È morto Terry O’Neill, il fotografo che raccontò la Swinging London

L'artista aveva lavorato con i più grandi artisti britannici degli Anni 60: dai Beatles sino ai Rolling Stones. Ma ha anche avuto l'onore di ritrarre la regina Elisabetta II.

Aveva raccontato negli Anni ’60 la Londra della musica diventando famoso grazie a celebri scatti fatti ai Beatles, ai Rolling Stones e a David Bowie. È morto all’età di 81 anni, dopo una lunga lotta contro il cancro alla prostata, il fotografo Terry O’Neill, celebre fotografo che raccontò la Swinging London. Negli ultimi anni aveva lavorato con per ritrarre Amy Winehouse, Nicole Kidman, Nelson Mandela e la regina Elisabetta II.

LA CARRIERA DI TERRY O’NEILL

Nato il 30 luglio 1938 a Romford, una città a Est di Londra, O’Neill ha iniziato a lavorare sin dagli Anni 50 come fotografo. Il suo primo lavoro fu in una unità fotografica dell’aeroporto londinese di Heathtrow. Il suo primo lavoro professionale lo ottenne a partire dagli Anni 60. Il primo soggetto a finire davanti al suo obbiettivo fu Laurence Oliver. Da lì in poi una grande escalation che lo portò a fotografare i più importanti gruppi londinesi del periodo. Dai Beatles sino ai Rolling Stones, passando per figure di spicco del panorama musicale come Elton John.

FOTOGRAFO PER IL CINEMA

Terry O’Neill è stato direttore della fotografia per il film del 1981 Mommie Dearest e per quello del 1987 Aria. Si tratta degli unici due lavori fatti per il grande schermo. Nel 2004 è diventato membro onorario della Royal Photographic Society mentre nel 2008 è anche uscito un libro che raccoglie i suoi scatti più belli. Una sorta di antologia del suo lungo lavoro fatto con molte star. I suoi lavori più belli sono invece custoditi presso il National Portrait Gallery di Londra. O’Neill è stato sposato tre volte e ha avuto tre figli.

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È morto Terry O’Neill, il fotografo che raccontò la Swinging London

L'artista aveva lavorato con i più grandi artisti britannici degli Anni 60: dai Beatles sino ai Rolling Stones. Ma ha anche avuto l'onore di ritrarre la regina Elisabetta II.

Aveva raccontato negli Anni ’60 la Londra della musica diventando famoso grazie a celebri scatti fatti ai Beatles, ai Rolling Stones e a David Bowie. È morto all’età di 81 anni, dopo una lunga lotta contro il cancro alla prostata, il fotografo Terry O’Neill, celebre fotografo che raccontò la Swinging London. Negli ultimi anni aveva lavorato con per ritrarre Amy Winehouse, Nicole Kidman, Nelson Mandela e la regina Elisabetta II.

LA CARRIERA DI TERRY O’NEILL

Nato il 30 luglio 1938 a Romford, una città a Est di Londra, O’Neill ha iniziato a lavorare sin dagli Anni 50 come fotografo. Il suo primo lavoro fu in una unità fotografica dell’aeroporto londinese di Heathtrow. Il suo primo lavoro professionale lo ottenne a partire dagli Anni 60. Il primo soggetto a finire davanti al suo obbiettivo fu Laurence Oliver. Da lì in poi una grande escalation che lo portò a fotografare i più importanti gruppi londinesi del periodo. Dai Beatles sino ai Rolling Stones, passando per figure di spicco del panorama musicale come Elton John.

FOTOGRAFO PER IL CINEMA

Terry O’Neill è stato direttore della fotografia per il film del 1981 Mommie Dearest e per quello del 1987 Aria. Si tratta degli unici due lavori fatti per il grande schermo. Nel 2004 è diventato membro onorario della Royal Photographic Society mentre nel 2008 è anche uscito un libro che raccoglie i suoi scatti più belli. Una sorta di antologia del suo lungo lavoro fatto con molte star. I suoi lavori più belli sono invece custoditi presso il National Portrait Gallery di Londra. O’Neill è stato sposato tre volte e ha avuto tre figli.

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Nuova giornata di scontri e proteste a Hong Kong

Gli studenti si sono asserragliati nel Politecnico di Kowloon. Ferito un agente colpito da una freccia al polpaccio. Lunedì scuole chiuse per motivi di sicurezza.

Ancora un giorno di scontri e proteste a Hong Kong. Anche domenica 17 novembre, come ormai avviene da mesi, i manifestanti sono scesi in piazza per protestare contro la governatrice Carrie Lam e la Cina.

Gli scontri più accesi sono avvenuti sulla penisola di Kowloon dove gli studenti del Politecnico hanno scagliato frecce e usato catapulte artigianali per lanciare oggetti contro la polizia. In questi tafferugli in agente è stato colpito a un polpaccio ed è stato trasportato d’urgenza in ospedale. L’uomo non sarebbe comunque in pericolo di vita. Per tutta risposta gli agenti hanno utilizzato gas lacrimogeni e idranti con liquido chimico blu. La polizia ha inoltre chiesto «a tutti i cittadini di non dirigersi verso l’area del PolyU, il Politecnico, perchè la situazione si sta rapidamente deteriorando» dato che la situazione sta sempre più degenerando.

A HONG KONG SCUOLE CHIUSE LUNEDÌ

A causa dei disordini l’Ufficio per l’Istruzione ha annunciato che è prevista la chiusura straordinaria delle scuole per la giornata di lunedì 18 novembre. Tutte le lezioni, spiegano ancora i portavoce dell’istituzione scolastica, dalla scuola materna fino alla scuola superiore sono state sospese per motivi che riguardano la sicurezza. Del resto molti studenti si sono uniti alla protesta. Molti sono anche degli adolescenti come testimoniano gli arresti fatti nelle settimane scorse e che riguardavano anche alcuni ragazzini di appena 12 anni.

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L’Iran scende in piazza contro il caro-benzina

Le proteste sono iniziate venerdì 15 novembre e non accennano a diminuire. Questo nonostante le minacce della polizia e il placet al rincaro della Guida suprema iraniana Ali Khamenei.

