C’è anche l’Italia nella top 10 della Sanità mondiale

Il nostro Paese è al nono posto per le sue elevate performance nella classifica comandata da Islanda e Norvegia. Ma restano ancora molte criticità.

Il sistema sanitario italiano è nono al mondo – dopo Islanda, Norvegia, Olanda, Lussemburgo, Australia, Finlandia, Svizzera e Svezia – per le sue elevate performance come testimoniato anche dallo stato di salute della popolazione, che resta buono nonostante gli stili di vita non sempre salubri e come ‘certificato’ dall’aspettativa di vita alla nascita (all’ottavo posto nel mondo, 85,3 anni per le donne, 80,8 per gli uomini nel 2017). Le criticità tuttavia non mancano.

PARAMETRI DI QUALITÀ E ACCESSO ALLE CURE

È quanto emerge dal primo studio a livello nazionale del Global burden of disease (Gbd) study, pubblicato sulla rivista The Lancet public health e coordinato dall’Irccs materno-infantile Burlo Garofolo di Trieste. In questo lavoro la qualità dei sistemi sanitari dei vari Paesi è stata misurata con l’indice ‘Haq’ (health access and quality index) che tiene conto di diversi parametri di qualità e accesso alle cure. Lo studio ha confrontato anche i cambiamenti nel tempo delle perfomance del Servizio sanitario nazionale (in particolare dal 1990 al 2017) – usando indicatori come la mortalità, le cause di morte, gli anni di vita persi e quelli vissuti con disabilità, l’aspettativa di vita alla nascita e molto altro.

LA POPOLAZIONE ITALIANA INVECCHIA RAPIDAMENTE

«Ne emerge un quadro globalmente positivo» – riferisce all’Ansa Lorenzo Monasta dell’Irccs, primo autore del lavoro – «pur con alcune criticità: per esempio la popolazione sta invecchiando rapidamente poiché in Italia abbiamo uno dei tassi di fertilità più bassi al mondo (1,3%) e una tra le più alte speranze di vita; questo sta cambiando il panorama epidemiologico delle malattie, aumenta il carico delle patologie croniche dell’invecchiamento, da problemi di vista e udito all’Alzheimer e altre demenze (gli anni di vita con disabilità legati alle demenze sono aumentati del 78% dal 1990 al 2017 e i decessi per Alzheimer sono più che raddoppiati, +118%)». «L’altro aspetto significativo» – continua – «è che dal 1990 a oggi è aumentata gradualmente la spesa privata del cittadino per la salute, di pari passo a una riduzione del finanziamento pubblico alla salute, riduzione che, quindi, non è frutto di una aumentata efficienza del servizio sanitario». In particolare, rileva l’esperto, dal 2010 al 2015 il finanziamento statale in rapporto al Pil è sceso dal 7% al 6,7%, mentre nello stesso arco di tempo la spesa privata per la salute è passata aumentato dall’1,8% al 2%. Inoltre la spesa complessiva per la salute in rapporto al Pil dal 1995 è aumentata dell’1,15%, aumento assorbito, però, non dalla spesa pubblica, ma da quella privata.

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Il M5s voterà su Rousseau per decidere se correre in Emilia e Calabria

I grillini si appoggiano agli iscritti per decidere se prendere parte alle Regionali di gennaio. Consultazione al via dalle 12 alle 20 di giovedì 21 novembre.

Un voto su Rousseau per uscire dall’empasse. Il Movimento 5 stelle ha deciso di appoggiarsi alla piattaforma per decidere se correre alle Regionali di gennaio in Emilia-Romagna e Calabria. Con un post sul blog delle Stelle è stato annunciato che il 21 novembre, dalle 12 alle 20, gli iscritti potranno sceglere le prossime mosse del Movimento.

«SERVE UN MOMENTO DI RIFLESSIONE»

«Ci siamo confrontati. Abbiamo consultato le persone che portano dalla prima ora sulle spalle questo Movimento, e tutti concordano che serva un momento di riflessione, di standby. Ma decidiamo insieme», si legge nel post in cui si annuncia la consultazione. «È quindi il momento di chiederci se questa grande mobilitazione di crescita e rigenerazione sia compatibile con le attività elettorali».

«TUTTI SI CHIEDANO SE PARTECIPARE AL VOTO»

«Per questo», continua il post, «abbiamo deciso di sottoporre agli iscritti la decisione riguardante la partecipazione alle imminenti elezioni regionali in Emilia-Romagna e in Calabria». «Partecipare alle elezioni richiede uno sforzo organizzativo, anche nazionale, e di concentrazione altissimo. Ciascuno di noi deve interrogarsi, con la massima responsabilità, sul contributo che sente di dare nei prossimi mesi, su dove sente più giusto che i suoi portavoce dirigano il proprio impegno». «Deve chiedersi», conclude la nota, «se pensa se siamo capaci, tutti insieme, in un grande lavoro di rete di condivisione e divisione degli incarichi, di essere utilmente presenti su diversi fronti. Qualsiasi cosa sceglieremo, la affronteremo come sempre con tutta la dedizione di cui siamo capaci»,

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La riforma del fondo salva-Stati incendia lo scontro tra governo e Lega

Torna altissima la tensione tra Conte e Salvini. Il premier accusa l'opposizione di «sovranismo da operetta» dopo mesi di silenzio. Gualtieri difende il negoziato. E il M5s è in fermento.

La riforma del meccanismo Salva-Stati riporta il dibattito tra maggioranza e opposizione ai livelli di guardia, con il premier e il leader della Lega che affilano i coltelli. Giuseppe Conte, chiamato a riferire in parlamento il prossimo 10 dicembre, sembra essere tornato ad agosto, quando sfoderava la sua verve polemica contro l’alleato che faceva cadere il governo. Si scaglia contro Matteo Salvini con una inusuale forza dandogli dell’«irresponsabile» per aver sollevato un «delirio collettivo» su un argomento che la Lega di governo aveva ampiamente condiviso in vertici di maggioranza e «con i massimi esponenti» del Carroccio.

«DALL’OPPOSIZIONE SOLO SOVRANISMO DA OPERETTA»

Ora, attacca il presidente del Consiglio, c’è chi «scopre» di essersi seduto al tavolo «a sua insaputa» o «non avendo capito quel che si era studiato». In questo modo, è l’attacco definitivo, non si fa «un’opposizione seria, credibile» in difesa degli interessi nazionali ma solo «sovranismo da operetta». La replica, neanche a dirlo, è altrettanto velenosa. «Il signor Conte è bugiardo o smemorato. Se fosse onesto direbbe che a quei tavoli, così come a ogni dibattito pubblico, compresi quelli parlamentari, abbiamo sempre detto di no al Mes. Non è difficile da ammettere», ribatte Salvini.

L’ULTIMO VERO DIBATTITO IN ITALIA LA SCORSA ESTATE

Ma dal governo contestano anche questa ricostruzione e invitano ad andare a rileggere le dichiarazioni della Lega in proposito. Di certo in tutto questo marasma quel che colpisce è la tempistica. Se è vero che la riforma dell’Esm, o Mes come la si chiama in Italia, sarà al centro del prossimo Eurogruppo di dicembre dove lo stesso vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis si augura di poter «raggiungere un accordo», è anche vero che l’ultimo vero dibattito in Italia, se si fa eccezione per alcune audizioni, risale alla scorsa estate.

GUALTIERI CONFERMA LA LINEA DI TRIA

«Da marzo a giugno 2019 abbiamo avuto quattro vertici di maggioranza coi massimi esponenti della Lega, in cui abbiamo discusso di Mes, delle fasi di avanzamento del negoziato e tutti i risvolti. Oggi si scopre l’esistenza del Mes e si grida allo scandalo», sottolinea Conte. E Salvini controbatte: «Ho sempre detto a Conte e Tria che non avevano mandato a trattare. Se qualcuno l’ha fatto, l’ha fatto tradendo il mandato del popolo italiano». Ma l’ex ministro del Tesoro, Giovanni Tria, ha già dato la sua versione sulla stampa: dice di aver combattuto «una battaglia durissima» per evitare l’inserimento di regole fisse sulla sostenibilità dei debiti di Paesi e che alla fine «i parametri fissi sono stati eliminati» dalle bozze di accordo. E il suo successore conferma: la riforma non introduce «in nessun modo la necessità di ristrutturare preventivamente il debito per accedere al sostegno finanziario. Effettivamente, all’inizio del negoziato alcuni Paesi lo avevano chiesto», ma, «anche grazie alla ferma posizione assunta dall’Italia, queste posizioni sono state respinte».

