Perché la Segre ha dato forfait all’invito di Salvini

Il leghista la voleva a un convegno sull'antisemitismo a Roma. La senatrice a vita ha rifiutato per gli impegni milanesi in occasione della Giornata della memoria. Non risparmiando una frecciatina: «Tema altrettanto importante è il razzismo».

Tra Liliana Segre e Matteo Salvini proprio non scocca la scintilla politica. Dopo le polemiche di fine 2019 con tutto il centrodestra sull’istituzione della discussa Commissione anti-odio, ora la senatrice a vita è stata invitata dal leader della Lega al convegno “Le nuove forme dell’antisemitismo” in programma il 16 gennaio a Palazzo Giustiniani a Roma. Ma lei ha rifiutato perché «impegnatissima» tutto il mese a Milano con le iniziative per il Giorno della memoria (lunedì 27 gennaio).

FRECCIATA SUL RAZZISMO

Nella sua garbata risposta a Salvini, la Segre ha detto di apprezzare «l’iniziativa sull’antisemitismo, un problema che si riaffaccia virulento nelle cronache del nostro tempo in tanti Paesi d’Europa e del mondo intero». Però ha anche avvertito che è un tema che non va separato da quello del razzismo. Una frecciata all’ex ministro dell’Interno? Proprio per il suo impegno a non far dimenticare l’Olocausto, lei che fu deportata nei campi di concentramento, la Segre è stata nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e in seguito le è stata assegnata la scorta per le minacce ricevute via social.

ASTENSIONE DELLA LEGA SULLA COMMISSIONE

A novembre si parlò di una visita privata tra la senatrice a vita e Salvini – con tanto di figlia al seguito – anche se poi il segretario della Lega smentì. Adesso la senatrice auspica alla collaborazione nella Commissione parlamentare contro l’odio che lei ha fortemente voluto e che presiederà, istituita nonostante l’astensione del Carroccio nella votazione al Senato: «Confido che il vostro convegno potrà dare un contributo in questo senso e che anche nella Commissione contro lo hate speech deliberata dal Senato».

Matteo Salvini. (Ansa)

Salvini ha preso atto replicando: «La capisco, la ringrazio per la risposta. Sarà una bellissima giornata in cui lanceremo dentro e fuori il parlamento una grande campagna in difesa di Israele perché nel 2020 gli antisemiti, quelli che odiano Israele, non possono essere compresi nel contesto civile, quindi i nemici di Israele sono miei nemici».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Ma quale Soleimani, la minaccia globale è il dittatore Trump

La scusa del rischio imminente di attentati terroristici per giustificare l'uccisione del generale iraniano non regge: il pericolo per il mondo è solo The Donald. E persino alcuni repubblicani, scavalcati come tutto il Congresso Usa, se ne stanno accorgendo.

Mentre Meghan e Harry si “licenziano” dalla Corona britannica, il presidente Donald Trump sogna di essere dittatore assoluto, e decide, senza consultare il Congresso, e cioè come un dittatore qualsiasi, di trucidare Qassem Soleimani. Non era certo uno stinco di santo, il generale Soleimani, anzi: per quanto fosse la seconda persona più importante in Iran, rispettato e considerato un eroe dal regime, era a capo della Quds Force, un gruppo all’interno dei Pasdaran, il corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica in Iran responsabile di molti attacchi terroristici nel mondo. E nelle ultime settimane, dopo l’attacco alla base militare e l’assalto dell’ambasciata americana a Bagdad, Trump si è fatto prendere dal panico.

GIUSTIFICAZIONI DIFFICILMENTE CREDIBILI

Ha giustificato la sua azione di guerra dicendo che i Servizi segreti gli avevano annunciato che Soleimani era diventato una minaccia imminente agli Stati Uniti, scusa che in molti, fra politici e cittadini, fanno fatica a credere. In realtà pare che il generale fosse arrivato in Iraq per incontrarsi con il presidente iracheno per discutere delle trattative tra l’Iran e l’Arabia Saudita. Pare che ci sia stato un altro attacco, quella stessa notte, per ammazzare Abdul Reza Shahlai, un alto ufficiale iraniano che si trovava in Yemen, ma pare che l’attentato non abbia avuto successo.

