La Verona razzista vista da Fresco della Virtus

Il presidente-allenatore della terza squadra della città dopo Hellas e Chievo guida un gruppo multietnico ed è il simbolo di "sinistra" del calcio di queste parti: «Balotelli? Un nemico per gli ultrà. Il colore della pelle viene dopo. Ma le mele marce vanno buttate via».

«La Verona razzista esiste, allo stadio come fuori, ma è un fenomeno più circoscritto rispetto ad anni fa». Lo assicura Gigi Fresco, 58 anni, veronese. Uno che, in un mondo sempre meno immaginifico, rischia di passare inosservato, talmente fuori dal seminato scorre la sua storia di dirigente scolastico nelle ore d’ufficio, responsabile di sette istituti della Val d’Illasi, e di presidente-allenatore di una squadra di calcio di Serie C, la Virtus Verona Vecomp. Così è – la sua doppia vita, sostenuta prima come studente e poi come lavoratore della scuola – da ormai 37 anni, durante i quali nessuno di simile è comparso sulla scena del calcio italiano, ma senza che l’establishment imperante si sia dato la cura di badarlo granché.

QUESTIONI DI ASTIO PERSONALE

Eppure, quando scoppiano “casi” come quello di Mario Balotelli, 29enne attaccante del Brescia bersagliato dai versi razzisti della curva dell’Hellas Verona durante la partita di Serie A giocata domenica 3 novembre allo stadio Bentegodi, vinta 2-1 dai padroni di casa, Gigi Fresco diventa il testimone più indicato per tastare il polso di una comunità calcistico-civile da sempre incline in certe sue frange alla burrasca e alla provocazione. «È vero, conosco bene la piazza, dove sono nato e dove opero nel mondo del calcio», ammette durante una pausa di giornate più frenetiche del solito, dovute al settimo posto della sua Virtus, dopo Hellas e Chievo terza squadra professionistica di Verona, con vista attualmente puntata sui playoff per salire in Serie B. «E da questo mio punto di osservazione», continua il presidente-allenatore, divenuto uomo simbolo della sinistra calcistica cittadina, «ribadisco che al giorno d’oggi, per la maggior parte degli ultrà gialloblù, le questioni personali vengono prima del colore della pelle».

I NEMICI E I VERSI DI CUI VERGOGNARSI

In che senso? «Provo a spiegarmi», chiarisce Fresco a proposito del Balotelli che, esasperato dagli insulti, ha calciato il pallone nella Curva dell’Hellas. «Gli ultrà del Verona, come tutti, hanno lunghe liste di giocatori e allenatori considerati nemici, o perché sono degli ex irriconoscenti, o perché in carriera si sono divertiti troppo a battere la loro squadra. Il problema nasce quando questi cosiddetti nemici hanno la pelle di un altro colore: allora scatta il solito campionario di versi scimmieschi e cori di cui vergognarsi».

LA DIFFERENZA CON GLI AFRICANI DELLA VIRTUS

Il presidente assimilato all’ex manager scozzese Alex Ferguson per via della sua longevità sulla panca del Manchester United, aggiunge: «Tutto ciò è comunque grave e va condannato, ma va precisato che, in assenza di queste premesse, l’avversario africano diventa uno come gli altri. L’ho verificato di persona nella partita casalinga giocata due mesi fa dalla Virtus contro la Triestina, durante i calci di rinvio del nostro portiere, che è un gambiano sbarcato in Italia a Lampedusa, Sibi Sheikh. In mezzo ai tifosi giuliani un bel numero era dell’Hellas, perché le due curve sono gemellate. Ecco, non c’è stata una volta in cui lo hanno preso di mira per il colore della pelle. Quando calciava, si limitavano a gridargli “scemo” come avrebbero fatto con qualsiasi portiere avversario».

MELE MARCE DA ESTIRPARE

Di fronte a questi dati di fatto, coach Fresco è ancora più convinto della necessità di misure esemplari contro chi ha riversato la sua intolleranza addosso a Balotelli, compresa la proibizione di andare allo stadio «perché una volta buttate via quelle mele marce a situazione può solo migliorare». Quindi il tecnico, prima di tuffarsi negli schemi con cui portare il bomber italo-nigeriano Odogwu a violare la porta della Fermana, conclude: «Verona è una città chiusa e diffidente per cui bisogna sempre ricordare che lo scudetto dell’85 ha dato a tutto l’ambiente una scossa formidabile, di cui si deve tenere conto anche quando si considerano gli eccessi di certi tifosi».

IL FATTORE UMANO CONTRO I RAZZISTI

Profondo conoscitore degli uomini sui banchi di scuola e fuori, prima ancora che dei calciatori, il presidente della società rossoblù ha dato spesso prova di questo suo fattore umano. Anche quando, con la Virtus in Serie D, i tifosi della Sanbonifacense presero di mira Dimas de Oliveira, ex bomber brasiliano della squadra. Il giorno dopo si presentò nel bar di San Bonifacio dove sapeva di trovare i capi ultrà, semplicemente per comunicare loro che disapprovava quei comportamenti razzisti. Nessuno ebbe qualcosa da ridire. Preferirono tutti fare esperienza della saggezza, semplice e realistica, di mister Fresco. Uno di loro, con qualche pensiero di differenza.