IL M5S INVOCA E OTTIENE UN VERTICE DI GOVERNO

Insomma, taglia corto Roberto Gualtieri: «Il dibattito di questi giorni su questo argomento è senza senso». Interviene anche Bankitalia, chiamata in causa da alcuni deputati secondo i quali avrebbe espresso preoccupazioni sulla revisione del trattato. «Il governatore Visco non ha espresso un giudizio sfavorevole sulla riforma del Mes», sottolinea palazzo Koch che conferma: la riforma non prevede né preannuncia «un meccanismo di ristrutturazione dei debiti sovrani». La questione intanto agita anche il M5s dopo la richiesta fatta a Di Maio dai deputati di adoperarsi per convocare un vertice di governo. La riunione è stata accordata, si terrà venerdì mattina molto presto, ma sul capo M5s è piovuta l’accusa di aver teso un sgambetto al premier, e per di più andando dietro a Salvini. Di Maio nega e il M5s lo appoggia: «Eravamo e continuiamo a essere contrari all’affidamento al Mes di compiti di sorveglianza macroeconomica degli Stati membri». Una posizione rimasta agli atti visto che a giugno il blog M5s tuonava contro la riforma e chiedeva a Conte di porre il veto. Anche per questo un sottosegretario M5s assicura: «Questa riforma non passerà o il gruppo parlamentare non lo teniamo più».

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Il sindaco di Biella dice di essere stato un cretino con la Segre

Il leghista Corradino si scusa dopo averle negato la cittadinanza onoraria. Ma aggiunge: «Ha subito quelle sofferenze 70 anni fa, adesso qualcuno se ne approfitta». E intanto anche la Giunta di centrodestra di Sesto San Giovanni dice no al riconoscimento per la senatrice a vita sopravvissuta ai lager.

Il sindaco di Biella Claudio Corradino ci ha pensato su. E sulla vicenda della cittadinanza onoraria negata a Liliana Segre e riconosciuta a Ezio Greggio, che però l’ha rifiutata, ha elaborato questo pensiero autocritico: «Io sono stato un cretino, lo ammetto, e chiedo scusa».

«È STATA FATTA UNA SPECULAZIONE INDEGNA»

Però c’è sempre un però: «Su questa cosa è stata fatta una speculazione indegna da parte di tutti quanti e mi dispiace. Il risultato è stato negativo, ingiustamente. Una grandissima sciocchezza che è diventata una cosa nazionale. La signora Segre non ha bisogno che arrivi il sindaco di Biella a darle la cittadinanza, è un “patrimonio dell’umanità” e le chiedo ancora scusa», ha detto.

LA SENATRICE INVITATA PER LA GIORNATA DELLA MEMORIA

Infine l’invito: «Le ho chiesto di venire a Biella per la Giornata della Memoria e non c’è nulla contro di lei». Intanto Greggio ha annullato la sua di visita, sabato 23 novembre a Biella: era atteso all’Istituto Eugenio Bona, scuola in cui ha conseguito la maturità nel 1973, nel reparto di pediatria dell’ospedale e al Rotary Club, per un incontro benefico.

«SI MINA LA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE»

Il sindaco ha parlato ai microfoni di Stasera Italia – in onda su Retequattro – dopo la polemica scoppiata. Prima però a Radio Capital aveva detto anche altro: «La signora ha subito quelle cose 70 anni fa. Voglio dire che si tira fuori la Segre adesso evidentemente perché c’è un tentativo di minare la libertà espressione. A me fa pensare al peggior maccartismo. C’è gente che vuole approfittare delle sofferenze che la signora ha subito».

Questa vicenda è nata male, per un errore di comunicazione che abbiamo fatto


Il sindaco di Biella

In realtà la “signora” sta subendo minacce anche adesso. E infatti le è stata assegnata la scorta. Il sindaco di Biella ha provato a metterci una pezza dicendo che «questa vicenda è nata male, per un errore di comunicazione che abbiamo fatto» e ribadendo poi di essere dalla parte della Segre.

MA ANCHE SESTO SAN GIOVANNI FA LA STESSA COSA

Fine degli episodi spiacevoli? Non proprio, visto che Sesto San Giovanni, Comune nel Milanese, ha fatto la stessa cosa: niente cittadinanza onoraria per la senatrice a vita internata nei campi di sterminio nazisti. In Consiglio comunale è stata infatti bocciata la “manifestazione di intenti” presentata dal Movimento 5 stelle, accolta da tutta l’opposizione. Il Partito democratico ha spiegato che «le motivazioni del sindaco di centrodestra, Roberto Di Stefano, sono che “Liliana Segre non ha a che fare con la storia della nostra città e darle la cittadinanza sarebbe svilente per lei perché è una strumentalizzazione politica». Ci risiamo, insomma.

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Come potrebbero cambiare i dl sicurezza col nuovo governo

A breve la ministra Lamorgese presenterà in Cdm le modifiche ai pacchetti voluti di Salvini. Sul tavolo ritocchi alle maxi multe per le ong e alle disposizioni in materia di oltraggio a pubblico ufficiale. I dettagli.

È uno dei temi divisivi del governo M5s-Pd. Per il momento è stato accantonato dando priorità alla manovra ed alle altre urgenze. Ma entro la fine dell’anno un nuovo decreto cambierà i dl sicurezza voluti dall’ex ministro Matteo Salvini e diventati legge.

«È già pronto», ha annunciato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, «uno schema di provvedimento, ne devo parlare in Consiglio dei ministri. Posso già dire che nel testo saranno inserite modifiche connesse alle osservazioni pervenute dal presidente della Repubblica». Illustrando le sue linee programmatiche in commissione Affari costituzionali della Camera, Lamorgese non si è sbottonata sui contenuti del provvedimento.

Ma ha fatto sapere di aver messo al lavoro gli uffici legislativi del Viminale, che hanno già prodotto un primo testo di decreto. Naturalmente, prima di essere portato in Consiglio dei ministri, dovrà essere condiviso dagli alleati di governo e dal premier Giuseppe Conte. E qui la ministra dovrà fare ricorso alle capacità di mediazione sviluppate nella sua carriera da prefetto per trovare una formulazione che stia bene al Pd, che chiede un segnale netto di discontinuità rispetto al precedente Governo ed ai Cinquestelle e Conte, che invece sono per mantenere comunque una linea di rigore sull’immigrazione.

LE MODIFICHE AL PRIMO DL

La stella polare della ministra nell’opera di revisione dei due dl è rappresentata dalle osservazioni vergate da Mattarella al momento di firmare i provvedimenti. Quello è il perimetro entro cui si muoverà il nuovo testo. Col primo decreto Salvini ha sostanzialmente cancellato la protezione umanitaria ed il capo dello Stato ha tenuto a sottolineare che, in materia, «restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’articolo 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia». Proprio la formula «restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato», a quanto si apprende, sarà inserita nel nuovo decreto. Ad indicare una gerarchia delle leggi cui anche questa norma deve sottostare.

INTERNVENTI SULLE MAXI MULTE ALLE ONG

Più articolate e circostanziate le critiche di Mattarella al secondo dl sicurezza, quello che conteneva la stretta contro le navi ong che fanno soccorso nel Mediterraneo. La revisione messa a punto dai tecnici del Viminale interviene così in particolare sulla maxi-multa da un milione di euro alla nave che viola il divieto di ingresso nelle acque italiane e sulla confisca della stessa, non subordinata alla reiterazione della condotta. Nella nuova formulazione la sanzione torna quella compresa tra 10mila e 50mila euro prima dell’emendamento che ne ha innalzato l’importo e la confisca può scattare solo se la violazione viene reiterata. In ossequio al principio della necessaria proporzionalità tra sanzioni e comportamenti. Per l’applicazione delle multe, inoltre, si farà distinzione tra le diverse tipologie di natanti.

IL CASO DELLA RESISTENZA A PUBBLICO UFFICIALE

L’altra modifica riguarda l’articolo che ha tolto la causa di non punibilità per la «particolare tenuità del fatto» alle ipotesi di resistenza, oltraggio, violenza e minaccia a pubblico ufficiale. Col nuovo testo sarà ripristinata la discrezionalità del magistrato in merito alla valutazione se il fatto è tenue o meno. Dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri il decreto sarà all’esame del parlamento per l’ok definitivo entro due mesi. La Lega ha già annunciato battaglia: «Lamorgese non si preoccupa di trovare i fondi per le Forze dell’Ordine ma annuncia di modificare i Decreti Salvini che così diventeranno Decreti insicurezza, filo-ong e contro le donne e gli uomini in divisa. Siamo pronti alle barricate, in Aula e nelle piazze», hanno fanno sapere Stefano Candiani e Nicola Molteni.

