Chi è Ettore Prandini, il presidente di Coldiretti e i legami con Fratelli d’Italia

La carne coltivata può piacere o meno, ma di sicuro bisognerebbe coltivare meglio i modi. Lo scontro di piazza tra il focoso presidente di Coldiretti, Ettore Prandini, e i deputati di +Europa, Benedetto Della Vedova e Riccardo Magi, segnala che la situazione è un po’ sfuggita di mano. Perché se in democrazia e nelle istituzioni la forma è sostanza, non è edificante vedere dei qualificati rappresentanti politici e dei corpi economici intermedi accapigliarsi proprio davanti a Palazzo Chigi come adolescenti di borgata. Ora capiremo che ne sarà della denuncia inoltrata da Della Vedova e Magi al commissariato di Polizia di Montecitorio, ma di certo Prandini, un po’ in imbarazzo nel ricostruire i fatti, ha prima toccato vette di surrealtà situazionista e poi ha corretto il tiro in modo alquanto pasticciato.

 

Siamo infatti partiti con un «non c’è stata alcuna aggressione, solo una piccola spinta nell’allontanarlo», riferito a Della Vedova. E allora, volendo seguire il ragionamento dell’imprenditore agricolo, quale è la soglia di intensità entro la quale una spinta si può definire «piccola»? Poi siamo passati a un accenno di velata autocritica, parlando al Messaggero: «Certo, avrei potuto agire diversamente». Salvo infine negare qualunque contatto fisico con il parlamentare d’area radicale: «Come dimostrano le immagini, al di là di quello che è stato raccontato si è limitato tutto a un confronto verbale acceso. Come abbiamo sempre detto, nessuno ha alzato le mani». In ogni caso, all’ombra della Colonna Antonina, mentre a Montecitorio si approvava il ddl che vieta di produrre la carne cosiddetta “sintetica”, c’erano due manifestazioni contrapposte sul tema, a poche decine di metri l’una dall’altra. E Prandini non ha negato di essere andato lui incontro ai parlamentari di +Europa per uno scambio ravvicinato, giustificando il proprio atteggiamento con la natura dei cartelli «offensivi» sventolati dagli oppositori del partito liberal-centrista.

Chi è Ettore Prandini, il presidente di Coldiretti e i legami con Fratelli d'Italia
Ettore Prandini e Giorgia Meloni (Imagoeconomica).

L’asse tra Coldiretti e Fratelli d’Italia da cui proviene Borriello, capo di gabinetto di Lollobrigida

Dopo l’alterco, la maggioranza ha fatto quadrato attorno a lui e le opposizioni gli hanno del «bullo», del «fascista», dello «squadrista». Magi ha usato il fioretto: «Coltivatore di teppismo». Qualcuno ha osservato che il suo è l’atteggiamento di chi si fa forte in ragione della sponda politica del governo. «Prandini si è sentito legittimato ad aggredire nel momento del suo massimo potere visto che alla fine la Camera ha approvato il ddl», ha chiosato Della Vedova. E in effetti in piazza si è sentito un boato da stadio da parte degli agricoltori di Coldiretti quando si è saputo che la legge era passata. D’altronde la sigla, che dichiara 1,6 milioni di associati, è filogovernativa da sempre, ma adesso appare più influente e ascoltata che mai. Da Fratelli d’Italia in particolare e di rimando dall’esecutivo: la stessa premier Giorgia Meloni è stata il primo capo del governo a visitare il villaggio Coldiretti di Milano. Per non parlare del cognato d’Italia che guida il dicastero dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida: in nome della difesa della “sovranità alimentare” il ministero ha pure cambiato nome e l’attuale capo di gabinetto, Raffaele Borriello, viene dalle fila dell’associazione. Prandini e i suoi hanno vinto la battaglia contro la carne coltivata, ma fanno sentire il loro peso anche su altri dossier: dalle quote di migranti regolari per il lavoro agricolo ai biocarburanti, fino alla pesca a strascico, giusto per fare qualche esempio. Tanto che l’altro giorno lo stesso Lollobrigida ha dapprima condannato la “prodezza” del numero uno di Coldiretti, ma poi ha aggiustato un po’ il tiro: «Nessuna violenza, ha difeso gli agricoltori».

Chi è Ettore Prandini, il presidente di Coldiretti e i legami con Fratelli d'Italia
Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura, con Raffaele Borriello (Imagoeconomica).

Figlio di un ex ministro Dc, Prandini è in Coldiretti dal 2006 e ora qualcuno lo dà candidato alle Europee (ma lui smentisce)

E pensare che una volta l’associazione giallo-verde faceva capo alla Democrazia cristiana. Dopotutto Prandini è figlio di cotanto padre: Giovanni, ex ministro scudocrociato della Marina mercantile e soprattutto dei Lavori pubblici, finito nel tritacarne di Tangentopoli e poi prosciolto. Ettore invece ha 51 anni, tre figli, è bresciano di Leno, una laurea in giurisprudenza e fa l’imprenditore agricolo a Lonato del Garda, dove è stato assessore comunale per 10 anni in una Giunta di centrodestra. Lo avevano dato come probabile ministro dell’Agricoltura quando nacque l’esecutivo Meloni. Adesso qualcuno lo dà come possibile candidato alle Europee, ma lui smentisce tutto e dice di voler continuare a guidare l’associazione, magari per un altro mandato. Il suo percorso inizia nel 2006 al comando di Coldiretti Brescia. Sei anni dopo prende le redini della sigla nell’intera Lombardia. E dopo altri sei anni, nel 2018, ecco lo scettro a livello nazionale. Una sua foto in pullover scuro, a braccia conserte, spicca sulla home page dell’azienda vitivinicola Perla del Garda, che produce Vini Garda, Valtenesi e Lugana Dop, avviata nel 2006 con la sorella Giovanna. Ma Prandini è pure presidente dell’Osservatorio Agromafie e guida il Cda dell’Istituto sperimentale italiano Lazzaro Spallanzani.

Chi è Ettore Prandini, il presidente di Coldiretti e i legami con Fratelli d'Italia
Ettore Prandini e Matteo Salvini (Imagoeconomica).