Continua la rivolta della benzina in Iran per protestare contro l’aumento dei prezzi del carburante annunciato dalla Repubblica islamica iraniana dopo le sanzioni economiche inflitte dagli Usa. Decine le città che da venerdì 15 novembre sono in rivolta dopo la decisione presa dal governo. Gli scontri più duri a Teheran dove negli scontri sono morte almeno due persone, anche se fonti non ufficiali e vicine ai manifestanti parlano di oltre una decina di vittime.

LA POLIZIA AMMONISCE I MANIFESTANTI

Intanto la polizia iraniana ha lanciato un monito a coloro che «creano insicurezza e disordine». Il riferimento è alle manifestazioni degli ultimi due giorni che ha provocato diversi disordini in tutto il Paese. Le forze dell’ordine hanno annunciato che identificheranno e affronteranno «con decisione i provocatori e i capi che hanno creato le tensioni». Una minaccia concreta portata avanti dal portavoce della polizia, il generale Ahmad Nourian.

KHAMENEI SOSTIENE L’AUMENTO DELLA BENZINA

In questo clima di forti tensioni spicca la voce di Ali Khamenei. La Guida suprema iraniana ha infatti manifestato il suo appoggio alla decisione governativa di razionare e aumentare i prezzi della benzina. Lo ha fatto attraverso un discorso riportato dalla televisione di Stato. Khamenei ha anche additato i manifestanti come banditi poiché responsabili degli incidenti avvenuti durante le proteste di piazza. «Io non sono un esperto, ma poiché la scelta è stata fatta dai capi dei tre rami istituzionali, la sostengo», ha detto. Per poi aggiungere: «Le proteste violente non risolveranno niente, ma porteranno solo insicurezza nel Paese»

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Morti e feriti negli scontri in Bolivia tra pro Morales e polizia

Otto vittime e almeno 75 feriti nei disordini scoppiati vicino a Cochabamba. Il presidente dimissionario chiede una riunione nazionale per pacificare il Paese.

Otto persone sono state uccise e almeno 75 sono rimaste ferite negli scontri tra manifestanti pro-Evo Morales e soldati e polizia nella città boliviana di Sacaba, vicino a Cochabamba, nel Centro del Paese. Lo ha riferito il direttore dell’ospedale cittadino, Guadalberto Lara. La maggior parte delle vittime – ha aggiunto – sono è stata raggiunta da colpi di arma da fuoco. Migliaia di manifestanti, in gran parte indigeni, si erano radunati a Sacaba fin dal mattino, protestando pacificamente. Gli scontri sono scoppiati quando un folto gruppo di manifestanti ha tentato di attraversare un checkpoint militare vicino a Cochabamba, dove sostenitori e avversari di Morales si sono affrontati per settimane.

IL NUOVO APPELLO DI MORALES

Da parte sua, Morales ha rivolto un nuovo appello a una «grande riunione nazionale» per pacificare la Bolivia anche se, ritiene, al punto a cui è giunta la situazione, le proteste in corso non si fermeranno fino a espellere «la dittatura» dal palazzo di governo. Intervistato dalla Cnn in spagnolo, Morales ha ricordato che «martedì ho proposto una grande riunione nazionale con autorità del massimo livello». E ora, ha aggiunto, “ripeto che il modo migliore per pacificare il Paese è rendere possibile una riunione con Carlos Mesa, (Luis Fernando) Camacho, Evo, i movimenti sociali e anche il governo ‘de facto’ di Jeanine Anez».

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La Bolivia tra «golpe» e rischio di guerra civile dopo Morales

La neo presidente Añez promette nuove elezioni. Ma intanto giura sulla Bibbia, estromette gli indios e si circonda di falangisti come il "Bolsonaro di La Paz", Camacho. La società è spaccata, mentre c'è chi parla di colpo di Stato. Il punto.

L’autoproclamata presidente ad interim Jeanine Añez, ex vice senatrice dell’opposizione, afferma di voler essere uno «strumento di inclusione e di unità» per la Bolivia. Formalmente non è un’usurpatrice: ha assunto il ruolo in linea di successione, dopo la fuga in Messico di Evo Morales, e dopo le rinunce del vice di Morales, dei presidenti di Camera e Senato e dell’altro numero due del Senato. Ma nel gabinetto di transizione non ha incluso gli indios che sono tra il 40% e il 50% della popolazione, il 70% nelle zone rurali e più povere. Añez ha anche giurato sui Vangeli, commentando che la «Bibbia torna a Palazzo» e che il «potere è Dio». Nonostante dal 2006 al 2008 la medesima avesse fatto parte della Costituente voluta da Morales – primo presidente indigeno della Bolivia – che rese laica la Costituzione e diede più autonomia agli indigeni diseredati. Colmando così un vuoto di potere, la Bolivia si destabilizza ancora.

Bolivia Morales proteste Añez
Gli indios di Bolivia dalla parte di Morales. (Getty).

L’ÉLITE RAZZISTA DI SANTA CRUZ

Migliaia di indios protestano a La Paz in difesa dei diritti conquistati, pronti alla «guerra civile». Añez è una 52enne potente ed emancipata: avvocato, divorziata, è stata anche dirigente. Ha condotto campagne contro la violenza di genere ed ecologista, ma appartiene alla destra boliviana estrema e ultra-religiosa. Le viene attribuito un tweet razzista del 2013 (che avrebbe cancellato) dove si augurava un «Paese liberato dai riti satanici indigeni». Anche le manifestazioni esplose contro la rielezione di Morales sono cariche di tensioni sociali: su internet circolano video di manifestanti che incendiano le bandiere wiphala degli indigeni. Tra gli agitatori delle rivolte c’è il fondamentalista cristiano Luis Fernando Camacho: 40 anni, avvocato come Añez, dell’élite di Santa Cruz ostile agli indiosi, ha promesso all’opposizione che «Pachamama non tornerà al palazzo presidenziale», alludendo sprezzante alla madre terra venerata dagli andini.