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Johnson e Corbyn in trincea, tra Brexit ed elezioni di dicembre

A sorpresa i due leader pareggiano nell’agguerrito duello tivù per le Legislative. I progressisti perdono consensi tra i Libdem. Mentre il Labour non si decide sul divorzio dalla Ue.

ll fermo immagine più esaustivo del sorprendente duello in tivù del 19 novembre tra Boris Johnson e Jeremy Corbyn è sul pubblico che ride. Più volte e a più riprese, fragorosamente. Che si ricordi in Gran Bretagna non si era mai riso tanto a un dibattito tra leader politici, come al primo duello andato in scena Oltremanica tra un primo ministro e un capo dell’opposizione. Lo scontro in vista del turbolento voto nazionale del 12 dicembre 2019 ha avuto quasi 7 milioni di spettatori incollati allo schermo (5 milioni in più dei faccia a faccia tra i leader minori) e l’inatteso risultato di un pareggio. Nei sondaggi il premier pirotecnico è in vantaggio di almeno 10 punti (42%) sul capo dei laburisti (32%), Le previsioni di YouGov sul duello erano ancora più sbilanciate verso il leader dei conservatori (37%): appena il 23% del campione si immaginava che Corbyn potesse fare meglio di “BoJo”. Invece la percentuale si è quasi ribaltata con un 49% di gradimento per Corbyn e un 51% per Johnson. 

IL NUCLEARE SULLA BREXIT

Anche la Bbc è del parere che non ci siano vincitori. Corbyn si è dimostrato aggressivo quanto il premier per la turbo Brexit: lo ha attaccato da mastino sulla sanità, proponendo al pubblico affamato una svolta. Ma la verità è che tutti sono stufi e nessuno ha un’idea di come andranno le Legislative più drammatiche della democrazia britannica: l’elettorato è mobile, disilluso, frammentato. lo dimostra anche la bufera sui Libdem, terzo partito rivelazione delle Europee di quest’anno, scatenata dalla leader Jo Swinson «pronta se necessario a usare l’atomica», ha dichiarato in tivù subito dopo il duello. E ci mancava il nucleare: Swinson aveva molti punti a suo favore (prima donna in capo ai Libdem, più giovane leader politico britannico di sempre, calamita degli anti-Brexit) per calare la carta del rinnovamento, ma si sta alienando molte simpatie per l’imprudenza nelle dichiarazioni. Dall’estate i Libdem sono scesi dal 20% al 15% nei sondaggi.

Jeremy Coryn, leader laburista.

I LIBDEM HANNO UN PROBLEMA

Swinson, europeista thatcheriana, vuol marcare le distanze dalla sinistra. Ma la scelta non paga. La leader indipendentista Nicola Sturgeon, scozzese come Swinson, è inorridita dal «test di virilità nauseante» del bottone dei Libdem sull’atomica: «La mia risposta a uccidere milioni di persone sarebbe stata no». Un fossato tra Swinson e la socialista Sturgeon, rossa governatrice di Edimburgo, significa minor compattezza nelle barricate a Westminster contro la Brexit: gli indipendentisti scozzesi sono una forza cruciale anche nel parlamento di Londra. Con “BoJo” al governo hanno anche ripreso a puntare i piedi sulla secessione: nel dibattito il premier uscente ha accusato Corbyn di volersi alleare con i nazionalisti scozzesi di Surgeon, per chiedere un referendum, e ha ammesso che «preservare il Regno Unito è più importante che compiere la Brexit». Una priorità: la deregulation nell’isola è uno dei rischi peggiori – e concreti – della Brexit.

Al duello Corbyn ha demolito il piano dei 40 nuovi ospedali promessi dal leader conservatore

LA BATTAGLIA SULLA SANITÀ

I sostenitori più accaniti del leave lo antepongono anche all’unità nazionale. Sarebbe una catastrofe e Johnson frena, ma così rischia di perdere consensi verso il Brexit Party (5%) di Nigel Farage. Viceversa, in Scozia diversi elettori conservatori – pro remain – come già dei deputati potrebbero mollare i tory. Da parte sua Corbyn nega di spalleggiare gli scozzesi, ma certo sui temi sociali è più vicino ai separatisti di Edimburgo che non ai Libdem: il suo Labour anticapitalista fa la guerra alla «società di miliardari e di persone molto povere», è per la «fine dell’austerità» e per un welfare granitico. Al duello Corbyn ha demolito il piano dei 40 nuovi ospedali promessi dal leader conservatore. Un documento (smentito da Johnson) proverebbe incontri segreti tra l’ultimo governo e investitori statunitensi pronti a entrare nel sistema sanitario britannico, con nuovi accordi commerciali bilaterali, non appena verrà archiviata la Brexit.

Brexit Irlanda del Nord Ulster Johnson
Il nuovo premier britannico Boris Johnson all’Ue per l’accordo sulla Brexit. GETTY.

ELETTORATO INSOFFERENTE

L’impopolarità di Swinson tra i progressisti è acqua al mulino del Labour, che tuttavia sull’uscita dall’Ue non riesce a inviare messaggi chiari. Neanche al faccia a faccia: incalzato da “BoJo”, Corbyn ha affermato di voler rinegoziare una Brexit migliore con Bruxelles e di sottoporla a un nuovo referendum, con l’opzione anche di restare nell’Ue. Ma non ha detto se è per leave o per il remain. Schierarsi, equivarrebbe a perdere la fronda dei laburisti euroscettici, preziosa anche per i tory. Ma allora non c’è da stupirsi se alla dichiarazione di «voler unire il Paese, non dividerlo» il pubblico è scoppiato a ridere. Come all’esclamazione di Johnson: «La verità è importante per le elezioni!». Spenti i riflettori, gli spettatori hanno commentato di non poterne più dei politici. Ben vengano le belle intenzioni, ma poi Labour, scozzesi e Libdem troveranno una sintesi per la convivenza? E le promesse di BoJo hanno fondamento, la Brexit è possibile entro il 31 gennaio? 

Un’altra insidia del voto la localizzazione dell’elettorato britannico pro e contro la Brexit

VOTO A MACCHIA DI LEOPARDO

Come David Cameron, l’ex sindaco di Londra si gioca la carriera politica sulla tabella di marcia. Battuto da Westminster, Johnson ha mandato il Paese alle urne per ricompattare i tory sul leader e crearsi un parlamento amico. È verosimile che la spunterà: anche scendendo sotto il 42% di Theresa May è molto difficile che il Labour arrivi al 40% del 2017. Ma sarà una vittoria di misura tra una popolazione sempre più lacerata: un’altra insidia è la localizzazione dell’elettorato britannico in macroaree pro e contro la Brexit. Scozia e Londra (e altre città inglesi) per il remain, come oltre la metà dell’Irlanda del Nord tornata calda. Galles e Inghilterra per il leave. E nel sistema elettorale britannico, conta il prevalere di una forza sull’altra nei collegi, non importa con quale percentuale. L’80% di un collegio vale i deputati del 51% di un altro. Il prossimo match tra “BoJo” e Corbyn è il 6 dicembre, verso le Legislative di un altro voto schizofrenico sulla Brexit.

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La Cassazione conferma i 9 anni di carcere per la foreign fighter italiana Fatima

I giudici hanno confermato la condanna definitiva per Maria Giulia Sergio partita per la Siria nel 2014. Sentenze convalidate anche per altri quattro imputati.

Anche dalla Siria continuava, via Skype, la sua opera di proselitismo: in un messaggio del 2015 lanciò un vero e proprio proclama dello Stato Islamico in lode del ‘Califfo’ Abu Bakr al Baghdadi. Poi di lei si sono perse le tracce e non si sa se sia ancora viva.

È arrivata in contumacia la condanna definitiva per terrorismo internazionale per Maria Giulia ‘Fatima’ Sergio, la giovane radicalizzata, partita da Inzago nel Milanese, e considerata la prima foreign fighter italiana: 9 anni di reclusione, come stabilito dalla Corte d’assise d’appello di Milano un anno e mezzo fa e ora confermato dalla Cassazione.