La battaglia dell’associazione contro la carne sintetica e le presunte lobby

Lui dice di voler tutelare la qualità, la sicurezza alimentare e l’italianità contro l’assalto delle perfide multinazionali. Una visione in cui spesso è sottilissimo il confine tra realtà e complottismo naïf. Ma tant’è: anche sul tema della carne coltivata Coldiretti denuncia le pressioni della piovra internazionale, della lobby globale del profitto, una sorta di grande macchinazione dei “signori della carne”, che quindi, celiando, potremmo definire “demo-pluto-sarco-massonica”. Restando sul centrodestra a trazione agricola viene in mente che «è l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende». E però la citazione del Duce sembra onestamente sproporzionata: dopotutto il fattaccio dell’altro giorno si è verificato sotto il balcone di Palazzo Chigi, mica sul balcone di Palazzo Venezia.

La parabola di Minenna, da prof M5s all’arresto per corruzione

I suoi avvocati ora evidenziano che a lui «viene contestato» soltanto «un episodio nel marzo 2020: essersi adoperato in favore di un imprenditore vicino alla Lega per sbloccare una sua fornitura di mascherine ferme alla dogana di Milano in cambio di una entratura nel partito». Fatto sta che l’inchiesta di Forlì – quel «pactum sceleris» con l’ex leghista Gianluca Pini per essere accreditato nel Carroccio e assicurarsi la conferma alla guida dell’Agenzia – e gli arresti domiciliari sono, almeno per il momento, una brutta tegola sulla testa di Marcello Minenna, la cui parabola politica e istituzionale si fa sempre più travagliata. Il suo ultimo incarico, dal quale è stato adesso sospeso in via automatica, è quello di assessore regionale all’Ambiente, alle Partecipate, alla Programmazione unitaria e ai Progetti strategici nella Giunta calabrese di centrodestra guidata dal forzista Roberto Occhiuto. Il presidente azzurro lo ha subito difeso: «I fatti che gli vengono contestati dalla Procura di Forlì riguardano il periodo nel quale Minenna è stato direttore dell’Agenzia delle Dogane: sono certo che dimostrerà la sua estraneità».

La parabola di Minenna, da prof M5s all'arresto per corruzione
Marcello Minenna (Imagoeconomica).

Gli ‘incidenti’ di percorso all’Agenzia delle Dogane 

Tuttavia, ora viene messa a dura prova la sua capacità di reinventarsi come uno Zelig istituzionale per cavare il meglio dalle diverse stagioni politiche. Dopo essere stato uno degli alfieri dell’intellighenzia (economico-finanziaria) dell’area M5s, era riuscito a salvarsi anche durante il governo Draghi e poi aveva saltato il fossato per entrare nelle grazie del centrodestra. Anzi, si vociferava che aspirasse a un ruolo di rilievo in Cassa depositi e prestiti in quota Lega. Ambizioni che adesso rischiano di finire in frantumi, al netto della dovuta presunzione di innocenza fino a sentenza passata in giudicato. E così sembrano quasi bazzecole gli “incidenti di percorso” durante il suo mandato da direttore dell’Agenzia delle Dogane: come il caso delle auto sequestrate ai criminali e assegnate in modo discrezionale a politici, vip e manager senza bandi né aste pubbliche. Una pratica stigmatizzata dal Mef che poi dispose le restituzioni. E che dire della promozione a dirigente, svelata dal Foglio, con tanto di stipendio da 110 mila euro l’anno, per l’ingegner Lorenzo Monti, fratello di Nina Monti, editor del blog di Beppe Grillo e spin doctor del fondatore M5s?

L’anti-Vegas della Consob

Nato a Bari, 51 anni, Minenna è economista, commercialista, revisore dei conti, esperto di mercati finanziari e obbligazionari. Ha studiato alla Bocconi ed è stato professore nello stesso ateneo milanese e alla London Graduate School of Mathematical Finance, oltre a insegnare alla Sapienza e alla San Raffaele di Roma. Master alla Columbia University di New York, vanta anche trascorsi da editorialista del Sole24Ore, Wall Street Journal e Financial Times, oltre a fregiarsi spesso di essere stato allievo di Carlo Azeglio Ciampi. Dopo un avvio di carriera in Procter&Gamble, nel 1996 vince un concorso, entra in Consob e viene collocato all’Ufficio ispettorato. Con i progressi di carriera nell’authority di vigilanza dei mercati crescono anche le rogne: dal 2007 è responsabile dell’Ufficio analisi quantitative e pian piano si costruisce l’immagine di fustigatore che denuncia le scelte della Consob da lui bollate come anomale o comunque al servizio dei poteri finanziari vigilati. Diventa l’eroe delle associazioni dei consumatori e dei piccoli investitori. E al tempo stesso la spina nel fianco dell’allora presidente Giuseppe Vegas, già esponente di spicco di Forza Italia. Attorno a Minenna iniziano a pullulare voci maligne, indiscrezioni velenose, anche esposti in procura. Qualcuno lo definisce “la talpa” in Consob, per i suoi difensori si tratta invece di una enorme macchina del fango messa in moto a protezione dei soliti poteri forti e Milena Gabanelli lo considera addirittura «mobbizzato».

Consigliori del M5s sui temi economico-finanziari

È così che l’ex direttore delle Dogane diventa un punto di riferimento per il Movimento 5 stelle appena entrato in parlamento. Il partito di Grillo vede in lui il paladino dei piccoli investitori in Borsa contro i potentati che sono il bersaglio perfetto del M5s barricadero nell’età aurea del renzismo. Minenna assurge al ruolo di prezioso consigliori dei cinque stelle sui temi economici e finanziari, suggeritore della strategia sul Fiscal compact e per la creazione di una Banca pubblica degli investimenti. Ma veste i panni di chioccia pure nella battaglia grillina sulle perdite riferite ai derivati di Stato, crociata che consente al Movimento di chiamare in causa addirittura Mario Draghi in relazione ai tempi in cui era direttore generale del Tesoro. Senza scordare gli scandali della fusione Unipol-Fonsai e di Banca Etruria, rispetto ai quali la competenza tecnica di Minenna è pienamente al servizio della narrazione pentastellata contro i sancta sanctorum del presunto “inciucio” tra politica e alta finanza.

La parabola di Minenna, da prof M5s all'arresto per corruzione
Minenna con il generale Francesco Paolo Figliuolo (Imagoeconomica).