ENORMI PREOCCUPAZIONI ANCHE A WASHINGTON

Tutto questo, per ora, sembra avere poco a che fare con una minaccia imminente. Molto a che fare (ma questa è la mia opinione) con tutto quel disastro riguardo l’impeachment e la voglia di far parlare d’altro, possibilmente migliorando le possibilità di vittoria per un secondo mandato nel 2020. Ma chi sono io per giudicare? Una cosa è chiara: la minaccia imminente più pericolosa, per ora, rimane il presidente Trump. Le azioni militari contro l’Iran hanno suscitato enormi preoccupazioni, sia a livello internazionale sia a Washington. Malgrado Trump desideri essere l’unico ad avere il potere di attaccare a destra e a manca chi lo spaventa, negli Stati Uniti non funziona (ancora) così: ogni azione bellica deve essere prima discussa al Congresso e al Senato e deve essere approvata dalla maggioranza. Cosa che non è successa: dopo l’assassinio del generale Soleimani, un rappresentante della Casa Bianca ha indetto una riunione al Senato (che è per la maggior parte in mano repubblicana) per giustificare l’azione di Trump.

PERSINO PER QUALCHE REPUBBLICANO È STATO ABUSO DI POTERE

Se per alcuni repubblicani questo è bastato per appoggiare il presidente, per alcuni di loro, compresi i senatori Rand Paul (Kentucky) e Mike Lee (Utah), è stato commesso un grave errore, un abuso di potere. Mike Lee ha rilasciato questa dichiarazione: «La riunione con il rappresentante della Casa Bianca è stata la peggiore degli ultimi nove anni che sono al Senato, soprattutto riguardo questioni militari. Conoscendo la nostra storia, fare una consultazione non è la stessa cosa che ricevere un’autorizzazione a procedere usando la forza militare. Una notifica o una patetica riunione fatta dopo che il fatto è accaduto non sono adeguate alla circostanza».

I DEMOCRATICI PROVANO A LIMITARLO

La Camera dei rappresentanti, in mano ai democratici, ha votato giovedì mattina di limitare il potere di dichiarare guerra al presidente. Oltre alla stragrande maggioranza dei voti dei democratici, anche qualche repubblicano ha ammesso che il presidente Trump questa volta l’ha fatta davvero grossa. In risposta agli attacchi degli Stati Uniti in Iraq e i Yemen, gli iraniani hanno bombardato due basi militari americane, senza causare nessuna vittima, forse per fare in modo che la situazione non degeneri in una vera guerra, che nessuno vuole.

GIOCHI A GOLF E LASCI AD ALTRI GLI EQUILIBRI GLOBALI

Speriamo che Trump non decida di prendere altre iniziative senza consultare il Congresso, perché a questo punto la situazione mondiale potrebbe diventare davvero preoccupante. Speriamo che si impegni di più a giocare a golf e che lasci a chi ne sa di più il compito di mantenere l’equilibrio di pace globale intatto.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Conte e il vertice con Sarraj per recuperare la faccia

Dopo la gaffe diplomatica di aver ricevuto prima Haftar, il premier prova a rimediare: «Non abbiamo agende segrete, l'unica opzione è politica». Il leader riconosciuto dall'Onu: «Sì al cessate il fuoco, ma la parte che attacca si ritiri».

Dopo il flop diplomatico dell’Italia che aveva ricevuto a Roma il generale della Cirenaica Khalifa Haftar prima del premier libico Fayez al Sarraj, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha cercaro di rimediare incontrando per quasi tre ore a Palazzo Chigi proprio il leader del governo riconosciuto dalle Nazioni unite.

«NON ABBIAMO AGENDE NASCOSTE»

Conte ha provato così a rimediare alla gaffe: «L’Italia ha sempre linearmente, coerentemente lavorato per una soluzione politica, per contrastare l’opzione militare, ritenendo l’opzione politica l’unica prospettiva che possa garantire al popolo libico benessere e prosperità. Non abbiamo altri obiettivi, non abbiamo agende nascoste».