La seconda sezione penale ha respinto, dichiarandolo inammissibile, il ricorso presentato per conto suo e di altri quattro imputati, tra cui l’albanese Aldo Kabuzi (condannato a 10 anni), l’uomo che Fatima aveva sposato e col quale era partita, e la sua ‘maestra indottrinatrice’ Haik Bushra, cittadina canadese, poi partita per l’Arabia Saudita, condannata a 9 anni. Confermate anche le condanne a Donika Coku e Seriola Kobuzi, madre e sorella di Aldo Kobuzi, a loro volta partite per la Siria, senza fare più ritorno.

IL PROSELITISMO DI FATIMA

A nessuno dei cinque sono state riconosciute le attenuanti, come aveva motivato la Corte d’appello, data anche la «pericolosità per la collettività delle azioni poste in essere». Secondo l’accusa, Fatima ha incitato i suoi familiari ad unirsi al Califfato abbracciando la lotta armata per ammazzare i “miscredenti”: la madre e il padre, poi arrestati nell’estate del 2015 perché ritenuti in procinto di partire, ed entrambi morti nel corso del procedimento, e la sorella Marianna (a sua volta finita nell’inchiesta), che dalla Campania si erano trasferiti nel piccolo paese in provincia di Milano.

LA PARTENZA PER LA SIRIA NEL 2014

Nel corso egli inquirenti hanno accertato che Fatima ha agito come una «reclutatrice» che ha aderito al programma criminale dello Stato Islamico, ma si era era anche addestrata all’uso delle armi. Nelle telefonate ai familiari spiegava di essere pronta a morire, appena le verrà consentito di passare al jihad. Fatima e Kobuzi erano partiti per andare a combattere con le milizie dell’Isis nell’autunno del 2014, di loro non si sa più nulla: risultano latitanti e non si sa se siano vivi o meno. Secondo quanto dichiarato dalla sorella, Fatima sarebbe morta già prima della condanna d’appello.

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General Motors fa causa a Fiat-Chrysler per corruzione coi sindacati

Anche Marchionne accusato di aver dato tangenti allo United auto workers per condizionare le trattative sul contratto di lavoro. La replica: «Vogliono fermare la nostra proposta di fusione con Psa».

E ora si passa alle vie legali. General Motors fa causa a FiatChrysler, accusandola di corruzione con lo United auto workers, il potente sindacato americano dei metalmeccanici. La notizia è stata riportata dall’agenzia Bloomberg.

TRATTATIVE “INCRIMINATE” TRA IL 2009 E IL 2015

Fca ha sempre negato di essere stata a conoscenza della cospirazione fra tre suoi ex manager con funzionari dell’Uaw per indebolire le norme sul lavoro. Gm accusa Sergio Marchionne di essere ricorso a tangenti per corrompere le trattative sul contratto di lavoro fra il Uaw e le tre case di Detroit fra il 2009 e il 2015.

LA DIFESA: «STUPITI, UNA CAUSA SENZA MERITO»

Fiat-Chrysler si è detta «stupita» dall’azione legale «sia per i contenuti sia per la tempistica». Il commento affidato a una nota: «Possiamo solo presumere che sia per fermare la nostra proposta fusione con Psa e le trattative con lo United auto workers». E quindi «intendiamo difenderci in modo forte contro questa causa senza merito e perseguire tutti i rimedi legali per rispondere».

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Gli intrecci tra l’omicidio di Daphne Galizia e il presunto mandante Fenech

Giro d'affari e ombre di uno degli uomini più potenti di Malta. Dagli interessi nel settore energetico al legame coi Panama Papers. Il giornalista Delia: «Questa vicenda contaminerà la politica. Il ministro Mizzi deve dimettersi».

L’hanno bloccato a bordo del suo yacht mentre stava per fuggire da Malta, pochi giorni dopo aver rassegnato le dimissioni dal board di Tumas Group. Yorgen Fenech, arrestato il 20 novembre nell’ambito delle indagini sull’omicidio della giornalista Daphne Caruana Galizia, è uno degli uomini più potenti di Malta. Figlio del businessman George Fenech e nipote di Tumas Fenech, per anni ha fatto affari in alcuni tra i settori chiave dell’economia dell’isola: turismo, gaming, ma soprattutto energia e shipping. Tumas Group è una delle società più potenti e importanti a Malta, con asset nel 2017 per oltre 350 milioni di euro.

TUMAS GROUP, ASSET MILIONARI E INTERESSI NEL SETTORE ENERGETICO

Tra i beni della società figurano la Portomaso Business Tower di Malta, il vicino hotel Hilton, il ristorante Blue Elephant e soprattutto il Portomaso Casinò, lo stesso dove venne visto Alfred De Giorgio, uno degli indagati nel processo per la morte di Caruana Galizia. Ma non è tutto. Tumas Group, infatti, fa parte del consorzio Electrogas che ha interessi nell’energia ed è in lizza per la costruzione di una centrale Lng nella località di Delimara, progetto appoggiato anche dall’attuale governo che ne fece uno dei suoi cavalli di battaglia nella campagna elettorale del 2013, sostenendo che una volta in funzione l’impianto avrebbe ridotto le tariffe dell’energia per i maltesi. A sostenere questo progetto fu l’ex ministro dell’Energia, Konrad Mizzi, mentre l’attuale primo ministro, Joseph Muscat, promise che si sarebbe dimesso se non fosse andato in porto.

Quello che da tre anni si vuole coprire è un omicidio compiuto per mettere a tacere una corruzione milionaria

Emanuel Delia, autore di Murder on the Malta Express

Daphne Caruana Galizia aveva iniziato a indagare proprio su queste società e sulle presunte tangenti pagate a due membri del governo laburista di Malta, il capo di gabinetto Keith Schembri e il ministro Mizzi. Tangenti che sarebbero passate attraverso la 17Black, società basata a Dubai – e di cui è amministratore delegato proprio Fenech -, già individuata da Daphne Caruana Galizia. «Quello che da tre anni si vuole coprire», spiega Emanuel Delia, giornalista e autore del libro-inchiesta Murder on the Malta Express. Who killed Daphne Caruana Galizia? (scritto insieme a Carlo Bonini e John Sweeney), «è un omicidio compiuto per mettere a tacere un’indagine su una corruzione milionaria».

Lo yacht intercettato il 20 novembre con a bordo Yorgen Fenech.

IL RUOLO E I TIMORI DEL TASSISTA MELVIN THEUMA

A fare il nome di Fenech è stato Melvin Theuma, un tassista che lavorava nell’hotel Hilton, di proprietà di Tumas Group, individuato già nel 2018 sia dalla polizia sia dai giornalisti di inchiesta maltesi e arrestato nei giorni scorsi. Theuma era stato citato nell’interrogatorio di uno degli indagati, Vincent Muscat, che lo aveva indicato come colui che aveva assoldato i sicari per portare a termine l’omicidio di Daphne Caruana Galizia. E Theuma si aspettava di essere arrestato, tanto da aver dettato il proprio testamento il giorno successivo al fermo dei presunti esecutori materiali del delitto.

I LEGAMI CON LO SCANDALO DEI PANAMA PAPERS

L’arresto di Fenech, prosegue Delia, «avrebbe potuto avvenire molto tempo fa, quando emerse il coinvolgimento di questo tassista. Una volta raccolta la sua testimonianza, hanno provato a ignorarla, a far passare del tempo ma già da tre o quattro mesi noi giornalisti avevamo capito cosa stava succedendo e ci eravamo resi conto che Fenech poteva essere coinvolto». L’indizio, dice Delia, è stato il riferimento alla Portomaso, società in passato vicina a Nitto Santapaola: «Adesso il governo vorrebbe che questa storia non contaminasse il mondo politico, ma è impossibile. E se anche certi personaggi del governo non sono direttamente coinvolti nell’omicidio di Daphne, è certo che ci sia una responsabilità politica cui dovrebbero rispondere. Se tre anni fa, quando emerse il coinvolgimento di Schembri e Mizzi nella questione panamense, Muscat li avesse cacciati dal governo, oggi Daphne sarebbe ancora viva». Ora, dice Delia, «il premier sta rischiando tutto, ma il suo è un governo diviso, che sta sopravvivendo».