La chiamata nella Giunta Raggi e la rottura con la sindaca

Il personaggio divide, non piace a tutti: risultano poco apprezzati soprattutto certi eccessi egotistici e un fare azzimato e impettito, per quanto usualmente cortese e brillante. Ma il cinquestelle ha bisogno di saperi economici e tutto sommato non dispiace nemmeno la storica vicinanza di Minenna alla Cgil. Il padre dell’economista pugliese era stato un funzionario Anas e girava voce che fosse addirittura il riferimento di Massimo D’Alema nel colosso pubblico delle strade. Così, quando il M5s vince alle Amministrative del 2016, è Luigi Di Maio in persona a corteggiare e a volere Minenna nella Giunta del Campidoglio, accanto a Virginia Raggi. Anche perché l’ex Consob conosce già la macchina, essendo stato membro della segreteria tecnica del prefetto-commissario, Francesco Paolo Tronca. Inizialmente l’economista si ritrae, poi cede e prende la delega cruciale di assessore al Bilancio e alle Partecipate. Ma con la sindaca il feeling non scatta mai e dopo poche settimane, nell’estate 2016, Minenna lascia per divergenze sulla gestione delle aziende capitoline e per i veleni attorno al cosiddetto “raggio magico” e alla figura di Raffaele Marra. Le voci di palazzo hanno sempre favoleggiato di una sua cura maniacale per l’estetica e la forma fisica. Tanto che, si dice, anche nell’ufficio in Campidoglio Minenna non mancasse di fare regolarmente flessioni ed esercizi a corpo libero per tenersi tonico.

La parabola di Minenna, da prof M5s all'arresto per corruzione
Minenna con Virginia Raggi (Imagoeconomica).

Le tensioni all’interno dell’Agenzia delle Dogane

Il periodo alla guida delle Dogane, nominato dal secondo governo Conte nel 2020, è comunque quello più tribolato fino all’arresto di ieri. Oltre agli scivoloni già ricordati, Minenna è incappato infatti in un’indagine per abuso d’ufficio della procura di Roma. Stando a un esposto depositato in tribunale e alla Guardia di finanza, l’ex dirigente Alessandro Canali sarebbe stato licenziato per aver denunciato presunte irregolarità relative alle spese per viaggi e missioni istituzionali di Minenna, accompagnato dalla dipendente Patrizia Bosco. L’Agenzia aveva fatto sapere che l’ex dirigente era stato rimosso in ragione di una riorganizzazione già comunicata da tempo, ma Canali ha fatto ricorso d’urgenza alla sezione lavoro del tribunale di Roma contro la cancellazione del posto di vicedirettore che avrebbe determinato l’interruzione anticipata del suo incarico. Ricorso successivamente respinto. Il nome di Canali si intreccia anche ai difficili rapporti di Minenna con un altro dipendente delle Dogane. La procura di Roma, il 31 gennaio scorso, ha mandato all’ex direttore un avviso di conclusione delle indagini pure per minaccia e calunnia nei confronti dell’allora funzionario dell’ufficio antifrode Miguel Martina. Anche qui fanno capolino la pandemia e le mascherine anti-Covid: Martina, infatti, aveva compiuto diversi accessi alle banche dati perché stava indagando, su precisa delega dell’autorità giudiziaria, circa la regolarità delle forniture dei dispositivi approvvigionati dalla Protezione civile per somme molto ingenti. Quando Minenna seppe dell’attività di Martina, secondo l’ipotesi accusatoria, avrebbe iniziato a minacciarlo per fargli rivelare notizie coperte da segreto istruttorio. Anzi, il funzionario fu sottoposto a procedimento disciplinare e denunciato alla procura stessa per accesso abusivo alle banche dati istituzionali. Il Tribunale di Roma, però, ha poi accolto la richiesta di archiviazione dei pm. Inoltre, non ottenendo risultati per via diretta, Minenna avrebbe provato a rivolgersi ad altri dipendenti – come l’allora diretto superiore di Martina, Gianfranco Brosco – che comunque non avrebbero ottemperato alle sue richieste. Alla fine, il numero uno delle Dogane sarebbe in ogni caso riuscito nell’intento di ritirare le password di accesso, rimuovendo Martina e trasferendolo all’Ufficio giochi dell’agenzia. Adesso l’ultima tegola, con gli anni duri della pandemia e le mascherine che tornano alla ribalta. E l’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara, che in un’intervista a L’Identità dice sibillino: «Mutato il contesto politico di riferimento, viene meno quella iniziale rete di protezione che forse aveva consentito di indirizzare queste vicende sul classico binario morto. Penso che ora tante altre verità potranno venire a galla».

La parabola di Marta Fascina, da lady Arcore a semplice ex

Nella maionese di Forza Italia che rischia di impazzire dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi c’è un ingrediente che potrebbe avere difficoltà a trovare il suo posto. Eh sì, perché Marta Fascina, al secolo Marta Antonia, ora rischia grosso: senza più la “blindatura” (sentimentale e politica) del fondatore la “moglie per finta” pare destinata a esser fatta fuori dai nemici interni dell’ala che fa capo alla numero uno dei senatori azzurri, Licia Ronzulli, mentre il vicepresidente del partito (e futuro possibile reggente), Antonio Tajani,  è tutt’altro che propenso a esibire il petto per farle da scudo.

Da ‘angelo di Arcore’ alle ambizioni (deluse) da king maker azzurra

Eppure Fascina è uno di quei personaggi femminili che meriterebbero un film biografico del regista cileno Pablo Larraín o comunque un ritratto riflettuto sulla relazione tra le donne e il potere, relazione mediata dagli uomini forti che hanno avuto accanto. Nella variegata fenomenologia del gentil sesso che si è accompagnato al debordante Cavaliere e raramente ha evitato il destino di una condizione comprimaria, se non decorativa (si eccettuano certamente i casi di mamma Rosa e della primogenita Marina), Marta si era ritagliata un ruolo del tutto particolare. Ruolo che ha subito una profonda metamorfosi dalla controllatissima discrezione dei primi tempi alle ambizioni da king maker coltivate nell’ultima fase. Dal semplice chignon biondo alla Eva Kant alle posture da novella Eva Peron, insomma, il passo è stato breve. Troppo breve, secondo molti in Forza Italia. Lineamenti affilati e compostezza di gesso, per il gran rito funebre in Duomo l’ultima “lady B” è riuscita a sfoderare le lacrime delle grandi occasioni e ha mantenuto con disciplina lo sguardo catatonico sul feretro per quasi tutta la funzione religiosa. I figli più grandi, Marina e Pier Silvio, l’hanno presa più volte per mano, soprattutto Marina. Tuttavia,  questo presunto rapporto privilegiato pare non possa salvarla dal declino politico. Sul fronte dell’eredità economica, il testamento dovrebbe riservarle una dote intorno ai 90-100 milioni di euro, oltre a qualcuna delle ville del Cavaliere. Ma quella che più pesa è l’eredità politica e Fascina non pare in grado o comunque non ha avuto il tempo di costruirsi lo standing per dettare i giochi come stava provando a fare fino all’addio del sovrano di Arcore.