La Cruz è un bastione di gruppi dichiaratamente xenofobi come la Falange socialista boliviana


Il New York Times

CAMACHO E I FALANGISTI

Come per Añez, «la Bolivia appartiene a Cristo». Camacho, milionario e massone, è emerso come il «Bolsonaro della Bolivia» leader delle proteste. Anche lui è accusato di fascismo, non a caso il Brasile è tra i primi governi con gli Usa a riconoscere la nuova presidenza, che invece ha rotto le relazioni dimplomatiche con il Venezuela. Camacho ha militato a lungo nell’Organizzazione giovanile cruceñista dell’estrema destra religiosa, un movimento falangista squadrista. Il partito di Añez, Unità democratica, è di ispirazione liberale, sulla carta più moderato. Ma ha egualmente come roccaforte Santa Cruz: il leader è il governatore locale Ruben Costas, l’elettorato è la borghesia della regione ricca di idrocarburi che nel 2008 tentò la secessione attraverso il Comitato civico di Camacho, per tornare in possesso delle risorse nazionalizzate da Morales. Il New York Times che definisce Camacho il leader delle rivolte, quegli anni descriveva Santa Cruz come «ancora un bastione di gruppi dichiaratamente xenofobi quali la Falange socialista boliviana».

Bolivia Morales proteste Añez
Jeanine Áñez giura sulla Bibbia come presidente della Bolivia. (Getty)

MORALES ATTACCATO AL POTERE

Il movimento boliviano franchista fu tra i primi in America Latina a dare rifugio a criminali nazisti come Klaus Barbie, ricollocato con l’operazione Condor della Cia per contribuire – come altri fascisti italiani – ai golpe e collaborare con le dittature sanguinarie sudamericane. Le contiguità dell’opposizione – e delle Chiese – con la Bolivia “nera” del passato sono una realtà, Morales e gli indios accusano Añez e Camacho di «golpe di polizia». Tuttavia anche l’ex presidente, in carica dal 2006, ha peccato della «tirannia» rimproverata. Nel 2016 Morales tentò – e perse – un referendum per una modifica della Costituzione che gli permettesse un quarto mandato. Ha potuto ricandidarsi alle Presidenziali del 20 ottobre 2019 grazie al via libera della Corte costituzionale a restare al potere fino al 2025. ll risultato fin troppo perfetto del primo turno (47% contro il 36,5% dello sfidante Carlos Mesa: i 10 punti in più che bastavano per evitare il ballottaggio) ha scatenato le contestazioni.

La polizia avrebbe sbarrato l’ingresso in parlamento ai socialisti di Morales

SENZA QUORUM DEL PARLAMENTO

Añez dichiara come «solo obiettivo» permettere nuove elezioni. E tra i ministri minori fatti giurare in un secondo tempo c’è una indios titolare del Turismo. Nondimeno la nuova presidente ha indossato la fascia di Morales senza aver raggiunto il quorum in parlamento né prestato il giuramento di rito. «Tutti gli sforzi per garantire la presenza dei parlamentari» sarebbero stati fatti, il Movimento socialista di Morales avrebbe «disertato l’aula». Contro Añez che, assunta la presidenza vacante del Senato, ha di conseguenza preso l’interim del presidente vacante per «pacificare il Paese e andare a nuove elezioni». La versione dei socialisti è diversa: all’ex presidente del Senato Adriana Salvatierra, fedelissima di Morales, la polizia avrebbe sbarrato l’ingresso in parlamento. Mentre Camacho e i suoi uomini, in un Sudamerica caldissimo, erano visti salire con Añez al palazzo presidenziale.

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Nella prima telefonata Trump e Zelensky parlarono di… Miss Universo

La Casa Bianca ha diffuso il contenuto della conversazione del 21 aprile. Battute sulla bellezza delle ucraine e ironia per l'inglese del presidente di Kiev. Ma nessun riferimento all'indagine contro i Biden. E intanto al Congresso proseguono le audizioni nell'inchiesta sull'impeachment.

Anche l’altra telefonata ora è pubblica. E di politica o intrecci oscuri qui non si parla. La Casa Bianca, come annunciato, ha diffuso la trascrizione della prima chiamata tra Donald Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. La conversazione risale al 21 aprile 2019, subito dopo l’elezione di Zelensky, quattro mesi prima della seconda telefonata tra i due leader al centro dell’indagine per impeachment. Quella cioè in cui The Donald chiese al suo omologo ucraino di lavorare col segretario della Giustizia William Barr per l’apertura di un’indagine a carico di Joe Biden e del figlio.

CHIAMATA DALL’AIR FORCE ONE

Trump chiamò Zelensky dall’Air Force One nel pomeriggio del 21 aprile per congratularsi per la vittoria dell’ucraino alle Politiche. La controversa conversazione del 24 luglio, quella denunciata dalla talpa e che ha innescato l’indagine che potrebbe portare all’impeachment di Trump, avvenne mentre il tycoon era nello Studio Ovale. La trascrizione desecretata e rilasciata dalla Casa Bianca consta di tre pagine.

L’INVITO ALLA CASA BIANCA: «COSÌ PRATICO L’INGLESE»

Trump il 21 aprile chiamò Zelensky mentre era in volo e non fece alcun cenno a possibili indagini di Kiev sui Biden o sui democratici Usa. Ma, rivolgendosi al neo presidente, il tycoon si complimentò con l’Ucraina ricordando quando era proprietario di Miss Universo: «Eravate sempre ben rappresentati…», affermò Trump provocando la risata di Zelensky. Altre battute poi quando quest’ultimo fu invitato alla Casa Bianca e rispose: «Bene, così pratico l’inglese».

Penso che farete un buon lavoro, ho molti amici in Ucraina che la conoscono e a cui lei piace

Trump a Zelensky

Nel corso della conversazione, durata 16 minuti, non si accennò ad alcun contenuto di natura politica. Trump disse: «Penso che farete un buon lavoro, ho molti amici in Ucraina che la conoscono e a cui lei piace. Abbiamo molte cose di cui parlare». Zelensky da parte sua ringraziò The Donald decine di volte. «Cercheremo di fare il nostro meglio e abbiamo lei come un grande esempio», affermò il leader ucraino, invitando a sua volta Trump a Kiev per l’inaugurazione della nuova presidenza: «So quanto è impegnato, ma se per lei è possibile venire alla cerimonia inaugurale sarebbe grande». Per poi aggiungere: «Non ci sono parole per descrivere quanto bello è il nostro Paese, quanto gentile, calorosa, amichevole è la nostra gente, quanto saporito e delizioso è il nostro cibo. Ma il modo migliore per scoprirlo è venire qui».