Schembri e Mizzi? Nessuno può fargli domande se sono al potere. Dovrebbero lasciare per essere interrogati

Emanuel Delia

E proprio Joseph Muscat continua a ribadire che per il momento sono escluse le dimissioni dei suoi gregari. «È una linea che sta tenendo da tre anni», prosegue Delia, «Muscat ha garantito di propria iniziativa l’immunità all’intermediario che ha promesso di fare il nome dei mandanti, come se fosse lui stesso a condurre le indagini. La verità è che questo omicidio è nato dalle questioni relative alla 17Black e ai Panama Papers, vicende in cui sono coinvolti anche alcuni tra i nostri politici. In questo senso, dovrebbero dimettersi tutti e subito, proprio come è accaduto con il caso di Ján Kuciak (il giornalista di 27 anni ucciso in Slovacchia nel febbraio 2018, ndr)». E sull’omicidio di Daphne Caruana Galizia conclude: «Non posso affermare che Schembri e Mizzi ne sapessero qualcosa, non ho elementi. Quello che non posso tollerare però è che non lascino la poltrona: nessuno può fargli domande se sono al potere. Dovrebbero lasciare per essere interrogati».

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Come il cibo è diventato uno status symbol anche per gli italiani

Uno studio fotografa il nuovo prototipo di consumatore 4.0. Mangia poco, ma bene. Non ha "fame", bensì appetito. Cerca il piacere e la salute. L'analisi delle evolute abitudini alimentari.

Non ditelo a Matteo Salvini, che ingurgita fiero piatti iper calorici a qualsiasi ora del giorno e della notte vantandosene su Twitter, per comunicare a quelli del “popolo”che lui è come loro, divora un po’ di tutto e male: ormai il cibo è uno status symbol, all’insegna del “dimmi come mangi e ti dirò chi sei”. E il consumatore è diventato 4.0, post-moderno e sempre più attento al rapporto con l’alimentazione.

TRA INNOVAZIONE E ACQUISTI CERTIFICATI

A delineare questo ritratto è stato l’Osservatorio cibi, produzioni, territorio (Cpt) di Eurispes, Uci e Univesitas Mercatorum, che ha raccolto dati, approfondito fenomeni e osservato come cambiano le abitudini dei consumatori nel position paper “I consumi alimentari: conoscere per agire”. Si parla di sempre di più di persone che non hanno “fame”, ma appetito, saziano la mente più che la pancia, sono sempre più informate e consapevoli, cercano l’innovazione e il piacere così come la salute, acquistano prodotti certificati ma non si fidano più solo di un bollino.

I CONSUMI ALIMENTARI SONO L’11% DEL PIL

I consumi delle famiglie rappresentano la quota più importante del Prodotto interno lordo (Pil) italiano e, in quest’ambito, quelli alimentari pesano l’11% (secondo dati Istat del 2018). Ma conoscere il consumo, spiega questo studio, significa capire le persone, i loro valori, i loro desideri. E il consumatore di oggi «è un misto di antico e contemporaneo, è un consumatore post moderno che sta ribaltando il suo rapporto con il consumo: dopo una lunga fase post bellica, nella quale il consumo ha sostanzialmente dominato sulla persona, è maturato un cambiamento di stato che mostra un altro soggetto, che ribalta i termini del proprio esistenziale socio-economico da consumatore-persona a persona-consumatore, attraverso alcuni atteggiamenti nuovi».

DA FATTO INDIVIDUALE A RELAZIONALE

Siamo al culmine, sostiene l’osservatorio, di un percorso di trasformazione intellettuale del cibo: da alimento a strumento di piacere, da fatto individuale a relazionale. «Una trasformazione a cui hanno contribuito i media innanzitutto con i format televisivi, l’ascesa dei cuochi star».

IL RIFERIMENTO: LA CERTIFICAZIONE BIOLOGICA

Il nuovo consumatore è inoltre molto attento alla qualità, che individua attraverso alcuni elementi come la sicurezza alimentare, e in questo senso l’etichetta è fondamentale per convogliare le informazioni necessarie a rassicurare il consumatore; la qualità ambientale della terra d’origine dei prodotti; la naturalità dei processi dei prodotti, la certificazione biologica che è un riferimento per molti. E l’aspetto salutistico: il cibo è di qualità se «svolge funzioni positive per l’organismo».

SI DIVENTA “PRODUTTORI DI SIGNIFICATI”

In definitiva, il consumatore è diventato «attraverso l’insieme delle proprie scelte di consumo, un “produttore di significati“». Perché «non è il singolo atto di scelta che definisce la persona, ma l’intero insieme delle scelte di acquisto che, nell’identità che le sottende, assurgono a “sistema”». E «il possesso, la proprietà e l’utilizzo di simboli è un tratto essenziale del consumo: ieri l’automobile era probabilmente il simbolo-guida, poi è divenuta la griffe della moda, oggi il focus è sui comportamenti alimentari». E se anche Salvini la smettesse di condividere cibo spazzatura sui social? Per adesso resta ancora un’utopia.

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Perché si parla dell’ingresso di nuovi soci nell’As Roma

La società di Trigoria ha confermato che sono in corso dei contatti per l'ingresso di nuovi soci, tra questi la possibile partecipazione del magnate Dan Friedkin.

L’assetto societario dell’As Roma potrebbe cambiare d nuovo. A confermarlo la stessa società giallorossa: «Sono in corso dei contatti preliminari con potenziali investitori al fine di permettere loro di valutare l’opportunità di un possibile investimento in a.s. ROMA Spv Llc», si legge in una nota pubblicata su richiesta della Consob, in riferimento ad alcune indiscrezioni apparse su alcuni quotidiani in relazione ad una possibile acquisizione delle partecipazioni di A.S. Roma S.p.A. da parte dello statunitense Dan Friedkin.

CONFERMATI I CONTATTI PER NUOVI INVESTITORI

«Su richiesta di Consob», ha informato il club di Trigoria, «con riferimento ad alcune indiscrezioni apparse in data odierna sugli organi di stampa in relazione ad una possibile acquisizione delle partecipazioni di A.S. Roma S.p.A. da parte di potenziali investitori, AS ROMA SPV LLC, società che detiene il controllo indiretto di A.S. ROMA S.p.A. tramite la sua controllata NEEP ROMA HOLDING S.p.A, informa che sono in corso dei contatti preliminari con potenziali investitori al fine di permettere loro di valutare l’opportunità di un possibile investimento in AS ROMA SPV LLC». «In caso di perfezionamento di accordi aventi ad oggetto il trasferimento delle partecipazioni detenute in A.S. Roma S.p.A., AS ROMA SPV LLC fornirà adeguata informativa al Mercato nei termini di legge».

E LA SOCIETÀ VOLA IN BORSA: +16,6%

Intanto per tutto il giorno il titolo in borsa ha fatto segnare rialzi da record. Il titolo, dopo una lunga sospensione in asta di volatilità, ha chiuso in rialzo del 16,6% a 0,59 euro.

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Nel Messinese è esploso un deposito di fuochi d’artificio

Ancora da accertare le cause dell'incidente. Tre morti certe, ma si temono altro vittime. Almeno tre feriti e un disperso.

Un’esplosione si è verificata per cause ancora da accertare in un deposito di fuochi d’artificio e polveri piriche a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Dalle prime informazioni dei vigili del fuoco l’incidente è avvenuto in località Femmina morta e ci sarebbero alcune persone che si trovavano all’interno della casamatta e che sarebbero disperse dopo l’esplosione. Fonti locali hanno confermato le tre morti accertate, ma il numero potrebbe crescere, considerando i tre feriti e la persona che risulta ancora dispersa.

DUE BOATI UDITI FINO AL MILAZZO

Nella tragedia che ha colpito la fabbrica di articoli pirotecnici di Vito Costa e dei figli in contrada Cavalieri è sicura la morte di Venera Mazzeo, 71 anni, moglie del titolare, e di altre due persone. Ma il bilancio delle vittime potrebbe aumentare perché nella fabbrica si trovavano diverse persone. Nella zona si è sentito un boato e subito dopo uno più forte che si sono uditi fino a Milazzo e che hanno causato panico. Proprio nell’ospedale di Milazzo stati ricoverati con ustioni e in gravi condizioni, Bartolomeo Costa, 37 anni, figlio del proprietario della fabbrica e Antonio Bagnato, che lavora nella ditta.

NELLA FABBRICA ANCHE OPERAI DI UNA DITTA ESTERNA

Al momento dello scoppio erano al lavoro anche quattro operai di una ditta esterna e al momento non è ancora chiaro se tra le vittime accertate ci siano anche alcuni di loro o se siano ancora tra i dispersi. La produzione dei fuochi avveniva in un vecchio casolare in contrada. La famiglia Costa ha una pagina Facebook in cui pubblicizza i propri prodotti e gli eventi con i giochi di fuoco realizzati. Sul posto, oltre ai vigili del fuoco, sono presenti polizia, carabinieri e numerose ambulanze.