La parabola di Marta Fascina, da lady Arcore a semplice ex
Marta Fascina al funerale di Silvio Berlusconi con i figli del Cav, Marina, Piersilvio, Barbara ed Eleonora (Imagoeconomica).

Le passate tensioni con Tajani e il rapporto con Ronzulli

La quasi moglie e quasi leader ha intrattenuto rapporti altalenanti con Tajani. All’inizio aveva una relazione eccellente con la “ribelle” Ronzulli – che l’ha voluta fortemente alla corte di Silvio per far fuori Francesca Pascale – ma poi ha lavorato per estrometterla e ora, giocoforza, sarà costretta a subirne il ritorno, nel tentativo dei vertici del partito di includere e dare spazio a tutte le sensibilità e le correnti pur di non implodere. Appare dunque arduo immaginare una diarchia al femminile tra lei e Marina in supporto allo stesso ministro degli Esteri che avrà l’onere formale, e l’investitura sostanziale da Giorgia Meloni, di traghettare Fi oltre le colonne d’Ercole del voto europeo. Tra Fascina e Tajani, infatti, ci sono stati momenti di forte tensione nel recente passato. Il libro di Luigi Bisignani e Paolo Madron, I potenti al tempo di Giorgia (Chiarelettere), racconta ad esempio la sfuriata che l’attuale vicepremier riservò alla première dame a Villa Grande, la residenza romana del Cavaliere, all’indomani del duro scontro tra Fi e Fdi per l’elezione di Ignazio La Russa alla presidenza del Senato, su cui si riflettevano le tensioni legate alla formazione del governo. «Non devi allargarti, devi stare al tuo posto», avrebbe urlato Tajani prima di uscire nel parco della magione a sbollire la rabbia. «Ovviamente il Cavaliere non poteva certo permettere che la sua Marta venisse aggredita in quel modo. Ha preteso le scuse di Tajani, cosa che è avvenuta solo più di un’ora dopo il fattaccio», racconta Bisignani a Madron. Vedremo ora che ruolo vorranno giocare effettivamente i figli dell’ex premier (non sembra ci sarà un impegno diretto in politica, almeno a breve). Fatto sta che quella di Fascina sembra una figura destinata a scivolare in secondo piano. «A proposito, sai come la chiamavano nel partito prima che diventasse la First dame? “Matta” Fascina», rivela ancora Bisignani a Madron. Un soprannome che stride con il suo aplomb glaciale, benché poi talvolta la frizione sia scappata pure a lei, come quando insultò Renato Brunetta sul piano politico e anche per la sua statura all’indomani delle dimissioni da Fi dell’ex ministro che non aveva accettato la scelta del partito di sgambettare il governo Draghi.

La parabola di Marta Fascina, da lady Arcore a semplice ex
Silvio Berlusconi tra Marta Fascina e Marina nel febbraio 2022 (Imagoeconomica).

Da aspirante meteorina all’ufficio stampa del Milan e al Parlamento: l’ascesa di Fascina

Calabrese, di Melito di Porto Salvo, classe 1990, deputata alla seconda legislatura, Marta cresce a Portici, la stessa cittadina della esiziale (per la carriera politica di Berlusconi) Noemi Letizia. Studia poi a Napoli e si laurea in Filosofia alla Sapienza di Roma. Vuole fare politica e ci prova già nel 2013 con il Popolo della libertà, ma non entra nel consiglio comunale della stessa Portici. Ha ambizioni da giornalista, collabora anche con il Giornale, ma la svolta arriva con l’ingresso nell’ufficio stampa del Milan e la conoscenza con Adriano Galliani. Bisignani entra nel dettaglio: «Marta non aveva ancora 20 anni, e come tante ragazze sognava di fare strada nel mondo dello spettacolo. Per questo inviava di continuo il suo curriculum e i suoi book fotografici a Emilio Fede. Voleva candidarsi come “meteorina”, un’invenzione dell’allora direttore del Tg4 e che Berlusconi pare gradisse molto. Il giornalista la incontra durante una festa a Portici e resta colpito, oltre che dall’avvenenza, dalla maniacale conoscenza di tutte le formazioni del Milan. E la porta ad Arcore dal Cavaliere, che quel giorno le fa un provino sportivo. La interroga a bruciapelo chiedendole la formazione del Milan campione d’Italia 1967-68 ai tempi della presidenza di Franco Carraro. Provino brillantemente superato. Berlusconi la piazza all’ufficio stampa del Milan, che all’epoca è governato da Adriano Galliani in coabitazione con Barbara Berlusconi, cui questa Marta, che arriva lì imposta dal padre, proprio non piace, forse perché ne intravede le matrigne potenzialità. Per reazione, Marta trova la sponda di Galliani, che al contrario si mostra molto più protettivo».

Il quasi matrimonio con B e il tentativo di sistemare i suoi fedelissimi

Poi il Milan nel 2017 cambia proprietà e Fascina deve essere ricollocata. Intanto è riuscita a stringere un rapporto di fiducia, appunto, con Ronzulli che la spinge verso Berlusconi in funzione anti-Pascale. Nel 2018 passa il treno delle elezioni politiche, la giovane viene paracadutata in Campania e si ritrova in Parlamento. All’inizio della pandemia giunge l’ufficializzazione della relazione con il Cavaliere. Fascina inizia a essere sempre più presente accanto a Berlusconi, anche nei vertici politici e nei passaggi decisionali cruciali. La svolta ulteriore arriva a ridosso della battaglia dell’anno scorso per il Quirinale: Berlusconi viene ricoverato d’urgenza, e in gran segreto, al San Raffaele. Silvio resta per quasi due giorni privo di coscienza e al suo risveglio trova Marta che gli sta tenendo la mano. Allora le promette di sposarla. I figli, saputa la notizia, vanno su tutte le furie e Ronzulli si inventa la pantomima del quasi-matrimonio: è il marzo del 2022.

