Con la Brexit Londra rimette in discussione l’Erasmus

Il parlamento del Regno Unito ha bocciato un emendamento che avrebbe garantito il rinnovo automatico del programma. Un nuovo accordo andrà rinegoziato.

Arrivederci Erasmus. Nelle ore in cui è arrivato il via libera definitivo alla Brexit, il parlamento britannico ha bocciato un emendamento che avrebbe garantito il rinnovo automatico dello storico programma di scambio tra studenti europei dopo l’uscita dall’Unione europea. Non è un addio, si è affrettato a precisare il governo di Londra bersagliato dalle critiche, ma quasi. Con il voto di ieri sera, oscurato dall’annuncio shock di Meghan e Harry, Erasmus+ (come si chiama da qualche anno) finirà nel calderone dei dossier da affrontare nei futuri negoziati con Bruxelles. In pratica, il girone infernale del periodo di transizione, quando ci saranno questioni ben più impellenti da risolvere. Il voto ai Comuni era atteso ed in linea con la promessa del premier Boris Johnson di mettere fine alla libertà di movimento dopo la Brexit.

LA PROTESTA DA ENTRAMBE LE SPONDE DELLA MANICA

E tuttavia ha suscitato reazioni di protesta da entrambi i lati della Manica. Scatenando l’indignazione soprattutto di chi l’Erasmus l’ha vissuto e lo ricorda a distanza di anni come l’esperienza più formativa della propria vita. «Ho trascorso un anno incredibile a Friburgo nel 1999. Sono così arrabbiata che questa possibilità sia stata strappata agli studenti britannici», scrive Laura su Twitter. «Grazie all’Erasmus sono riuscita a studiare a Parigi e trovare il mio primo lavoro da giornalista. Ha trasformato la timida ventenne che ero…», racconta Ros. «L’Erasmus mi ha resa quella che sono oggi. Ho il cuore spezzato», dice la professoressa Tanja Bueltmann.

LONDRA PROVA AD ABBASSARE I TONI

Il governo britannico, prima per bocca del sottosegretario all’Istruzione Chris Skidmore, poi con un comunicato ufficiale, ha provato a placare gli animi. «C’è l’impegno a mantenere i rapporti accademici con l’Ue anche attraverso l’Erasmus+. Vogliamo assicurarci che gli studenti britannici e quelli europei possano continuare a beneficiare dei rispettivi sistemi educativi», è scritto nella nota dove tuttavia si precisa «se sarà nei nostri interessi farlo». Al programma partecipano anche Paesi non membri dell’Unione europea come Norvegia, Serbia e Turchia, oltre a Paesi partner che prendono parte solo ad alcune attività come Albania, Egitto, Israele, Russia. Ma non potendo usufruire dei fondi comunitari, i Paesi che decidono di aderire devono stanziare finanziamenti di tasca propria. Sarà «nell’interesse» del Regno Unito farlo?

NO COMMENT DA BRUXELLES

Da Bruxelles nessun commento sulla decisione, a larghissima maggioranza, dei Comuni. Lo scorso marzo, in prossimità della prima scadenza della Brexit e per fronteggiare un eventuale no-deal, il Consiglio europeo aveva adottato un pacchetto di misure d’emergenza che garantivano agli studenti Erasmus di concludere il loro percorso. Ma solo fino alla fine del 2020. Nessuno sa cosa accadrà alla scadenza del periodo di transizione.

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Taglio dei parlamentari, la battaglia sul referendum allunga la vita al governo

A tre giorni dalla scadenza del 12 gennaio, si tirano indietro quattro senatori di Forza Italia vicini a Mara Carfagna. Ma le defezioni sono almeno otto. Ora diventa cruciale il ruolo della Lega, che potrebbe decidere di invertire la rotta.

Il destino del referendum contro il taglio dei parlamentari è appeso a una manciata di firme. A tre giorni dalla scadenza del termine per la presentazione della richiesta, prevista per il 12 gennaio, si sono infatti tirati indietro quattro senatori di Forza Italia vicini a Mara Carfagna. Ma le defezioni sarebbero di più, almeno otto. E sono pronti al ritiro anche tre senatori del Pd.

La consultazione rischia quindi di saltare: se ciò accadesse, la legge entrerebbe subito in vigore. Ma a “salvare” il referendum potrebbero pensarci altri senatori di Forza Italia, o più probabilmente della Lega. Perché in un intreccio pericolossimo per le sorti del governo, solo se ci sarà il referendum sul taglio dei parlamentari ha buone probabilità di tenersi anche il referendum promosso dal Carroccio per il maggioritario in tema di legge elettorale, su cui il 15 gennaio è chiamata a esprimersi la Corte Costituzionale.

La maggioranza vuole provare a evitarli entrambi. Da una parte pressa i senatori per il ritiro delle firme, dall’altra deposita il “Germanicum”, una proposta di legge elettorale proporzionale. Mentre prosegue il lavoro sotterraneo per “blindare” la maggioranza e metterla al riparo dagli smottamenti nel M5s, magari con l’ingresso di un gruppetto di senatori in uscita da Forza Italia.

LE APERTURE DI CONTE

Tra i parlamentari non sono passate inosservate le parole con cui il premier Giuseppe Conte ha risposto a una domanda del quotidiano Il Foglio sulla possibilità che una parte degli azzurri possa appoggiare maggioranza, votando con Pd e M5s come già avvenuto al parlamento europeo: «Se si dovesse verificare questa condizione la valuteremo. Sarebbe un passaggio senz’altro significativo». Antonio Tajani ha subito parlato di «ipotesi dell’irrealtà», ma di un gruppo di deputati e senatori cosiddetti “responsabili” si vocifera con insistenza.

IL GESTO DEGLI AZZURRI VICINI ALLA CARFAGNA

Del resto i quattro senatori Franco Dal Mas, Massimo Mallegni, Laura Stabile e Barbara Masini, che hanno annunciato di aver ritirato le firme sulla richiesta di referendum per «impedire a qualcuno di farsi prendere dalla tentazione di andare a votare senza ridurre prima il numero degli eletti», sono tutti di Forza Italia. Il gesto prelude allo sbarco in maggioranza degli azzurri che fanno riferimento a Mara Carfagna? Fonti vicine alla vice presidente della Camera, per il momento, negano: «Voce libera vuole che il governo cada. Ma non si può andare a votare con mille parlamentari, alimentando ancora il M5s anti casta».

I CALCOLI CHE STANNO DIETRO AI GIOCHI POLITICI

La tesi prevalente è che se venisse indetto il referendum, si aprirebbe una finestra per far saltare il governo e andare a votare per eleggere 630 deputati e 315 senatori, prima che vengano ridotti a 400 e 200. In tal caso chi vince vincerebbe di più, e chi perde perderebbe di meno. Ma nei giochi politici di queste ore viene fatto anche un altro calcolo: per un cavillo giuridico, se verrà indetto il referendum costituzionale, avrà più probabilità di essere ammesso anche il referendum promosso dalla Lega per una legge elettorale maggioritaria. A quel punto potrebbe essere indetto un election day capace di far fibrillare l’esecutivo, in coincidenza con le elezioni regionali di primavera.