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Nel Messinese è esploso un deposito di fuochi d’artificio

Ancora da accertare le cause dell'incidente. Tre morti certe, ma si temono altro vittime. Almeno tre feriti e un disperso.

Un’esplosione si è verificata per cause ancora da accertare in un deposito di fuochi d’artificio e polveri piriche a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Dalle prime informazioni dei vigili del fuoco l’incidente è avvenuto in località Femmina morta e ci sarebbero alcune persone che si trovavano all’interno della casamatta e che sarebbero disperse dopo l’esplosione. Fonti locali hanno confermato le tre morti accertate, ma il numero potrebbe crescere, considerando i tre feriti e la persona che risulta ancora dispersa.

DUE BOATI UDITI FINO AL MILAZZO

Nella tragedia che ha colpito la fabbrica di articoli pirotecnici di Vito Costa e dei figli in contrada Cavalieri è sicura la morte di Venera Mazzeo, 71 anni, moglie del titolare, e di altre due persone. Ma il bilancio delle vittime potrebbe aumentare perché nella fabbrica si trovavano diverse persone. Nella zona si è sentito un boato e subito dopo uno più forte che si sono uditi fino a Milazzo e che hanno causato panico. Proprio nell’ospedale di Milazzo stati ricoverati con ustioni e in gravi condizioni, Bartolomeo Costa, 37 anni, figlio del proprietario della fabbrica e Antonio Bagnato, che lavora nella ditta.

NELLA FABBRICA ANCHE OPERAI DI UNA DITTA ESTERNA

Al momento dello scoppio erano al lavoro anche quattro operai di una ditta esterna e al momento non è ancora chiaro se tra le vittime accertate ci siano anche alcuni di loro o se siano ancora tra i dispersi. La produzione dei fuochi avveniva in un vecchio casolare in contrada. La famiglia Costa ha una pagina Facebook in cui pubblicizza i propri prodotti e gli eventi con i giochi di fuoco realizzati. Sul posto, oltre ai vigili del fuoco, sono presenti polizia, carabinieri e numerose ambulanze.

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Il giallo del drone italiano precipitato in Libia

Il velivolo si è schiantato nella zona a nord di Tarhouna a circa 60 km da Tripoli. L'esercito di Haftar ha rivendicato l'abbattimento la la Difesa nega: «Caduto per problemi tecnici».

Un drone militare italiano è precipitato il 20 novembre in Libia. Lo ha comunicato lo Stato maggiore della Difesa, spiegando che è stato perso «il contatto con un velivolo a pilotaggio remoto dell’Aeronautica militare, successivamente precipitato sul territorio libico». Il velivolo, «che svolgeva una missione a supporto dell’operazione Mare sicuro, seguiva un piano di volo preventivamente comunicato alle autorità libiche», ha aggiunto la Difesa. Sono in corso approfondimenti per accertare le cause.

LE FORZE DI HAFTAR RIVENDICA L’ABBATTIMENTO

Secondo il sito Libya Akhbar il velivolo a pilotaggio remoto è stato “abbattuto” dalla contraerea delle forze del generale ribelle Khalifa Haftar. Il sito ha citato il generale capo delle «sale operative della regione occidentale», che ha definto il velivolo «un drone ostile abbattuto dalla difesa antiaerea a nord di Tarhouna». L’abbattimento sarebbe stato confermato anche da fonti di alto livello dell’Esercito nazionale libico guidato dall’uomo forte della Cirenaica. «Il maggior generale Mabrouk al Ghazawi, comandante del gruppo che opera nella regione regione, ha confermato che le difese anti-aeree della 9/a Brigata di fanteria hanno abbattuto il velivolo sulla zona di Souk El Ahad quando è penetrato nello spazio aereo della zona per una missione ostile nell’area delle operazioni», ha scritto peraltro il sito.

Citando una «fonte militare» della sala operativa del Comando, Libya Akhbar ha precisato che sulle prime si era pensato che si trattasse di un drone «di fabbricazione turca», «ma poi si è appurato che portava il logo dell’aviazione italiana» e «un esame preliminare dei rottami del velivolo indicano che si tratta di un Predator». Il sito, ma anche altri media vicini al maresciallo Haftar come Al Marsad, hanno rilanciato una foto in cui si vede l’ala color celeste chiaro di un velivolo con i tre cerchi concentrici rosso-bianco-verde. Il rottame è legato su un pick-up sul quale posa un miliziano in mimetica e mitragliatore in pugno.

LEGGI ANCHE: L’Italia e la guerra dei droni: un mare di incognite

LA DIFESA ITALIANA INSISTE: «PROBLEMA TECNICO»

Fonti italiane qualificate hanno spiegato che le cause della caduta del predator italiano «sono ancora in corso di accertamento», ma al momento «l’ipotesi prevalente è che si tratti di un incidente provocato da un problema tecnico». Per le stesse fonti «è ancora presto per dare una risposta definitiva, ma questa è l’ipotesi più accreditata». In particolare, è stato sottolineato che le forze del generale Haftar non avrebbero tecnologie in grado di colpire un aereo che, come il Predator, vola a circa 20.000 piedi di quota.

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Il giallo del drone italiano precipitato in Libia

Il velivolo si è schiantato nella zona a nord di Tarhouna a circa 60 km da Tripoli. L'esercito di Haftar ha rivendicato l'abbattimento la la Difesa nega: «Caduto per problemi tecnici».

Un drone militare italiano è precipitato il 20 novembre in Libia. Lo ha comunicato lo Stato maggiore della Difesa, spiegando che è stato perso «il contatto con un velivolo a pilotaggio remoto dell’Aeronautica militare, successivamente precipitato sul territorio libico». Il velivolo, «che svolgeva una missione a supporto dell’operazione Mare sicuro, seguiva un piano di volo preventivamente comunicato alle autorità libiche», ha aggiunto la Difesa. Sono in corso approfondimenti per accertare le cause.

LE FORZE DI HAFTAR RIVENDICA L’ABBATTIMENTO

Secondo il sito Libya Akhbar il velivolo a pilotaggio remoto è stato “abbattuto” dalla contraerea delle forze del generale ribelle Khalifa Haftar. Il sito ha citato il generale capo delle «sale operative della regione occidentale», che ha definto il velivolo «un drone ostile abbattuto dalla difesa antiaerea a nord di Tarhouna». L’abbattimento sarebbe stato confermato anche da fonti di alto livello dell’Esercito nazionale libico guidato dall’uomo forte della Cirenaica. «Il maggior generale Mabrouk al Ghazawi, comandante del gruppo che opera nella regione regione, ha confermato che le difese anti-aeree della 9/a Brigata di fanteria hanno abbattuto il velivolo sulla zona di Souk El Ahad quando è penetrato nello spazio aereo della zona per una missione ostile nell’area delle operazioni», ha scritto peraltro il sito.

Citando una «fonte militare» della sala operativa del Comando, Libya Akhbar ha precisato che sulle prime si era pensato che si trattasse di un drone «di fabbricazione turca», «ma poi si è appurato che portava il logo dell’aviazione italiana» e «un esame preliminare dei rottami del velivolo indicano che si tratta di un Predator». Il sito, ma anche altri media vicini al maresciallo Haftar come Al Marsad, hanno rilanciato una foto in cui si vede l’ala color celeste chiaro di un velivolo con i tre cerchi concentrici rosso-bianco-verde. Il rottame è legato su un pick-up sul quale posa un miliziano in mimetica e mitragliatore in pugno.

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LA DIFESA ITALIANA INSISTE: «PROBLEMA TECNICO»

Fonti italiane qualificate hanno spiegato che le cause della caduta del predator italiano «sono ancora in corso di accertamento», ma al momento «l’ipotesi prevalente è che si tratti di un incidente provocato da un problema tecnico». Per le stesse fonti «è ancora presto per dare una risposta definitiva, ma questa è l’ipotesi più accreditata». In particolare, è stato sottolineato che le forze del generale Haftar non avrebbero tecnologie in grado di colpire un aereo che, come il Predator, vola a circa 20.000 piedi di quota.

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Se non paghi l’Imu il Comune può pignorarti il conto corrente

Lo stabilisce un emendamento alla Legge di Bilancio. Il sollecito, i 60 giorni per il ricorso, la rateizzazione del debito: cosa prevedono le nuove regole di riscossione.