La parabola di Marta Fascina, da lady Arcore a semplice ex
Adriano Galliani e Gianni Letta al matrimonio simbolico di Marta Fascina e Silvio Berlusconi (Imagoeconomica).

Pier Silvio comunque non si presenta alla cerimonia di Villa Gernetto e manca pure Giorgia Meloni, mentre Matteo Salvini c’è. Fascina deve ingoiare il rospo, ma si fa risarcire in altro modo: alle elezioni del 2022 si ricandida, stavolta in Sicilia, e giustifica la nuova catapulta così: «La Sicilia è una regione meravigliosa, che conosco sin dai tempi, quando ero piccola, mio padre mi ci portava in vacanza». Stavolta, però, riesce a piazzare anche i suoi, a partire dall’ex compagno di scuola Tullio Ferrante, avvocato campano di San Giorgio a Cremano che viene eletto e subito spedito come sottosegretario al ministero delle Infrastrutture, nelle grinfie di Salvini ed Edoardo Rixi. Poi ci sono Alessandro Sorte e Stefano Benigni, i due astri nascenti lombardi che segnano il passaggio di potere da Ronzulli (che a sua volta aveva spodestato Mariastella Gelmini) a Fascina. La transizione era in corso e le manovre di Marta in pieno svolgimento. Il trapasso del Tutankhamon di Arcore potrebbe però stravolgere tutto un’altra volta. La vendetta è in preparazione e la quasi first lady difficilmente riuscirà a mantenere la presa sul partito, a cominciare dalle indiscrezioni che avrebbero voluto addirittura il padre Orazio candidato per Fi alle Europee. A livello parlamentare Fascina non ha presentato alcuna proposta di legge e nemmeno interrogazioni, interpellanze, mozioni o risoluzioni; d’altronde era in tutt’altre faccende affaccendata. In compenso ha co-firmato la proposta di bandiera per una Commissione parlamentare di inchiesta sull’uso politico della giustizia, un tormentone del trentennio berlusconiano. Un po’ pochino, certo, ma adesso senza più Silvio e un probabile futuro da “deputata semplice” ci sarà da iniziare a pedalare.

La parabola di Marta Fascina, da lady Arcore a semplice ex

Nella maionese di Forza Italia che rischia di impazzire dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi c’è un ingrediente che potrebbe avere difficoltà a trovare il suo posto. Eh sì, perché Marta Fascina, al secolo Marta Antonia, ora rischia grosso: senza più la “blindatura” (sentimentale e politica) del fondatore la “moglie per finta” pare destinata a esser fatta fuori dai nemici interni dell’ala che fa capo alla numero uno dei senatori azzurri, Licia Ronzulli, mentre il vicepresidente del partito (e futuro possibile reggente), Antonio Tajani,  è tutt’altro che propenso a esibire il petto per farle da scudo.

Da ‘angelo di Arcore’ alle ambizioni (deluse) da king maker azzurra

Eppure Fascina è uno di quei personaggi femminili che meriterebbero un film biografico del regista cileno Pablo Larraín o comunque un ritratto riflettuto sulla relazione tra le donne e il potere, relazione mediata dagli uomini forti che hanno avuto accanto. Nella variegata fenomenologia del gentil sesso che si è accompagnato al debordante Cavaliere e raramente ha evitato il destino di una condizione comprimaria, se non decorativa (si eccettuano certamente i casi di mamma Rosa e della primogenita Marina), Marta si era ritagliata un ruolo del tutto particolare. Ruolo che ha subito una profonda metamorfosi dalla controllatissima discrezione dei primi tempi alle ambizioni da king maker coltivate nell’ultima fase. Dal semplice chignon biondo alla Eva Kant alle posture da novella Eva Peron, insomma, il passo è stato breve. Troppo breve, secondo molti in Forza Italia. Lineamenti affilati e compostezza di gesso, per il gran rito funebre in Duomo l’ultima “lady B” è riuscita a sfoderare le lacrime delle grandi occasioni e ha mantenuto con disciplina lo sguardo catatonico sul feretro per quasi tutta la funzione religiosa. I figli più grandi, Marina e Pier Silvio, l’hanno presa più volte per mano, soprattutto Marina. Tuttavia,  questo presunto rapporto privilegiato pare non possa salvarla dal declino politico. Sul fronte dell’eredità economica, il testamento dovrebbe riservarle una dote intorno ai 90-100 milioni di euro, oltre a qualcuna delle ville del Cavaliere. Ma quella che più pesa è l’eredità politica e Fascina non pare in grado o comunque non ha avuto il tempo di costruirsi lo standing per dettare i giochi come stava provando a fare fino all’addio del sovrano di Arcore.

La parabola di Marta Fascina, da lady Arcore a semplice ex
Marta Fascina al funerale di Silvio Berlusconi con i figli del Cav, Marina, Piersilvio, Barbara ed Eleonora (Imagoeconomica).

