Kenya, luci e ombre sui negoziati internazionali per l’adozione di un trattato contro l’inquinamento da plastica

Potrebbero essere passati sotto traccia, oscurati dalla prossima COP28 di Dubai, ma il 13 novembre si sono aperti a Nairobi, in Kenya i negoziati per un trattato globale contro l’inquinamento da plastica. Il summit, a cui partecipano 170 Paesi e la cui fine è prevista domenica, è il terzo di cinque sessioni nell’ambito di un processo avviato lo scorso anno dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), che punta a concludere i negoziati il ​​prossimo anno. ll futuro trattato potrebbe essere così adottato entro la metà del 2025. Il passaggio keniano è però già cruciale perché in questi giorni si discute per la prima volta davanti a una bozza di testo pubblicata a settembre.

Le richieste degli ambientalisti: ridurre entro il 2040 il 75 per cento della produzione di plastica

L’appuntamento non si tiene a caso in Kenya, Paese che guida da tempo la lotta all’inquinamento da plastica e che dal 2017 ha messo al bando la produzione, la vendita e l’utilizzo delle buste monouso. Il tema sembra stare parecchio a cuore al Sud del mondo anche a giudicare dalle manifestazioni che si sono svolte a Nairobi. I gruppi ambientalisti come Greenpeace chiedono una riduzione entro il 2040 di almeno il 75 per cento della produzione di polimeri plastici che derivano da combustibili fossili, per mantenere l’aumento della temperatura globale entro un grado e mezzo rispetto ai livelli pre industriali. Il presidente keniano William Ruto all’apertura dei lavori è parso fiducioso e ha definito l’appuntamento la prima tessera di un domino che porterà alla fine dell’inquinamento da plastica.

Kenya, luci e ombre sui negoziati internazionali per l'adozione di un trattato contro l'inquinamento da plastica
Rifiuti nella contea di Machakos, in Kenya (Getty Images).

Limiti globali vincolanti alla produzione o autonomia decisionale degli Stati: le divergenze sulla bozza del negoziato

La posta in gioco a Nairobi è molto alta. Trovare una quadra sarà un’impresa tutt’altro che facile viste le posizioni contrastanti soprattutto per quanto riguarda i freni alla produzione. La “bozza zero” sul tavolo dei negoziati definisce infatti tre opzioni per agire nell’ottica di ridurre la plastica vergine. La prima prevede un obiettivo concordato a livello globale. La seconda obiettivi globali di riduzione con restrizioni a livello nazionale, e la terza restrizioni decise da ogni Stato. Da una parte ci sono circa 60 nazioni dette “ad alta ambizione” che chiedono regole globali vincolanti per ridurre l’uso e la produzione di plastica. Questa posizione è sostenuta dai gruppi ambientalisti e appoggiata da Paesi come Kenya, Rwanda, Norvegia e Canada, ma anche dagli Stati membri dell’Unione europea. Che dal canto loro non brillano: nel 2021, ogni cittadino residente in Ue, ha generato in media quasi 36 kg di rifiuti in plastica. Di questi, solo meno della metà (14,2 kg) sono stati riciclati. Dall’altro lato invece c’è chi vorrebbe puntare maggiormente sul riciclo, l’innovazione, una migliore gestione dei rifiuti e determinare autonomamente i propri obiettivi. È il caso di potenze esportatrici di prodotti petrolchimici come Cina – responsabile nel 2021 del 32 per cento della produzione globale di materie plastiche – India e Arabia Saudita. Riad in particolare guida una coalizione che comprende anche Iran, Cuba e Bahrein, e che spingerà affinché il trattato si concentri sui rifiuti piuttosto che sui limiti alla produzione. Gli Stati Uniti – secondi inquinatori da plastica monouso al mondo con 17,2 milioni di tonnellate prodotte – che inizialmente volevano un trattato modellato sulla volontà dei singoli Paesi, hanno rivisto la propria posizione negli ultimi mesi tendendo ora verso piani nazionali basati però su obiettivi concordati. Si discuterà inoltre se il trattato debba anche stabilire standard di trasparenza per l’uso chimico nella produzione di plastica. Gli attivisti presenti a Nairobi sperano che le discussioni si concentrino sulla sostanza, cioè sulla riduzione della produzione di plastica, evitando lunghi e fumosi dibattiti su questioni procedurali, le stesse che hanno creato tensioni durante l’ultimo summit di Parigi lo scorso giugno. In quell’occasione l’Arabia Saudita aveva proposto che i colloqui procedessero solo con il consenso di tutti i Paesi e non a maggioranza. Il timore ora è che si raggiunga un compromesso al ribasso. Un trattato forte, con decisioni vincolanti a livello globale, porterebbe in futuro una diminuzione dell’uso di combustibili fossili.

Kenya, luci e ombre sui negoziati internazionali per l'adozione di un trattato contro l'inquinamento da plastica
Manifestazioni degli attivisti a Nairobi (Getty Images).

Oggi si producono 430 milioni di tonnellate di plastica, numero che potrebbe triplicare entro il 2060

Una cosa è certa: la priorità è mettere freno al più presto alla produzione di plastica. Questa è più che raddoppiata dall’inizio del secolo, raggiungendo i 430 milioni di tonnellate all’anno, un numero che potrebbe triplicare entro il 2060 se non si interviene. Ogni anno almeno 14 milioni di tonnellate finiscono negli oceani, mentre un numero ancora maggiore si accumula nelle discariche. Ancora solo il 9 per cento della plastica prodotta in tutto il mondo viene riciclata. Inoltre, secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), la plastica contribuisce al riscaldamento globale: nel 2019 la sua produzione è stata responsabile del 3,4 per cento di tutte le emissioni e puntare solo sul riciclo non bastare. L’organizzazione rileva infatti che le attuali infrastrutture per la raccolta e il riciclaggio della plastica sono del tutto insufficienti e che sono necessari più di 1.000 miliardi di dollari di investimenti solo nei Paesi non OCSE per evitare che la plastica si disperda nell’ambiente. Tuttavia, anche se a Nairobi finisse con un nulla di fatto, i negoziati proseguiranno il prossimo aprile in Canada per poi concludersi in Corea del Sud alla fine del 2024. E lì, volendo essere ottimisti, potrebbero essere spinti dagli esiti, tuttora incerti, della COP in partenza il 30 novembre. In ogni caso, sostengono i più ambiziosi, il modello dovrebbe essere il Protocollo di Montreal del 1987 per la protezione dello strato di ozono nell’atmosfera, che aveva tempistiche rigide e veloci, più che l’Accordo di Parigi sul clima del 2015, basato su patti nazionali volontari e obiettivi raramente raggiunti.