THE DONALD SEGUE IN TIVÙ L’INCHIESTA

Intanto al Congresso americano ha continuato a occuoparsi dell’indagine che potrebbe portare Trump all’incriminazione. Il presidente ha guardato in tivù le battute iniziali dell’audizione, dicendosi pronto a seguire solo l’intervento di apertura di Devin Nunes, il repubblicano della commissione di intelligence della Camera, dove sono avvenute le audizioni pubbliche. Secondo il portavoce della Casa Bianca, Stephanie Grisham, «il presidente dopo aver visto Nunes trascorrerà il resto della giornata a lavorare duramente per gli americani».

L’ex ambasciatrice Marie Yovanovitch. (Ansa)

L’EX AMBASCIATRICE ALL’ATTACCO

Evidentemente però poi The Donald si è intrattenuto ancora. Ascoltando anche la testimonianza dell’ex ambasciatrice americana a Kiev, Marie Yovanovitch. Che ha detto: «La strategia politica degli Usa sull’Ucraina è stata gettata nel caos». Yovanovitch, che fu silurata nell’aprile del 2019 perché ritenuta un ostacolo alla linea della Casa Bianca, ha spiegato di essersi sentita «minacciata» dalle parole di Trump che, parlando co Zelensky, la descrisse come una «bad news», una cattiva notizia, e assicurò che presto se ne sarebbe andata. «Nel leggere la trascrizione della telefonata ero scioccata e devastata», ha confidato.

Ha fatto male ovunque e il nuovo presidente ucraino mi parlò male di lei. Un presidente ha tutto il diritto di nominare gli ambasciatori che vuole

Trump sull’ex ambasciatrice Yovanovitch

E The Donald, che probabilmente dunque la stava guardando, ha risposto alla sua maniera, su Twitter: «Ha fatto male ovunque e il nuovo presidente ucraino mi parlò male di lei. Un presidente ha tutto il diritto di nominare gli ambasciatori che vuole».

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La crisi politica diventa economica: il Pil di Hong Kong a -1,3%

La produzione di ricchezza al ribasso per la prima volta dalla crisi finanziaria del 2009.

Hong Kong vede un 2019 con stime al ribasso del Pil a -1,3%, negative per la prima volta dalla crisi finanziaria del 2009: sono le previsioni aggiornate dal governo alla luce delle proteste pro-democrazia in corso nell’ex colonia da giugno e diventate sempre più violente nelle ultime settimane. Il governo ha rilasciato anche la lettura finale del Pil del terzo trimestre, in contrazione del 3,2% congiunturale e del 2,9% annuo, in linea con i dati preliminari.

IN RECESSIONE PER LA PRIMA VOLTA DAL 2009

La revisione al ribasso del Pil di oggi è la seconda del suo genere fatta quest’anno: dal 2-3% di crescita iniziale, ad agosto c’è stata la prima limatura allo 0-1%, in gran parte per il contesto economico generale diventato più difficile con lo scontro commerciale tra Usa e Cina. Con i dati definitivi sul terzo trimestre (-3,2% congiunturale e -2,9% annuale) Hong Kong è ufficialmente finita in recessione tecnica. A inizio mese, il segretario alle Finanze Paul Chan ha messo in guardia che ulteriori tagli alla crescita potevano essere “inevitabili” per il 2019 in scia alle turbolenze vissute dall’ex colonia da oltre 5 mesi, con “la grande possibilità” che per l’intero anno la città sarebbe finita in recessione, per la prima volta dal 2009.

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La Russia ha preso possesso di altre due basi Usa in Siria

Le forze di Mosca sono entrate in due ex avamposti americani nell'area: nella città di Metras e vicino a Kobane. E a Qamishli inizia la costruzione di un'altra base.

Gli elicotteri militari russi sono arrivati in una ex base statunitense vicino alla città siriana di Metras. Lo riportano i filmati trasmessi dal canale televisivo Zvezda del ministero della Difesa russo.

Il filmato mostra i militari russi che sbarcano da elicotteri Mil Mi-8 dopo che diversi mezzi, tra cui anche un Mi-35, sono atterrati. I soldati hanno poi issato la bandiera russa. La polizia militare ha poi fatto sapere di aver preso «sotto la sua protezione» un’altra ex base Usa, nei pressi di Kobane.

«La nostra unità ha preso l’aerodromo e la base sotto la sua protezione», ha dichiarato la polizia militare per quanto riguarda la struttura di Kobane, «e sta pattugliando il perimetro dell’area, sorvegliando le posizioni di tiro». «I genieri stanno verificando la presenza di esplosivi o mine nella struttura: non sappiamo quali trappole e sorprese gli ex proprietari potrebbero essersi lasciati alle spalle», ha affermato un ispettore militare, citato da Interfax.

INIZIATA LA COSTRUZIONE DI UN’ALTRA BASE A QAMISHLI

L’aerodromo era stato precedentemente occupato dalle forze governative siriane. Gli elicotteri dell’esercito russo sono stati poi schierati nella struttura per impedire alle forze statunitensi di danneggiare la pista. Il 14 novembre Mosca aveva annunciato di aver iniziato a costruire una base per elicotteri nell’aeroporto civile nella città di Qamishli, precedentemente usato dalle forze americane.

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Il commissario dell’Ungheria rimandato dall’europarlamento

Várhelyi, designato per l'Allargamento, non ha superato l'audizione a Bruxelles. Bocciato da socialisti, liberali, Verdi e sinistra. Altro introppo sulla strada dell'insediemento di Von der Leyen.

Rimandato. Il commissario designato dall’Ungheria per l’Allargamento, Olivér Várhelyi, non ha superato l’esame nell’audizione del 14 novembre al parlamento europeo. È mancata la maggioranza a favore dell’esponente del Partito popolare europeo (Ppe) nella riunione dei coordinatori della commissione. Al commissario designato devono essere posti ulteriori quesiti.

SOTTO ESAME ANCHE IL FRANCESE BRETON E LA ROMENA VALEAN

Sono stati socialisti, liberali, Verdi e Gue (Sinistra unitaria europea) ad aver determinato la bocciatura di Várhelyi. Al parlamento europeo sono in programma nella stessa giornata le audizioni di tre commissari designati da Ungheria, Francia e Romania. Oltre a Várhelyi tocca al francese Thierry Breton per il mercato Interno e poi alla romena Adina Valean con il portafoglio ai Trasporti.