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A Centocelle va a fuoco anche il Baraka bistrot

Il Baraka Bistrot aveva espresso solidarietà alla libreria antifascista bruciata per la seconda volta in pochi mesi. Era uno dei primi ad aver aperto nel quartiere.

Ancora un rogo, un altro incendio appiccato in un locale a Centocelle a pochi passi dal punto in cui la notte del 5 novembre è stato dato fuoco per la seconda volta alla libreria antifascista ‘La Pecora elettrica, già oggetto di un attacco incendiario durante la notte del 25 aprile. Ad andare a fuoco, stavolta, nella notte tra l’8 e il 9 novembre, è stato il ‘Baraka bistrot‘ in via dei Ciclamini, vicino allo storico centro sociale Forte Prenestino . Dai primi accertamenti l’atto potrebbe essere doloso: la serranda è stata divelta e ci sono tracce di liquido infiammabile. Sul posto polizia e carabinieri. Con questo sono quattro i locali andati a fuoco nel quartiere di Centocelle in pochi mesi.

NESSUN DANNO STRUTTURALE

Sono stati distrutti dalle fiamme gli arredi interni del pub. La palazzina in cui si trova il locale è stata evacuata a scopo precauzionale. L’incendio è divampato intorno alle 4.30 ed è stato domato dai vigili del fuoco, che sono riusciti così a evitare che si provocassero danni strutturali all’edificio. Nessuno è rimasto ferito o intossicato. Sulla vicenda indagano i carabinieri della compagnia Casilina e della stazione Centocelle. Nei giorni precedenti l’incendio, sulla pagina Facebook del locale erano stati pubblicati post di solidarietà alla libreria antifascista ‘La Pecora elettrica’, che sarebbe dovuta riaprire il 7 novembre dopo il rogo avvenuto nell’aprile del 2019. Il sospetto è che dietro questa serie di incendi ci sia la pista della droga. Un giro di spaccio “infastidito” dalle attività serali nel quartiere. Il ‘Baraka bistrot’ è uno dei primi locali aperti a Centocelle.

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Confessa il padrone della cascina in cui sono morti tre pompieri

L'uomo era fortemente indebitato e ha cercato di frodare l'assicurazione. Indagata anche la moglie.

Voleva frodare l’assicurazione, così ha appiccato il fuoco alla sua cascina di Quargnento, alle porte di Alessandria, dove poco dopo sarebbero morti i vigili del fuoco Antonino Candido, Marco Triches e Matteo Gastaldo. Giovanni Vincenti è stato fermato nella notte dai carabinieri e ha confessato, negando però di aver voluto uccidere. Il fascicolo aperto dal procuratore Enrico Cieri ipotizza i reati di omicidio plurimo, lesioni e crollo doloso per l’esplosione avvenuta nella notte tra il 4 e il 5 novembre. Anche la moglie di Vincenti è indagata a piede libero. Secondo quanto rivelato in conferenza stampa dalla procura, i due erano fortemente indebitati. «Lo scorso agosto l’assicurazione dell’edificio era stata estesa al fatto doloso», ha rivelato il procuratore Cieri, «il premio massimale era di un milione e mezzo di euro».

ERANO FORTEMENTE INDEBITATI

La morte dei tre vigili del fuoco sarebbe da ricondurre a un errore di programmazione del timer, che era stato settato all’1.30, «ma accidentalmente c’era anche un settaggio alla mezzanotte. Questo ha portato alla prima modesta esplosione che, ahimè, ha allertato i vigili del fuoco», ha rivelato Cieri. L’esplosione doveva essere una sola ma l’errore nella programmazione del timer, collegato alle bombole del gas, ha provocato la tragedia. Vincenti avrebbe però potuto salvare la vita ai tre vigili del fuoco: «La notte della tragedia Vincenti è stato informato da un carabiniere che il primo incendio era quasi domato», ha spiega Cieri, «e non ha detto che all’interno della casa c’erano altre cinque bombole che continuavano a far fuoriuscire gas. Era intorno all’1, ci sarebbe stata mezz’ora di tempo per evitare la tragedia».

LA SVOLTA POCO DOPO I FUNERALI

La svolta nelle indagini a poche ore dai funerali solenni dei tre vigili del fuoco nella cattedrale dei Santi Pietro e Marco di Alessandria, alla presenza tra gli altri del premier Giuseppe Conte, del presidente della Camera Roberto Fico e del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. «Dovete beccarli, dovete fare di tutto per beccarli», era stato l’appello che i parenti delle tre vittime hanno rivolto nell’occasione al presidente del Consiglio. «Bisogna capire perché e chi ha fatto questo», è l’invito pressante del comandante provinciale dei vigili del fuoco, Roberto Marchioni, nell’esprimere la «rabbia» dei pompieri di fronte a questa tragedia.

NUMEROSI INTERROGATORI

Le indagini hanno portato in pochi giorni alla soluzione grazie alle attività «serrate e articolate» dei carabinieri, agli ordini del colonnello Michele Angelo Lorusso. Numerosi gli accertamenti tecnici e gli interrogatori, compreso quello di Vincenti. L’uomo, che gli inquirenti avevano già ascoltato più di una volta, ha risposto per diverse ore alle nuove domande degli investigatori. In caserma anche un avvocato, Laura Mazzolini del foro di Alessandria, e due donne, che sono arrivate e andate via in auto nell’arco di una ventina di minuti.