Le passate tensioni con Tajani e il rapporto con Ronzulli

La quasi moglie e quasi leader ha intrattenuto rapporti altalenanti con Tajani. All’inizio aveva una relazione eccellente con la “ribelle” Ronzulli – che l’ha voluta fortemente alla corte di Silvio per far fuori Francesca Pascale – ma poi ha lavorato per estrometterla e ora, giocoforza, sarà costretta a subirne il ritorno, nel tentativo dei vertici del partito di includere e dare spazio a tutte le sensibilità e le correnti pur di non implodere. Appare dunque arduo immaginare una diarchia al femminile tra lei e Marina in supporto allo stesso ministro degli Esteri che avrà l’onere formale, e l’investitura sostanziale da Giorgia Meloni, di traghettare Fi oltre le colonne d’Ercole del voto europeo. Tra Fascina e Tajani, infatti, ci sono stati momenti di forte tensione nel recente passato. Il libro di Luigi Bisignani e Paolo Madron, I potenti al tempo di Giorgia (Chiarelettere), racconta ad esempio la sfuriata che l’attuale vicepremier riservò alla première dame a Villa Grande, la residenza romana del Cavaliere, all’indomani del duro scontro tra Fi e Fdi per l’elezione di Ignazio La Russa alla presidenza del Senato, su cui si riflettevano le tensioni legate alla formazione del governo. «Non devi allargarti, devi stare al tuo posto», avrebbe urlato Tajani prima di uscire nel parco della magione a sbollire la rabbia. «Ovviamente il Cavaliere non poteva certo permettere che la sua Marta venisse aggredita in quel modo. Ha preteso le scuse di Tajani, cosa che è avvenuta solo più di un’ora dopo il fattaccio», racconta Bisignani a Madron. Vedremo ora che ruolo vorranno giocare effettivamente i figli dell’ex premier (non sembra ci sarà un impegno diretto in politica, almeno a breve). Fatto sta che quella di Fascina sembra una figura destinata a scivolare in secondo piano. «A proposito, sai come la chiamavano nel partito prima che diventasse la First dame? “Matta” Fascina», rivela ancora Bisignani a Madron. Un soprannome che stride con il suo aplomb glaciale, benché poi talvolta la frizione sia scappata pure a lei, come quando insultò Renato Brunetta sul piano politico e anche per la sua statura all’indomani delle dimissioni da Fi dell’ex ministro che non aveva accettato la scelta del partito di sgambettare il governo Draghi.

La parabola di Marta Fascina, da lady Arcore a semplice ex
Silvio Berlusconi tra Marta Fascina e Marina nel febbraio 2022 (Imagoeconomica).

Da aspirante meteorina all’ufficio stampa del Milan e al Parlamento: l’ascesa di Fascina

Calabrese, di Melito di Porto Salvo, classe 1990, deputata alla seconda legislatura, Marta cresce a Portici, la stessa cittadina della esiziale (per la carriera politica di Berlusconi) Noemi Letizia. Studia poi a Napoli e si laurea in Filosofia alla Sapienza di Roma. Vuole fare politica e ci prova già nel 2013 con il Popolo della libertà, ma non entra nel consiglio comunale della stessa Portici. Ha ambizioni da giornalista, collabora anche con il Giornale, ma la svolta arriva con l’ingresso nell’ufficio stampa del Milan e la conoscenza con Adriano Galliani. Bisignani entra nel dettaglio: «Marta non aveva ancora 20 anni, e come tante ragazze sognava di fare strada nel mondo dello spettacolo. Per questo inviava di continuo il suo curriculum e i suoi book fotografici a Emilio Fede. Voleva candidarsi come “meteorina”, un’invenzione dell’allora direttore del Tg4 e che Berlusconi pare gradisse molto. Il giornalista la incontra durante una festa a Portici e resta colpito, oltre che dall’avvenenza, dalla maniacale conoscenza di tutte le formazioni del Milan. E la porta ad Arcore dal Cavaliere, che quel giorno le fa un provino sportivo. La interroga a bruciapelo chiedendole la formazione del Milan campione d’Italia 1967-68 ai tempi della presidenza di Franco Carraro. Provino brillantemente superato. Berlusconi la piazza all’ufficio stampa del Milan, che all’epoca è governato da Adriano Galliani in coabitazione con Barbara Berlusconi, cui questa Marta, che arriva lì imposta dal padre, proprio non piace, forse perché ne intravede le matrigne potenzialità. Per reazione, Marta trova la sponda di Galliani, che al contrario si mostra molto più protettivo».

Il quasi matrimonio con B e il tentativo di sistemare i suoi fedelissimi

Poi il Milan nel 2017 cambia proprietà e Fascina deve essere ricollocata. Intanto è riuscita a stringere un rapporto di fiducia, appunto, con Ronzulli che la spinge verso Berlusconi in funzione anti-Pascale. Nel 2018 passa il treno delle elezioni politiche, la giovane viene paracadutata in Campania e si ritrova in Parlamento. All’inizio della pandemia giunge l’ufficializzazione della relazione con il Cavaliere. Fascina inizia a essere sempre più presente accanto a Berlusconi, anche nei vertici politici e nei passaggi decisionali cruciali. La svolta ulteriore arriva a ridosso della battaglia dell’anno scorso per il Quirinale: Berlusconi viene ricoverato d’urgenza, e in gran segreto, al San Raffaele. Silvio resta per quasi due giorni privo di coscienza e al suo risveglio trova Marta che gli sta tenendo la mano. Allora le promette di sposarla. I figli, saputa la notizia, vanno su tutte le furie e Ronzulli si inventa la pantomima del quasi-matrimonio: è il marzo del 2022.

La parabola di Marta Fascina, da lady Arcore a semplice ex
Adriano Galliani e Gianni Letta al matrimonio simbolico di Marta Fascina e Silvio Berlusconi (Imagoeconomica).

Pier Silvio comunque non si presenta alla cerimonia di Villa Gernetto e manca pure Giorgia Meloni, mentre Matteo Salvini c’è. Fascina deve ingoiare il rospo, ma si fa risarcire in altro modo: alle elezioni del 2022 si ricandida, stavolta in Sicilia, e giustifica la nuova catapulta così: «La Sicilia è una regione meravigliosa, che conosco sin dai tempi, quando ero piccola, mio padre mi ci portava in vacanza». Stavolta, però, riesce a piazzare anche i suoi, a partire dall’ex compagno di scuola Tullio Ferrante, avvocato campano di San Giorgio a Cremano che viene eletto e subito spedito come sottosegretario al ministero delle Infrastrutture, nelle grinfie di Salvini ed Edoardo Rixi. Poi ci sono Alessandro Sorte e Stefano Benigni, i due astri nascenti lombardi che segnano il passaggio di potere da Ronzulli (che a sua volta aveva spodestato Mariastella Gelmini) a Fascina. La transizione era in corso e le manovre di Marta in pieno svolgimento. Il trapasso del Tutankhamon di Arcore potrebbe però stravolgere tutto un’altra volta. La vendetta è in preparazione e la quasi first lady difficilmente riuscirà a mantenere la presa sul partito, a cominciare dalle indiscrezioni che avrebbero voluto addirittura il padre Orazio candidato per Fi alle Europee. A livello parlamentare Fascina non ha presentato alcuna proposta di legge e nemmeno interrogazioni, interpellanze, mozioni o risoluzioni; d’altronde era in tutt’altre faccende affaccendata. In compenso ha co-firmato la proposta di bandiera per una Commissione parlamentare di inchiesta sull’uso politico della giustizia, un tormentone del trentennio berlusconiano. Un po’ pochino, certo, ma adesso senza più Silvio e un probabile futuro da “deputata semplice” ci sarà da iniziare a pedalare.