LA MAGGIORANZA PROVA A SMINARE IL CAMPO SULLA LEGGE ELETTORALE

«Rischierebbe di essere un mega-referendum su Salvini», osservano fonti del Pd. E anche per non dare all’ex ministro dell’Interno altre armi di propaganda, il governo prova a tenersi fuori dalla battaglia. Conte e i capi delegazione di maggioranza hanno deciso infatti di non costituire l’esecutivo in giudizio di fronte alle Corte costituzionale. Per “sminare” la questione e dimostrare alla Consulta che sul sistema di voto sta già legiferando il parlamento, è stata accelerata anche la presentazione del Germanicum, nato da un primo accordo di maggioranza che non convice in pieno Liberi e uguali.

IL SEGNALE SALVINI: «FAREI REFERENDUM SU TUTTO»

Il testo è stato depositato da Giuseppe Brescia del M5s. Prevede un sistema con soglia di sbarramento al 5% (nell’iter parlamentare, complici i voti segreti, c’è il rischio che scenda) e diritto di tribuna per i piccoli partiti. Anche in nome di questa prima bozza di legge elettorale tre senatori del Pd, Roberto Rampi e gli orfiniani Francesco Verducci e Vincenzo D’Arienzo, potrebbero ritirare le firme sul taglio dei parlamentari. I senatori dem che hanno firmato in tutto sono sette, gli altri quattro resistono. Il 10 gennaio anche i Radicali presenteranno i risultati della loro raccolta. Ma adesso sarà determinante il ruolo della Lega: «Io farei referendum su tutto», ha detto in serata Salvini. E sembra un segnale chiaro rivolto ai suoi: invertire la rotta sul tema della riduzione del numero dei parlamentari, firmare e metterci la faccia.

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L’ultimo sondaggio prima delle elezioni in Emilia Romagna

Testa a testa tra Bonaccini e Borgonzoni a 18 giorni dal voto: il candidato di centrosinistra dato tra il 45 e il 49% dei consensi, quella di centrodestra tra il 43 e il 47%.

Nell’ultimo sondaggio prima delle elezioni in Emilia Romagna è testa a testa tra il candidato di centrosinistra Stefano Bonaccini e la rivale di centrodestra Lucia Borgonzoni, con il primo dato tra il 45 e il 49% dei consensi e la seconda tra il 43 e il 47%. Lo fa sapere una rilevazione di Swg per il TgLa7.

Un risultato simile emerge da un sondaggio realizzato da Emg Acqua. Bonaccini, infatti, è indicato al 46,5% delle preferenze degli elettori, mentre Borgonzoni insegue con il 43,5%. Molto staccato il candidato del Movimento 5 Stelle Simone Benini, fermo al 6,5%. Le liste che sostengono i due principali candidati sono invece al 45%. La Lega si confermerebbe primo partito, superando il Pd (29,5% contro il 28%). La lista ‘Bonaccini presidente’ è accreditata di un 12%, mentre le altre liste di centrosinistra sono date al 5%. All’8% è data Fratelli d’Italia, mentre Forza Italia al 4%, la lista civica di Borgonzoni al 3% e le altre allo 0,5%. Il Movimento 5 Stelle è segnalato al 7%, le altre liste al 3,5%.

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Anche la polizia municipale in campo contro le stragi della strada

Accordo tra il ministero dell'Interno e l'Anci: agli agenti funzioni di controllo della viabilità locale. Mentre i prefetti dovranno mappare i luoghi più a rischio. Coinvolti anche i gestori dei locali.

Ci sono gli ultimi casi eclatanti: da Gaia e Camilla, le due ragazze investite a Ponte Milvio a Roma, ai sette turisti tedeschi travolti a Lutago, in Alto Adige. Ma anche le statistiche segnalano una crescita delle vittime della strada nel 2019. E la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha deciso di correre ai ripari lanciando due iniziative di contrasto: da una parte arruolando anche gli agenti delle Municipali per i servizi di polizia stradale, dall’altra invitando i prefetti a mappare i luoghi più a rischio per predisporre controlli adeguati.

L’ACCORDO FIRMATO AL VIMINALE

Per quanto riguarda il coinvolgimento delle polizie municipali, un accordo quadro è stato siglato al Viminale dalla ministra Lamorgese e dal presidente dell’Anci, Antonio Decaro. Gli agenti avranno un ruolo di primo piano nel controllo della viabilità locale e nella rilevazione degli incidenti. La novità riguarderà innanzitutto le 14 città metropolitane e i capoluoghi in grado di organizzare i servizi, poi sarà estesa ad altre città, a partire da quelle con più di 100 mila abitanti.

IL RUOLO DEI GESTORI DEI LOCALI

Lamorgese e Decaro hanno anche condiviso la necessità di coinvolgere le associazioni dei gestori dei locali di intrattenimento per rafforzare la prevenzione, soprattutto nei riguardi dei più giovani, attraverso iniziative di sensibilizzazione su ciò che può accadere mettendosi alla guida sotto l’effetto di alcol e droga, la distribuzione di etilometri e la messa in sicurezza di parcheggi e aree di collegamento con i locali.

LA MAPPATURA AFFIDATA AI PREFETTI

Per quanto riguarda invece la mappatura dei tratti stradali più esposti al rischio incidenti, ai prefetti è stato chiesto di segnalare entro il 20 gennaio innanzitutto quelli più vicini ai luoghi di aggregazione e ai locali di intrattenimento. Sulle aree individuate andranno concentrati i controlli delle forze di polizia e, in sinergia con le amministrazioni locali, sviluppate misure per la messa in sicurezza dell’ambiente stradale, come il miglioramento della segnaletica, dell’illuminazione e degli attraversamenti.

I COMUNI CHIEDONO GARANZIE

La priorità, per Lamorgese, è «dare una risposta immediata e concreta per migliorare la sicurezza della circolazione stradale, che passa attraverso maggiori controlli ma anche iniziative di sensibilizzazione». Decaro, da parte sua, si è detto «convinto dell’utilità di affidare alle polizie locali la sicurezza stradale, come previsto da questo accordo». Ma ha evidenziato come sia «indispensabile che i Comuni che hanno bisogno di più personale per assicurare questa funzione ricevano garanzie dallo Stato. Il successo dell’accordo dipenderà da una collaborazione piena tra Comuni e ministero dell’Interno, sia in tema di organici degli agenti locali, sia rispetto all’accessibilità delle banche dati».

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I reprobi della Royal Family, da Edoardo VIII a oggi

Abdicazioni, rinunce, scandali: i terremoti che hanno scosso la famiglia reale britannica prima del caso Harry e Meghan.

Fra abdicazioni, rinunce e allontanamenti, la famiglia reale britannica può allineare più di un precedente, nella storia moderna, della presa di distanza annunciata l’8 gennaio dai duchi di Sussex, Harry e Meghan; seppure in contesti e circostanze assai diverse fra loro. Eccone una lista, da Edoardo VIII a oggi, passando per la compianta Lady D.

EDOARDO VIII

Fu indubbiamente il protagonista della vicenda più grave mai capitata in casa Windsor, per la portata dei fatti, l’impatto sui tempi, il contesto storico drammatico e il suo ruolo di sovrano regnante, non di semplice principe cadetto come Harry. Nato con il nome di David, fratello maggiore del padre di Elisabetta II, il futuro Giorgio VI, Edoardo – in seguito sospettato pure di simpatie filo naziste – rinunciò al trono nel 1936 per sposare la borghese Wallis Simpson, americana e divorziata al pari di Meghan Markle, ma in un mondo diverso; un gesto romantico e folle, nella percezione dell’epoca, che né il governo né la Chiesa di Stato anglicana poterono accettare e che causò uno scandalo enorme, al punto da mettere a repentaglio il futuro medesimo della dinastia e dell’istituzione monarchica.

