Perché è giunto il momento che il Pd dialoghi con il M5s e Beppe Grillo

Sarebbe un errore chiudere la porta al M5s. Il cofondatore cerca di salvare la propria creatura e la sua disperazione può offrire la possibilità di un dialogo difficile ma, se serio, molto utile.

Beppe Grillo ancora una volta tiene in piedi Luigi Di Maio e soprattutto lo costringe a mantenere in vita l’alleanza con il Pd, anzi gli suggerisce di dar vita a un progetto comune. Gli interventi tampone del padre fondatore ormai non si contano più e a stento riescono a impedire il crollo di una baracca che, nelle mani di Di Maio e di Casaleggio junior, appare sempre più destrutturata.

LA CRISI DEL GRILLISMO

La crisi del grillismo è evidente ed è stata prevedibile (e prevista). Il successo elettorale con le responsabilità di governo ha fatto venir fuori l’amalgama mal riuscito del blocco elettorale pentastellato, la fragilità del gruppo dirigente, l’incauta alleanza con il vorace Matteo Salvini che se li è mangiati pezzo dopo pezzo durante il primo governo Conte. L’autogol estivo del capo della Lega ha dato al Movimento 5 stelle la possibilità di un nuovo inizio che è stato accolto di malagrazia da Di Maio, vedovo inconsolabile della destra e soprattutto prigioniero di Salvini. 

GLI SFORZI DI GRILLO E TRAVAGLIO

In questi mesi molti elettori di destra dei 5 stelle se ne sono andati con il capo della Lega ed è facile ipotizzare che quelli rimasti siano in gran parte “nativi” 5 stelle o elettori di sinistra giunti al grillismo per protesta verso la leadership del Pd e dei partiti affini. Questa situazione, per tanti aspetti disperata, avrebbe dovuto condurre Di Maio e gli altri a fare di necessità virtù, invece la leadership 5 stelle ha continuato ad accontentarsi della rendita di posizione, via via più ridotta, garantita dal governo e dalla guida del Movimento sperando nello “stellone”. Solo i due padri fondatori, Beppe Grillo e Marco Travaglio, hanno cercato di far quadrare il cerchio spingendo quel che resta del movimento a una solida alleanza con la sinistra e soprattutto a una riaffermata opposizione a Matteo Salvini.

GLI ERRORI DI VALUTAZIONE DELLA SINISTRA

A sinistra la discussione sui 5 stelle non è mai terminata anche se sarebbe più opportuno dire che non è mai iniziata. L’unico punto di analisi che i leader di sinistra più dialoganti hanno è la presenza nel grillismo di una base elettorale popolare con molti contatti con il vecchio popolo della sinistra. Osservazione intelligente ma culturalmente poverissima. Hanno ignorato invece l’aspetto programmatico che sorreggeva questo movimento, la sua logica antipartitica, il suo rifiuto della democrazia, la predilezione per il putinismo, l’amore per la decrescita infelice con la distruzione di fabbriche, come si è visto con l’atteggiamento tenuto sull’Ilva di Taranto. Insomma la massiccia presenza di popolo nei 5 stelle, peraltro espressione politica del potere giudiziario, non faceva sorgere una piattaforma di sinistra, ancorchè azzardata.

I GRILLINI VANNO SFIDATI SUI PROGRAMMI

Ora la situazione sta cambiando. Il popolo in gran parte se ne è andato, le posizioni più stupide nel movimento sono flebili, si fanno pressanti le richieste perché quel che resta dei 5 stelle apra un dialogo in profondità con la sinistra. Accettare o rifiutare? Sarebbe un errore rifiutare. È evidente che lasciati da soli i 5 stelle moriranno nel giro di una o due tornate elettorali. Ma nessuno di noi sa dove finiranno quei voti. Mi sembra difficile immaginare che, sic et simpliciter, tornino o vengano per la prima volta a sinistra. Perché questo “miracolo” si compia è necessario un atteggiamento con i 5 stelle che li sfidi sui programmi nel quadro di una ipotesi di alleanza non più solo anti-salviniana. È necessario che il gruppo dirigente del Pd legga meno i giornali e i post sui social dei più noti giornalisti dell’Espresso-Repubblica o di quelli, i cerchiobottisti, che da anni inseguono la chimera di una formazione destra-sinistra che non c’è mai stata né mai ci sarà.

IL PD SI COMPORTI DA PARTITO SERIO

La sinistra deve avere una propria strategia che significa chiedere un dialogo sulla base di punti irrinunciabili sia di carattere politico-istituzionale sia di carattere programmatico. Niente da inventare. Ci sono in tutti i documenti e in tutte le interviste che i leader del Pd o affini hanno fatto in questi due anni. Servirebbe solo comportarsi da partito serio e seriamente prendere in parola, per la prima volta, Beppe Grillo. La sua disperazione nel tentativo finale di salvare la propria creatura può consegnare la possibilità di un dialogo difficile ma, se serio, molto utile. Matteo Renzi non ci sta? Vada con Salvini.

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Ilva, manovra, riforma del Mes: gli ostacoli del governo per arrivare a fine 2019

Da qui alla fine dell'anno il governo Conte bis rischia di inciampare. Tutti i fronti caldi che possono spaccare la maggioranza entro la fine dell'anno.

Aumentano gli ostacoli sul cammino del governo Conte bis. Tanto che potrebbe rivelarsi persino ottimistica la previsione che fissa la scadenza della maggioranza M5s-Pd-Italia viva-Leu al prossimo 26 gennaio, giorno delle Regionali emiliano-romagnole. Una sconfitta in casa potrebbe infatti convincere i democratici a strappare l’alleanza, soprattutto considerato che Matteo Renzi sembra voler trascinare l’esperienza governativa al solo scopo di logorarli. Ma da qui alla fine di gennaio c’è comunque ancora da portare a casa la legge di Bilancio, discutere sulla riforma della giustizia e sullo Ius soli, senza dimenticare la necessità di trovare un accordo sulle sorti dell’Ilva. L’inciampo, insomma, rischia di essere dietro l’angolo. Ecco una veloce rassegna delle prove che l’esecutivo dovrà affrontare nei prossimi giorni.

IUS SOLI E IUS CULTURAE: LA BATTAGLIA DEL PD

La prima fibrillazione potrebbe arrivare dalla decisione del Pd di provare a portare a compimento l’introduzione nel nostro ordinamento dello Ius soli. Nicola Zingaretti ne ha bisogno per far ritrovare al partito una propria identità di sinistra. L’alleato pentastellato teme invece di perdere altro consenso tra gli elettori. «Col maltempo che flagella l’Italia, il futuro di 11 mila lavoratori a Taranto in discussione, qui si parla di ius soli: sono sconcertato», ha sibilato Luigi Di Maio. Non è la prima volta che questo tema mette in difficoltà un esecutivo. Accadde anche tra il 2015 e il 2017, quando il partito di Angelino Alfano congelò l’azione del governo Renzi prima e Gentiloni poi. La riforma, auspicata da Leu, dovrebbe essere sostenuta anche dai renziani.

L’intervento del segretario nazionale del Partito democratico Nicola Zingaretti alla convention del Pd a Bologna il 17 novembre.

BARUFFA SU QUOTA 100

C’è un altro tema che potrebbe registrare una inedita convergenza tra Partito democratico e Italia viva: l’abrogazione di Quota 100, che è per sua stessa natura destinata comunque a sparire, quindi bisognerà vedere come intendano concretamente anticiparne la chiusura. Eppure, sulla fine della riforma leghista il governo giallorosso discute da quando è nato. In ottobre, i malumori interni alla maggioranza (in quell’occasione la partita si giocò tra renziani e grillini, con i democratici alla finestra) fecero persino slittare alle ultime ore disponibili il Consiglio dei ministri per sciogliere i nodi sul documento programmatico di bilancio da inviare improrogabilmente alla Commissione europea. Ora il tema sembra essere cavalcato con prepotenza anche da Zingaretti, cui Di Maio ha già replicato in modo stizzito: «Qui siamo all’assurdo che si vuole fare lo Ius soli da una parte e togliere Quota 100 dall’altra per ritornare alla legge Fornero. Mi sembra un po’ eccessivo».

Matteo Renzi, leader di Italia Viva.