IN ATTESA DEL VOTO SULL’INTERA COMMISSIONE

Se i tre commissari fossero stati “promossi” alle audizioni, la plenaria di Strasburgo il 27 novembre si sarebbe espressa con un voto sulla Commissione in toto in modo che Ursula von der Leyen potesse insediarsi a Palazzo Berlaymont a inizio dicembre. Ma sull’ungherese è subito arrivato un intoppo.

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Le novità sulla strage del volo MH17: legami tra russi e ribelli del Donbass

Il team internazionale a guida olandese che investiga sull'abbattimento del volo della Malaysia Airlines ha pubblicato delle intercettazioni che mostrano i contatti tra funzionari di Mosca e ribelli separatisti.

Nuova svolta nell’intricato caso dell’abbattimento del volo Malaysia Airlines 17. In particolare sarebbero stati individuati stretti legami tra la Russia e i ribelli del Donbass testimoniati da nuove intercettazioni telefoniche tra funzionari russi e alcuni leader separatisti.

Le conversazioni sono state pubblicate dal Team investigativo internazionale a guida olandese (Jit) sulla tragedia del Boeing malese abbattuto nei cieli del Donbass in guerra nell’estate del 2014. Le telefonate risalgono alle settimane precedenti alla sciagura in cui morirono 298 persone. L’aereo fu abbattuto da un missile di fabbricazione russa.

Lo scorso giugno, gli investigatori hanno accusato quattro persone per la tragedia aerea: tre sono cittadini russi e – secondo gli inquirenti – sono o sono stati agenti dell’intelligence di Mosca. Uno degli incriminati è Igor Strelkov, al secolo Igor Girkin, ex comandante delle milizie separatiste del Donbass che sarebbe anche tra le persone coinvolte nelle conversazioni intercettate.

I RUSSI COINVOLTI NELLE INTERCETTAZIONI

Le telefonate riguardano anche il consigliere di Putin, Vladislav Surkov, il “premier” dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk, Aleksandr Borodai, e il leader crimeano scelto da Mosca, Vladislav Surkov. In almeno tre telefonate, i separatisti affermano di agire nell’interesse della Russia e su ordine dei suoi servizi segreti. «Sto eseguendo gli ordini e difendendo gli interessi di uno e di un solo Paese: la Federazione Russa», ha detto Borodai in una telefonata.

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Le tensioni in Bolivia dopo la conferma di Jeanine Añez come presidente

Un giovane di 20 anni ha perso la vita durante gli scontri tra manifestanti pro Morales e la polizia. Sale così a 10 il numero dei morti dopo tre settimane di proteste. E il governo del nuovo presidente Añez si insedia.

Resta alta la tensione in Bolivia dopo che la Corte costituzionale ha confermato Jeanine Añez come presidente. Un ragazzo di 20 anni è rimasto ucciso durante gli scontri tra i sostenitori di Morales e la polizia. Il ragazzo sarebbe stato colpito alla testa da un proiettile a Yapacani, nel dipartimento di Santa Cruz, dove i sostenitori di Morales nel pomeriggio avevano occupato il municipio.

10 MORTI DALL’INIZIO DELLE PROTESTE

Il 13 novembre gli scontri a Montero e Yapacaní hanno provocato due morti per colpi d’arma da fuoco. Con queste vittime è salito a dieci il bilancio dei morti durante oltre tre settimane di proteste nel Paese. Lo ha riferito il direttore dell’Istituto di indagini forensi (Idif), Andres Flores, citato dal quotidiano La Razon. Il direttore ha riferito che otto delle dieci persone morte negli scontri sono state uccise da proiettili.

L’ANALISI SUI CORPI DELLE VITTIME

«L’Idif ha condotto l’analisi forense di dieci corpi a livello nazionale, quattro sono di Santa Cruz, tre di Cochabamba, due di La Paz e uno di Potosí. Del totale dei casi, otto hanno perso la vita a causa di un proiettile di armi da fuoco», ha detto Flores. Le forze armate sono scese in strada dopo che la polizia si è dichiarata sopraffatta dall’ondata di proteste sociali che hanno colpito in particolare La Paz ed El Alto. A Yapacaní sono state rubate armi delle forze di sicurezza, con le quali, secondo la polizia, gli agenti sono stati attaccati.

ANEZ LAVORA AL SUO NUOVO GOVERNO

A livello politico Jeanine Añez continua a lavorare dopo la sua numina. Nella serata del 13 ha nominato i primi 11 ministri del suo governo di transizione che, ha sottolineato, sarà composto eminentemente da «tecnici». «Questo Consiglio dei ministri che vi presento», ha indicato Anez al termine della cerimonia di insediamento, «è composto persone esperte e specializzate, in maggioranza di un profilo tecnico come è normale per un governo di transizione». La ex senatrice ora capo dello Stato ha precisato che il 14, in giornata, l’elenco dei ministri sarà completato in modo da dare continuità al normale funzionamento dell’apparato statale. «Il loro compito principale», ha aggiunto, «sarà restaurare la pace sociale, realizzare elezioni libere e trasparenti nel più breve tempo possibile e consegnare infine il governo a chi i boliviani eleggeranno con piana legalità e legittimità democratica». Fra i ministri prescelti vi sono Karen Longaric (Esteri), Jerjes Justiniano (Presidenza), Arturo Murillo (Interno), Fernando López Julio (Difesa) e José Luis Parada (Economia).

MOSCA RICONOSCE IL NUOVO PRESIDENTE

Proprio mentre il nuovo esecutivo si insediava, la Russia ha annunciato l’intenzione di riconoscere Jeanine Añez come presidente. Il vice ministro degli Esteri Serghiei Riabkov, citato dall’agenzia Ria Novosti, ha però voluto precisare che la sua decisione tiene anche conto del fatto «nel momento in cui è stata eletta per questo incarico non c’era il quorum necessario in parlamento». «Chiaramente», ha aggiunto Riabkov, «sarà considerata leader della Bolivia finché la questione di un nuovo presidente non sarà risolta con le elezioni».