LADY DIANA

Madre del principe Harry (e del fratello maggiore William), fu al centro di un distacco dalla Royal Family consumatosi in due tempi, prima di tramutarsi in un autentico terremoto per la corte e per la regina Elisabetta al momento della morte prematura della ‘principessa del popolo’. Nel 1993 il primo passo fu quello di un suo allentamento degli impegni ufficiali di corte – un po’ come quello annunciato dai duchi di Sussex – dopo il clamoroso suo divorzio (inizialmente presentato come “amichevole”) dal principe Carlo. Nel 1996 il secondo fu invece la revoca di ogni incarico residuo di rappresentanza, con annessa perdita del titolo di Sua Altezza Reale, ordinata dalla sovrana dopo la messa in scena pubblica in tv delle recriminazioni coniugali contro l’erede al trono.

FERGIE

Sarah Ferguson, duchessa di York, fu a sua volta al centro, nel 1996, di uno scandaloso divorzio condito da tradimenti incrociati dal principe Andrea, fratello minore di Carlo e terzogenito della regina e di Filippo duca d’Edimburgo; messa da parte quasi subito dal casato a causa degli imbarazzi provocati, in quello che la regina ebbe a definire il primo “annus horribilis” del suo lungo regno, Fergie la Rossa continuò del resto anche in seguito a farsi parlare dietro. Fra sospetti di affarucoli spregiudicati, con tanto di presunti tentativi di sfruttamento del ‘brand’ reale. Salvo riavvicinarsi più di recente ad Andrea e alla famiglia regnante, al fianco delle figlie Beatrice e Eugenie, nipoti molto amate da Elisabetta II.

ANDREA, DUCA DI YORK

Il suo ritiro dalla scena pubblica è un fatto di poche settimane fa e non è stato volontario. Bensì un benservito imposto da circostanze di opportunità (e deciso dalla regina su pressione di Carlo, secondo alcuni media) in seguito al riemergere delle denunce sui vecchi rapporti di frequentazione dell’ex marito di Fergie con Jeffrey Epstein: il miliardario Usa, amico di molti ricchi e potenti, accusato di abusi sessuali su ragazze giovani e giovanissime e morto infine in un carcere americano, ufficialmente suicida.

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Un gruppo di senatori M5s ha chiesto di abolire il capo politico

Il documento verrà presentato all'assemblea congiunta degli eletti pentastellati. Si domanda anche di togliere il controllo della piattaforma Rousseau alla Casaleggio Associati.

Abolire la figura del capo politico, togliere alla Casaleggio Associati il controllo della piattaforma Rousseau e lasciare a Beppe Grillo soltanto il ruolo di presidente, non più quello di garante del M5s: sono le proposte che un gruppo di senatori pentastellati – capitanati da Primo Di Nicola, Emanuele Dessì e Mattia Crucioli – ha messo nero su bianco e intende presentare all’assemblea congiunta degli eletti in programma nella serata del 9 gennaio.

IL TESTO HA GIÀ RACCOLTO UNA DECINA DI FIRME

Come riferisce Il Fatto Quotidiano, che per primo ha dato la notizia, il testo è già stato sottoscritto da una decina di senatori. L’obiettivo è di raccogliere più firme possibili e far partire il dibattito interno. Nel frattempo anche i deputati Massimiliano De Toma e Rachele Silvestri hanno deciso di passare al gruppo Misto, facendo scendere a 211 il numero totale dei pentastellati che siedono a Montecitorio.

SI PUNTA SU UNA MAGGIORE «DEMOCRAZIA INTERNA»

Nel documento si chiede di ristrutturare profondamente la “governance” del M5s. Prevedendo una gestione collegiale della futura linea politica e diverse modalità di rendicontazione per la restituzione parziale degli stipendi. Su quest’ultimo punto, in particolare, si propone che in caso di scioglimento del Comitato rendicontazioni le giacenze non vengano più destinate all’Associazione Rousseau, bensì direttamente al Fondo per il Microcredito. Nessun attacco, tuttavia, alla tenuta del governo giallorosso presieduto da Giuseppe Conte, che anzi «non deve saltare». Il messaggio è dunque rivolto ai vertici del M5s e in primis a Luigi Di Maio, cui si domanda un cambiamento radicale in direzione di una «maggiore democrazia interna».

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Comunicato della redazione di Lettera43.it e LetteraDonna.it

I giornalisti proclamano tre giorni di sciopero dopo la decisione della società di procedere alla richiesta di Cassa integrazione guadagni straordinaria a zero ore per riorganizzazione aziendale.

L’8 gennaio 2020 la società editoriale News3.0 ha presentato ai redattori un documento scritto sull’apertura della procedura di richiesta della Cassa integrazione guadagni straordinaria a zero ore per riorganizzazione aziendale. Un provvedimento pronto a colpire otto giornalisti sugli attuali 14 assunti, che con le dimissioni di un altro lavoratore ridurrebbero l’organico a sole cinque unità.

La redazione considera gravissime e sproporzionate le misure, che tra l’altro non sono stato oggetto di discussione o trattativa con l’azienda per cercare eventuali alternative possibili. In gioco, oltre al posto dei giornalisti, c’è anche la sopravvivenza delle testate Lettera43.it e LetteraDonna.it che dopo anni di lavoro vengono così di fatto smantellate o chiuse.

Le motivazioni addotte alla decisione di chiedere la Cigs, e cioè la necessità di sistemare i conti in un contesto di crisi generalizzata del settore dell’editoria, vengono usate come scuse per nascondere incapacità manageriali e per falcidiare in questa misura il corpo redazionale, che tra l’altro negli anni e tra diverse difficoltà, ripetute riduzioni di organico e licenziamenti improvvisi non ha mai fatto mancare il suo apporto e la sua professionalità, a ogni ora del giorno e della notte, in ogni giorno dell’anno e fuori dalle mansioni contrattuali.

Ora i redattori pagano sulla loro pelle le ripercussioni di vecchie esperienze fallimentari, come FreeJourn, Pagina99, Sextelling, ExpoNotizie e altri progetti abortiti negli anni che hanno portato allo sperpero di risorse e alla perdita di opportunità di investimenti, a cui si sono sommate le ultime scelte che si sono rivelate profondamente sbagliate, come la decisione di affidarsi a un inefficace restyling del sito e a un disastroso Content management system che ha impattato negativamente sulle prestazioni del quotidiano online, sul lavoro dei giornalisti e sui risultati in termini di traffico, mentre nessuno di chi ha preso le suddette decisioni ha subìto conseguenze.

La società nella sua comunicazione si è data l’obiettivo di recuperare con il nuovo assetto un «gap di competenze» identificando «personale con soft skill» legate all’«ambiente digitale», che però la redazione attuale possiede già, a differenza di quanto dimostrato dalla dirigenza negli anni.

La redazione, già in stato di agitazione da mesi dopo la richiesta mai soddisfatta di ottenere un piano editoriale, condanna la decisione presa dall’azienda, che nelle figure del direttore e dell’amministratore delegato non ha avuto neanche la decenza di comunicare direttamente ai redattori l’avvento della Cigs, e proclama sciopero per le giornate di venerdì 10 gennaio, lunedì 13 e martedì 14.