LA GRANDE BATTAGLIA SULLA LEGGE DI BILANCIO

L’ultima batosta elettorale subita dalle forze di maggioranza alle Regionali umbre di fine ottobre sembra averle spronate ad avanzare proposte dal forte sapore propagandistico in sede di legge di Bilancio. E così una manovra quasi integralmente dedicata al reperimento di risorse per il disinnesco delle clausole Iva rischia ora di tramutarsi in tutt’altro, se si considera la gragnuolata di 4.550 emendamenti presentati in commissione Bilancio al Senato. Di questi, 921 sono piovuti dal Partito democratico, 435 portano la firma di Movimento 5 stelle e 230 sono stati presentati dai renziani, segno che nei prossimi giorni si giocherà una intensa battaglia muscolare. Tra i punti di maggior frizione, la richiesta del Pd di abbassare la plastic tax voluta dai pentastellati da 1 euro a 80 centesimi al chilo mentre potrebbe essere più facile una intesa sulle tasse sulle auto aziendali inquinanti, oggetto di emendamenti firmati tanto dai dem quanto dai grillini. Su questo fronte, sarà Italia viva la più difficile da accontentare, dato che i renziani si trincerano dietro la volontà di espungere dalla manovra tutte le “micro-tasse” e non sembrano disponibili a trattare.

Matteo Salvini (Foto LaPresse/Filippo Rubin).

L’INCOGNITA SULL’ABOLIZIONE DEI DECRETI SALVINI

Sembra che il “nuovo” Pd che Zingaretti sta provando a tratteggiare sia intenzionato a chiedere agli alleati di governo un altro coraggioso passo avanti per rimarcare le differenze rispetto all’era gialloverde: l’abolizione dei decreti Salvini. «Creano discriminazioni e insicurezza», ha detto il segretario dem da Bologna. Ma quei decreti, nonostante se li fosse intestati il leader della Lega, portano anche le firme di Giuseppe Conte e di Luigi Di Maio, immortalati sorridenti accanto all’allora ministro dell’Interno al momento del varo. Difficile per loro rimangiarsi l‘intero testo, più facile che si vada verso un ammorbidimento per cercare una quadra. Anche in questo caso, si avrebbe una convergenza tra Pd, Italia viva e Leu e una contrapposizione comune con M5s.

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.

LA RIFORMA DELLA PRESCRIZIONE

Nubi oscure si addensano anche sulla riforma della prescrizione voluta dai 5 stelle contenuta nella Spazzacorrotti. I pentastellati, che un anno fa riuscirono a convincere la Lega a sostenerla, la consideravano ormai portata a casa. Invece il Pd sembra tentato di ridiscuterne i contorni approfittando del nuovo testo di riforma della giustizia su cui il governo sta lavorando. Secondo le nuove norme, dal primo gennaio 2020 le lancette dell’orologio della prescrizione si congeleranno dopo la sentenza di primo grado. «Il cittadino resterà dunque in balia della giustizia penale per un tempo indefinito, cioè fino a quando lo Stato non sarà in grado di celebrare definitivamente il processo che lo riguarda», ha già denunciato l’Unione delle Camere penali.

LO SCUDO DELL’ILVA SPACCA I 5 STELLE

Finora non sono serviti gli appelli all’unità che il presidente del Consiglio Conte ha rivolto ai sostenitori della maggioranza. I giallorossi rischiano infatti di arrivare al tavolo con l’Ilva separati e litigiosi. Il punto del contendere è sempre lo stesso: il ripristino dello scudo penale, che Pd e Italia viva sarebbero disponibili a concedere ad ArcelorMittal per toglierle facili pretesti. Anche Di Maio sembra possibilista, ma teme di spaccare il partito, già incrinato da tutte le batoste elettorali subite nell’arco del 2019, e non sembra avere la forza per opporsi all’irremovibilità della fronda pugliese capitanata da Barbara Lezzi.

manovra conte di maio evasione fiscale
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

LE TRIBOLAZIONI SULLA RIFORMA DEL MES

Studiato nel 2012 per sostituire e unire due istituti analoghi (il Fondo europeo di stabilità finanziaria e il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria), il Mes (o Esm secondo l’acronimo inglese) è il Fondo salva-Stati che l’Unione europea riserva ai Paesi membri in difficoltà in cambio di riforme strutturali imposte dalla Commissione. Ora Bruxelles ha stabilito di riformarlo, decisione che sta causando l’insonnia del governo. Secondo le nuove condizioni d’accesso (non essere in procedura d’infrazione, avere da almeno un biennio un deficit sotto il 3% e un debito pubblico sotto al 60%), l’Italia verrebbe automaticamente esclusa dal programma di aiuti e, per potervi accedere, dovrebbe accettare, spalle al muro, una pesante ristrutturazione del debito con un cronoprogramma scritto a Bruxelles che rischia di essere lacrime e sangue. I sovranisti sono già all’attacco e sostengono persino che Conte abbia firmato «l’eurofollia» (credit di Giorgia Meloni) di nascosto.

LEGGI ANCHE: Perché per uscire dalla spirale dei rendimenti negativi serve un’unione bancaria

In realtà, l’iter per una eventuale ratifica non è nemmeno stato avviato, ma bisognerà vedere come intende procedere l’esecutivo e se si apriranno crepe anche su un fronte che rappresenta per Salvini e Meloni una ghiotta opportunità di muovere guerra ai giallorossi. Il leader della Lega è partito all’attacco: «Conte subito in parlamento a dire la verità, il sì alla modifica del Mes sarebbe la rovina per milioni di italiani e la fine della sovranità nazionale».

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Per Zingaretti la crisi del M5s accelera il ritorno del bipolarismo

Il segretario del Pd analizza così le difficoltà dei pentastellati dopo il voto su Rousseau per le regionali in Emilia-Romagna e Calabria. E apre alla riforma della legge elettorale con la Lega.

All’indomani del voto su Rousseau con cui la base del M5s ha deciso che il partito deve correre alle elezioni regionali in Emilia-Romagna e in Calabria, è arrivata l’analisi politica del segretario del Pd, Nicola Zingaretti.

Secondo il leader dei dem, i tempi sono maturi per un ritorno del bipolarismo. Anzi, Zingaretti ha detto che «il processo politico va verso una netta bipolarizzazione».

Ed è chiaro che nel futuro «il confronto e la competizione saranno sempre di più tra un campo democratico civico e progressista, di cui il Pd è il principale pilastro, e la nuova destra sovranista. Il travaglio, che rispettiamo, e le difficoltà del M5s hanno origine nell’accelerazione di questo scenario e accentuano una crisi di sistema che va rapidamente affrontata con gli strumenti della democrazia».

L’analisi si collega alla posizione del Pd sulla riforma della legge elettorale. I dem vorrebbero «evitare una legge puramente proporzionale», puntando piuttosto a introdurre meccanismi che «aiutino la semplificazione e la formazione di coalizioni di governo chiare e stabili, con un impianto maggioritario». Per questo «non va fatta cadere la proposta di Giancarlo Giorgetti», numero due della Lega, «di un tavolo di confronto su questi temi, da attivare nei tempi più rapidi».

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L’impatto del voto “emiliano” di Rousseau sul governo Pd-M5s

Di Maio dopo la scelta degli iscritti di presentarsi alle Regionali: «Nessuna ripercussione per l'esecutivo». E ribadisce: «Parlamentari ed esponenti locali ci chiedono di non allearci». Ma tra i dem sono al lavoro i "pontieri". Perché si teme una dispersione di preferenze che penalizzerà Bonaccini. Una cena con tutti i ministri ha provato a smorzare le tensioni.

E adesso? Rousseau ha votato, la linea di Luigi Di Maio è stata sconfessata. Gli iscritti al Movimento 5 stelle chiamati a esprimersi hanno deciso che bisogna correre alle elezioni regionali del 26 gennaio 2020 in Emilia-Romagna e Calabria, contrariamente a quanto voleva il capo politico grillino. Una scelta che avrà ripercussioni sul governo giallorosso? Lo stesso Di Maio ha scacciato fantasmi: «No, non ce ne saranno», ha detto al termine della cena con gli altri ministri. Ma le nubi sull’esecutivo restano.

DI MAIO: «TUTTI I NOSTRI CI CHIEDONO DI NON ALLEARCI»

Innanzitutto il M5s vuole presentarsi da solo. Anche se su questo aspetto non è stato interpellato Rousseau: «Non lo facciamo votare perché tutti i nostri parlamentari e i consiglieri hanno chiesto di non allearci alle Regionali», ha ribadito Di Maio.

BOCCIA: «NOI ANDIAMO AVANTI E VINCIAMO ANCHE DA SOLI»

Eppure nel Partito democratico qualcuno continua a lasciare la porta aperta. Come il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia: «Allearsi con noi? Lo spero per loro. Noi andiamo avanti e vinciamo anche da soli. Stefano Bonaccini è stato il presidente migliore per l’Emilia-Romagna».