MORALES APRE A UN RITORNO IN PATRIA

Dal Messico l’ex presidente boliviano Evo Morales ha dichiarato di essere disposto a tornare in Bolivia senza essere candidato o ricoprire cariche di potere, per contribuire a riportare la pace nel Paese. In un’intervista al quotidiano spagnolo El Pais, l’ex capo di Stato ha dichiarato che «certamente» è disposto a tornare in Bolivia senza poteri e senza candidarsi. «Mi sono dimesso, ma continua la violenza», ha sottolineato. Sulla sua permanenza in Messico, Morales ha dichiarato che «già in questo momento vorrei andarmene. Se posso contribuire alla soluzione pacifica (in Bolivia), lo farò», ha affermato, aggiungendo che nel suo Paese in questo momento «non ci sono autorità», e che Jeanine Anez «è una presidente autoproclamata incostituzionalmente».

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Hong Kong, giallo sul possibile coprifuoco nel weekend

Fonti di stampa cinesi avevano annunciato che l'esecutivo guidato da Carrie Lam sarebbe pronto a vietare ogni tipo di manifestazione per il fine settimana. Ma la notizia è stata poi smentita.

La situazione già tesa di Hong Kong si arricchisce di un nuovo tassello. Nella notte il media cinese Global Times aveva annunciato su Twitter che il governo dell’ex colonia era pronto a varare un coprifuoco per il fine settimana. Successivamente il tabloid cinese ha fatto retromarcia cancellando dopo oltre 30 minuti il tweet sul tema.

«Il governo di Hong Kong è atteso che annunci il coprifuoco per il weekend», aveva scritto il quotidiano citando una fonte anonima. L’ipotesi coprifuoco si era diffusa da diverse ore. NaoTv, network dell’ex colonia, l’aveva già menzionata, venendo poi smentita dal South China Morning Post, grazie alle rassicurazioni di una fonte del governo locale

Nella serata del 13 novembre un numero consistente di ministri sono stati visti arrivare alla Government House, la residenza della governatrice Carrie Lam. La riunione, ha scritto il South China Morning Post, sarebbe stata finalizzata a discutere la situazione dopo tre giorni di proteste e di duri scontri tra manifestanti pro-democrazia e polizia. Sembra tuttavia improbabile che il governo possa decidere l’eventuale posticipazione per motivi di ordine pubblico le elezioni locali distrettuali del 24 novembre.

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Jeanine Añez si è autoproclamata presidente della Bolivia

Il partito di Morales ha fatto mancare il quorum in parlamento, ma il Tribunale costituzionale ha avallato la nomina della senatrice. Mentre in piazza non si placa la tensione.

La senatrice dell’opposizione Jeanine Añez si è autoproclamata presidente della Bolivia. Come primo atto ha cancellato il motto di Evo Morales ‘Patria o Morte’, scatenando la reazione del presidente dimissionario riparato in Messico, che ha gridato «al golpe più subdolo e nefasto della storia». Mentre in piazza non si placa la tensione. La polizia boliviana è intervenuta con gas lacrimogeni per bloccare una manifestazione di sostenitori di Morales che si dirigeva verso Plaza Murillo, dove nel palazzo presidenziale era in corso una cerimonia. I media hanno confermato che si tratta di manifestanti che chiedono le dimissioni della presidente ad interim, impegnata nel pomeriggio a confermare i responsabili delle Forze armate boliviane.

IL MANCATO QUORUM NON FERMA LA SENATRICE

Añez si è autonominata alla guida del Paese, non essendo riuscita a raggiungere il quorum dei voti in un parlamento controllato per i due terzi dal partito di Morales, i cui deputati hanno disertato la seduta. La sua nomina, raggiunta con il sostegno dei soli parlamentari dell’opposizione ma con il significativo avallo del Tribunale costituzionale (Tcp), ha comunque permesso l’avvio di un processo di transizione istituzionale dopo le dimissioni dell’ormai ex presidente per le pressioni dell’esercito. Ora sarà lei a dover portare alla rapida formazione di un nuovo governo e, entro tre mesi, a nuove elezioni. I settori vicini a Morales (militanti del Mas, sindacati, minatori del settore pubblico, insegnanti rurali e contadini del Tropico di Cochabamba) sono sempre sul piede di guerra e decisi a dare battaglia a un potere che considerano anti-costituzionale. Polizia e militari sono dovuti intervenire in forza nel dipartimento di Santa Cruz, dove sostenitori dell’ex capo dello Stato avevano occupato l’intero municipio di Yapacaní. E gli Stati Uniti hanno chiesto ai familiari dei dipendenti di rappresentanze diplomatiche e imprese di abbandonare il Paese.

MORALES: «SE IL POPOLO ME LO CHIEDE TORNO»

Morales dal Messico ha attaccato non solo Añez, ma anche l’Organizzazione degli Stati americani (Osa), accusandola «di essersi unita al colpo di Stato», definendola «un organismo neogolpista» e raccomandando alle nazioni latinoamericane di non fidarsi di essa, «perché risponde unicamente agli interessi degli Usa». Ma da Washington il segretario generale dell’Osa, Luis Almagro, ha rinviato l’accusa al mittente, sottolineando che è stato lo stesso Morales ad aver realizzato «un autogolpe» nel tentativo di «appropriarsi del potere» attraverso elezioni non trasparenti. Nella sua prima conferenza in Messico, il leader ‘cocalero’ ha sostenuto di essere disponibile a tornare in Bolivia «se il popolo me lo chiede», ma che per questo «c’è bisogno di intavolare un dialogo nazionale».

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Raid dopo i razzi da Gaza: decine di morti nella Striscia

Finora sono 22 le vittime e 70 i feriti del'offensiva israeliana. Netanyahu: «Fermatevi o continueremo senza pietà».

Altissima tensione nella Striscia di Gaza, dove i raid di Israele hanno fatto decine di vittime in risposta ai razzi lanciati dai palestinesi nel Sud del Paese: la città di Netivot nel Neghev è stata attaccata in mattinata e sirene di allarme sono risuonate, per la prima volta in questa tornata di violenze, nella zona di Latrun e di Beit Shemesh, circa 20 chilometri a Ovest di Gerusalemme.