CITTADINI DAVANTI AL COMANDO

Davanti al Comando provinciale anche alcuni cittadini che, saputo dell’interrogatorio, hanno raggiunto gli uffici dell’Arma. La notizia del fermo di polizia giudiziaria era arrivata alle 2.29 con un comunicato di dieci righe che rimandava alle 9 i dettagli dell’operazione. Poco dopo anche Vincenti aveva lasciato la caserma con altre due persone, a bordo di un’Alfa Romeo Giulietta di colore grigio. Non si sa dove fosse diretto.

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Perché il bacio tra Breznev e Honecker ha segnato per sempre il Muro di Berlino

Il leader socialista sovietico e quello tedesco furono immortalati il 5 ottobre del 1979 durante le celebrazioni del trentennale della Ddr. Una foto diventata prima murale nel 1990 e poi icona del Novecento. La storia.

Era il 5 ottobre del 1979 e si celebravano i 30 anni dalla nascita della Repubblica democratica tedesca. Leonid Breznev, segretario del Partito comunista sovietico, aveva appena concluso il suo discorso pubblico. Ed Erich Honecker, segretario del Partito socialista della Germania, gli si avvicinò a braccia spalancate per congratularsi con lui. Si trovarono uno di fronte all’altro. E non si opposero allo scambio di quel “bacio fraterno socialista“. Una particolare forma di saluto in voga tra i leader dei Paesi marxisti-leninisti, che serviva a dimostrare il feeling esistente tra i capi politici fedeli all’area Est, in un mondo tenuto sotto scacco dalla Guerra fredda.

FOTO STORICA DIVENTATA MURALE NEL 1990

Quando quelle due bocche maschili si appoggiarono piano l’una sull’altra, la folla di presenti se ne stava tutta intorno, a festeggiare e a testimoniare quel rito figlio della tradizione di sinistra. Tra chi osservava c’erano decine di fotografi. Ma, tra tutti, soltanto il francese Regis Bossu riuscì a immortalare lo schiocco di labbra diventato un’icona del Novecento. Quello scatto ha fatto il giro del mondo. E la sua fortuna non è finita lì. Ha raccolto nuova linfa vitale trasformandosi in un murale nel 1990, grazie al talento creativo dell’artista russo Dmitri Vrubel. Il titolo è My God, Help Me to Survive This Deadly Love (Dio, aiutami a sopravvivere a questo amore letale). Ancora oggi è il più fotografato dai turisti su quel che resta oggi del Muro di Berlino.

UN RITO MOLTO… COMUNISTA

Il bacio fraterno socialista è un rituale che consiste in un abbraccio e in una serie di tre baci reciproci sulle guance o, più raramente, sulla bocca. La tradizione, che proviene dalla Chiesa ortodossa, è stato adottata dai leader politici comunisti. Per questo motivo, quando Honecker andò ad abbracciare Breznev e poi si passò alla bocca, non ci fu nulla di così eclatante. Ma ciò che porta alla fama qualcosa e qualcuno, spesso, ha una logica insondabile.

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I dati sul gap economico tra Germania Est e Ovest a 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino

Nell'ex Ddr residenti in calo, maggiore invecchiamento della popolazione e meno giovani. Più disoccupati e reddito medio inferiore del 20%. Le infografiche sul divario.

C’è un paradosso, in Germania, che mostra un Paese ancora diviso a metà, nonostante il 9 novembre 2019 l’orologio della storia abbia segnato il 30esimo anniversario dalla caduta del Muro di Berlino. Un simbolo che ha separato Repubblica democratica tedesca e Repubblica federale di Germania per 28 anni, ma questo periodo ha segnato il Paese forse più della fine della Guerra fredda. E i dati infatti dimostrano che la Ddr esiste ancora.

Nel rapporto annuale sullo Stato dell’unità tedesca pubblicato nel 2018, le autorità del Paese hanno scritto che il “recupero” dei länder dell’Est procede più lentamente del previsto. Non solo. Il 57% dei residenti dell’ex Germania Est si considera cittadino di Serie B. Il primo dato per capire questo scollamento è quello della popolazione. Oggi, con la sola eccezione di Berlino, i distretti orientali mostrano residenti in calo, invecchiamento e diminuzione dei tassi di natalità.

  • La popolazione in Germania in numero di residenti per chilometro quadrato (fonte: ergebnisse.zensus2011.de)

Tra il 1989 e la metà degli Anni 2000 il numero di figli per donna è sceso da 1,58 a 0,78, salvo poi crescere leggermente negli ultimi anni, con un sorpasso solo nel 2017, quando le regioni orientali hanno superato quelle della ex Germania Ovest con 1,61 bambini per donna contro 1,57. Con questa inerzia demografica l’Est si trova ora con un’età media più alta: 46-48 anni contro i 40-44 dell’Ovest. L’altra mancanza endemica ha riguardato i giovani. Si stima che negli ultimi 30 anni siano passati dall’Est all’Ovest almeno 1,9 milioni di persone nate dopo il crollo del Muro.