SCAMBI DI BATTUTE ALLA CENA DELLE TENSIONI

Nella serata di giovedì 21 novembre il premier Giuseppe Conte ha riunito i ministri a cena. E ovviamente si è parlato anche della scelta del M5s di correre alle Regionali. Stando a quanto raccontato da più di un partecipante, tra gli esponenti dei diversi partiti di governo ci sarebbero stati scambi di battute, dal tono per lo più scherzoso.

TIMORI PER LA DISPERSIONE DEL VOTO ALLE REGIONALI

Ma, al di là delle dichiarazioni, qualche preoccupazione è trapelata per le ripercussioni che potrebbe avere anche sul governo la scelta annunciata da Di Maio di correre da soli (per parlare alla stampa il leader M5s ha lasciato il Consiglio dei ministri a riunione in corso). I dem temono che la dispersione del voto possa favorire i candidati del centrodestra, in particolare in Emilia-Romagna («Speriamo di no», ha commentato un ministro).

PONTIERI DEM AL LAVORO PER INDURRE A UN RIPENSAMENTO

Ma più d’uno nel Pd confida che i “pontieri” in azione aprano una discussione nel Movimento, che induca il ripensamento. Per quacuno «è vero che gli esponenti locali hanno chiesto a Di Maio di non allearsi, ma tra i loro dirigenti la questione è aperta: tanti volevano escludere la candidatura proprio per evitare i rischi che la scelta di correre divisi comporta anche per il governo. Vedremo nei prossimi giorni». Ma un collega è stato più pessimista: «Mi sembra un caso chiuso».

LO STESSO RISTORANTE DOVE CONTE PORTÒ SALVINI

La cena, al di là di questo, come è andata? Si è inserita tra un Consiglio dei ministri serale e un vertice mattutino. Conte ha invitato fuori la sua squadra di governo in un ristorante nel centro di Roma dove un anno prima portò Di Maio e Matteo Salvini per placare lo scontro che si era aperto sulla manovra. Non andò benissimo alla fine. «Le sorti dei governi non si decidono a tavola», ha risposto sorridendo Conte a chi gli ha sottolineato che il precedente non faceva ben sperare.

VOLTI SCURI TRA I MINISTRI GRILLINI

Anche questa volta in effetti i motivi di tensione tra alleati non sono mancati, a partire dal voto su Rousseau. A tavola si è parlato di Emilia-Romagna e Calabria, sono state fatte battute, ci si è punzecchiati. All’ingresso, subito dopo il Cdm, si è notato qualche volto scuro, soprattutto tra i ministri M5s. A microfoni spenti più d’uno ha ammesso che il voto di gennaio è delicato anche per la tenuta del governo.

TUTTO OFFERTO DA CONTE E FIORI ALLE MINISTRE

Il premier, che ha offerto la cena a tutti e regalato fiori alle ministre, è stato l’ultimo ad arrivare, intorno alle 23, al termine di un lungo Cdm, e l’ultimo ad andare via, verso l’una. Tavolo per 22: c’erano i rappresentanti di tutti i partiti. E a un certo punto è spuntata anche la torta, per festeggiare il compleanno di Lorenzo Guerini, con “tanti auguri a te” cantato in coro tra applausi e risate.

ARCHIVIATA L’IDEA DI UN CONCLAVE DI MAGGIORANZA

L’idea era quella di fare squadra: Conte aveva annunciato un “conclave” con i leader di maggioranza, forse un’idea del tutto archiviata. Per ora è bastata una cena post-Cdm, a base di amatriciana e cicoria. I ministri sono arrivati e andati via alla spicciolata, a piedi, in auto o in vespa come il dem Peppe Provenzano. Di Maio è stato il primo a entrare, poco dopo è toccato alla renziana Teresa Bellanova: tra gli ultimi Dario Franceschini («Che c’è di strano se ceniamo insieme?»), Luciana Lamorgese, Roberto Gualtieri e infine Conte.

DOSSIERI SCOTTANTI SU ILVA, ALITALIA E MES

Nell’attesa si è bevuto prosecco. E il presidente del Consiglio ha scherzato con i giornalisti: «Vi do una notizia, ho cucinato io», prima di assicurare che «non c’è alcun litigio, nessuna tensione». Ma i dossier scottanti sono tanti, dal voto di gennaio in Emilia-Romagna e Calabria che fa temere ripercussioni sul governo, a Ilva e Alitalia, fino al Mes, di cui si deve discutere in un vertice mattutino convocato alle 8.30 di venerdì. All’uscita dal ristorante si ostentavano sorrisi, dentro si brindava e si scherzava. Basta una cena per risolvere i problemi e iniziare davvero a fare squadra? Conte ha cercato ancora la battuta: «Se non ne basta una, ne facciamo due».

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L’impatto del voto “emiliano” di Rousseau sul governo Pd-M5s

Di Maio dopo la scelta degli iscritti di presentarsi alle Regionali: «Nessuna ripercussione per l'esecutivo». E ribadisce: «Parlamentari ed esponenti locali ci chiedono di non allearci». Ma tra i dem sono al lavoro i "pontieri". Perché si teme una dispersione di preferenze che penalizzerà Bonaccini. Una cena con tutti i ministri ha provato a smorzare le tensioni.

E adesso? Rousseau ha votato, la linea di Luigi Di Maio è stata sconfessata. Gli iscritti al Movimento 5 stelle chiamati a esprimersi hanno deciso che bisogna correre alle elezioni regionali del 26 gennaio 2020 in Emilia-Romagna e Calabria, contrariamente a quanto voleva il capo politico grillino. Una scelta che avrà ripercussioni sul governo giallorosso? Lo stesso Di Maio ha scacciato fantasmi: «No, non ce ne saranno», ha detto al termine della cena con gli altri ministri. Ma le nubi sull’esecutivo restano.

DI MAIO: «TUTTI I NOSTRI CI CHIEDONO DI NON ALLEARCI»

Innanzitutto il M5s vuole presentarsi da solo. Anche se su questo aspetto non è stato interpellato Rousseau: «Non lo facciamo votare perché tutti i nostri parlamentari e i consiglieri hanno chiesto di non allearci alle Regionali», ha ribadito Di Maio.

BOCCIA: «NOI ANDIAMO AVANTI E VINCIAMO ANCHE DA SOLI»

Eppure nel Partito democratico qualcuno continua a lasciare la porta aperta. Come il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia: «Allearsi con noi? Lo spero per loro. Noi andiamo avanti e vinciamo anche da soli. Stefano Bonaccini è stato il presidente migliore per l’Emilia-Romagna».

SCAMBI DI BATTUTE ALLA CENA DELLE TENSIONI

Nella serata di giovedì 21 novembre il premier Giuseppe Conte ha riunito i ministri a cena. E ovviamente si è parlato anche della scelta del M5s di correre alle Regionali. Stando a quanto raccontato da più di un partecipante, tra gli esponenti dei diversi partiti di governo ci sarebbero stati scambi di battute, dal tono per lo più scherzoso.

TIMORI PER LA DISPERSIONE DEL VOTO ALLE REGIONALI

Ma, al di là delle dichiarazioni, qualche preoccupazione è trapelata per le ripercussioni che potrebbe avere anche sul governo la scelta annunciata da Di Maio di correre da soli (per parlare alla stampa il leader M5s ha lasciato il Consiglio dei ministri a riunione in corso). I dem temono che la dispersione del voto possa favorire i candidati del centrodestra, in particolare in Emilia-Romagna («Speriamo di no», ha commentato un ministro).

PONTIERI DEM AL LAVORO PER INDURRE A UN RIPENSAMENTO

Ma più d’uno nel Pd confida che i “pontieri” in azione aprano una discussione nel Movimento, che induca il ripensamento. Per quacuno «è vero che gli esponenti locali hanno chiesto a Di Maio di non allearsi, ma tra i loro dirigenti la questione è aperta: tanti volevano escludere la candidatura proprio per evitare i rischi che la scelta di correre divisi comporta anche per il governo. Vedremo nei prossimi giorni». Ma un collega è stato più pessimista: «Mi sembra un caso chiuso».

LO STESSO RISTORANTE DOVE CONTE PORTÒ SALVINI

La cena, al di là di questo, come è andata? Si è inserita tra un Consiglio dei ministri serale e un vertice mattutino. Conte ha invitato fuori la sua squadra di governo in un ristorante nel centro di Roma dove un anno prima portò Di Maio e Matteo Salvini per placare lo scontro che si era aperto sulla manovra. Non andò benissimo alla fine. «Le sorti dei governi non si decidono a tavola», ha risposto sorridendo Conte a chi gli ha sottolineato che il precedente non faceva ben sperare.