OLTRE 70 FERITI SECONDO IL MINISTERO DELLA SANITÀ

Sono 22, al momento, i palestinesi uccisi secondo quanto comunicato dal ministero della Sanità della Striscia: circa 70, invece, i feriti. «Fermate questi attacchi o ne subirete sempre di più. A voi la scelta», ha tuonato il premier israeliano Benjamin Netanyahu. «Sarebbe meglio per la jihad capire ora, credo che il messaggio stia cominciando a passare. Devono comprendere che noi continueremo a colpire senza pietà. Siamo determinati a combattere e a proteggere noi stessi». Dopo aver ribadito che Israele non è interessata a un’escalation, Netanyahu ha aggiunto: se la Jihad «pensa che le salve di razzi o i colpi ci indeboliscano, sbaglia».

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Raid dopo i razzi da Gaza: decine di morti nella Striscia

Finora sono 22 le vittime e 70 i feriti del'offensiva israeliana. Netanyahu: «Fermatevi o continueremo senza pietà».

Altissima tensione nella Striscia di Gaza, dove i raid di Israele hanno fatto decine di vittime in risposta ai razzi lanciati dai palestinesi nel Sud del Paese: la città di Netivot nel Neghev è stata attaccata in mattinata e sirene di allarme sono risuonate, per la prima volta in questa tornata di violenze, nella zona di Latrun e di Beit Shemesh, circa 20 chilometri a Ovest di Gerusalemme.

OLTRE 70 FERITI SECONDO IL MINISTERO DELLA SANITÀ

Sono 22, al momento, i palestinesi uccisi secondo quanto comunicato dal ministero della Sanità della Striscia: circa 70, invece, i feriti. «Fermate questi attacchi o ne subirete sempre di più. A voi la scelta», ha tuonato il premier israeliano Benjamin Netanyahu. «Sarebbe meglio per la jihad capire ora, credo che il messaggio stia cominciando a passare. Devono comprendere che noi continueremo a colpire senza pietà. Siamo determinati a combattere e a proteggere noi stessi». Dopo aver ribadito che Israele non è interessata a un’escalation, Netanyahu ha aggiunto: se la Jihad «pensa che le salve di razzi o i colpi ci indeboliscano, sbaglia».

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Hong Kong paralizzata dalle proteste: sospesi i lavori del parlamento

Ancora manifestazioni in strada. Bagarre tra il fronte politico pro Pechino e quello schierato con gli attivisti pro democrazia. E il 14 novembre chiudono tutte le scuole.

Le proteste pro-democrazia a Hong Kong, giunte al terzo giorno
di fila, stanno semi paralizzando la città creando pesanti problemi ai trasporti. Il parlamento ha sospeso i lavori per la bagarre scoppiata tra i fronti pan-democratico e pro-Pechino. Molte scuole sono chiuse. L’Ue chiede «che tutte le parti esercitino moderazione».

CHIUSE TUTTE LE SCUOLE «PER MOTIVI DI SICUREZZA»

Una nota dell’ufficio per l’educazione pubblicata sul sito del governo spiega che alla luce delle condizioni attuali e prevedibili del traffico e della situazione generale, tutte le scuole di Hong Kong (tra asili nido, scuole primarie, secondarie e speciali) saranno chiuse il 14 novembre «per motivi di sicurezza».

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Tutte le ombre sull’incontro tra Trump e Erdogan

Il voto del Congresso sul genocidio armeno. Le nuove sanzioni per le operazioni in Siria. La richiesta di estradizione di Gulen. Il business delle armi e il riavvicinamento tra Turchia e Russia. I nodi e le incognite della visita del Sultano alla Casa Bianca.

Visita confermata. Il 13 novembre Recep Tayyp Erdogan è pronto a incontrare Donald Trump alla Casa Bianca. Una telefonata tra i due presidenti ha fatto sciogliere le riserve ad Ankara dopo le tensioni scatenate dalla recente mozione del Congresso Usa sul genocidio armeno e dalle nuove sanzioni imposte da Trump. Tutti nodi che evidentemente restano sul tavolo del bilaterale.

Il presidente Usa Donald Trump.

LE TENSIONI PER IL GENOCIDIO ARMENO E LE NUOVE SANZIONI USA

Andiamo per ordine. Ankara, come era prevedibile, non ha gradito il voto del Congresso americano che a larghissima maggioranza ha riconosciuto il genocidio armeno in Turchia, il massacro di almeno 1,5 milioni di armeni sotto l’impero ottomano tra il 1915 e il 1916. Il governo turco si è limitato a definire l’eccidio come «un fatto tragico», ma non ammette la parola «genocidio». «Nella nostra fede il genocidio è assolutamente vietato», ha sottolineato Erdogan. «Consideriamo questa accusa come il più grande insulto al nostro popolo». A complicare la situazione, però, è stata anche una seconda risoluzione dei deputati statunitensi su nuove sanzioni alla Turchia per l’operazione militare nel Nord della Siria. A cui va aggiunta la recente incriminazione da parte degli States di Halkbank, la seconda banca statale turca accusata di aver aver aiutato l’Iran a violare le sanzioni economiche.

Fetullah Gulen.

LA RICHIESTA DI ESTRADIZIONE DI GULEN

Altro tema caldo tra Ankara e Washington è la richiesta di estradizione di Fethullah Gulen. Il magnate ed ex imam residente in Pennsylvania è considerato dalla Turchia la mente del fallito golpe del 2016. Ankara ha proposto uno scambio di quelli che definisce «terroristi»: Gulen al posto della sorella di Abu Bakr al Baghdadi, l’ex Califfo del sedicente Stato islamico, catturata dai turchi (arresto al quale è seguito anche quello della moglie dell’ex leader di Daesh). «Gulen è importante per la Turchia quanto al Baghdadi lo era per gli Stati Uniti», ha ribadito Erdogan. Finora da Washington è arrivato un secco no, che però potrebbe ammorbidirsi alla luce degli interessi economici e militari americani. 

IL NODO SIRIANO E LA VISITA DELL’EX COMANDANTE DEL PKK

I rapporti tra Usa e Siria rappresentano un altro motivo di tensione. Erdogan, infatti, aveva chiesto di cancellare un’altra visita programmata alla Casa Bianca: quella del capo delle Syrian Democratic Forces Ferdi Abdi Sahin, ex comandante del Pkk che sia la Turchia che gli Usa hanno riconosciuto come organizzazione terroristica. La Casa Bianca non ha smentito l’incontro, scatenando la reazione del governo turco: gli Usa «sanno che razza di terrorista sia, di quali razza di atrocità si sia reso responsabile in passato», hanno dichiarato alcune fonti vicine al presidente Erdogan citate da Middle East Eye. «Sanno che caos si scatenerebbe se il Congresso trattasse da eroe uno che difende l’Isis». 

siria-turchia-erdogan-putin
Erdogan e Putin.