  • La percentuale di giovani sotto 18 anni.

DISOCCUPAZIONE, L’EST DOPPIA IL DATO NAZIONALE

Lo spettro delle “due Germanie” si fa ancora più vivo osservando i dati economici e lavorativi. Una delle imprese più difficili per i governi di Berlino è stata quella di far riassorbire la disoccupazione. Basti pensare che nel 2019 nei cinque länder che componevano la Ddr il tasso delle persone senza lavoro si è attestato al 6,9%, oltre il doppio della media nazionale ferma al 3,1%.

  • La percentuale di disoccupati in Germania.

Dati analoghi anche sul fronte della disoccupazione giovanile. Secondo i dati dell’Eurostat nel 2019 la percentuale di lavoratori tra 15 e 24 anni senza lavoro si attestava al 6,2% a livello nazionale, mentre nei cinque land della ex Ddr, senza contare Berlino, il tasso cresceva al 7,8%, un divario anche più ampio se si conta il 5,8% della ex Germania Ovest.

  • La disoccupazione giovanile in Germania in %.

OLTRE 3 MILA EURO DI DIFFERENZA NEI SALARI

Anche il fronte economico non sorride appieno all’ex Repubblica democratica. Il governo federale tedesco ha calcolato che il Pil pro capite è cresciuto per tutto il Paese e che il divario è sceso, ma comunque resta: nel 1990 quello dei cittadini dell’Est era meno della metà – il 43% – di quello degli abitanti dell’Ovest, mentre nel 2018 è diventato il 75% di quello dei vicini. Mentre il reddito medio dell’Est è inferiore del 20% rispetto a quello dell’Ovest. Nel 1989 la forbice tra i salari era al suo apice (4.432 euro) e otto anni dopo, nel 1997, si è dimezzata passando a 2.092 euro. Ma con l’inizio degli Anni 2000 è tornata a crescere: nel 2016 è stata infatti di 3.623 euro.

  • Il Pil dei singoli länder in milioni di euro.

C’è un altro dato che separa Est e Ovest e riguarda la presenza di cittadini stranieri. L’ex Ddr ha mostrato uno scarso fattore attrattivo per i migranti e i tassi ti presenza sono molto bassi. Negli ultimi anni, soprattutto dopo l’emergenza profughi del 2015, la percentuale di stranieri sulla popolazione tedesca si è attestata intorno a 5,8%, superando i 10 milioni di residenti non tedeschi nel 2017. Numeri che però non hanno attecchito a Est. Quasi tutti i länder hanno infatti indici che si fermano intorno al 2%.

  • Percentuale di presenza straniera in rapporto alla popolazione.

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La vera minaccia è la politica dei Mastrolindo

Slogan, promesse irrealizzabili, jingle. Da Berlusconi a Salvini, Di Maio e Renzi, i leader sono pubblicitari pronti a offrire soluzioni in stile Trivago o Facile.it. Ma così il disastro è dietro l'angolo.

La democratizzazione del desiderio. Ovvero tutti hanno diritto a tutto. Cose serie e frivole, bisogni e sogni allo stesso modo. Perché l’erba voglio oggi cresce dappertutto e con una velocità che riesce addirittura a divorare se stessa. Desiderare il desiderio è diventato perfino più importante dell’oggetto desiderato

DESIDERI ILLIMITATI, RISORSE LIMITATISSIME

Chi ricorda «Il tuo prossimo desiderio» (spot dell’Ariston) oggi fa i conti con una realtà in cui non si fa in tempo a soddisfarne uno che ce ne sono altrettanti, se non di più, che attendono soddisfazione.

Come abbiamo potuto farci abbagliare da promesse di benessere e felicità così grossolane, così splendenti da non indurci nel sospetto che anziché d’oro siano di latta?

Certo per la società dei consumi – ha scritto John Seabrook in Nobrow: The Culture of Marketing, the Marketing of Culture – «nulla potrebbe essere più minaccioso del fatto che la gente si dichiarasse soddisfatta di quel che ha». Però è drammatico, per riprendere alcune considerazioni della volta scorsa, che i desideri siano diventati illimitati, che tutto sia desiderabile e teoricamente ottenibile. Senza curarsi, anche distrattamente, se si hanno le indispensabili risorse economiche, ma anche intellettuali, culturali, professionali.

DALLA INSODDISFAZIONE SI GENERA IL POPULISMO

Perché l’inevitabile scarto fra desiderio e realtà, mediamente grande per tutti, è generatore alla lunga di una profonda insoddisfazione sociale. Della quale i populisimi, variamente espressi nel mondo occidentale, ne sono l’espressione aggiornata. Con il loro carico di protesta, rabbia, ribellismo che si gonfiano fino a esplodere nei confronti di tutto ciò che viene identificato come responsabile delle promesse mancate, dei desideri inevasi, delle attese frustrate. Ciò che qui interessa però è come abbiamo potuto ridurci così. Come abbiamo potuto farci abbagliare da promesse di benessere e felicità così grossolane, così splendenti da non indurci nel sospetto che anziché d’oro siano di latta?