VOLTI SCURI TRA I MINISTRI GRILLINI

Anche questa volta in effetti i motivi di tensione tra alleati non sono mancati, a partire dal voto su Rousseau. A tavola si è parlato di Emilia-Romagna e Calabria, sono state fatte battute, ci si è punzecchiati. All’ingresso, subito dopo il Cdm, si è notato qualche volto scuro, soprattutto tra i ministri M5s. A microfoni spenti più d’uno ha ammesso che il voto di gennaio è delicato anche per la tenuta del governo.

TUTTO OFFERTO DA CONTE E FIORI ALLE MINISTRE

Il premier, che ha offerto la cena a tutti e regalato fiori alle ministre, è stato l’ultimo ad arrivare, intorno alle 23, al termine di un lungo Cdm, e l’ultimo ad andare via, verso l’una. Tavolo per 22: c’erano i rappresentanti di tutti i partiti. E a un certo punto è spuntata anche la torta, per festeggiare il compleanno di Lorenzo Guerini, con “tanti auguri a te” cantato in coro tra applausi e risate.

ARCHIVIATA L’IDEA DI UN CONCLAVE DI MAGGIORANZA

L’idea era quella di fare squadra: Conte aveva annunciato un “conclave” con i leader di maggioranza, forse un’idea del tutto archiviata. Per ora è bastata una cena post-Cdm, a base di amatriciana e cicoria. I ministri sono arrivati e andati via alla spicciolata, a piedi, in auto o in vespa come il dem Peppe Provenzano. Di Maio è stato il primo a entrare, poco dopo è toccato alla renziana Teresa Bellanova: tra gli ultimi Dario Franceschini («Che c’è di strano se ceniamo insieme?»), Luciana Lamorgese, Roberto Gualtieri e infine Conte.

DOSSIERI SCOTTANTI SU ILVA, ALITALIA E MES

Nell’attesa si è bevuto prosecco. E il presidente del Consiglio ha scherzato con i giornalisti: «Vi do una notizia, ho cucinato io», prima di assicurare che «non c’è alcun litigio, nessuna tensione». Ma i dossier scottanti sono tanti, dal voto di gennaio in Emilia-Romagna e Calabria che fa temere ripercussioni sul governo, a Ilva e Alitalia, fino al Mes, di cui si deve discutere in un vertice mattutino convocato alle 8.30 di venerdì. All’uscita dal ristorante si ostentavano sorrisi, dentro si brindava e si scherzava. Basta una cena per risolvere i problemi e iniziare davvero a fare squadra? Conte ha cercato ancora la battuta: «Se non ne basta una, ne facciamo due».

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Governo, pronta la squadra che si occuperà delle nomine

Il team, composto dai dem Franceschini e Marcucci, i pentastellati Fraccaro e Buffagni, i renziani Boschi e Marattin, nella prima riunione avrebbe già deciso di non riconfermare Marcegaglia all'Eni. Ma il tavolo dovrà fare i conti anche con LeU. E con il convitato di pietra D'Alema.

Sei, più un convitato di pietra e il presidente del Consiglio. È questa la squadra che, se il governo Conte bis tiene al giro parlamentare della legge di Bilancio e all’esito del voto di fine gennaio in Emilia-Romagna, si occuperà di fare le nomine nelle società a partecipazione statale. Il tavolo è formato da due esponenti del Pd, il ministro Dario Franceschini e il capogruppo al Senato Andrea Marcucci; da altrettanti dei 5 stelle, peraltro tra loro distanti, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri Riccardo Fraccaro e il parlamentare semplice ma con delega alle questioni di potere da parte di Luigi Di Maio e Davide Casaleggio, Stefano Buffagni; e per Italia viva da Maria Elena Boschi e Luigi Marattin, fedelissimi di Matteo Renzi

D’ALEMA CONVITATO DI PIETRA

Questi sei hanno già fatto una prima riunione, che si sono giurati sarebbe rimasta segreta, nella quale hanno cercato di darsi un metodo di lavoro e hanno iniziato a ragionare su scenari e nomi. Un primo approccio, è ovvio, ma nel quale qualche situazione in negativo si è già delineata, tipo la non riconferma di Emma Marcegaglia alla presidenza dell’Eni. Ma il tavolo dei sei dovrà fare i conti anche con un’altra forza di maggioranza, la sinistra di LeU, e segnatamente con Massimo D’Alema che, in proprio e per conto del partito da lui creato con Pier Luigi Bersani, è già attivamente al lavoro sui dossier più scottanti. È lui il convitato di pietra, con cui prima o poi i sei dovranno fare i conti. Così come dovranno confrontarsi anche con Giuseppe Conte, che ha mandato segnali inequivocabili circa l’intenzione di dire la sua.

Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.

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«Eccoci», quel vecchio titolo dell’Unità che serve al Pd

Dopo la svolta a sinistra di Zingaretti, il partito deve seminare senza avere fretta, rimanendo attento al disagio sociale, al lavoro e ai diritti civili. Solo così riconquisterà il suo popolo.

Vedremo presto se la svolta a sinistra del Pd porterà i suoi frutti nei prossimi sondaggi.

L’assemblea di Bologna ha avuto una buona stampa e univocamente è sembrato a tutti gli osservatori che il Pd di Nicola Zingaretti, ma con alla regia Gianni Cuperlo, abbia voluto lanciare un segnale forte all’Italia che ha votato a sinistra e che tuttora vota a sinistra.

Avrei aggiunto ai punti sui diritti civili – cioè l’ abolizione delle leggi Salvini e l’approvazione di quelle favorevoli agli immigrati – un bel pacchetto di misure per il lavoro, a cominciare da emendamenti che rendano più forte l’iniziativa sullo scudo fiscale. Tuttavia penso che questo accadrà.

MATTEO RENZI PUÒ RAGGIUNGERE UN 4-5% CON ITALIA VIVA

Tutto a posto, dunque? Ovviamente no, il passaggio che aspetta il Pd è quello più difficile ora. Si tratta di tradurre in iniziative sul territorio e in organizzazione di eventi politici tutto quel ben di dio di intenzioni e di ragionamenti operosi. Come si diceva una volta, ora tocca alla prassi. Le polemiche di Matteo Renzi e dei renziani contano poco. È lui che se ne è andato, e con lui che sono andati via gli e le esponenti del Pd che più sono state premiate/i dalla sua gestione, tutti loro vorrebbero fare un rassemblement di destra-sinistra.

Se a Renzi riesce di prendere un po’ di voti a destra è grasso che cola. Non accadrà

Vedo un po’ debole il fianco sinistro, ma se gli riesce di prendere un po’ di voti a destra è grasso che cola. Non accadrà. La destra ha già casa sua, ne ha addirittura tre. Il fascino renziano dovrebbe accecare l’ala più moderata della destra e quella più moderata della sinistra. A occhio e croce stiamo parlando di un 4-5% elettorale, da non buttar via, che tuttavia non cambierà la fisionomia politica del Paese.

A DESTRA SOLO ODIO, IL PD DEVE RICOSTRUIRE SENZA FRETTA

Il Pd, invece, deve radicalizzare in modo netto, senza ricorrere al stigma del fascismo, la propria contrapposizione a una destra che le uniche idee le prende dal mercato dell’usato, che è tornata a tuonare contro neri e migranti, che è piena di giornalisti che nei talk show fanno a gara a dire stronzate. È in atto la più straordinaria operazione di brutalizzazione della politica. Se non ci fossero Maurizio Crozza e altri comici a far sorridere ci sarebbe da preoccuparsi ad ascoltare un mare di menzogne e una quantità belluina di incitamenti all’odio. Credo che arriverà un tempo in cui la destra pagherà questa stagione di follia.

L’intervento del segretario nazionale del Partito democratico Nicola Zingaretti alla convention del Pd a Bologna il 17 novembre.

Il Pd deve essere tutt’altra cosa. Fermo, rigorosamente legato alle istituzioni, movimentista di fronte al disagio sociale e nelle lotte per la difesa delle fabbriche (a cominciare dall’Ilva), deve insomma seminare senza avere fretta. Non sappiamo se il raccolto toccherà al Pd che Zingaretti e Cuperlo hanno riportato a sinistra o a un altro soggetto del tutto nuovo. È fondamentale che l’impressione di questi giorni si consolidi. Vi ricordate il bellissimo titolo che fece il capo-redattore del l’Unità Carlo Ricchini nel numero del quotidiano che accolse gli operai per la grande manifestazione e che Enrico Berlinguer aveva tra le mani? Diceva semplicemente: «Eccoci». Non dimenticatelo, diceva solo «eccoci». Era tanta roba allora, lo è di più oggi.