Il cdr di Lettera43.it e LetteraDonna.it

LA RISPOSTA DELL’AZIENDA

Prendiamo atto del comunicato della redazione, non ne condividiamo ovviamente l’analisi e soprattutto le conseguenze adombrate sul futuro della casa editrice, che non ha alcuna intenzione di chiudere. Anzi, il ricorso alla cassa integrazione a fronte del progressivo deterioramento del settore è un modo per assicurarne la continuità. Ricordiamo alla redazione che ne suoi oramai dieci anni di vita questa azienda non è mai ricorsa a nessun ammortizzatore, caso forse unico nel panorama editoriale italiano, né ha goduto di finanziamenti pubblici. Il comunicato della redazione, nei toni e nella strumentalità delle accuse, preclude evidentemente qualsiasi forma di dialogo.

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L’ex Nar Cavallini condannato all’ergastolo per la strage di Bologna

Per i giudici l'ex terrorista fornì supporto logistico a Fioravanti, Mambro e Ciavardini.

Condanna all’ergastolo per l’ex terrorista dei Nar Gilberto Cavallini, nel processo sulla Strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980. La sentenza è stata letta dalla Corte di assise, dopo sei ore e mezza di camera di consiglio.

SODDISFAZIONE DEI FAMILIARI DELLE VITTIME

Alla lettura della sentenza l’imputato, in semilibertà nel carcere di Terni, non era più presente in aula. In mattinata aveva fatto dichiarazioni spontanee. Erano presenti invece una trentina di familiari delle vittime, tra i banchi del pubblico, che hanno accolto il verdetto in maniera composta, con evidente soddisfazione. Presente anche la presidente dei familiari delle vittime della Banda della Uno Bianca, Rosanna Zecchi.

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«Il Boeing ucraino abbattuto per errore da un missile»

Lo riferisce Newsweek citando fonti del Pentagono e delle intelligence Usa e irachena.

Il Boeing dell’Ukrainian Airlines precipitato durante la fase di decollo dall’aeroporto di Teheran causando la morte di 176 persone l’8 gennaio, sarebbe stato abbattuto per errore da un missile anti-aereo iraniano. Lo scrive Newsweek che cita tre fonti: una del Pentagono, una dell’intelligence Usa e un’altra dell’intelligence irachena.

LEGGI ANCHE: Perché l’attacco alle basi Usa può soddisfare sia Teheran sia Washington

Secondo le fonti citate, l’aereo sarebbe stato colpito da un missile terra-aria Tor M-1, di fabbricazione russa, noto come Gauntlet presso la Nato. La batteria anti-aerea iraniana sarebbe stata attiva contro possibili risposte ai raid compiuti contro due basi americane in Iraq seguiti all’uccisione da parte di un drone Usa del generale iraniano Qassem Soleimani.

cause aereo ucraino caduto teheran
I resti dell’aereo ucraino caduto a Teheran. (Ansa)

«Qualcuno potrebbe aver commesso un errore», ha commentato il presidente Usa Donald Trump. «Ho un mio sospetto su quanto accaduto», ha aggiunto il tycoon sulle indiscrezioni stampa che puntano il dito sul sistema anti-missilistico di Teheran escludendo problemi tecnici del Boeing 737 precipitato.

LEGGI ANCHE: Cosa non torna nel caso dell’aereo ucraino caduto a Teheran

In mattinata, il team di esperti ucraini che indaga sul disastro aveva incontrato a Teheran le autorità dell’aviazione civile iraniana, che continuano a ritenere che il velivolo sia precipitato a seguito di un problema tecnico. La Repubblica islamica ha invitato a partecipare all’inchiesta anche il Canada e la Svezia che nella tragedia hanno avuto rispettivamente 63 e 10 morti.

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Il grande (e rischioso) fuck you dei Sussex alla Corona

I ribelli Harry e Meghan danno il benservito alla Regina e corrono incontro alla loro libertà. Al secondogenito di Carlo auguriamo ogni bene. Anche se al suo posto non avremmo mai scambiato la solidità di una Royal family con la volubilità di una moglie inquieta.

Potendo sostituire il comunicato ufficiale a firma “Duca e Duchessa del Sussex”, forse avrebbero più semplicemente e italicamente scritto «andate tutti affanculo».

Che è un po’ il senso manifesto della fuga di Harry & Meghan, i cui nomi si intrecciano in un logo da coppia dannata, come quelli di Bonnie & Clyde o, più regalmente, come quelli degli antenati Edward & Wally, anch’essi in fuga, circa 80 anni fa, dalle pesanti regole della corte britannica.

HARRY E MEGHAN IN FUGA COME NE IL LAUREATO

Harry & Meghan gettano alle ortiche i privilegi regali, l’appannaggio, quella vita insulsa fatta di sorrisi di circostanza, visite ai centri di beneficenza, fingendosi interessati ai disegni di bambini disagiati delle periferie, partecipazioni a eventi e cerimonie pompose, in cui offrirsi ai flash dei fotografi per poi finire su giornali che criticheranno il tuo abito, le tue scarpe, il trucco, la smorfia involontaria. Tutta roba che William & Kate si sciroppano senza troppo disagio, ma tant’è: sarai il re d’Inghilterra? E allora beccatela tu questa vita del cavolo. Noi diciamo no e ce ne andiamo, come la coppia de Il laureato che abbandona le famiglie furibonde con un palmo di naso, per salire su un autobus sgarrupato e andare incontro alla libertà e al vero amore.

Archie non crescerà tra maggiordomi e istitutrici e non sarà perseguitato dai fotografi mentre va all’asilo o a pattinare

Naturalmente, non ci saranno autobus scalcinati nella vita di Harry & Meghan, che possono contare sulla rendita milionaria del giovane rampollo della casa reale. Ma fanculo pure alla rendita, i due dichiarano che diventeranno indipendenti, andranno a lavorare. Lei come attrice, si suppone. Lui chissà, forse cooptato nel consiglio di amministrazione di una multinazionale, oppure impegnato a finanziare qualche centro di ricerca per la salvezza del Pianeta. Il loro bambino, Archie, non crescerà tra maggiordomi e istitutrici, non imparerà a camminare dentro saloni affrescati, su tappeti persiani di otto per otto metri, non sarà perseguitato dai fotografi mentre va all’asilo, a scuola, a pattinare.

UNO STORYTELLING INFINITO

La monarchia britannica si conferma un generatore di storytelling senza pari, tanto da fornire in tempo reale nuovo materiale per gli sceneggiatori della serie The Crown, così come le dimissioni di papa Ratzinger hanno generato fiction su fiction. Se poi ci aggiungiamo Bill Gates che ha dichiarato: «Sono troppo ricco, voglio pagare più tasse», allora qui si profila un’abdicazione dell’élite mondiale dal proprio ruolo. Proprio qualche sera fa, alla cerimonia dei Golden Globe, il comedian inglese Ricky Gervais aveva ammonito i divi del cinema: «Voi non sapete nulla della vita reale, quindi non fate discorsi politici, non siete credibili, ritirate il vostro piccolo premio, ringraziate, e andate via». Harry & Meghan, divi anche loro, rinunciano ai loro privilegi per guadagnare una vita reale e dunque forse una credibilità, davanti al mondo, e prima ancora davanti a se stessi. 

Cinicamente, chi ha più esperienza di matrimoni non scambierebbe mai la solidità di una Royal family con la volubilità di una moglie inquieta

Il semplice fatto di nascere come secondo figlio, dopo William, e risultare perciò attualmente solo sesto nella successione al trono, concede a Harry la libertà di fare questa scelta radicale. Non avrà più protezioni, se ne andrà solo nel mondo insieme a Meghan. Gli auguriamo ogni bene, però al suo posto non l’avremmo mai fatto. Ma solo perché, cinicamente, abbiamo più esperienza di matrimoni e non scambieremmo mai la solidità di una Royal family con la volubilità di una moglie inquieta.