«COSTERNAZIONE» PER L’ATTACCO DEL 4 GENNAIO A TRIPOLI

Basterà? Conte ha anche aggiunto: «Ho rappresentato con forza questa posizione anche al generale Haftar, al quale ho espresso tutta la mia costernazione per l’attacco del 4 gennaio 2020 a Tripoli all’accademia militare. Posso garantire che l’Italia continuerà a lavorare in modo convinto e determinato a sostegno del popolo libico, per offrire tutte le garanzie per un futuro di pace, stabilità e benessere».

«LIBIA POLVERIERA, STOP AD ARMI E INTERFERENZE»

Il capo del governo italiano si è detto quindi «estremamente preoccupato per l’escalation in Libia», visto che «gli ultimi sviluppi stanno rendendo un Paese una polveriera con forti ripercussioni, temiamo, sull’intera regione». Per Conte dunque bisogna «assolutamente fermare il conflitto interno e le interferenze esterne».

«L’UNIONE EUROPEA È LA MASSIMA GARANZIA»

Inoltre l’Italia si è detta pronta ad adoperarsi «sempre più per un coinvolgimento ancor maggiore dell’Unione europea perché siamo convinti che questo intervento offra la massima garanzia di non rimettere le sorti future del popolo libico alla volontà di singoli attori. L’Ue è la massima garanzia che si possa offrire oggi all’autonomia e all’indipendenza del popolo libico».

SARRAJ: «HAFTAR NON SEMBRA DISPONIBILE AL RITIRO»

Sarraj dal canto suo ha risposto così: «Accogliamo con piacere l’iniziativa di Russia e Turchia per un cessate il fuoco e sempre disponibili ad accogliere qualsiasi tipo di iniziativa possa andare in questa direzione. La condizione è il ritiro della parte che attacca, che non sembra disponibile a ciò» perché ha un altro modus operandi. Poi parole di riconciliazione con il nostro Paese: «Ho avuto modo di apprezzare il ruolo dell’Italia in questo dossier».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

In Francia ritirata la proposta sull’età pensionabile

Tolto «provvisoriamente» dal progetto di legge il punto più contestato dai sindacati, quello dei 64 anni per ottenere l'assegno previdenziale a tasso pieno. Dopo 38 giorni metropolitana di Parigi pronta a riaprire. Ma la città aveva fatto registrare ancora manifestazioni e scontri.

Alla fine le proteste di piazza in Francia hanno portato a un primo risultato: il governo ha annunciato il ritiro «provvisorio» dal progetto di legge per la riforma delle pensioni del punto che creava più problemi con i sindacati, cioè l’instaurazione di un’età di equilibrio a 64 anni per ottenere la pensione a tasso pieno.

MA RESTA DA RAGGIUNGERE UN PUNTO D’EQUILIBRIO

Il governo, si legge in una lettera del primo ministro francese Edouard Philippe inviata alle organizzazioni sindacali e imprenditoriali, è «disposto a ritirare» provvisoriamente quella parte, pur mantenendo il principio di un’età di equilibrio. «Per dimostrare la mia fiducia nei confronti dei partner sociali», ha scritto Philippe ai leader sindacali, «e non pregiudicare il risultato dei loro lavori sulle misure da adottare per raggiungere l’equilibrio 2027, sono disposto a ritirare dal progetto di legge la misura di breve termine che avevo proposto, consistente a convergere gradualmente a partire dal 2022 verso un’età di equilibrio di 64 anni nel 2027».

DOMENICA RIAPRE LA METROPOLITANA CHIUSA DAL 5 DICEMBRE

E così domenica 12 gennaio 2020, per la prima volta dopo 38 giorni, «tutte le linee della metropolitana di Parigi e le Rer A e B saranno aperte almeno parzialmente», ha annunciato la direzione dei trasporti metropolitani, Ratp.