SIAMO SOMMERSI DA SPOT

La risposta è presto detta. Sono stati i pubblicitari e la pubblicità a ridurci così. Ma senza poteri occulti che hanno tramato e senza un disegno ideologico o una pianificata strategia. La circonvenzione d’incapaci – noi tutti – è avvenuta quasi spontaneamente, con tanta più forza persuasiva quanto più quella ideologia ha lavorato instancabilmente. Entrando in tutte le trame del vivere quotidiano, installandosi al centro del sistema massmediale, estendendo il paesaggio pubblicitario nei tanti modi oggi osservabili guardandosi intorno, camminando per la città, spostandosi in metro, muovendosi in auto.

La pubblicità non è né di sinistra né di destra. È la neutralità che la rende efficacissima. Ed è la sua efficacia che l’ha resa linguaggio principe

Ovunque si sia o si vada non manca mai un’immagine o un messaggio promozionale. Siamo letteralmente sommersi dalla pubblicità. Si stima che veniamo raggiunti in media da 3.000 messaggi al giorno. Ma non ci facciamo più caso. Perché quest’azione di avvolgimento e coinvolgimento è avvenuta in modo dolce. È partita da lontano, ha lavorato per anni, giorno per giorno, Come la goccia che scava il sasso ci siamo alla fine convinti che «Impossible is nothing» (Adidas) e che «Per tutto il resto c’è Mastercard».

LA PUBBLICITÀ È NEUTRALE E PER QUESTO EFFICACE

La pubblicità si è installata al centro del sistema, senza resistenze, se non timide nei decenni 60 e 70 di contestazione del sistema consumistico. Perché come tutte le ideologie forti, funziona non venendo percepita come tale. Nel pensiero corrente la pubblicità non è né di sinistra né di destra e nemmeno di centro. È la neutralità che la rende comunicazione efficacissima. Ed è la sua efficacia che l’ha resa linguaggio principe. D’altra parte è stata ed è proprio la politica, se non la prima, la più grande vittima della pubblicità. Al punto di arrivare a identificarsi con essa. Assumendone stile e modalità comunicativa, facendone proprie strategie e tecniche persuasive. In ossequio al principio che in pubblicità non bisogna dirle giuste ma bene. E che spararle grosse non solo si può ma si deve.

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Dal momento che un annuncio non ha alcun obbligo di verità: è comunicazione non informazione. Peraltro a chi interessa, ammesso sia verificabile, se «Scavolini è la cucina più amata dagli italiani»? Ciò che conta, come dicono i pubblicitari, è che si fissi il concetto, che passi il messaggio

FORZA ITALIA, LA SOTTOMISSIONE DELLA POLITICA ALLA RECLAME

Questo processo di sovrapposizione e nel contempo di sottomissione della politica alla pubblicità ha in Italia una data ufficiale: la nascita di Forza Italia, il partito creato dal nulla, modellato su Publitalia e impostosi alle prime elezioni nelle quali si presentò forte di una campagna pubblicitaria sulle reti Mediaset che per pressione, ovvero numero di spot trasmessi nei 40 giorni di campagna elettorale (1.127 con punte di 61 al giorno) era un’assoluta novità; che equiparava il partito di Silvio Berlusconi ai brand del largo consumo. Il promesso «nuovo miracolo italiano» si impose all’attenzione dei consumatori/elettori con forza persuasiva simile a «Se non ci fosse bisognerebbe inventarla» (Nutella) e «Dove c’è Barilla c’è casa». 

SI È IMPOSTA LA LOGICA ALLA «O COSÌ O POMÌ»

Ciò che però va sottolineato non è il carattere imbonitorio del messaggio politico, nel momento in cui diventa tout court pubblicitario, ma il fatto che promettere miracoli, palingenesi della domenica, risoluzione di problemi ed emergenze epocali è diventato normale. Credibile, evidentemente, per gli elettori/consumatori. Ma alla lunga deleterio e distruttivo per l’intera società. In primo luogo perché si è imposta la logica semplificatoria della pubblicità, che non conosce mezze misure: «O così o Pomì».

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La personalizzazione e l’attuale leaderismo che ne conseguono s’accompagnano alla speculare scomparsa dei partiti come portatori di visioni collettive e concezioni condivise del mondo e della società. Ora ogni partito è il suo leader. Che la canta e la suona come vuole. O meglio che se la twitta e se la posta (a pagamento), con propensione personalistica massima nel caso di Matteo Salvini e della Lega. Sull’account personale da marzo a ottobre sono stati spesi 161.608 mila euro, in quello del partito 845.

PROMESSE ROBOANTI E DIETROFRONT SDOGANATI

L’incrudelimento del confronto politico è causa ed effetto dell’esagerato aumento di tono delle promesse, tanto roboanti e giocate sull’emozione anziché sulla ragione, da colpire nell’immediato, a caldo, ma da svanire velocemente. È così che, annunciata la cancellazione della povertà per decreto o l’abolizione delle accise sulla benzina, si può senza pudore alcuno contraddirsi o addirittura smentirsi. Dimenticarsi delle promesse fatte. Ma non di aizzare i propri gruppi d’acquisto e fan club. Perché la pubblicità non conosce, né riconosce smentite o contraddizioni. Per dirla in pubblicitariese «mente sapendo di mentine».