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Cosa sappiamo sull’attacco missilistico contro una base Onu in Mali

Venti persone sono rimaste ferite a causa dell'agguato contro una struttura delle Nazioni unite a nord di Kidal.

Venti persone, tra cui 18 peacekeeper, sono rimaste ferite questa mattina in un attacco missilistico contro una base delle Nazioni Unite nella regione settentrionale di Kidal, nel Mali: lo riporta la Bbc, che cita un portavoce dell’Onu. Nell’attacco, che per il momento non è stato rivendicato, sono stati feriti gravemente sei peacekeeper, ha sottolineato il portavoce. L’8 gennaio l’inviato delle Nazioni Unite per la regione ha dichiarato al Consiglio di sicurezza che gli attacchi nel Sahel sono aumentati di cinque volte dal 2016.

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A che punto è il cessate il fuoco in Libia proposta da Russia e Turchia

Il governo di accordo nazionale ha accolto la mossa di Putin e Erdogan per fermare i combattimenti a partire dal 12 gennaio. Ma intanto Haftar prosegue i raid.

Il Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale libico (Gna) «accoglie con favore qualsiasi appello alla ripresa del processo politico e ad allontanare lo spettro della guerra, in conformità con l’Accordo politico libico e il sostegno alla Conferenza di Berlino patrocinata dalle Nazioni Unite». Lo si legge in una nota del Gna pubblicata dopo l’incontro dell’8 gennaio ad Istanbul tra il presidente russo Putin e quello turco Erdogan nel quale i due hanno proposto tra le altre cose «un cessate il fuoco in Libia a partire dalla mezzanotte di domenica 12 gennaio».

NUOVO RAID SULL’AEROPORTO DI MITIGA

In attesa di un via libera anche da parte della Cirenaica, gli scontri sul terreno sono continuati. Secondo il giornale The Libya Observer l’aeroporto di Tripoli Mitiga, l’unico funzionante nella capitale libica, è stato oggetto nella notte di nuovi raid aerei da parte dell’aviazione facente capo al generale Khalifa Haftar, in riferimento al supporto dell’aviazione degli Emirati Arabi Uniti. L’8 Ahmed Al Mismari, portavoce del sedicente esercito nazionale libico (Lna) guidato da Haftar, aveva annunciato l’estensione del divieto di sorvolo anche «sulla base e sull’aeroporto Mitiga a Tripoli», richiamando «le compagnie aeree ad attenersi severamente a questo provvedimento e a non mettere in pericolo i loro aeromobili».

SMENTITE OPERAZIONI DI TERRA A MISURATA

Vengono invece smentite informazioni circa incursioni terrestri delle milizie di Haftar vicino allo scalo e anche ai confini della municipalità di Misurata, un altro fronte in cui il generale è all’attacco, più a est. «Smentisco qualsiasi notizia che le truppe di Haftar siano arrivate all’aeroporto o al confine di Misurata», ha detto un consigliere comunale di Tripoli, Ahmed Wali precisando che «sono arrivati a sparare missili da 18 km di distanza».

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La Popolare di Bari ha perso il patrimonio, Banca d’Italia sostiene il ristoro

Secondo il presidente Consob Paolo Savona «si deve presumere che a seguito delle perdite» siano stati persi i 442 milioni residui.

Il patrimonio netto della Banca popolare di Bari, che al 30 giugno scorso era pari a 442 milioni di euro, «si deve presumere che a seguito delle perdite sia stato perso», ha detto il presidente della Consob, Paolo Savona, durante un’audizione alla Commissione Finanze della Camera sul decreto legge per il sostegno al sistema creditizio del Sud. «Si parla di circa 70.000 piccoli azionisti. I bond subordinati sono pari a 291 milioni di euro, tutte le altre obbligazioni sono state già rimborsate», ha detto Savona. Per la Popolare di Bari, sottoposta ad amministrazione straordinaria in vista di una ristrutturazione e un rilancio, «andranno comunque individuate forme di ristoro per i casi di comportamenti scorretti registrati in occasione degli ultimi aumenti di capitale», ha affermato la vice direttrice generale di Bankitalia, Alessandra Perazzelli, durante un’audizione alla Commissione Finanze della Camera sul decreto legge per il sostegno al sistema creditizio del Sud.

 

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Perché Harry e Meghan possono anche non lavorare

I Sussex hanno intenzione di fare un passo indietro dalla Royal Family e rendersi indipendenti dal punto di vista economico. Uno strappo rivoluzionario, reso più facile dal patrimonio milionario su cui possono contare.

Non bastasse la Brexit, con il 2020 per i sudditi di Sua Maestà è arrivata come un fulmine a ciel sereno pure la Megxit.

I duchi del Sussex, Harry e Meghan Markle, hanno espresso ufficialmente l’intenzione di fare un passo indietro da membri Senior dalla Firm, la Corona britannica.

Un’altra grana per la regina Elisabetta II già alle prese con lo scandalo Epstein che ha travolto il principe Andrea. Uno strappo che ricorda, con tutti i distinguo del caso, l’abdicazione nel dicembre del 1936 di re Edoardo VIII dopo il matrimonio con Wallis Simpson (pure lei americana).

L’ALLONTANAMENTO DEI SUSSEX DA THE FIRM

I Sussex, che hanno passato le festività natalizie in Canada con il piccolo Archie ben lontani dagli impegni di Buckingham Palace, in un comunicato hanno dichiarato di voler avviare «la transizione verso un nuovo ruolo dentro l’istituzione» monarchica. Il che comporta la decisione di «lavorare per diventare finanziariamente indipendenti, sebbene continuando a sostenere pienamente Sua Maestà la Regina» e quella di dividersi d’ora in avanti «fra il Regno Unito e il Nord America» per consentire di far crescere il figlio «nel rispetto della tradizione reale in cui è nato, garantendo al contempo spazio alla nostra famiglia per concentrarsi su un nuovo capitolo: incluso il lancio di una nostra nuova entità caritativa» autonoma.

IL PATRIMONIO DI HARRY E MEGHAN

Dunque i Sussex, in rotta da tempo con i Cambridge – per i non avvezzi alle cose reali William e Kate Middleton -, si rimboccheranno le maniche per trovare un lavoro, cosa che l’attuale status impedisce loro. Sì, ma quale lavoro? Gira voce, per esempio, che Meghan potrebbe riprendere la carriera di attrice. La rivincita delle Grace Kelly, verrebbe da dire. Anche se di “lavorare” la coppia, stando alle finanze note, non avrebbe più di tanto bisogno.

Harry può contare su un patrimonio compreso tra i 25 e i 40 milioni di dollari

Secondo l’International Business Times, il principe Harry può contare su un patrimonio compreso tra i 25 e i 40 milioni di dollari. Non è ancora chiaro quanto la decisione di “divorziare” dalla Corona peserà sul tesoretto totale. Non solo. C’è infatti l’eredità lasciatagli dalla madre Diana (12 milioni di euro circa, secondo quanto riportato dal Sunday Times) più i gioielli privati della “Regina di Cuori” il cui valore però non è noto. Il secondogenito di Carlo ha servito per 10 anni (fino al 2015) la Royal Air Force come capitano, guadagnando – riporta Forbes – circa 53 mila dollari per anno. La moglie Meghan, secondo quanto rivelato da Money lo scorso maggio, avrebbe invece messo da parte grazie alla sua attività sui set – come star di Suit principalmente – almeno 5 milioni di dollari.