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Il Pd rilancia sullo ius soli ma il M5s fa il benaltrista

Zingaretti promette battaglia per la cittadinanza ai "nuovi italiani". Ma i grillini lo gelano: «Sconcertante, preoccupiamoci di famiglie, imprese e del Paese sott'acqua». Orlando: «Noi pensiamo a più cose insieme».

La questione dei diritti civili ha ridato animo alle fibrillazioni tra i giallorossi. Tutta “colpa” dell’Assemblea nazionale del Partito democratico, dalla quale il segretario dem Nicola Zingaretti ha rilanciato: «Ci battiamo perché al più presto si rivedano i decreti Salvini, dentro questo governo come scelta di campo. Ci batteremo con i gruppi parlamentari per far approvare lo ius culturae e lo ius soli, certo che lo faremo». Poi ha aggiunto: «Faremo una legge per parità salariale tra donne e uomini, ma per raggiungere l’obiettivo e non per mettere bandierine e avere un’intervista sui giornali. Ci vuole serietà, non comizi».

I GRILLINI: «PENSIAMO AL PAESE SOTT’ACQUA»

Dal Movimento 5 stelle – che sul tema ha cambiato idea – non hanno digerito gli annunci zingarettiani. E fonti grilline hanno risposto sfoggiando dosi di benaltrismo: «C’è mezzo Paese sott’acqua e uno pensa allo ius soli? Siamo sconcertati. Preoccupiamoci delle famiglie in difficoltà, del lavoro, delle imprese. Pensiamo all’Italia, già abbiamo avuto uno (Matteo Salvini, ndr) che per un anno e mezzo ha fatto solo campagna elettorale. Noi vogliamo pensare a lavorare».

ANCHE DI MAIO SPOSTA L’ATTENZIONE SU ALTRO

Il capo politico del M5s Luigi Di Maio ha usato più o meno le stesse parole da Salerno, dove si trovava per l’ultima tappa del suo tour in Campania: «Col maltempo che flagella l’Italia, il futuro di 11 mila lavoratori a Taranto in discussione, qui si parla di ius soli: io sono sconcertato. Siamo al governo per governare e non per lanciare slogan o fare campagna elettorale».

A molti dei cinque stelle sembrerà impossibile. Ma noi riusciamo a pensare anche due cose nello stessa giornata


Andrea Orlando del Pd

Dal Pd ha replicato il vicesegretario Andrea Orlando: «A molti esponenti dei cinque stelle sembrerà impossibile. Ma noi riusciamo a pensare anche due cose nello stessa giornata».

Lavoriamo per una nuova agenda di Governo che rispetti gli accordi di programma e vicino ai bisogni delle persone….

Posted by Nicola Zingaretti on Sunday, November 17, 2019

LA “SPERIMENTAZIONE” DI GOVERNO REGGERÀ?

Segnali di alleanza di governo che scricchiola? E pensare che Zingaretti, poco prima, aveva comunque confermato il “laboratorio” giallorosso: «Stiamo vivendo una difficile esperienza di governo, ma ribadiamo la scelta di sperimentare le alleanze. Qualcuno dice “Non vogliamo un accordo storico con il M5s”. Ma cosa vuol dire? Non si governa tra avversari politici, ma solo se si condividono almeno i fondamenti di una prospettiva politica e si calano nei territori. Ci vuole tempo, certo». Ora bisogna vedere se si riuscirà anche a condividere una visione in tema di diritti civili.

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Lega al 34% nei sondaggi politici del 15 novembre 2019

Lontani Pd (19,5%) e M5s (16,8%). La coalizione di centrodestra al 49,4%, sei punti in più di quella giallorossa.

Se si andasse al voto la Lega otterrebbe il 34% dei consensi, il Pd il 19,5% mentre il Movimento 5 Stelle 16,8%. Sono i dati che emergono dal sondaggio Index Research effettuato per la trasmissione per Piazza Pulita, su La7. Per quanto riguarda gli altri partiti del centrodestra: Fratelli d’Italia conferma il secondo posto con il 9% di consensi mentre Forza Italia è al 6.4%. Italia Viva di Matteo Renzi è 4,8% mentre Più Europa all’1,8%, i Verdi sono all’1,9%. Gli indecisi al 38,3%. Il sondaggio Index si concentra poi sui consensi che otterrebbero le coalizioni. Quella “giallorossa” (Pd, Iv, M5s, Sinistra) è data al 43,4% mentre il centrodestra (Lega, Fdi e Fi) si attesta al 49,4% dei consensi.

LISTA CALENDA ALL’1% (IN ATTESA DEL 21 NOVEMBRE)

Questi dati sono simili – almeno per le forze di testa – a quelli usciti da un’altra rilevazione, pubblicata il 14 novembre da Emg, secondo cui la Lega è primo partito con il 33% dei consensi seguita dal Pd con il 19,5% e il Movimento 5 Stelle dato al 16,1%. Tra gli altri partiti, Fratelli d’Italia è al 9,8%, Forza Italia al 7,4%. Italia Viva è al 5,7%, Più Europa al 1,8%, La Sinistra 1,7%, Europa Verde al 1,0% e Lista Calenda 1,0%. Proprio Calenda il 15 novembre ha annunciato su Twitter: «Il 21 lanceremo il nuovo movimento politico. Nonostante il poco tempo siamo pronti a lavorare con Stefano Bonaccini ed il Pd per combattere insieme. Ovviamente se i 5s non saranno alleati».

OLTRE IL 50% CONTRO IL GOVERNO PD-M5S

A proposito del governo giallorosso, il sondaggio Emg ha rilevato che la maggioranza degli intervistati è contro l’esecutivo attualmente in carica. Alla domanda «Lei pensa che sia stato un bene far nascere questo Governo?”» il 54% degli intervistati ha risposto “no”, il 28% ha risposto “sì”. Il 18% ha preferito non rispondere.

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Alle Regionali in Emilia-Romagna cresce l’ipotesi desistenza per il M5s

Mentre Salvini prepara la kermesse al PalaDozza,, il Pd corteggia i cinque stelle. Che, però, non escludono più di saltare un giro. La Lega a Bologna attesa dalle contestazioni.

Mentre Matteo Salvini prepara la kermesse al PalaDozza, in vista delle Regionali in Emilia-Romagna del 26 gennaio, prosegue la corte serrata del Partito democratico al Movimento 5 stelle per mettere in piedi un’alleanza che ricalchi la maggioranza di governo. Anche se, in casa cinque stelle, prende sempre più quota l’ipotesi di un giro di riposo, di una sorta di desistenza in chiave anti-Lega, senza il simbolo sulla scheda.

DI MAIO NON ESCLUDE A PRIORI LA DESISTENZA

Dell’ipotesi aveva parlato nei giorni scorsi Max Bugani, capogruppo in Comune a Bologna e membro del direttivo di Rousseau. Il capo politico Luigi Di Maio, che nei giorni scorsi aveva assicurato che il M5s sarebbe stato della partita con un proprio candidato alternativo sia al Pd sia alla Lega, per la prima volta non ha escluso la possibilità. «Dove non saremo pronti non ci presenteremo. Nei prossimi giorni prenderemo decisioni su questo», ha detto. La decisione dovrebbe essere presa il 15 novembre, in un incontro al quale parteciperanno i parlamentari del territorio con il capo politico Luigi Di Maio.

L’APPELLO DEL MINISTRO DE MICHELI

Intanto, dal Pd, agli appelli più volte ripetuti da Bonaccini, si è aggiunto quello di un membro del governo che è anche esponente di spicco del Pd emiliano-romagnolo, la ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli. «Mi piacerebbe» – ha detto – «se il ‘primo bacio’ tra Pd e M5s fosse in Emilia, ma capisco che ci sono dei problemi. Con i colleghi dei cinque stelle ho lavorato bene. Ma continuo a rimanere un’emiliano-romagnola che vorrebbe e farà di tutto affinché Bonaccini continui a essere governatore».