Simona Agnes, il dualismo con Soldi in Rai e le sfide del nuovo corso

Il potenziale dualismo nel consiglio di amministrazione della Rai con la presidente Marinella Soldi si profila all’orizzonte. Ma dalle parti di Viale Mazzini non è un mistero che Simona Agnes, membro dell’organo di amministrazione in quota Forza Italia, ambisca a prendere il posto della numero uno nominata da Mario Draghi in quota Partito democratico (e molto ben inserita nella filiera Paolo GentiloniMatteo Renzi). Tra l’altro, qualora Soldi dovesse rassegnare anzitempo le dimissioni, l’interim potrebbe ricadere sul consigliere più anziano, che appunto è Agnes.

I “draghiani senza Draghi” continuano a comandarsela nella tivù pubblica

La giornalista e manager, classe 1967, esperta di marketing e relazioni esterne, con competenze poliedriche che spaziano dal turismo fino alla cultura e alla sanità, è protetta e promossa dal sempiterno Gianni Letta, in nome degli interessi di Forza Italia in Rai naturalmente, ma anche – con sguardo più ampio – a vantaggio di quel blocco “Ursula” che va da Fi fino ai dem non schleiniani: i cosiddetti “draghiani senza Draghi” che continuano a comandarsela nella tivù pubblica, a dispetto della nuova stagione meloniana. In quest’ottica, Soldi e Agnes apparterrebbero persino allo stesso milieu, ma poi, si sa, le rivalità si costruiscono pure sulle dinamiche personali e sulla tattica di breve respiro, come gli ultimi voti in cda hanno dimostrato.

Simona Agnes, il dualismo con Soldi in Rai e le sfide del nuovo corso
Simona Agnes.

La rappresentanza di genere? Questa volta ha chiuso un occhio

E così, mentre Soldi si mette (un po’) di traverso, Agnes esulta per il nuovo corso: «Le nomine che abbiamo approvato delineano una Rai equilibrata, dinamica e pluralista». Certo, poi magari c’è qualche problemino circa la rappresentanza di genere, visto che su 21 direzioni soltanto sei sono guidate da donne. E fa specie che la consigliera in quota azzurra non abbia alzato un sopracciglio quando invece in una vecchia intervista sul Premio internazionale di giornalismo intitolato a Biagio Agnes, il suo illustre papà, ebbe a dire: «Purtroppo ogni anno le donne sono in minoranza e dobbiamo ricordarci che ci sono tante brave donne giornaliste». Eh sì, «dobbiamo ricordarci»: peccato le amnesie nei momenti cruciali.

Il padre Biagio ex direttore generale a Viale Mazzini 

Nata a Roma, ma di origini paterne irpine, Simona ha studiato legge alla Luiss, però ha la Rai nel dna. Biagio fu direttore generale a Viale Mazzini negli Anni 80, oltre che fondatore e direttore del Tg3. Erano i fasti (effimeri) del pentapartito e lui scalò le gerarchie della tivù di Stato mentre il suo amico e conterraneo Ciriaco De Mita prendeva il potere nella Democrazia cristiana. Peraltro il fratello Mario, lo zio di Simona, è stato presidente nazionale dell’Azione cattolica e direttore dell’Osservatore romano, questo per raccontare il background della figlia d’arte, cui tocca adesso l’amorevole e gelosa custodia della memoria del padre attraverso la guida della fondazione e l’organizzazione del premio a lui dedicati. Ma anche grazie alla reviviscenza nei palinsesti di un programma storico della Rai, inventato da papà Biagio e dedicato ai temi della sanità, come Check-up, che peraltro oggi vanta una singolare convenzione con la sola Regione Campania (con tanto di polemiche a Napoli per i 600 mila euro sborsati a Rai Com da Scabec, la in house che si occupa di cultura, per valorizzare la dieta mediterranea).

Simona Agnes, il dualismo con Soldi in Rai e le sfide del nuovo corso
Biagio Agnes.

Piaggio, Telecom e una carriera nella comunicazione

Quasi fosse una predestinata, Simona si è sempre mossa nel settore della comunicazione, delle pr e delle relazioni istituzionali ad alti livelli. Piaggio e Telecom le esperienze aziendali preminenti riportate in curriculum prima di mamma Rai. Ma Agnes ha costantemente sposato con sorvegliato savoir-faire le iniziative benefiche alla frivolezza del jet set nostrano, le campagne medico-scientifiche ai velluti della miglior hotellerie, le riflessioni impegnate contro la mafia alle terrazze patinate del generone romano. Perché, in fondo, da Telethon ai Vanzina è un attimo.

Sensibile agli interessi di chi fa concorrenza alla Rai…

Componente, tra l’altro, dei cda dell’Istituto Treccani e della Treccani Scuola, Agnes è donna di comunicazione ma non ama molto i social. Non ha un profilo Facebook, mentre il suo account Twitter è una zattera abbandonata alle correnti, visto che l’ultimo aggiornamento risale al 2018. Va appena meglio su Instagram, con una pagina privata che conta meno di 700 follower. Del padre dice che egli «difese la tivù pubblica». Una missione che appare oggi difficile da perseguire per chi dentro Viale Mazzini è in qualche modo sensibile agli interessi del primo editore televisivo in concorrenza con la Rai. Ma tant’è. «Tutta l’azienda aspetta da noi risposte importanti», dice adesso Simona. Vedremo, però se il buongiorno si vede dal mattino…

Fazio sul Nove, l’operazione di Caschetto e i link con La7

Il panorama editoriale televisivo italiano sembra una maionese impazzita. A livello di retroscena, più o meno smentiti, si rincorrono voci d’ogni sorta: Cairo-Rcs che secondo Dagospia sarebbe interessato ad acquistare Mediaset con una cordata di imprenditori, approfittando dell’inevitabile tramonto di Silvio Berlusconi; il gruppo Discovery che potrebbe a sua volta fiondarsi sul Biscione o che (in alternativa?) starebbe lavorando alla fusione tra Nove e La7. In ogni caso, il broadcaster che vanta 17 canali, oltre a Discovery+, tra cui Real Time, Food Network e soprattutto Nove, è sugli scudi in queste ore dopo il trasloco di Fabio Fazio e della squadra di Che Tempo Che Fa, “epurati” dalla nuova Rai targata Meloni.