I COSTI DELLA COPPIA RIBELLE

Da quello che si sa – ed Elisabetta permettendo – i Sussex hanno intenzione di continuare il loro impegno nelle opere di beneficenza della Corona, oltre a creare un ente tutto loro. Ma quanto costano Harry e Meghan? Il Sovereign Grant, il fondo pubblico che finanzia il lavoro della famiglia reale incluso il mantenimento delle residenze e lo staff, copre solo il 5% delle spese. E la coppia ha assicurato di non aver mai utilizzato denaro pubblico per spese private né di godere di benefit fiscali per le loro attività benefiche. Il 95% restante delle spese è invece coperto dal Ducato di Cornovaglia del principe Carlo. E non sono spiccioli se il viaggio dei Sussex in Australia, Nuova Zelanda, Tonga e Figi dell’ottobre 2018 è costato 90 mila euro e il Royal Wedding si è parlato di cifre astronomiche: tra i 35 e i 45 milioni di euro. Poca cosa per la Famiglia Reale valutata da Forbes intorno agli 88 miliardi di dollari tra residenze, gioielli della Corona e il valore generato dal brand su turismo e moda.

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Come funziona il Germanicum, la nuova proposta di legge elettorale

Depositato il ddl ispirato al modello tedesco. Previsti 391 seggi assegnati col proporzionale, soglia del 5% e diritto di tribuna. Cancellati i collegi uninominali del Rosatellum. Le novità.

L’eterno balletto tutto italiano delle leggi elettorali ha partortito un nuovo modello: questa volta si chiama Germanicum, un sistema di voto ispirato a quello tedesco, depositato dal presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera Giuseppe Brescia (Movimento 5 stelle).

ANCHE CHI NON SUPERA LO SBARRAMENTO PUÒ OTTENERE SEGGI

In cosa consiste? Sono previsti 391 seggi assegnati con metodo proporzionale, con soglia del 5% e un meccanismo che permette il diritto di tribuna. E cioè il partito che non supera lo sbarramento nazionale ma ottiene il quoziente in tre circoscrizioni in due Regioni ottiene seggi. La proposta cancella i collegi uninominali del Rosatellum e ne utilizza i 63 collegi proporzionali e le 28 circoscrizioni.

CAMERA: 400 DEPUTATI, OTTO ELETTI ALL’ESTERO

Dei 400 seggi della futura Camera, otto spetteranno ai deputati eletti all’estero (nelle circoscrizioni estere con metodo proporzionale), un seggio va all’eletto in Valle d’Aosta in un collegio uninominale. I restanti 391 seggi sono distribuiti proporzionalmente tra i partiti che superano il 5%.

NUOVO SENATO: 200 POSTI DA ASSEGNARE

I 63 collegi plurinominali del Rosatellum servivano per eleggere 386 deputati, quindi funzionano anche per la nuova Camera formato “mignon”. Stesso metodo per assegnare i 200 seggi del nuovo Senato: quattro vanno ai senatori eletti all’estero, uno alla Val d’Aosta e i restanti 195 sono distribuiti ai partiti che nel resto d’Italia oltrepassano la soglia.

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Il deputato Giuseppe Brescia (Movimento 5 stelle), presidente della commissione Affari Costituzionali della Camera. (Ansa)

IN GERMANIA IL NUMERO DI ELETTI È VARIABILE

Pure il diritto di tribuna si ispira al modello tedesco anche se il sistema di assegnazione è diverso, dato che in Germania esistono collegi uninominali e il numero dei parlamentari è variabile e non fisso come in Italia.

TEMA LISTINI/PREFERENZE ANCORA DA AFFRONTARE

Il testo depositato da Brescia non affronta il tema delle preferenze. Sul piano della tecnica legislativa è una “novellazione” del Rosatellum, cioè interviene chirurgicamente su quel testo che prevede i listini bloccati, che non vengono modificati nel disegno di legge proposto da Brescia. L’accordo di maggioranza è che il tema listini/preferenze è demandato al successivo confronto.

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Ipotesi maxi multa per Autostrade, M5s in rivolta

La ministra De Micheli chiede un abbassamento dei pedaggi. Oltre a un maxi risarcimento. E poi dice: «Va rivista la cultura del rapporto tra il privato e il pubblico».

In quella che ormai sembra un lungo negoziato fatto di alzate di posta e minacce e poi passi indietro, si fa avanti l’ipotesi che Autostrade per l’Italia possa pagare una maxi multa per evocare la revoca delle concessioni. Ma fonti del Movimento Cinque Stelle rifiutano l’ipotesi. «Maxi multa? Non scherziamo. Lo Stato non accetta carità, solo giustizia per le vittime. Per chi ha causato il crollo del ponte Morandi non ci saranno sconti. Ci sono le famiglie di 43 vittime che ancora attendono giustizia. La revoca della concessione ad Autostrade va inoltre nella direzione di un successivo abbassamento dei pedaggi. Bisogna cambiare il sistema degli affidamenti»

«DA ASPI PROPOSTA INSUFFICIENTE»

In un’intervista a Repubblica la ministra delle Infrastrutture e dei trasporti, Paola De Micheli, ha spiegato che per evitare la rottura della concessione, «Aspi ha fatto diverse proposte anche al precedente governo. Le abbiamo ritenute insufficienti per le ricadute a vantaggio dei cittadini. I 700 milioni per la riduzione dei pedaggi? Ci saremmo aspettati una riduzione significativa delle tariffe ai caselli, senza modificare il piano di maggiori investimenti per la rete e per la manutenzione. La proposta è insufficiente». «Autostrade comprende i 600 milioni della ricostruzione del Ponte Morandi nel risarcimento che offre allo Stato? Sono soldi già previsti per legge. Se la discussione comincia così non è solo insufficiente, è anche irricevibile», dice De Micheli, che sottolinea come l’adozione dell’eventuale revoca poggi «su due basi: giuridica ed economica. Vanno valutate entrambe. Le decisioni del caso verranno condivise con il premier e con i ministri».

«DA RIVEDERE IL RAPPORTO TRA PUBBLICO E PRIVATO»

Quanto ai tempi, «non mi sbilancio, ma la verifica è praticamente conclusa». Dalle carte, aggiunge, «sono emerse carenze nella manutenzione e nei controlli che non sono stati fatti a regola d’ arte, come si dice in cantiere. E non riguardano solo il Morandi». Per la ministra, «al di là di Aspi, va rivista la cultura del rapporto tra il privato e il pubblico. Il pubblico ha un interesse prevalente e se non ha la forza di farlo valere si crea uno squilibrio che è un danno anche per il privato perché si abbassa la qualità. La tragedia di Genova purtroppo è una lezione», dice. «Anche lo Stato non può limitarsi a puntare il dito, deve farsi carico di una maggiore capacità di controllo». Nell’intervista, De Micheli rassicura sulla tenuta del governo dopo le elezioni in Emilia Romagna,«anche perché vinciamo». Sul ruolo di Conte come riferimento dei progressisti, «lo è. Nel senso che ha compreso che ogni scelta concreta va avvicinata alla gente. È quello che fa anche Zingaretti».

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Taglio parlamentari, mancano le firme per il referendum

Quattro senatori ci ripensano e si tirano indietro. Slitta il deposito del quesito in Cassazione.