PRODI BENEDICE LA CANDIDATURA DI BONACCINI

A Bonaccini è arrivata intanto anche la ‘benedizione’ di Romano Prodi «Questi» – ha detto Prodi riferendosi alla giunta uscente – «hanno governato bene, mentre Salvini porta per mano la candidata. L’elettore riflette non solo sui grandi slogan, ma anche sulle cose e su cosa un’alternativa a questo potrebbe produrre. La disoccupazione cala e tutti vengono a farsi curare qui». La Lega, intanto, Lucia Borgonzoni, puntando a riempire il PalaDozza di Bologna e lanciando le proprie parole d’ordine. Il clima si preannuncia caldissimo: oltre al flashmob delle ‘6 mila sardine’ in piazza Maggiore ci sarà un corteo dei centri sociali e dei collettivi universitari, che cercherà di avvicinarsi il più possibile alla convention del Carroccio, sicuramente ‘blindata’ dalle forze dell’ordine. Nella vicina Porta Lame, prevista anche una biciclettata organizzata dagli anarchici. Appuntamenti che potrebbero rendere molto delicata la gestione dell’ordine pubblico.

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Regionali in Calabria, caos candidati per Pd e M5s

A pochi giorni dalla scelta ufficiale, spunta un sondaggio commissionato dai dem che "affonda" Oliverio: l'86% non ha fiducia in lui. E l'imprenditore Callipo dice no ai pentastellati.

Quando mancano pochi giorni alla scelta del candidato ufficiale per le elezioni regionali in Calabria, in programma il 26 gennaio assieme a quelle in Emilia-Romagna, spunta un sondaggio commissionato dal Pd sull’apprezzamento di cui godrebbe – ma sarebbe meglio dire non godrebbe – il governatore uscente Mario Oliverio, espressione dello stesso Pd.

LEGGI ANCHE: La politica calabrese corteggia Pippo Marra in vista delle Regionali

Alla domanda «negli ultimi cinque anni lei ritiene che la qualità della vita nel suo territorio sia migliorata o peggiorata?», il 64% dei calabresi intervistati ha risposto «peggiorata», solo il 7% «migliorata». Ma il dato più eclatante riguarda proprio Oliverio: l’86% del campione dichiara infatti di non aver fiducia nel governatore uscente, a fronte di un 14% di favorevoli.

OLIVERIO BOCCIATO SU TURISMO E OCCUPAZIONE

Il sondaggio, apparso sul sito del quotidiano la Repubblica, è dell’istituto Swg e prende in considerazione anche altri parametri. Da 1 a 10, per esempio, gli intervistati hanno dato un voto di 3,9 alla promozione turistica della regione e di 3,2 agli interventi per favorire l’occupazione e la creazione di posti di lavoro. Elementi che, secondo i vertici del Pd, dovrebbero spingere Oliverio a farsi da parte. Ma il governatore appare determinato a ripresentarsi anche da solo, con una lista civica, senza l’appoggio del Nazareno.

I POSSIBILI PROFILI ALTERNATIVI

Nella rosa di nomi che il segretario Nicola Zingaretti è chiamato a valutare circolano diversi profili alternativi: dal catanzarese Giuseppe Gualtieri, il super-poliziotto che ha arrestato Bernardo Provenzano, al prefetto Arturo De Felice, ex capo della Dia e originario di Reggio Calabria. Ma ci sarebbero anche il prorettore dell’Università della Calabria, Luigino Filice, e la direttrice generale di Confindustria, Marcella Panucci, nata a Vibo Valentia.

IL PASSO INDIETRO DI CALLIPO

Come se non bastasse l’imprenditore del tonno Pippo Callipo, su cui puntava in particolare il M5s per una candidatura che avrebbe potuto essere sostenuta anche dai dem, ha deciso di non scendere in campo. Pesano i ritardi accumulati dai pentastellati, le indecisioni sulla linea da seguire e le alleanze da stringere. Un quadro pieno di incognite, che ha indotto Callipo a fare un passo indietro.

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I sondaggi politici elettorali dell’11 novembre 2019

Per la prima volta le forze di centrodestra sfondano il muro del 50%. Fdi cresce più della Lega, ma avanza anche il Pd. Tracollo M5s. Cosa dice la rilevazione Swg.

Per la prima volta i tre partiti di centrodestra superano il 50% nelle intenzioni di voto degli italiani. È questo il dato più significativo dell’ultimo sondaggio realizzato da Swg per il TgLa7, andato in onda la sera dell’11 novembre.

LEGA PRIMO PARTITO E ANCORA IN CRESCITA

Nella rilevazione pubblicata nel corso del telegiornale condotto da Enrico Mentana, la Lega raggiunge il 34,5%, Fratelli d’Italia il 9,5% e Forza Italia il 6,2%. per un totale del 50,2%, a cui potrebbe essere aggiunto l’1,3% di Cambiamo!, la lista del governatore ligure Toti.

Nel dettaglio, si conferma a crescita del Carroccio, che guadagna uno 0,4% rispetto al sondaggio della settimana precedente. Fa meglio ancora il partito di Giorgia Meloni, cresciuto dello 0,6%, mentre Fi resta stabile.

IL PD GUADAGNA OLTRE UN PUNTO, CROLLA IL M5S

Avanza, un po’ a sorpresa, anche il Partito democratico, che guadagna oltre un punto percentuale, dal 17,5% al 18,6%. Consensi erosi, forse, all’alleato di governo, visto che il Movimento 5 stelle un punto lo lascia sul terreno, passando dal 16,8% al 15,8%. Svanisce l’effetto novità per Italia viva: il partito di Matteo Renzi scende al 5,6% dal precedente 6%. MdP, Verdi e +Europa flettono dello 0,3% ciascuno.

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La memoria corta degli ex comunisti italiani

In occasione della caduta del Muro di Berlino in molti ex si sono affannati a prendere le distanze con il loro passato. Ed è questo sentimento di vergogna una delle cause delle sconfitte della sinistra di oggi.

L’anniversario della caduta del Muro di Berlino è stato ricordato con articoli, interviste, speciali televisivi (ottimo quello di Ezio Mauro), confessioni di dirigenti del Pci e testimonianze varie. Tutti protagonisti, todos caballeros.

Accade, non so se solo in Italia, che i grandi fatti storici abbiamo ormai numerosi personaggi che rivelano di aver svolto ruoli che nell’anniversario dell’evento nessuno aveva preso in considerazione. Capita così di leggere che moltissimi italiani, e fra questi moltissimi comunisti, abbiano abbattuto il Muro assieme a quei poveri disgraziati di Berlino Est.

Mi capita spesso anche di ascoltare racconti sulla politica del Pci e su l’Unità di chi sostiene di aver vissuto da protagonista quelle pagine ed io (che c’ero) non mi ricordo della loro esistenza o soprattutto del loro ruolo. Stranezze!

C’È ANCORA CHI CONFONDE IL PCI CON IL COMUNISMO DELL’EST

Due cose mi colpiscono di questi racconti. Una è la prosopopea di intellettuali e giornalisti di destra, spesso con un netto profilo fascista, che sono saliti in cattedra come maestri di libertà. L’altro è l’imbarazzo dei comunisti, ex o post. Mi interessano questi ultimi.

Molti oggi sembrano non capire perché sono stati comunisti e si affannano o a negare di esserlo stati ovvero a pentirsi di aver fatto questa scelta di vita

Si coglie, leggendo interviste e memorie, che tutti loro (tranne ovviamente quelli che non hanno cambiato idea) non capiscono perché sono stati comunisti e si affannano o a negare di esserlo stati ovvero a pentirsi di aver fatto questa scelta di vita, talvolta giovanile. Ci sono pezzi di verità in queste imbarazzanti ricostruzioni autobiografiche. Una delle verità è che il comunismo italiano non era la fotocopia di quello dell’Est, cosa che sanno tutti tranne Matteo Salvini, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Ce ne siamo fatti una ragione. Tuttavia resta il buco nell’anima di chi si ritrova con una biografia di cui oggi si imbarazza. A me non è capitato.

IL PCI È STATA UNO SCUOLA POLITICA E DI VITA

Io sono stato comunista e comunista nel Pci. Ho anche avuto un breve trascorso nel Psiup, militando in una segreteria nazionale dei giovani in cui c’erano Mauro Rostagno, Luigi Bobbio e Pietro Marcenaro, e da quel partito ne sono uscito dopo i carri armati di Praga che i dirigenti pisuppini non criticavano abbastanza. L’intera mia vita di cittadino ha coinciso con quella del mio partito, quando decisi, adolescente, che era arrivato il momento di schierarmi con la sinistra e formarmi, da solo, alla cultura marxista e leninista. Metto la “e” e non il trattino.

Alcuni momenti della ‘Festa de l’Unità’ di Firenze nell’edizione del 1948.