BASTA CON I CAPITAN FINDUS E I MASTROLINDO

Ora cambiare registro, smettere con la politica del «pulito sì, fatica no», e ritornare a promesse realistiche, sarebbe auspicabile. Sommamente. Però non è all’ordine del giorno. Pensare che basti proibire la pubblicità della politica, come ha annunciato Twitter, è una pia illusione. Anche perché Facebook non lo farà. Allo stato attuale sarebbe già un risultato se si facesse strada, almeno, la consapevolezza che più la politica diventa annuncio, teatrino in streaming, offerta di soluzioni in stile Trivago o Facile.it, più il disastro si avvicina.

Non è il fascismo che minaccia di ritornare, ma qualcosa di perfino peggio, anche se allegro come un jingle. Perché la democrazia «non è come il vino che invecchiando migliora»

Però non è il fascismo che minaccia di ritornare, ma qualcosa di perfino peggio, anche se allegro come un jingle. Perché la democrazia, con le sue libertà e difese dei diritti civili e personali, «non è come il vino che invecchiando migliora». Lo scrive l’ultimo numero di The Economist citando una ricerca apparsa sull’American Political Science Review che ammonisce «a non dare per scontata la democrazia». Che anzi, in Italia, è più che mai in pericolo se i vari Matteo Salvini, Luigi Di Maio e Matteo Renzi continuano a travestirsi da Capitan Findus, Omino Bianco e Mastrolindo.

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Il muro di Berlino in 10 film

Il 9 novembre del 1989 la Germania tornava a essere un Paese unito. Per celebrare la riunificazione, ecco le pellicole che raccontano i drammi e i controsensi di un blocco di cemento che ha segnato la storia.

Il 9 novembre di 30 anni fa la Germania tornava a essere un Paese unito. Spariva l’ufficiale suddivisione tra Est e Ovest, almeno sulla carta e nelle intenzioni. Ma quella spartizione territoriale che per circa 28 anni aveva scavato un solco tra due mondi irriducibili si è affievolita solo molti anni dopo, e forse mai del tutto. È infatti sopravvissuta nei ricordi di chi ne subì le conseguenze più dure. E nelle quotidianità stravolte dei tedeschi che, da un giorno all’altro, si sentirono stranieri in un Paese che era sempre stato il loro. Ma il faccia a faccia tra Repubblica democratica e Repubblica federale si è impresso anche nelle pellicole degli artisti e dei registi, che tradussero in linguaggio cinematografico la realtà di una nazione divisa a metà dalla logica bipolare.

GOODBYE LENIN

È il 1989 quando Christiane, una fervente comunista che vive nella Germania dell’Est va in coma, dopo aver visto il figlio Alex picchiato e arrestato dalla polizia durante una delle sempre più frequenti manifestazioni di piazza. Mancano ormai pochi giorni alla caduta del muro di Berlino. La donna esce dal coma soltanto otto mesi dopo, quando il mondo attorno è ormai cambiato. I suoi figli, però, fanno di tutto per difendere i suoi nervi deboli. Come? Nascondendole la caduta del muro e convincendola che la realtà è rimasta identica a come lei l’aveva lasciata. La pellicola ha vinto numerosi riconoscimenti, tra cui il premio César nel 2004 come miglior film dell’Unione europea e, nello stesso anno, il premio Goya come miglior film europeo. Anno di uscita: 2003. Regia di Wolfgang Becker. Principali interpreti: Daniel Brühl e Katrin Sass.

Un frame del film Goodbye Lenin
Un frame del film Goodbye Lenin

IL CIELO SOPRA BERLINO

Negli Anni Ottanta due angeli vagano per Berlino. Si mettono in ascolto dei pensieri dei passanti. In particolare, si interessano ai pensieri formulati da una donna incinta, da un pittore, da un uomo che pensa alla sua ex fidanzata. Il loro compito è preservare per sempre la realtà, memorizzare in che modo Berlino cambia e attraversa il costante flusso della storia. Presentato nel 1987 al 40esimo Festival di Cannes, ha vinto il premio per la migliore regia. Anno di uscita: 1987. Regia di Wim Wenders. Interpreti principali: Bruno Ganz e Otto Sander.

LE VITE DEGLI ALTRI

Nel 1984 il capitano della Stasi Gerd Wiesler ha il compito di spiare Georg Dreyman, scrittore teatrale e intellettuale ritenuto un pericoloso dissidente e un potenziale traditore del governo comunista. In molti spingono Wiesler, che svolge ogni suo compito in modo impeccabile, a trovare delle prove per accusare Dreyman. L’operazione di spionaggio ha un risvolto sentimentale. È fortemente sostenuta dal ministro della cultura Bruno Hempf, che vuole Dreymann fuori dai piedi per avere la sua compagna, l’attrice Christa-Maria Sieland. La spia Wiesler entra così nella vita dello scrittore e della sua compagna. Ma il suicidio di un amico della coppia gli restituisce un’immagine nuova della Germania Est e del suo stesso ruolo. Nel 2007 la pellicola ha vinto l’Oscar come miglior film straniero. Anno di uscita: 2006. Regia di Florian Henckel von Donnersmarck. Interpreti principali: Ulrich Mühe, Martina Gedeck, Sebastian Koch e Ulrich Tukur.

