’antiterrorismo della Cia e vice ad di Blackwater (ora Academi) Joseph Cofer Black.

Xi Jingping e Vladimir Putin (foto LaPresse).

Paradossalmente, più che diventare un attore antitetico alla Russia, Burisma si è rivelata così solo il peccato originale sulla quale è scoppiato poi l’Ucrainagate che ha coinvolto Donald Trump. Ma questa è un’altra storia. Dal Cremlino intanto Putin, che con Nordstream ha infine stabilizzato il fronte occidentale, può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale, con la Cina assetata di gas, e la sfida alle risorse dell’Artico, dove per sicurezza è stata già piantata una bandiera russa.

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