Nessuno mi ha ingannato, come sembrano dire molti comunisti pentiti di oggi, e tornassi indietro farei le stesse cose, più o meno. Diventai comunista perché al Sud l’alternativa era la destra neofascista, aggressivissima, e l’altra alternativa era la “clientela” democristiana, ma soprattutto perché il comunismo e il suo partito sembravano il luogo e il mezzo del riscatto. Mi/ci muoveva l’ansia per una società diversa, egualitaria, solidale e internazionalista.

Nel Pci ho imparato a essere un cittadino rispettoso della Costituzione e delle legalità

Non c’è una sola battaglia, un solo sciopero, un solo corteo che non rifarei. Nessuno dei miei compagni e compagne dell’epoca è stato un incontro inutile. Nel Pci ho imparato a essere un cittadino rispettoso della Costituzione e delle legalità. Ho imparato anche che per lasciare libere le ambizioni bisognava anche disciplinarsi e tener conto degli altri. Ho imparato a obbedire e comandare. A provare la gioia della promozione e l’amarezza della caduta. Ho imparato che in questa gara per diventare dirigente era fondamentale studiare molto e non aver paura, fisicamente, di niente.

I COMUNISTI ITALIANI NON SI SENTIVANO STRANIERI IN PATRIA

Non butto via niente di quel passato. Tutto ciò non è avvenuto per una “fede”. Non siamo stati un gruppo neo-catacumenale. La fidelizzazione verso il partito era molto laica. Lo rispettavamo, era casa nostra e questo partito, a differenza di quello che accadeva ai ragazzi di destra, non ci spingeva a considerarci estranei alla nostra patria rinata con la Liberazione e la Costituzione. Quando il partito ci impose di mettere sempre accanto alla bandiera rossa quella italiana, pochissimi di noi recalcitrono.

Enrico Berlinguer nel 1984 durante una manifestazione del Pci.

Siamo cresciuti, noi che fummo poi quelli del ’68, avendo di fronte un gruppo dirigente comunista ineguagliabile, con intellettuali-politici di straordinaria cultura (ascoltare Paolo Bufalini, Alessandro Natta: che vi siete persi!), persone che stavano in mezzo al popolo e ti giudicavano in base al fatto che anche tu sapevi stare lì. E poi il carisma inspiegabile di Enrico Berlinguer, che era forse un gradino al di sotto di Giorgio Amendola e Pietro Ingrao sul piano della profondità culturale, ma rappresentava i valori di tenacia, generosità, onestà che volevamo fossero le nostre bandiere.

LE SCONFITTE DELLA SINISTRA PARTONO DALLA VERGOGNA VERSO IL PASSATO

Ecco io sono stato comunista. Di che mi dovrei pentire? Posso elencare gli errori del partito (dal legame con l’Urss fino ai pessimi rapporti con Bettino Craxi) ma che cosa c’è oggi che sia superiore a quel che eravamo? La nostra fine è stata una malattia autoprodotta.

Massimo D’Alema con Achille Occhetto e Piero Fassino in un’immagine d’archivio del 3 febbraio 1991 a Rimini, durante il 20/mo e ultimo congresso del Pci, che sarebbe diventato Pds.

Non abbiamo visto che il mondo accelerava, molte cose non le abbiamo percepite, siamo arrivati alla scelta della Bolognina tardi e male. Ma noi ci siamo arrivati. Tanti saccenti di oggi, comunisti pentiti, intellettuali liberali, addirittura “destri” che ci governeranno nel prossimo futuro non hanno mai messo in discussione le proprie certezze, la propria storia come abbiamo fatto noi.

Il popolo comunista non c’è più, il Pd non è la sua ultima ridotta,

Oggi persino dire “noi” è esagerato. Il popolo comunista non c’è più, il Pd non è la sua ultima ridotta, siamo sparsi nella società ma, a modo nostro, ci siamo. Ecco perché ogni volta che vedo un compagno (spesso si tratta solo di maschi) che si ri-pente, che si vergogna di quel che è stato, che raffigura la sua/nostra storia secondo categorie ridicole (una chiesa, una struttura autoritaria, un mondo di conservatori) capisco le ragioni delle sconfitte di oggi e domani. Mi chiedo solo come sia potuto succedere che un partito che ha avuto alcuni milioni di iscritti e oltre una decina di milioni di voti sia stato così affollato di idioti che erano capitati lì per caso.

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Niente multe a chi non installa i seggiolini antiabbandono

La maggioranza sta pensando a una moratoria per dare tempo alle famiglie di adeguarsi fino a marzo o giugno 2020.

Niente multe per chi non installa subito i seggiolini antiabbandono per i bimbi fino a 4 anni. O meglio, è previsto uno slittamento e, forse, anche la possibilità di vedersi restituire quanto pagato per chi, nel frattempo, incappa nella sanzione. Come promesso dal ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli, la maggioranza si prepara a varare una moratoria per consentire alle famiglie di adeguarsi al nuovo obbligo sottoforma di emendamento al decreto fiscale collegato alla manovra. Il Pd pensa infatti a mettere in stand by le sanzioni almeno fino a marzo del 2020, mentre il Movimento 5 Stelle propone uno slittamento fino a giugno e, appunto, la possibilità di richiedere indietro i soldi pagati per le multe prese dal 7 novembre fino alla conversione del decreto, quando la moratoria diventerà effettivamente operativa.

EMENDAMENTI FINO ALL’11 NOVEMBRE

Ma quella sui seggiolini anti-abbandono non è l’unica modifica proposta dalla stessa maggioranza al decreto fiscale: per gli emendamenti c’è tempo fino a lunedì 11 novembre 2019 e sul fronte fisco dovrebbero arrivare le correzioni alla stretta sulle ritenute negli appalti, dopo l’allarme lanciato dalle imprese, e qualche ritocco sulle compensazioni (si potrebbero escludere i soggetti in credito d’imposta ‘strutturale’, come ad esempio i professionisti).

SCUDO PENALE PER L’EX ILVA

Ma in ballo, per la parte non strettamente fiscale del provvedimento, c’è anche lo scudo penale per l’ex Ilva, legato però all’evolversi della trattativa con Arcelor Mittal. Per venire incontro ai problemi dell’acciaieria di Taranto il governo sta peraltro pensando a un fondo, da inserire questa volta in manovra, per il sostegno dei lavoratori già in Cassa integrazione (oltre 1.500) e per le opere di bonifica dall’amianto.

VERSO LA CONFERMA DELLA CEDOLARE AL 21% SUGLI AFFITTI

Per avere la lista delle richieste di modifica alla legge di Bilancio bisogna comunque attendere almeno fino a sabato 16 novembre. Salgono, intanto, le chance di una conferma della cedolare secca al 21% sugli affitti commerciali, come negozi e capannoni. La tassazione agevolata è stata introdotta con l’ultima manovra ma vale solo per gli immobili affittati nel 2019 e al momento la legge di Bilancio non prevede una proroga. Ma «ci stiamo lavorando, penso che si farà», ha detto il presidente della commissione Bilancio del Senato, Daniele Pesco, che sta esaminando in prima lettura la manovra, raccogliendo il plauso di Confedilizia che preme per una riconferma della misura.

LA PLASTIC TAX SEMBRA INEVITABILE

Resta aperta, intanto, la partita sulle micro-tasse, dal prelievo di un euro al chilo sulla plastica, all’aumento della tassazione sulle auto aziendali: per azzerare le due misure servirebbe almeno un miliardo e mezzo che sale a 1,7-1,8 miliardi se si volesse eliminare anche la sugar tax, come chiede Italia Viva. I renziani ipotizzano per le coperture un rinvio del taglio del cuneo fiscale a settembre o un intervento su quota 100, entrambi finora esclusi dal resto della maggioranza. Difficile, quindi, che queste tasse possano essere cancellate: si lavora piuttosto a una revisione che potrebbe portare, ad esempio, a uno slittamento a luglio per sugar e plastic tax, che ora scatterebbero a partire da aprile.

NON CI SONO FONDI PER FINCANTIERI

Scoppia intanto anche un ‘caso Fincantieri‘: in manovra ci si aspettava lo stanziamento dei circa 500 milioni necessari per avviare i lavori per ampliare il cantiere navale di Sestri Ponente (il ribaltamento in mare di Fincantieri), e consentire la costruzione di grandi navi da crociera. Fondi che al momento non ci sarebbero ma, assicura il sottosegretario al Mit Roberto Traversi, «c’è un emendamento governativo già pronto».