SONNENALLEE

Micha e Mario sono due cari amici e vivono nella Sonnenallee, la strada del sole. Sono due giovani in attesa del diploma, che si chiedono se intraprendere la carriera universitaria o meno. La loro quotidianità è fatta dei primi amori adolescenziali, di ore passate ad ascoltare i Rolling Stones (vietati dal regime) e di lotte contro gli abusi della Ddr. Anno di uscita: 1999. Regia di Leander Haussmann. Interpreti principali: Alexander Scheer e Alexander Beyer.

Un frame del film Sonnenallee

FUNERALE A BERLINO

Harry Palmer è un agente del servizio segreto inglese che ha il compito di far attraversare il muro di Berlino a Stock, un colonnello dell’Urss che vuole abbandonare la causa comunista e passare a Ovest. Dietro il consiglio dell’esperto di fughe Kreuzmann, Palmer decide di far nascondere il colonnello nella bara di un criminale nazista, sostituendo Stock con la salma. Ma a confine attraversato, si scopre che dentro la bara giace il corpo senza vita di Kreuzmann. E a Palmer resta il compito di scoprire chi sia stato il traditore. Anno di uscita: 1966. Regia di Guy Hamilton. Interpreti principali: Michael Caine, Paul Hubschmid, Oskar Homolka ed Eva Renzi.

Una scena del film “Funerale a Berlino”

IL TUNNEL

Già finito nei guai per le sue attività eversive nella Germania dell’Est, il nuotatore professionista Harry Melchior riesce finalmente a fuggire nella repubblica federale tedesca. Ma, una volta in salvo, decide di costruire un tunnel sotterraneo per permettere anche alla sua famiglia di passare alla zona Ovest. Il progetto però incontra diverse difficoltà, tra cui il tradimento dei suoi stessi amici. Anno di uscita: 1987. Regia di Antonio Drove. Interpreti principali: Jane Seymour, Peter Weller, Manuel de Blas e Fernando Rey.

Una scena del film “Il Tunnel” di una fuga finita male

IL SILENZIO DOPO LO SPARO

La ribelle Rita è una donna che, dopo un passato da terrorista nella Raf, gruppo di estrema sinistra, fugge nella Repubblica democratica tedesca. Qui incontra Tatjana, l’amica cara che invece sogna una vita nella zona Ovest. Con la caduta del muro, i nodi vengono però al pettine: Rita deve fare i conti con la legge e con il suo passato e tutta la sua vita ne sarà stravolta. Anno di uscita: 2000. Regia di Volker Schlöndorff. Interpreti principali: Bibiana Beglau, Nadja Uhl e Martin Wuttke.

IL SIPARIO STRAPPATO

Un rinomato fisico statunitense sceglie di mettersi a collaborare con gli scienziati sovietici, dimostrando di voler sposare la causa comunista. I colleghi e la stessa fidanzata restano attoniti quando l’uomo si stabilisce nella Germania Est per continuare le sue ricerche scientifiche. C’è però chi sospetta, e forse a ragione, che la sua nuova scelta di campo non sia poi così cristallina come lo studioso vuole far credere. Anno di uscita: 1966. Regia di Alfred Hitchcock. Interpreti principali: Paul Newman, Julie Andrews e Lila Kedrova.

LA SPIA CHE VENNE DAL FREDDO

Tratto dall’omonimo romanzo di John Le Carrè, la pellicola vede protagonista una spia inglese. Il suo compito è eliminare il capo dello spionaggio tedesco orientale. Per entrare nel giro si lega a una ragazza iscritta al Partito comunista britannico. Il suo sistema di valori, però, crolla quando la ragazza muore e lui comprende di essere solo una pedina in un gioco molto più grande di lui. Nel 1967 la pellicola ha vinto ai Bafta come miglior film britannico, miglior attore britannico a Richard Burton, migliore fotografia e migliore scenografia. Anno di uscita: 1965. Regia di Martin Ritt. Interprete principale: Richard Burton.

Il protagonista de “La spia che venne dal freddo”

UNO, DUE, TRE

Il protagonista di questa commedia è un direttore della filiale della Coca Cola a Berlino Ovest, col sogno di esportare la celebre bibita scura e gasata anche nei Paesi che ruotano attorno all’orbita sovietica. Ma le sue ambizioni sono messe in secondo piano da un altro e più urgente problema: il matrimonio della figlia del suo capo con un comunista nella Berlino Est. Il film ha ricevuto una nomination ai Premi Oscar 1962 (miglior fotografia) e due nomination ai Golden Globe 1962. Anno di uscita: 1961. Regia di Billy Wilder. Interprete principale: James Cagney.

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Il muro di Berlino in dieci canzoni

Il simbolo per eccellenza della Germania divisa ha ispirato artisti da tutto il mondo. Per celebrare i 30 anni dalla riunificazione tedesca avvenuta il 9 novembre del 1989, ecco le colonne sonore che raccontano il crollo del blocco di cemento.

Ce ne sono alcune che parlano di libertà, di amore, di voglia di resistere contro tutti e tutto. Altre che sono un inno al cambiamento e al bisogno di ribellarsi per non soccombere. In occasione della caduta del muro di Berlino, avvenuta il 9 novembre del 1989, ecco dieci canzoni per ricordare un evento che ha segnato la storia. E ha influenzato il modo in cui oggi leggiamo il nostro stesso mondo.