ANCORA SCONTRI A PARIGI DURANTE LE MANIFESTAZIONI

Anche la giornata di sabato 11 era stata comunque caratterizzata da violenti scontri nella capitale francese alla manifestazione contro la controversa riforma, ancora prima dell’arrivo del corteo alla Bastiglia. Lacrimogeni, cassonetti in fiamme, lancio di oggetti contro la polizia, cariche: l’intero quartiere è stato teatro di incidenti.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Come è andato il 2019 per la narrativa italiana

Da Veronesi alla Starnone, passando per Tuena, Zaccuri fino a Tokarczuk e Franzobel: quali sono gli autori salvati dai critici letterari. Che denunciano: sono venute meno le gerarchie basate sulla qualità. Oramai è il mercato che stabilisce, con i suoi numeri di vendita, i valori di un'opera.

Che anno è stato il 2019 per la narrativa italiana? Di continuità, di rottura? Certamente, un solo anno non può determinare una «tendenza», caso mai confermare o contraddire degli orientamenti emersi nel tempo. Ma qualche novità c’è sempre, e forse conviene partire dalle discontinuità. Guardando ai numeri, sulla base dell’ultimo rapporto Nielsen realizzato per conto dell’Aie (Associazione Italiana Editori), il mercato editoriale ha registrato nei primi 11 mesi del 2019 quota 1,131 miliardi di euro (+3,7% sullo stesso periodo dell’anno precedente), con una crescita – erano molti anni che non accadeva – anche del numero di copie, +2,3%, con 77,4 milioni di nuovi libri (cartacei) venduti. A pesare di più, dopo la manualistica, sono la fiction straniera (18,4%), la saggistica (17,3%) e al quarto posto bambini e ragazzi (16,3%).

Per quanto riguarda temi e contenuti – gli orientamenti di cui si diceva all’inizio – novità interessanti ci sono state. Alessandro Zaccuri, scrittore e giornalista culturale, fa una riflessione sul mondo dei bestseller. «Penso che sia un anno di avvicendamento», dice a Lettera43, «con la morte di Andrea Camilleri si conclude una stagione irripetibile, che aveva portato alla luce un lettore disponibile a confrontarsi con un linguaggio meno accessibile e più laborioso rispetto alla media dei romanzi italiani». A raccogliere il testimone di Camilleri è stata un’altra autrice siciliana, Stefania Auci: «con I leoni di Sicilia», prosegue Zaccuri, «è tornata a suscitare interesse per il romanzo di impianto più tradizionale, quasi ottocentesco nella sua struttura».

Romanzi con una forte vocazione narrativa, tradizionali, di pura fiction, come quelli che hanno visto la luce nello scorcio finale dell’anno: Il colibrì di Sandro Veronesi, La vita bugiarda degli adulti di Elena Ferrante e Confidenza di Domenico Starnone. «Passiamo dal nuovo libro della Ferrante, semplice, ma non banale» osserva Gianluigi Simonetti, professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università dell’Aquila, «all’ultimo di Veronesi, più complicato nella struttura e nel montaggio, con un passaggio a vuoto, a parer mio, nel finale, troppo obbediente al dover essere dell’impegno civile». E poi c’è il libro di Starnone», spiega Simonetti, «che conclude brillantemente una trilogia di romanzi brevi di grande artigianato narrativo e di notevole cattiveria psicologica». 

RESISTE UN FILONE DI LETTERATURA CHE MESCOLA GENERI E FORME NARRATIVE

Sull’altro fronte, persiste una letteratura debole, che esplora terreni meno praticati e cerca vie nuove, mescolando generi e forme narrative. Una letteratura «ibrida» che si colloca al crocevia fra romanzo, autobiografia e biografia, saggio personalediario intimo, taccuino di viaggio. «In questo,» prosegue Simonetti «Emanuele Trevi, con Sogni e favole, si conferma il più bravo – con Franchini, che però tace da un po’. È una letteratura a volte anche elegante e profonda, ma sempre volutamente ‘minore’, disposta a rinunciare alle grandi strutture del romanzo per muoversi con maggior libertà e leggerezza all’incrocio fra diverse scritture».