Un emendamento alla Legge di Bilancio 2020 prevede che i conti corrente possano essere pignorati in seguito al mancato pagamento delle imposte locali. Il premier Giuseppe Conte aveva provato a gettare acqua sul fuoco: «I cittadini non si devono preoccupare, non mi risulta», aveva detto rispondendo alle indiscrezioni circolate il 19 novembre e riportate tra gli altri da Quotidiano.net e L’Economia. Secondo queste indiscrezioni, il pignoramento sarebbe scattato anche in caso di mancato pagamento delle multe stradali, che invece sono state escluse dal testo, stando a quanto si legge nella nota studi del Senato. L’emendamento in questione estende dunque l’applicazione dell’accertamento esecutivo ai tributi locali, come Imu, Tasi e Tari, equiparando le regole di riscossione a quelle nazionali.

L’AVVISO DEL COMUNE COL SOLLECITO AL PAGAMENTO

Ma cosa prevede nel dettaglio l’emendamento? In seguito alla mancata risposta da parte del contribuente all’avviso di accertamento – che dal primo gennaio 2020 dovrebbe contenere l’intimazione ad adempiere al pagamento – il Comune, al pari degli altri enti locali che avranno accesso ai dati dell’Anagrafe tributaria, potrà chiedere il pignoramento del conto corrente. Tra le altre misure previste, il pignoramento dello stipendio o il fermo dell’auto.

Sarebbe possibile chiedere la rateizzazione della somma dovuta: da un minimo di quattro fino a un massimo di 72 rate

Il sollecito di pagamento verrà inviato solo in presenza di debiti di importo non superiore a 10 mila euro. Sarà possibile chiedere la rateizzazione della somma dovuta: da un minimo di quattro fino a un massimo di 72 rate.

SESSANTA GIORNI DI TEMPO PER IL RICORSO

Secondo quanto previsto dall’emendamento, scompare lo step intermedio dell’iscrizione a ruolo del debito, e dunque l’invio della cartella esattoriale. Il contribuente avrà poi 60 giorni di tempo per presentare il ricorso, al termine dei quali l’atto disposto dall’ente locale diventerebbe immediatamente esecutivo.

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Se non paghi l’Imu il Comune può pignorarti il conto corrente

Lo stabilisce un emendamento alla Legge di Bilancio. Il sollecito, i 60 giorni per il ricorso, la rateizzazione del debito: cosa prevedono le nuove regole di riscossione.

Un emendamento alla Legge di Bilancio 2020 prevede che i conti corrente possano essere pignorati in seguito al mancato pagamento delle imposte locali. Il premier Giuseppe Conte aveva provato a gettare acqua sul fuoco: «I cittadini non si devono preoccupare, non mi risulta», aveva detto rispondendo alle indiscrezioni circolate il 19 novembre e riportate tra gli altri da Quotidiano.net e L’Economia. Secondo queste indiscrezioni, il pignoramento sarebbe scattato anche in caso di mancato pagamento delle multe stradali, che invece sono state escluse dal testo, stando a quanto si legge nella nota studi del Senato. L’emendamento in questione estende dunque l’applicazione dell’accertamento esecutivo ai tributi locali, come Imu, Tasi e Tari, equiparando le regole di riscossione a quelle nazionali.

L’AVVISO DEL COMUNE COL SOLLECITO AL PAGAMENTO

Ma cosa prevede nel dettaglio l’emendamento? In seguito alla mancata risposta da parte del contribuente all’avviso di accertamento – che dal primo gennaio 2020 dovrebbe contenere l’intimazione ad adempiere al pagamento – il Comune, al pari degli altri enti locali che avranno accesso ai dati dell’Anagrafe tributaria, potrà chiedere il pignoramento del conto corrente. Tra le altre misure previste, il pignoramento dello stipendio o il fermo dell’auto.

Sarebbe possibile chiedere la rateizzazione della somma dovuta: da un minimo di quattro fino a un massimo di 72 rate

Il sollecito di pagamento verrà inviato solo in presenza di debiti di importo non superiore a 10 mila euro. Sarà possibile chiedere la rateizzazione della somma dovuta: da un minimo di quattro fino a un massimo di 72 rate.

SESSANTA GIORNI DI TEMPO PER IL RICORSO

Secondo quanto previsto dall’emendamento, scompare lo step intermedio dell’iscrizione a ruolo del debito, e dunque l’invio della cartella esattoriale. Il contribuente avrà poi 60 giorni di tempo per presentare il ricorso, al termine dei quali l’atto disposto dall’ente locale diventerebbe immediatamente esecutivo.

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Mourinho al Tottenham e quel tradimento ai tifosi del Chelsea

Il tecnico portoghese prende il posto di Pochettino sulla panchina degli Spurs. A un anno di distanza dal licenziamento da parte dello Utd. Ma dall'Inghilterra riemergono le parole del 2015. Quando disse:«Mai con loro».

«Il Tottenham? Non potrei mai accettare di sedere su quella panchina, per rispetto verso i tifosi del Chelsea». Era il 2015 quando José Mourinho non ammetteva repliche di fronte all’opportunità di diventare, un giorno, la guida tecnica degli Spurs. Quel giorno è arrivato, col tecnico portoghese che il 20 novembre ha ufficialmente raccolto l’eredità di Mauricio Pichettino, licenziato appena 24 ore prima dal presidente Daniel Levy.

UNA GIRAVOLTA SULLA SCIA DI ALTRI GRANDI MISTER

Nulla di clamoroso, se si pensa che Mou è in buona compagna quando si parla di allenatori che hanno fatto il salto della staccionata, dopo aver promesso che mai avrebbero convolato a nozze col nemico. Basti pensare a Fabio Capello e al suo sbarco alla Juventus dopo aver giurato ai tifosi romanisti che mai sarebbe finito ad allenare gli odiati rivali. O a Sinisa Mihajlovic, che nel 2010 si spinse a dire che non sarebbe mai andato al Milan, sentendosi interista, salvo poi tornare sui suoi passi.

ANCORA PIÙ ODIATO DAI TIFOSI DEL CHELSEA

Resta da vedere come la prenderanno dalle parti di Stamford Bridge, dove i tifosi del Chelsea già mal digerirono l’approdo, poi rivelatosi fallimentare, al Manchester United. Nel 2015, di fronte alle domande dei cronisti, Mourinho lasciò intendere come un primo tentativo da parte del Tottenham per ottenere i suoi servigi fosse già andato in scena nel 2007, al tempo della sua prima avventura in Blues. Licenziato dallo United un anno fa, lo Special One riprende ora da Londra una carriera che l’ha visto sempre in prima fila, nel bene e nel male, da vincitore (quattro campionati in altrettanti Paesi, due Champions League con due squadre diverse e varie altre coppe) o al centro di aspre polemiche. Di recente, parlando del suo futuro, aveva detto: «Ho ancora 20 anni come allenatore, poi chiuderò sulla panchina del Portogallo». E che la voglia di tornare in pista fosse tanta non aveva esitato ad ammetterlo, solo pochi mesi fa: «Ho il fuoco dentro, il campo mi manca».

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Perché la testimonianza di Sondland sull’Ucrainagate mette nei guai Trump

L'ambasciatore Usa in Europa, sentito dalla Camera, ha raccontato di aver lavorato su ordine del presidente per fare pressioni su Kiev. Il tycoon avrebbe cercato un quid pro quo con Zelenskyj: indagini su Biden in cambio degli aiuti.

«Tutti erano al corrente, non c’era nessun segreto». C’è un nuovo capitolo dell’Ucrainagate che rischia di mettere ancora più in difficoltà il presidente americano Donald Trump. Le parole sono di Gordon Sondland, ambasciatore Usa presso la Ue, che il 20 novembre è stato sentito in audizione alla Camera nel procedimento per impeachment contro il tycoon. Un’audizione molto attesa anche perché la Casa Bianca aveva tentato di bloccarla.

Sondland, ha ammesso di aver lavorato con Rudolph Giuliani, l’avvocato personale del presidente, su ordine dello stesso Trump, per fare pressioni sull’Ucraina. Trump avrebbe ordinato di perseguire attraverso Giuliani il ‘quid pro quo‘, legando la visita del presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj alla Casa Bianca e agli aiuti militari a Kiev all’avvio delle indagini sui suoi rivali politici, Joe Biden in testa.