Slitta l’appuntamento del deposito in Cassazione del quesito referendario contro il taglio dei parlamentari perché al momento mancano tutte le 64 firme dei senatori necessarie. Andrea Cangini (Forza Italia) assicura che sarà preso un nuovo appuntamento entro il 12 gennaio, termine ultimo. «In quattro hanno ritirato le firme ma altri si stanno aggiungendo per cui per correttezza abbiamo chiesto alla Cassazione uno slittamento», ha aggiunto Cangini.

DUBBI ANCHE DA PD E M5S

I quattro sarebbero tutti senatori di Forza Italia, dell’area vicina a Mara Carfagna, guidati da Massimo Mallegni. Sempre a quanto si apprende, anche tra i senatori del Pd che hanno firmato è in corso una riflessione, dopo l’intesa col M5s sulla legge elettorale. Le firme devono essere raccolte e verbalizzate entro domenica 12 e possono essere consegnate in Cassazione anche il 13.

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Cosa non torna nel caso dell’aereo ucraino caduto a Teheran

Secondo l'inchiesta iraniana il Boeing 737 precipitato poco dopo il decollo tornava indietro per un problema. E testimoni lo hanno visto prendere fuoco in volo prima di schiantarsi ed esplodere al suolo. Ma Kiev non esclude l'ipotesi missile. Tutte le novità sull'incidente.

Perché è caduto l’aereo ucraino a Teheran, in piena crisi internazionale e nel giorno del contrattacco dell’Iran agli Usa? Restano ancora dubbi sulla vicenda del Boeing 737 precipitato l’8 gennaio 2019 poco dopo il decollo. L’inchiesta iraniana sull’incidente costato la vita a 176 persone finora ha constatato che il velivolo stava tornando indietro a causa di un «problema».

SI DIRIGEVA VERSO EST E HA GIRATO A DESTRA

L’Organizzazione per l’aviazione civile iraniana ha resto noto sul suo sito che «l’aereo, che all’inizio si dirigeva verso Est per lasciare la zona dell’aeroporto, ha girato a destra a causa di un problema e stava tornando all’aeroporto nel momento dell’incidente».

TESTIMONI HANNO VISTO LE FIAMME AVVOLGERE L’AEREO

In una dichiarazione si legge che il mezzo «ha preso fuoco in volo» prima di schiantarsi ed esplodere al suolo. «Testimoni oculari hanno visto le fiamme avvolgere l’aereo».

Un Boeing 737 dell’Ukraine International Airlines. (Ansa)

LE INTELLIGENCE OCCIDENTALI PENSANO ALL’AVARIA TECNICA

Le agenzie di intelligence occidentali per ora hanno scartato l’ipotesi che il Boeing 777 ucraino sia stato colpito da un missile, come ha rivelato una fonte d’intelligence canadese, citata da Ynet, il sito del giornale israeliano Yedioth Ahronot. La spiegazione condivisa, secondo la fonte, è quella di un’avaria tecnica.

KIEV NON ESCLUDE L’IPOTESI DEL MISSILE

Eppure l’Ucraina non sembra essere del tutto d’accordo. E non esclude alcuna pista. Diversi media internazionali, tra i quali Al Jazeera, hanno riportato la notizia secondo la quale Kiev valuta anche la possibilità che l’aereo dell’Ukraine International Airlines sia caduto perché colpito da un missile o durante l’attacco iraniano agli americani.

Ciò che restava al suolo dei bagagli dei passeggeri. (Ansa)

IL PRIMO MINISTRO HONCHARUK LASCIA APERTE TUTTE LE PISTE

In una conferenza stampa a Kiev, il primo ministro ucraino Oleksiy Honcharuk – citato dal Daily Telegraph – rispondendo a una domanda ha detto in effetti di rifiutare di escludere l’ipotesi del missile, precisando però di non voler fare speculazioni finché l’inchiesta sulle cause dell’incidente non sarà conclusa.

RITIRATA LA DICHIARAZIONE SUL GUASTO AL MOTORE

Inizialmente l’ambasciata ucraina in Iran aveva dichiarato che a causare lo schianto sarebbe stato un guasto a un motore. In seguito però Kiev ha ritirato questa dichiarazione e il presidente Volodymyr Zelensky ha ordinato un’inchiesta.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky lascia fiori all’aeroporto internazionale di Kiev. (Ansa)

L’IRAN NON DÀ LE SCATOLE NERE ALLA BOEING

In questo quadro poco chiaro l’Iran ha detto di non voler consegare a Boeing, compagnia americana, le scatole nere dell’aereo caduto. La notizia era stata riporta dall’agenzia iraniana Mehr che citava il capo dell’aviazione civile dell’Iran Ali Abedzadeh, senza però specificare in quale Paese saranno inviate per essere analizzate.

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L’Apocalisse australiana e l’allarme ignorato di Jared Diamond

Nel 2005 il geografo e biologo metteva in guardia sulla fragilità del continente. Una terra poco fertile, arida e sfruttata come una miniera. Consigliava di puntare sulla viticoltura e sull'export di carne di canguro. Ma nessuno gli diede ascolto.

Esportare vino e carne di canguro invece che lana, carni ovine o cereali: è il consiglio che Jared Diamond, antropologo, biologo e geografo statunitense, diede all’Australia in tempi non sospetti.

Allora, era il 2005, molti australiani si indignarono, snobbando le riflessioni dell’esperto premio Pulitzer. Ma ora, nel mezzo dell’emergenza incendi definita una “Chernobyl australe”, le sue parole tornano attuali.

I NUMERI DELL’APOCALISSE AUSTRALIANA

Dallo scorso settembre oltre 10 milioni di ettari sono ormai andati in fiamme; 25 persone e oltre un miliardo di animali sono morti; oltre 2500 case sono andate distrutte. Nella capitale Canberra sono state distribuite ai cittadini 100 mila maschere con filtri protettivi per permettere alla popolazione di sopravvivere con un livello di respirabilità dell’aria che è stato registrato come «il peggiore al mondo». Per ora sono scattati almeno 183 arresti per incendi nel solo Nuovo Galles del Sud, tra cui una quarantina di minorenni. 

LE RESPONSABILITÀ POLITICHE

Ma per i cittadini ci sono evidentemente anche responsabilità politiche, e il primo ministro Scott Morrison è stato ripetutamente contestato. A parte andarsene in vacanza natalizia alle Hawaii nel mezzo della crisi, a parte aver voltato le spalle durante una visita in una comunità devastata dai roghi a una donna incinta che chiedeva più risorse, a parte fare arrabbiare i connazionali per uno spot in cui si vantava per il dispiegamento di forze quando invece era accusato di aver risposto con colpevole ritardo all’emergenza, Morrison è nel mirino soprattutto per aver dichiarato che il suo governo non farà nulla per combattere i cambiamenti climatici.

Il primo ministro australiano Scott Morrison in visita all’osola dei Canguri devastata dalle fiamme (Getty images)

La Carbon Tax che in due anni aveva ridotto le emissioni di gas serra dell’1,4% è stata tolta nel 2014, e la delegazione australiana al recente vertice delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici è stata accusata di ostacolare i negoziati per concordare piani di riduzione delle emissioni di carbonio a livello globale. L’Australia è il più grande esportatore mondiale di carbone e gas naturale liquefatto, e la relativa lobby è potente. 