Non sono mancati libri singolari: penso a Necropolis di Giordano Tedoldi, a Lo stradone di Francesco Pecoraro, alla raccolta dei romanzi di Carlo Bordini

Gianluigi Simonetti, professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università dell’Aquila

Una tendenza che non sempre porta risultati eccellenti e che talvolta può diventare una scorciatoia, a seconda della qualità intellettuali degli interpreti. E poi, nel 2019, vi sono stati libri nei quali la ricerca di nuove forme espressive è risultata ancora più marcata. «È vero, non sono mancati libri singolari», conclude Simonetti, «che fanno storia a sé, fuori da qualsiasi tendenza e preoccupazione seduttiva: penso a Necropolis di Giordano Tedoldi, a Lo stradone di Francesco Pecoraro, alla raccolta dei romanzi di Carlo Bordini».

LEGGI ANCHE: I numeri del mercato italiano del libro nel 2019

Che il 2019 abbia confermato la salute di un filone narrativo attratto dalle ibridazioni lo pensa anche un protagonista e osservatore attento del nostro panorama letterario come lo scrittore Andrea Tarabbia, che nel 2019 ha pubblicato Madrigale senza suono con il quale ha vinto il premio Campiello. «Mi sono piaciute molte cose ibride: in Italia Le galanti di Filippo Tuena – un autore che considero tra i miei maestri – e Nel nome di Alessandro Zaccuri». Tarabbia segnala anche I vagabondi di Olga Tokarczuk «un libro che lascia insoddisfatti, ma in cui si vede un’idea forte e originale di letteratura. E poi vorrei segnalare un romanzo puro, La zattera della Medusa di Franzobel, un’opera per me straordinaria, e un saggio anch’esso puro: Dialettica del mostro di Sylvain Piron».

LA CRITICA MILITANTE NON CONTA PIÙ

E per quanto riguarda il pubblico? Come si pone questa narrativa d’autore rispetto a lettori che consumano prodotti editoriali da media diversi, con la crescita di servizi come Audible, che consentono l’ascolto di libri appena pubblicati in libreria, e che si informano non solo sulle pagine culturali dei quotidiani, ma nel mondo variegato dei blog, dei gruppi di Facebook, dei siti di recensioni online? «La parola chiave mi sembra “confusione”: tutto equivale a tutto e l’indistinzione è la caratteristica del nostro tempo», osserva Paolo Di Stefano, scrittore e giornalista culturale. «La critica militante è tramontata e quando c’è rimane una voce nel deserto, senza ascolto. Ciò che fa testo sono le classifiche visibilmente dilatate sui giornali».

Sembrano venute meno le gerarchie basate sulla qualità: è il mercato che stabilisce, con i suoi numeri di vendita, i valori

Paolo Di Stefano

È esemplare al riguardo quella basata sulle preferenze dei lettori pubblicata sul supplemento culturale La lettura del Corriere della sera che accosta nelle prime 10 posizioni autori complessi, esponenti di una letteratura cosiddetta «forte», con nomi di successo più commerciali. «Sembrano venute meno le gerarchie basate sulla qualità: è il mercato che stabilisce, con i suoi numeri di vendita, i valori. Un libro di Fabio Volo, con tutto il rispetto, naturalmente, è messo sullo stesso piano dell’ultimo romanzo di Ian Russell McEwan». Per Di Stefano i giornali hanno abolito la delega di una responsabilità critica, «distribuendo le recensioni in modo indiscriminato, venendo meno al compito di scegliere e indirizzare, che oggi sarebbe più urgente che in passato proprio per ridare una “personalità” alla stampa rispetto alla rete».      

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Paura per un altro crollo di calcinacci in una galleria

L'incidente è successo tra le province di Bergamo e Brescia: parti di calcestruzzo si sono staccate e hanno colpito un'auto. Nessun ferito.

L’Italia delle infrastrutture pericolanti ha fatto registrare un altro episodio inquietante: parti di calcestruzzo si sono staccate dalla volta della prima galleria della via Mala che dalla Valle di Scalve (nella zona di Dezzo) porta alla Valle Camonica (direzione Darfo) al confine tra le province di Bergamo e Brescia, provocando anche un incidente.