Ufficiale, Fabio Fazio lascia la Rai e passa a Warner Bros. Discovery. Insieme a lui trasloca anche Luciana Littizzetto.
Fabio Fazio (Getty Images).

Il vero regista del trasloco di Fazio a Nove guidato da Araimo è Beppe Caschetto

Un passaggio che, secondo molti, accredita in prospettiva proprio Nove quale nuovo canale generalista in competizione con i principali che normalmente scorriamo sul nostro telecomando. Dopo la migrazione di Maurizio Crozza, l’accordo con Fazio è il secondo “colpo” che fa rumore per l’azienda della Warner Bros che in Italia è guidata da Alessandro Araimo, un passato in Fininvest nel suo ricco curriculum. Ma il vero demiurgo dietro le quinte dell’operazione, il nome che collega la satira non allineata all’intrattenimento dei “Belli ciao” sbeffeggiati da Matteo Salvini è quello di Beppe Caschetto, agente che non casualmente rappresenta gli interessi professionali sia di Crozza che di Fazio. E non solo. Basti pensare al gruppo di giornalisti che fa capo al Fatto Quotidiano: Marco Travaglio, Andrea Scanzi e Peter Gomez animano una piattaforma tv, Loft, i cui contenuti vanno proprio su Nove. E guarda caso si tratta di firme ospiti con regolarità nei vari talk de La7. Del gruppo faceva parte anche Francesca Fagnani con il suo Belve, prima di passare in Rai: la giornalista è anche compagna di Enrico Mentana, direttore del telegiornale della stessa emittente di Urbano Cairo.

Fazio sul Nove, l'operazione di Caschetto e i link con La7
Alessandro Araimo.

La scuderia del “Richelieu della tv” e i link tra Nove e La7

Dunque, i link che tengono insieme La7 e la Nove sono molto stretti. E Caschetto ne è protagonista di default, data la grande e capillare rete di artisti, giornalisti e autori tv che a lui fanno capo. Tutto iniziò 30 anni fa con Alba Parietti, ma oggi i nomi illustri in bouquet spaziano da Virginia Raffaele a Sabrina Ferilli, da Stefano De Martino ad Andrea Delogu, da Geppi Cucciari a Luca e Paolo, senza dimenticare Enrico Brignano, Maurizio Lastrico, Pif, Neri Marcorè, Brenda Lodigiani, Geppi Cucciari, Fabio Volo e Alessia Marcuzzi, quest’ultima ormai da 30 anni. Ma l’elenco potrebbe continuare: in portfolio c’è anche l’altro nome celebre di Che Tempo Che Fa, Luciana Littizzetto, oltre a Federico Russo, Enrico Bertolino, Maddalena Corvaglia o Miriam Leone per la sola carriera televisiva. E poi i giornalisti: Roberto Saviano, Lucia Annunziata, Giovanni Floris, Lilli Gruber, Corrado Formigli, Massimo Gramellini, Cristina Parodi, Salvo Sottile, Ilaria D’Amico, Daria Bignardi, Luca Telese, Enrico Lucci, Mia Ceran, Roberta Rei, Alice Martinelli, Domenico Iannaccone. E in passato anche Nicola Porro, che ora potrebbe sbarcare trionfante in Rai, magari proprio al posto di Fazio (ma Mediaset vuole tenerselo stretto). Non manca poi qualche autore tv di prestigio, come il braccio destro dello stesso Crozza, Andrea Zalone, e una delle “menti” sia di Crozza che di Fazio, Piero Guerrera che ha lavorato con gli stessi Luca e Paolo e Cucciari, oltre ad aver scritto per la coppia comica Ale e Franz che lo stesso Caschetto ha prodotto in teatro. Come si vede dai nomi, il talent scout emiliano, classe 1957, ha in mano un bel pezzo dei palinsesti Rai, ma forse è persino più “invasivo” nell’informazione de La7. Adesso sta lavorando dietro le quinte alla costruzione della Nove e l’arrivo di Fazio-Littizzetto (con i loro ospiti fissi della scuderia, da Saviano a Brignano) è un pezzo di questa strategia. Un tempo i fuoriusciti Rai erano tutti destinati ad approdare dalle parti di Cairo. Ora il vento potrebbe cambiare? Singolare coincidenza: la presidente della tv pubblica, Marinella Soldi, è stata in passato Ceo di Discovery. Oggi il suo voto è stato decisivo per il via libera al nuovo assetto meloniano in Rai e una fonte di Viale Mazzini chiosa: «Non farà resistenza perché tra l’altro è di area renziana e a Renzi non dispiace il nuovo vento che spira».

Perché la rai di Fuortes e Soldi parte in salita
Marinella Soldi, presidente Rai.

Il dominio di Caschetto, Presta, Ballandi e l’autoregolamentazione di Salini rimasta lettera morta

In tutti i casi c’è molto lavoro per la bolognese Itc 2000, azienda di famiglia Caschetto: una quindicina di dipendenti, appartiene a Beppe per il 70 per cento, mentre il restante 30 è diviso tra la moglie Rossana Mignani e la figlia Federica. Il fatturato 2021 è a quota 3,3 milioni di euro, in calo rispetto ai 4,6 milioni del 2019, ma i numeri non restituiscono il senso dell’influenza esercitata dal “Richelieu della tv”, come Caschetto viene definito. Un potere condiviso con l’altro grande curatore delle star, Lucio Presta, e con la società Ballandi che fu fondata dal celebre Bibi, scomparso cinque anni fa. Vedremo adesso a quali riassetti porterà il cambio di stagione in Rai. Certo, a Viale Mazzini ricordano come appaia lettera morta l’autoregolamentazione che risale ai tempi dell’ad Fabrizio Salini, secondo cui ciascun agente esterno non dovrebbe rappresentare più del 30 per cento degli artisti di una stessa produzione e non potrebbe curare gli interessi di personaggi tv impegnati in trasmissioni da lui prodotte. Insomma, Tele-Caschetto o Tele-Presta, c’è da giurarci, continueranno a farla da padroni.