IL BRACCIO DI FERRO CON MOSCA

Infine a preoccupare Washington è anche il riavvicinamento tra Turchia e Russia. Mosca si è detta pronta a vendere il proprio sistema di difesa anti missilistico S-400 e la prima reazione statunitense è stata l’interruzione della fornitura di F35, non senza conseguenze economiche e strategiche dal momento che la Turchia rappresenta il secondo esercito in termini numerici della Nato. A pochi giorni dall’incontro tra Trump e Erdogan, inoltre, il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar, ha confermato una esercitazione congiunta in Russia proprio sul sistema missilistico S-400, spiegando che per la Turchia è necessario difendersi da una doppia minaccia terroristica: l’Isis e i curdi. L’ennesima ombra sull’incontro tra il tycoon e il Sultano.

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Cosa succede tra Gaza e Israele dopo l’esecuzione di Abu al-Ata

Tensione alle stelle tra Tel Aviv e i membri della Jihad Islamica dopo la morte del comandante delle brigate al-Quds. Oltre 200 razzi verso i territori, mentre l'esercito rinforza il confine lungo la Striscia. E Hamas resta in attesa.

Alta tensione in Medio Oriente. L’uccisione nella mattinata del 12 novembre da parte di Israele del comandante militare della Jihad Islamica a Gaza, Baha Abu al-Ata, responsabile di lanci ripetuti di razzi le passate settimane verso lo Stato ebraico, ha immediatamente riacceso il conflitto con la Striscia.

Subito dopo, e per tutta la giornata, oltre 200 razzi sono piovuti su Israele, con le sirene di allarme risuonate anche a Tel Aviv e nel centro del Paese, aeroporto compreso. In serata il bilancio a Gaza era di 10 morti nella Striscia – inclusi Baha Abu al-Ata e sua moglie Asma – e 45 feriti nei raid israeliani contro i miliziani. Raid poi ripresi in serata.

In Israele, dove circa il 90% dei missili è stato intercettato dal sistema di difesa Iron Dome, si contano decine di feriti per le cadute mentre la gente correva nei rifugi. Lo scontro in atto, la Jihad è appoggiata dall’Iran, è il più grave da mesi e gli esiti non sono prevedibili.

LA MINACCIA DI NUOVI ATTENTATI

Da segnalare infatti che la scorsa notte, quasi in contemporanea con i fatti di Gaza, un altro comandante della Jihad Islamica, Akram Ajuri, è stato oggetto a Damasco di un attacco che la stampa siriana ha attribuito agli israeliani. «Israele», ha detto il premier Benyamin Netanyahu al termine di una riunione del Consiglio di difesa, «non vuole un’escalation ma farà tutto il necessario per difendersi. Occorre avere pazienza e freddezza». Poi ha denunciato che «Baha Abu al-Ata era il principale organizzatore di terrorismo a Gaza. Stava per organizzare nuovi attentati. Era una bomba in procinto di esplodere».

LA RABBIA PALESTINESE PRONTA A ESPLODERE

Da parte sua la Jihad, subito dopo l’uccisione di Al-Ata, ha annunciato che la sua reazione «farà tremare l’entità sionista». «Israele», ha accusato Ziad Nahale, uno dei leader della fazione, «ha oltrepassato tutte le linee rosse. Reagiremo con forza». Mentre da Ramallah, in Cisgiordania, il presidente palestinese Abu Mazen ha bollato l’azione di questa mattina come «un crimine israeliano contro il nostro popolo a Gaza».

NUOVI RINFORZI ISRAELIANI LUNGO IL CONFINE

Israele – che ha inviato al confine con la Striscia rinforzi di mezzi blindati, di unità di fanteria e anche ufficiali della riserva – al momento sembra voler tenere fuori dallo scontro Hamas, che pure governa l’enclave palestinese. Per questo ha fatto sapere ai suoi comandanti che se non si unirà al fuoco della Jihad, non colpirà i suoi obiettivi. Ma il leader Ismail Haniyeh ha garantito che «la politica israeliana delle esecuzioni mirate non avrà successo». Le prossime ore saranno dunque decisive per capire se il conflitto si allargherà, mentre l’Egitto sta mediando con l’obiettivo di riportare la calma.

VITA SOSPESA PER GLI ABITANTI DI GAZA

A Gaza intanto la popolazione si è chiusa nelle abitazioni e le strade sono piombate nel buio a causa delle ripetute interruzioni di elettricità. Di fronte ai panifici si sono viste code di persone accorse a fare scorte nella preoccupazione che un’escalation militare con Israele sia questione di ore. Mentre in Israele il Comando militare ha dato disposizioni alla gente di seguire le istruzioni impartite e di stare vicino ai rifugi. Le zone intorno alla Striscia, con in testa Sderot, sono martellate dai razzi e in molte cittadine non lontano dal confine e vicino a Tel Aviv domani le scuole rimarranno chiuse. L’Ue ha affermato che «il lancio di missili sulle popolazioni civili è totalmente inaccettabile e deve immediatamente cessare» e che «una rapida e completa de-escalation è necessaria per salvaguardare la vita e la sicurezza dei civili palestinesi e israeliani».

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La Corte di Hong Kong respinge la richiesta di espatrio di Wong

Lo ha comunicato una nota dell'Ufficio del portavoce del ministero degli Esteri di Pechino rispondendo alla richiesta di chiarimenti in merito alla visita dell'attivista pro-democrazia in Italia.

La richiesta di Joshua Wong di espatrio per un viaggio in Europa è stata rigettata dalla Corte di Hong Kong con una decisione presa l’8 novembre. Lo precisa una nota dell’Ufficio del portavoce del ministero degli Esteri di Pechino rispondendo alla richiesta di chiarimenti in merito alla visita dell’attivista pro-democrazia in Italia su invito della Fondazione Feltrinelli per un evento il 27 novembre a Milano. Wong è in libertà su cauzione.

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