DUE AUTO HANNO SCHIVATO I PEZZI

La caduta dei calcinacci è avvenuta tra le 8 e le 9 della mattina dell’11 gennaio 2020: due auto che scendevano dalla Valle di Scalve sono riuscite a schivarli, mentre una terza è stata colpita. Nessuno si è ferito.

A GENOVA UN ALTRO INCIDENTE A FINE 2019

A Genova il 30 dicembre 2019 in una galleria sulla A26 erano cadute delle lastre di cemento sulla corsia centrale e solo per un caso nessun mezzo era stato coinvolto.

La parte della galleria interessata dal crollo. (Ansa)

SITUAZIONE PERÒ SOTTO CONTROLLO E STRADA APERTA

Questa volta il sindaco di Vilminore di Scalve Pietro Orrù ha spiegato: «Nonostante la galleria in questione non goda certamente di ottima salute dal punto di vista manutentivo, attualmente la situazione dovrebbe essere sotto controllo, in quanto il problema odierno è stato immediatamente preso in carico da parte dei funzionari della Provincia di Bergamo, con i quali abbiamo concordato quali verifiche effettuare a partire già da lunedì 13 gennaio, al fine di definire congiuntamente gli interventi più opportuni da attuare». La strada è dunque rimasta aperta.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Una bomba ha ucciso due soldati americani in Afghanistan

Altri due sono rimasti feriti. L'attentato nel distretto di Dand è stato rivendicato dai talebani.

Due soldati americani sono rimasti uccisi nell’esplosione di un ordigno artigianale in Afghanistan. Altri due militari statunitensi risultano feriti. La notizia arriva dal portavoce delle forze Nato attive nelle regione. L’attentato è stato rivendicato dai talebani ed è avvenuto nel distretto di Dand. Qui la bomba ha colpito il mezzo blindato su cui viaggiavano i soldati. Fonti della polizia locale hanno spiegato che gli americani erano impegnati in un servizio di pattuglia vicino all’aeroporto di Kandahar quando sono stati raggiunti dall’esplosione.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Carne artificiale: a che punto siamo e le cose da sapere

La ricerca sta facendo passi da gigante. E i primi prodotti sintetici potrebbero arrivare sul mercato Usa già nel 2020. Alcune curiosità sulla bistecca Frankenstein.

La chiamano «carne pulita», «carne anti-macellazione», «carne coltivata», «lab-meat» o anche «carne in vitro». Si tratta della carne artificiale prodotta in laboratorio a partire da cellule animali estratte tramite biopsia. C’è chi scommette che quella in provetta sarà la carne del futuro. Soprattutto una soluzione per ovviare ai tanti problemi economici, etici e ambientali che pone la produzione di carne, la cui richiesta – secondo le stime della FAO – potrebbe crescere di più del 50% nei prossimi 30 anni, passando da 258 milioni di tonnellate nel 2005/2007 a 455 milioni di tonnellate nel 2050. 

IL PRIMO HAMBURGER SINTETICO

Il primo hamburger prodotto da cellule staminali di manzo è stato creato Mark Post della Maastricht University e fondatore della Mosa Meat. Era appena 150 grammi per 20 mila fibre muscolari nutrite ciascuna da siero fetale bovino. In realtà, la strada per la creazione di carne in vitro era stata aperta dalle ricerche di Willem van Eelen sulla coltivazione di popolazioni di cellule per fini alimentari, ma è stato Post che a Londra, nel 2013, ha presentato la “carne coltivata” dall’esorbitante costo di 250 mila euro. Il costo di produzione è sceso poi a 500 euro. Mentre l’israeliana Aleph Farm è arrivata alla cifra di 50 euro per il prototipo di una bistecca.

Il primo a presentare la bistecca sintetica è stato Mark Post della Maastricht University nel 2013.