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Col voto anticipato Renzi sparirebbe dalla scena politica

In un'intervista a Repubblica il leader di Italia viva implora di non far cadere il Conte bis. Sa che se andasse a elezioni ora sarebbe finito.

Matteo Renzi alla Repubblica dell’8 novembre dice che il voto anticipato sarebbe un suicidio, soprattutto annichilirebbe Pd e Italia viva separandoli definitivamente. Per il resto l’intervista è solo autopromozione.

È del tutto evidente che Renzi abbia capito che tirando la corda questa può spezzarsi e che dopo Giuseppe Conte c’è solo il voto e che il voto ravvicinato dopo il Conte 2 porta al governo Salvini prima ancora che si possano manifestare appieno i primi cenni di una competition fra lui e Giorgia Meloni alla quale i sondaggi danno già il 10%.

Detto tra parentesi, questo dato della Meloni richiede una riflessione. Perché dice che c’è una destra che torna a casa, avendone trovata una e segnala un trend che ha accompagnato tutte le altre avventure precedenti, come quelle di M5s e Lega, cioè dapprincipio una lenta ma inesorabile ascesa, infine una esplosione nel voto. Non so se accadrà, so solo che la descrizione di una destra pacificata che va verso la vittoria e che con serenità governa è una sciocchezza come l’idea che il primo Conte dovesse durare 20 anni.

IL PD SE CORRESSE DA SOLO POTREBBE OTTERE IL 20% DEI VOTI

Torniamo a Renzi. Al medesimo sfuggono due ipotesi di lavoro che sono davanti al Pd nel caso si rompesse l’alleanza: che cinque stelle e Italia viva rompano talmente i cabasisi al povero Nicola Zingaretti da costringerlo a far saltare il tavolo. Oppure, altra soluzione, che Matteo Salvini si “compri” un po’ di deputati grillini facendo crollare l’attuale maggioranza. Il Pd messo alle strette potrebbe andare al voto da solo o con pochi alleati al centro e a sinistra dichiarando di aver fatto di tutto per dare una mano al Paese dopo l’estate alcolica di Salvini e l’autunno giovanilistico di Renzi e Luigi Di Maio. Potrebbe assestarsi su una cifra intorno al 20% dei voti o poco più che è il dato di molte socialdemocrazie europee e da qui potrebbe tentare la risalita avendo come vantaggio di non avere in parlamento nessun renziano, Renzi compreso, e pochi pentastellati, ma non Di Maio.

SERVE UNA COALIZIONE NUOVA DA OPPORRE AI SOVRANISTI

Il Pd potrebbe, soluzione che io suggerisco, affrontare il trauma della chiusura anticipata della legislatura facendo una sorta di Big bang, cioè formando un cartello elettorale in cui si scioglierebbero i partiti e si darebbe vita a una coalizione di italiani che non vogliono prender ordini da Vladimir Putin, che non vogliono svendere le imprese ai francesi, che vogliono mantenere una società industriale di nuovo tipo, avendo al centro il tema di lavori straordinari e di una operazione sul cuneo fiscale, non da rimandare come vuole Renzi, ma da rendere più efficace. Di fronte alla minaccia di destra con una coalizione di italiani veri. Direi risorgimentale e digitale. Anche in questo caso Renzi e i grillini andrebbero a ramengo e ci sarebbe la possibilità di accogliere convergenze fra la società civile che è stufa di politicanti come i due Mattei e di signori o signorine come Di Maio e Barbara Lezzi.

PER ORA RENZI ELETTORALMENTE NON ESISTE

Renzi vuole evitare queste due soluzioni? Sia costruttivo. Deve semplicemente togliersi dalla testa ciò che lo ha mosso negli anni dell’ascesa, del successo e della sua attuale fragile resurrezione. Cioè che la sinistra, e in particolare gli ex comunisti, quelli non sbianchettati come la sua Teresa Bellanova, non sono un deposito di consensi da saccheggiare ostentando disprezzo. Renzi elettoralmente, per ora, non esiste. È figlio degli errori della sinistra non della sua evoluzione.

Chi era ossessionato da Massimo D’Alema fra un po’ sarà fuori dalla politica italiana

Non è caduto perché la sinistra lo voleva morto, ma perché lui voleva uccidere ogni ombra che venisse dalla sinistra. Renzi ha bisogno di fare chiarezza mentale nei suoi pensieri. Il prossimo voto, e la prossima sconfitta, diranno che chi ha difeso la Ditta, essendo così colpevole di coservatorismo, tuttavia attrae ancora una buona parte di italiani, chi era ossessionato da Massimo D’Alema fra un po’ sarà fuori dalla politica italiana. In sintesi, se la attuale coalizione non è in grado di emettere un solo suono dignitoso, lasci il fiato per le trombe del ritiro. Un ritiro ordinato e pieno di idee per il futuro, può almeno salvare la bandiera.

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Salvini, ma soprattutto Meloni, si stanno bevendo il governo Conte

La maggioranza è spaccata e non c’è un solo provvedimento del governo che parli agli italiani. Così le destre si rafforzano. Il Pd prenda coraggio, rompa con M5s e Italia viva e proponga una coalizione di salvezza nazionale guidata da Draghi.

Le cronache politiche raccontano che il Pd è molto arrabbiato per lo stato delle cose e vorrebbe rompere con M5s e Italia viva.

Poi leggi l’intervista a Dario Franceschini sul Corriere della Sera e ti trovi improvvisamente catapultato in una crisi politica che assomiglia a quelle che piacevano tanto ai democristiani.

Franceschini propone che fra gli alleati ci sa lealtà, un comune mission politica, vanta successi inesistenti del governo, elogia Giuseppe Conte, sostiene che si supererà gennaio fino ad arrivare alla fine legislatura e, forse con una punta di macabro umorismo, dice che vincendo le prossime elezioni questo mostro Pd-M5s-Italia Viva possa andare ancora più lontano. Solo del prossimo inquilino del Quirinale non vuole parlare perché, come si dice, de te fabula narratur.

IL GOVERNO GIALLOROSSO NON PARLA AGLI ITALIANI

È bene che il Pd si incazzi di meno e faccia più fatti, a mente fredda. L’impopolarità del governo è il termometro che decide se tenerlo in vita o no. L’impopolarità è nata dal fatto che l’operazione “cambio di maggioranza” non è piaciuta ed è enfatizzata dalla circostanza che non c’è un solo provvedimento del governo che parli agli italiani. Avevo sperato che si potesse dire che Roberto Gualtieri aveva abbattuto il cuneo fiscale mettendo soldi nelle tasche dei lavoratori. Oggi spero che si possa dire che Taranto (ragazzi: Taranto , cioè una delle maggiori città italiane), possa essere salvata in un connubio possibile fra lavoro e sicurezza. Invece la Mittal scappa, quella indefinibile ex ministra Barbara Lezzi dice cose da manicomio, il grillismo diffuso è felice di trasformare la città operaia in un grande giardinetto per poveri e anziani.

SERVE UNA COALIZIONE DI SALVEZZA NAZIONALE GUIDATA DA DRAGHI

Se le cose stanno così e andranno così, ed io sono sicuro che andranno persino peggio, il Pd deve smettere di incazzarsi perché deve dire al Paese: «Ci abbiamo provato, con Luigi Di Maio e Matteo Renzi non si costruisce nulla, Matteo Salvini sapete dove vi stava portando, io (nel senso di io-Pd) propongo alle persone di buona volontà di fare una coalizione di salvezza nazionale chiedendo a Mario Draghi di guidarla. Vogliamo rottamare tutto quello che c’è e che viene tutto da lontano, Pd compreso». Questo sarebbe un discorso che agli italiani potrebbe piacere.

Da sinistra, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il presidente uscente della Bce, Mario Draghi, e il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri.

Siamo in un Paese che ha dimenticato la Prima repubblica e si è rotto le scatole della Seconda e ormai anche di grillismo e fra un po’ presenterà il conto a Salvini preferendogli Giorgia Meloni. Che fa il Pd? Chiede un vertice di governo, vuole una cabina di regia, pensa a un caminetto? Suvvia! Io sono un ammiratore ex post della Dc a cui dobbiamo tante belle cose ma anche tanti guai attuali, ma la cultura democristiana era ben più profonda della caricatura con cui la propone il caro Franceschini. Vuole fare un patto con Di Maio e Renzi? E perché mai loro dovrebbero farlo. Uno è alla canna del gas, l’altro vuole la rovina comune per lucrare sulle macerie del Pd. È arrivato il momento di rubare l’idea a Beppe Grillo: un bel vaffa (ovviamente anche a lui).

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