SCORPIONS – WIND OF CHANGE

Il “vento del cambiamento” ha ispirato una delle più celebri canzoni degli Scorpions. Il leader della band tedesca, Klaus Meine, ha composto Wind of change nel settembre 1989, per narrare dei cambiamenti politici che stavano sconvolgendo l’ordine bipolare. Era proprio in quei mesi che Berlino si preparava alla «magia del momento in una notte gloriosa».

NEIL YOUNG – AFTER BERLIN

«Won’t you help me make my way on home, after Berlin?». Non vorrai aiutarmi a costruire la via di casa, dopo Berlino? Questa è la domanda che si pone Neil Young in After Berlin, la canzone scritta nel 1982. Quando mancavano ancora sette anni alla caduta del Muro che spezzava la Germania, la star canadese mise in note una Berlino in cui «o ti rinchiudono fuori o ti rinchiudono dentro».

LUCIO DALLA – FUTURA

Scritta da Lucio Dalla nel 1979, Futura racconta di un uomo e di una donna qualunque, il cui amore è ostacolato dal muro di Berlino. Il cantautore bolognese ha steso il testo proprio mentre si trovava nella città divisa, traendo ispirazione dalla vista dell’imponente costruzione di cemento, che sarebbe stata abbattuta solo dieci anni dopo.

ARCADE FIRE – SURF CITY EASTERN BLOC

I blocchi stradali e la paura di essere arrestato sono al centro di Surf City Eastern Bloc, la canzone del 2009 degli Arcade Fire che vede protagonista un ragazzo in fuga da Berlino Est e diretto a Berlino Ovest. Il regime e le minacce nulla possono contro la voglia di libertà che anima un giovane uomo.

DAVID HASSELHOFF – LOOKING FOR FREEDOM

È rimasta in cima alle classifiche tedesche per otto settimane, quell’estate del 1989. Looking for freedom, la hit di David Hasselhoff, (il beniamino di Baywatch e Supercar), ha conquistato il pubblico della Germania poco prima che il Muro fosse abbattuto. Merito del suo testo dedicato alla «ricerca della libertà, una ricerca che ancora va avanti, da quando ho lasciato la mia città natale».

YANN TIERSEN – GOODBYE, LENIN (SUMMER 78)

Goodbye, Lenin (Summer 78) di Yann Tiersen è il sottofondo che accompagna le immagini dell’omonimo film uscito nel 2003. Ma la scia strumentale partorita dal genio creativo del compositore francese ha finito per diventare essa stessa una delle colonne sonore che, più naturalmente, vengono collegate al muro di Berlino.

EDOARDO BENNATO – FRANZ È IL MIO NOME

Franz è il mio nome di Edoardo Bennato, datata 1976, racconta di un uomo che «vende la libertà, a chi vuol passare dall’altra parte della città». «West Berlino» diventa, nella voce del cantautore napoletano, un luogo aperto ai desideri, e ai sogni «proibiti fino a ieri». Una distinzione che con la caduta del Muro diventerà sempre più sfumata.

DAVID BOWIE – HEROES

Heroes è tra le canzoni più belle di sempre e David Bowie la compose nel 1977, proprio a Berlino, un luogo che aveva significato per lui rinascita artistica e personale. Quando un giorno fu preso dall’ispirazione e i suoi occhi si posarono su una coppia concentrata nel proprio amore, i versi che fecero la storia della musica gli uscirono di getto: «Stavamo vicino al Muro, e i fucili spararono sopra le nostre teste. E noi ci baciammo, come se niente potesse cadere, e la vergogna stava dall’altra parte. Oh, noi possiamo batterli, sempre e per sempre».

PINK FLOYD – A GREAT DAY FOR FREEDOM

«Nel giorno in cui cadde il muro, gettarono a terra i lucchetti. E coi bicchieri alzati ci fu un urlo poiché la libertà era arrivata». Con queste parole inizia la canzone dei Pink Floyd del 1994, dedicata al crollo del muro di Berlino. Il testo, scritto cinque anni dopo la caduta, sottolinea in realtà la delusione seguita alle tante speranze disattese dopo lo storico evento.

SEX PISTOLS – HOLIDAYS IN THE SUN

Composta dai Sex Pistols nel 1977, Holidays in the sun vide la genesi grazie a una vacanza sull’isola di Jersey finita male. Sbattuta fuori da lì, infatti, la band britannica ripiegò su Berlino. Una città dove i musicisti riuscirono a trovare riparo dalla difficile quotidianità di Londra, come ha ricordato il leader John Lydon, alias Johnny Rotten: «Essere a Londra in quel periodo ci faceva sentire come prigionieri in un campo di concentramento. La cosa migliore che potevamo fare era quella di cambiare campo di prigionia. Berlino e la sua decadenza furono una buona idea. La canzone nacque così. Amo Berlino. Amavo il muro e la pazzia del posto. I comunisti guardavano all’atmosfera da circo di Berlino ovest, che non dormiva mai, e quella sarebbe rimasta la loro immagine dell’occidente».

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