«Giuliani», ha raccontato Sondland, «chiese che l’Ucraina facesse una dichiarazione pubblica annunciando delle indagini» sia sulle elezioni presidenziali americane del 2016 sia sulla Burisma, la società in cui aveva lavorato il figlio dell’ex vicepresidente Biden. «Giuliani stava esprimendo un desiderio del presidente e noi sapevamo che queste indagini erano importanti per il presidente», ha aggiunto il diplomatico.

COINVOLTO ANCHE L’EX PRESIDENTE PENCE

Nella sua deposizione Sondland ha chiamato in causa tutti i vertici dell’amministrazione, sostenendo che «tutti sapevano» del blocco degli aiuti militari a Kiev in cambio delle indagini sui Biden, compreso il vicepresidente Mike Pence, cui aveva espresso le sue preoccupazioni il primo settembre a Varsavia prima di un incontro con il presidente ucraino.

LEGGI ANCHE: Contro Trump anche un funzionario della Casa Bianca

LE OMBRE SI ALLUNGANO SU POMPEO

Ma l’ambasciatore ha raccontato anche qualcos’altro dicendo che inviò al segretario di Stato Mike Pompeo, al segretario all’energia Rick Perry e al capo dello staff della Casa Bianca Mick Mulvaney per informarli di aver parlato con Zelensky e che questi intendeva avviare delle «indagini trasparenti». La mail era del 19 luglio, una settimana prima della telefonata tra Trump e Zelensky. Secondo il New York Times Sondland avrebbe discusso con Pompeo della possibilità di fare pressioni su Zelensky perché durante l’incontro nello Studio Ovale promettesse le indagini volute da Trump, per rompere così la situazione di stallo tra i due Paesi con gli aiuti militari a Kiev che erano stati congelati. Non solo. Pompeo avrebbe dato la sua approvazione al piano.

SONDLAND: «HO AGITO IN BUONA FEDE»

«Ho agito in buona fede seguendo le direttive del presidente», ha detto ancora Sondland nel corso della sua audizione chiarendo anche di essere stato contrario al blocco degli aiuti Usa a Kiev nel momento in cui venne a sapere che era legato all’apertura di un’inchiesta sui Biden. «Non eravamo contenti dell’ordine di Trump di parlare con Rudy Giuliani. Non volevamo il suo coinvolgimento. Io pensavo, e penso, che siano gli uomini e le donne del dipartimento di Stato, e non l’avvocato personale del presidente, a dover prendersi la responsabilità degli affari ucraini», ha detto. «Potevamo abbandonare gli sforzi di programmare una telefonata e una visita alla Casa Bianca tra Trump e Zelensky, che era senza dubbio nell’interesse della nostra politica estera, o fare come aveva ordinato Trump. Scegliemmo la seconda strada, non perché ci piacesse, ma perché era l’unica via costruttiva per noi», ha aggiunto.

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Perché i gattini di Salvini non neutralizzeranno le Sardine

Per arginare il movimento, il leader leghista sguinzaglia i «bambini felini». Cercando di spostare il confronto dalle piazze piene ai social «dove può tornare protagonista», spiega Sara Bencivenga, docente di Comunicazione politica. Più che una vera controffensiva un «gioco per i suoi fan». L'analisi.

In principio furono le Sardine, poi (ri)spuntarono i gattini. Così, sui social, il leader della Lega Matteo Salvini tenta di tener testa e ribaltare il successo di piazza del neonato movimento, e non solo in vista delle prossime Regionali in Emilia-Romagna.

I gattini leghisti in funzione anti-sardina sono spuntati durante la trasmissione Fuori dal coro, padrone di casa Mario Giordano su Rete4. «Alle Sardine preferisco i gattini», ha detto Salvini, «che se le mangiano, quando hanno fame». Poi sul suo profilo Facebook è apparsa la foto di un feroce micetto intento ad azzannare il pesce azzurro. Accompagnato dal messaggio: «Cosa c’è di più dolce e bello dei gattini? Ai vostri bambini felini piacciono sardine e pesciolini? Mettete la foto nei commenti! Miao!». A seguire emoticon, logo e hashtag #gattiniconSalvini. Stessa operazione su Twitter.

Cosa c'è di più dolce e bello dei gattini? 😉P.s. Ai vostri bambini felini piacciono sardine e pesciolini? Mettete la foto nei commenti! Miao! 😸#gattiniconSalvini

Posted by Matteo Salvini on Tuesday, November 19, 2019

FOTI: «I GATTINI NON SARANNO MAI CON SALVINI, LUI È UN GATTOPARDO»

Eppure l’idea non è così originale. Come hanno fatto subito notare gli ideatori di ‘Gattini per Civati‘. Correva l’anno 2013 e i cuccioli apparivano con occhi languidi sulla spalla di Pippo allora in corsa per le primarie Pd incitandolo con miagolii e fusa. «È un atto di accattonaggio», dice a Lettera43.it il creatore della fortunata pagina Franz Foti. «Ma i gattini non saranno mai con lui. Che è più un Gattopardo». E così nella pagina dei gattini civatiani campeggia l’appello a superare le naturali opposizioni tra gattini e sardine.

Noi con Salvini?! Al massimo andiamo a graffiargli tutti i divani! #gattiniANTIsalvini: la controffensiva è appena iniziata!

Posted by Gattini per Civati on Wednesday, November 20, 2019

Nell’immagine di copertina lo sguardo minaccioso di un gatto, quasi da pantera: «Salvini nemmeno immagina in che guaio si è cacciato». «Noi da Salvini andiamo per graffiargli tutti i divani». E nuovo hashtag #gattiniANTIsalvini. L’allergia dei gattini per Salvini non è nuova. Nel maggio 2015, per esempio, venne lanciato il flashmob virtuale Gattini su Salvini: l’obiettivo era intasare la pagina Fb del leader della Lega di micetti contro l’odio. Per non parlare di Salvini Blocker, una estensione con cui è possibile sovrapporre a tutte le foto del segretario in Rete immagini di cuccioli.

LEGGI ANCHE: Sardine nuotate a Sud e liberate la sinistra

BENCIVENGA: «QUELLO DI SALVINI È UN GIOCO POLITICAMENTE IRRILEVANTE»

I gattini «sono un simbolo ormai sdoganato», spiega Sara Bencivenga, docente di Comunicazione politica all’università La Sapienza di Roma. «Ormai da 20 anni si usano per rendere leggero e ironico un messaggio. Basti pensare ai primi video di Youtube in cui i gatti cantavano in varie lingue del mondo». Sull’operazione di Salvini Bencivenga non ha dubbi: «Politicamente è un atto irrilevante, è più un gioco per i suoi», mette in chiaro. «Perché, fin quando le piazze vere continueranno a riempirsi non ci saranno effetti». A meno che non ci siano nuovi sviluppi: «Le stesse sardine potrebbero dare il via a una controffensiva, per fare un esempio il pescecane che mangia i gattini che mangiano…e così via».

IL LEADER DELLA LEGA VUOLE SPOSTARE LA BATTAGLIA SUL WEB

Il tentativo del leader della Lega e del suo staff a livello comunicativo è chiaro: «Tentare di trasformare a suo favore una mobilitazione che è partita dal basso, ha utilizzato sì i social ma come mezzo per raggiungere uno scopo, non come destinazione finale», aggiunge Bencivenga. «Salvini cerca così di creare una distinzione tra luogo reale dove è stato espresso un dissenso pacifico, e i numeri per le due tappe già consumate sono a favore delle Sardine, e quello virtuale, sul web, dove può vincere». È lì, che in modo divertente, vorrebbe ridiventare protagonista. E vincente: «Perché il gattino mangia le sardine, appunto. Chiude il cerchio e fa simpatia».

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Un furto sui generis «perché lo stile ben si inserisce nella sua produzione, ma sui social è più un prestito, un’inclusione, un innesto. Tra l’altro minimo nella sua enorme produzione che è un flusso continuo». I fan risponderanno con una valanga di immagini di mici – «i bambini felini», li chiama Salvini – e poi il tormentone finirà. «L’espressione “bambini felini”», aggiunge Bencivenga, «è un richiamo strumentale all’infanzia e ai bambini nei discorsi politici. Anche questo è un suo elemento ricorrente». Insomma, niente di nuovo sul fronte online. Resta da monitorare quello delle piazze (reali), dove si stiperanno ancora – stando ai calendari degli organizzatori disponibili in Rete – le Sardine. Sagome di cartone e battage social dietro cui però ci sono persone in carne e ossa. 

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