LA PROFEZIA DI CHURCHILL

Già nel 1931 Sir Winston Churchill auspicava che la tecnologia avrebbe presto permesso di «superare l’assurdità di far crescere un intero pollo per poterne mangiare il petto o le ali, facendo sviluppare queste parti separatamente». Insomma, produrre carne, bypassando l’allevamento di animali. 

LEGGI ANCHE: Progettare la carne del futuro

UNA COPIA QUASI PERFETTA

Alcuni ricercatori della Harvard John A. Paulson School of Engineering and Applied Sciences (Seas), come riporta la rivista scientifica Nature Science of Food, sono riusciti a conferire alla carne in provetta una texture molto simile all’originale. Come si legge nel comunicato ufficiale, la tecnica utilizzata dai ricercatori è l’«immersione rotante Jet-Spinning» (iRJS) e consiste nell’utilizzare «la forza centrifuga per avvitare lunghe nanofibre di forme e dimensioni specifiche». Secondo quanto riportato, il gruppo di ricerca «ha filato le fibre di gelatina per alimenti per formare la struttura di base per le cellule che vi sarebbero cresciute sopra. Le fibre imitano la matrice extracellulare del tessuto muscolare naturale, la colla che tiene insieme il tessuto e contribuisce alla sua consistenza». Proprio sulle fibre i ricercatori hanno coltivato cellule muscolari di coniglio e mucca «le quali si sono ancorate alla gelatina e sono cresciute in strutture lunghe e sottili». L’effetto è stato quello di creare una bistecca con una consistenza difficilmente distinguibile dalla carne vera.

UNA BISTECCA STAMPATA IN 3D

Nel 2018 la start up spagnola Novameat ha fatto parlare di sé per la prima carne fibrosa a base vegetale stampata in 3D, simile a una bistecca di manzo. Al timone un italiano, l’ingegnere biomedico Giuseppe Scionti che ha ottenuto nuovi fondi dalla società d’investimento New Crop Capital per proseguire le sue ricerche e perfezionare la tecnologia di stampa 3D. «La tecnologia basata sulla biostampa di Novameat», ha commentato Dan Altschuler Malek di New Crop Capital, «fornisce un metodo flessibile e regolabile per produrre carne a base vegetale, con l’utilità di creare texture diverse da un’ampia varietà di ingredienti, il tutto all’interno di un unico pezzo di carne». 

CARNE “SPAZIALE” IN MICROGRAVITÀ

Lo scorso 26 settembre la società israeliana Aleph Farms si è cimentata  nella creazione di carne in laboratorio a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (Iss), in collaborazione con la società russa 3D Bioprinting Solutions e altre due aziende alimentari statunitensi. «La maturazione di organi e tessuti creati con la biostampa 3D a gravità zero», ha dichiarato Yoav Reisler di Aleph Farms, «procede molto più velocemente rispetto allo stesso processo sul nostro Pianeta. Il tessuto viene stampato simultaneamente da tutti i lati, come quando si fa una palla di neve, mentre la maggior parte delle altre bioprinter lo crea strato per strato». A godere di più di questa tecnologia, va da sé, potrebbero essere proprio gli astronauti.

La carne creata in laboratorio potrebbe essere commercializzata in Usa già nel 2020.

IL 75% DEGLI ITALIANI CONTRO LA CARNE IN VITRO

Secondo lo studio messo a punto da Ixè per Coldiretti rispetto alla “bistecca” spaziale stampata in 3D, ben il 75% degli italiani non vede di buon occhio la carne sintetica. Mentre il 45% orienta le scelte sulla carne che deriva da allevamenti italiani. Il 29% dello stesso campione opta invece per carni locali. La carne in laboratorio, che mira a modificare radicalmente le abitudini di consumo alimentare, fa storcere il naso a molti, a cominciare da Assocarni e Coldiretti: «Si tratta di una abile operazione di marketing», ha commentato l’associazione degli agricoltori, «che punta a modificare stili alimentari naturali fondati sulla qualità e la tradizione».