LA COMBINAZIONE FATALE DI TRE FATTORI

Incendi dolosi a parte, il Paese in questi ultimi mesi è stato colpito da una eccezionale combinazione di tre fattori. Caldo estremo, innanzitutto: a metà di dicembre la temperatura media era arrivata a 41,9 gradi, e secondo il locale Bureau of Meteorology le temperature sono aumentate di oltre un grado Celsius dal 1920. Poi, siccità prolungata: la primavera più secca da quando 120 anni fa si è iniziato a registrare il dato. Terzo elemento, venti fortissimi: fino a 60 miglia l’ora. Gli incendi boschivi sono cosa normale in Australia, ma se il caldo aumenta anche la loro intensità cresce, fino a oltrepassare il livello di guardia. 

Abitazioni distrutte dalle fiamme nel Galles del Sud (Getty Images).

Vero, l’Australia può contare su centinaia di migliaia di vigili del fuoco volontari che lavorano 24 ore su 24 per cercare di tenere gli incendi sotto controllo. Ma secondo gli esperti bisognerebbe puntare di più sulla prevenzione, a partire dall’edilizia nelle zone a rischio incendi: costruire case resilienti e realizzare zone cuscinetto più ampie tra le proprietà e il Bush, la tipica vegetazione australiana. 

L’ALLARME LANCIATO DA DIAMOND NEL 2005

Forse però occorrerebbe andare oltre. E ricordare Jared Diamond: il biologo, fisiologo, ornitologo, antropologo e geografo il cui best-seller Armi, acciaio e malattie nel 1997 rivoluzionò la storiografia lanciando il genere definito “storia mondiale”. L’Australia è una terra che Diamond conosce bene. Ne parla anche nel suo recentissimo Crisi. Come rinascono le nazioni. Ma a questo Paese un altro capitolo lo aveva dedicato in Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere del 2005. E lì il suo avvertimento era stato proprio questo: l’Australia è il continente ecologicamente più fragile del Pianeta e per sopravvivere la sua economia dovrebbe cambiare in maniera radicale. Non solo sul fronte del carbone.

UN’ECONOMIA BASATA SULLO SFRUTTAMENTO

«L’attività mineraria in senso stretto (ovvero l’estrazione di carbone e metalli) è oggi un fattore chiave nell’economia australiana, perché rappresenta la quota più cospicua delle esportazioni», ricorda Diamond. Aggiungendo: «La miniera è anche una chiave metaforica per comprendere la storia ambientale dell’Australia e la sua difficile situazione attuale». Lo ripetiamo: scriveva nel 2005. «L’estrazione mineraria, fondamentalmente, non è che lo sfruttamento fino all’estremo di risorse che non si rinnovano con il tempo. Dato che l’oro non cresce nei campi anno dopo anno e che dunque non c’è bisogno di tener conto del ritmo con cui si rinnovano i giacimenti, i minatori estraggono il minerale da un filone fino a quando si esaurisce».

Una donna cammina con una mascherina a Sydney (Getty Images).

Dunque, l’estrazione di minerali deve essere «tenuta ben distinta dallo sfruttamento di risorse rinnovabili» che si rigenerano per riproduzione biologica o per la formazione di un nuovo strato di suolo, e che possono essere sfruttate indefinitamente «a condizione che vengano prelevate con un ritmo più lento rispetto a quello con cui si rinnovano». Ma «l’Australia ha sempre trattato le sue risorse rinnovabili (e continua a farlo) alla stregua di minerali: le sfrutta molto più velocemente di quanto non si rigenerino». 

UNA TERRA SENZA MINERALI E POCO FERTILE

Come ricorda Diamond, «ecologicamente, l’ambiente dell’Australia è eccezionalmente fragile». Per questo «sono già diventati gravi molti problemi che potrebbero prima o poi paralizzare anche altri Paesi ricchi (e che già imperversano in molte zone del Terzo Mondo)». La siccità da cui i continui incendi, infatti, è dovuta al fatto che «l’Australia è il continente meno fertile: ha il suolo mediamente meno ricco di sostanze nutrienti, il tasso di crescita vegetale più basso e la più bassa produttività». E questo «perché il suolo australiano è, per la maggior parte, così vecchio che i suoi minerali sono stati trascinati via dalle innumerevoli piogge. Le rocce più antiche presenti sulla superficie terrestre (quasi 4 miliardi di anni) si trovano nella catena montuosa del Murchison Range, nell’Australia occidentale». La mancanza di vulcani, glaciazioni e sollevamenti non ha permesso un ripristino. Di conseguenza l’agricoltura australiana dipende da un uso e abuso di fertilizzanti e carburanti che aumenta non solo i costi di produzione, ma anche l’impoverimento del suolo e l’effetto serra.

UNA RICONVERSIONE MAI AVVENUTA

Diamond consigliava una riconversione massiccia verso prodotti a più alto valore aggiunto, che ridurrebbero questo impatto. Benissimo dunque il vino. La viticultura australiana è fortunatamente in rapida espansione ed è un boom che secondo l’esperto va incoraggiato. Più si brinda con vino degli antipodi e più si contribuisce a salvare l’ambiente. Ma anche gli allevamenti ovini per Diamond dovrebbero lasciare il passo all’esportazione di carne di canguro, che in molti Paesi è apprezzata, e la cui produzione sarebbe perfettamente sostenibile.

Un koala salvato dai Vigili del fuoco.

Però, come osservava lo stesso geografo con sarcasmo, «gli australiani considerano i canguri soltanto degli animali fastidiosi e dannosi, e non credono che la loro carne possa rimpiazzare una buona cena tradizionale all’inglese, a base di carne di montone e di manzo. Molte organizzazioni per la difesa degli animali si oppongono alla caccia dei canguri, dimenticando però che le condizioni di vita e i metodi di macello degli ovini e dei bovini sono molto più crudeli di quelli dei canguri selvatici. Gli Stati Uniti proibiscono esplicitamente l’importazione di carne di canguro perché questo animale è ritenuto ‘carino’ e perché la moglie di qualche senatore deve aver sentito dire che è una specie a rischio di estinzione. In effetti alcune specie di canguro sono in pericolo, ma non (ovviamente) quelle di cui è autorizzata l’uccisione, che sono anzi molto numerose».

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Caso Gregoretti, la maggioranza chiede il rinvio del voto sul processo a Salvini

La richiesta inoltrata dal senatore M5s Crucioli e sostenuta da Pd e Italia viva. Il leghista: «Sono senza dignità».

È stato deciso il rinvio del voto della Giunta delle immunità del Senato sull’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini per il caso Gregoretti. L’orientamento che sembrava aver preso piede tra le fila della maggioranza è stato confermato dalla richiesta inoltrata dal Movimento 5 stelle attraverso il senatore Mattia Crucioli, tenendo conto della sospensione delle attività delle commissioni di Palazzo Madama previste dalla Conferenza dei capigruppo dal 20 al 26 gennaio per via delle elezioni regionali del 26. Anche Italia viva e Partito democratico hanno concordato il rinvio con il M5s. È stato chiesto inoltre un ulteriore approfondimento dell’istruttoria.

GASPARRI AVEVA CHIESTO DI RESPINGERE LA RICHIESTA

In precedenza, Il presidente della Giunta delle immunità Maurizio Gasparri aveva chiesto di respingere la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini. La proposta era stata avanzata dal presidente nella relazione illustrata ai senatori, all’inizio della nuova riunione. «Hanno paura di perdere la faccia, sono senza onore e senza dignità», è stato il primo commento di Salvini una volta venuto a conoscenza del rinvio.

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