DAL LABORATORIO AL SUPERMERCATO

Ma quando la carne sintetica raggiungerà le nostre tavole? Al momento, l’autorizzazione alla sua commercializzazione è stata data negli Stati Uniti. Il mercato di carne sintetica potrebbe essere attivo già dal 2020.  «L’Fda (Food and Drug Administration) si occuperà della raccolta e della conservazione delle cellule, della crescita e della differenziazione», si legge nel comunicato, «mentre l’Usda (United States Department of Agriculture) si occuperà della produzione e dell’etichettatura dei prodotti». E nel resto del mondo? Dipenderà da come ciascun Paese riuscirà a superare gli ostacoli culturali, economici, ambientali. Secondo le stime della società di consulenza americana AT Kearney, entro 20 anni, il 35% della carne in commercio potrebbe essere coltivata in laboratorio.

I PRO E I CONTRO DELLA CARNE SINTETICA

Ma quali sono i pro e i contro della carne in laboratorio? Per rispondere a queste domande, il Comitato Etico della Fondazione Veronesi ha redatto il documento Dagli allevamenti intensivi all’agricoltura cellulare per sostenere la diffusione delle tecniche che mirano a produrre carne e derivati animali da colture di cellule staminali. Fra i punti a favore: la riduzione della sofferenza animale; il maggiore controllo sulla carne coltivata con una riduzione del rischio di malattie di origine animale e del ricorso agli antibiotici; una migliore efficienza produttiva e una maggiore sostenibilità e cioè minore uso di energia, di acqua, ed emissioni. Destano invece qualche perplessità sia l’utilizzo di siero fetale bovino, quindi di un sottoprodotto della macellazione, che non eliminerebbe dunque sofferenza animale, ma anche la drastica riduzione di posti di lavoro nell’allevamento e nella produzione di carni e infine il rischio che queste tecnologie avanzate restino in mano a pochi attori in un regime di oligopolio.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Attenzione, troppo politically correct può discriminare

Mostrare modelle con disabilità in abito da sposa o da sera veicola un messaggio positivo. Ma pensare a mise ad hoc per spose disabili è puro marketing. Perché personalizzare un vestito è un'esigenza di tutte le donne, abili e non.

Una mia conoscente con disabilità motoria sta per commettere ciò che considero un fatale errore: si sposerà l’anno prossimo. Scherzi a parte, ma non troppo, grazie a lei sto ampliando la mia cultura sul tema: tramite il suo profilo Facebook, infatti, aggiorna amici e parenti sullo stato dell’arte dell’organizzazione del “gran giorno”, pubblicando però anche notizie e curiosità più generali e legate alle tendenze del momento riguardo alla preparazione della cerimonia e della festa.

Ovviamente a fare da padroni indiscussi del suo profilo sono decisamente i post che affrontano uno dei temi più scottanti per tutte le aspiranti spose del mondo: l’abito. Si chiama Camille Boillet e, navigando all’interno del suo sito internet, ho scoperto che la «Camille Boillet Couture» è una casa di moda dedicata alla creazione di abiti da sposa e da sera su misura adatta a tutti i tipi di corpi e di disabilità.Il suo marchio si vuole distinguere dunque per l’attenzione e la valorizzazione di tutte le fisicità.

Incuriosita, inizio a guardare le foto disponibili nel sito. In effetti le modelle di Camille non sono tutte magre, alte e “normaloidi”. In posa, splendide come principesse, vedo donne magre, altre dalle taglie più abbondanti, alcune alte, altre con nanosomia, altre ancora in sedia a rotelle. Camille non è la sola ad arricchire il nostro immaginario con l’idea di una sposa fuori dai canoni classici di bellezza: la vetrina di un negozio nei pressi di Bristol è stata allestita con un manichino in abito nuziale seduto in sedia a rotelle.

LA MODA COME POTENTE CANALE PER VEICOLARE MESSAGGI

Penso che la moda sia un potente canale attraverso cui si veicola cultura e su questo la stilista d’oltralpe e la proprietaria della boutique inglese hanno colto nel segno: valorizzare l’eterogeneità dei corpi è la strada giusta da percorrere ed è compito della moda farlo. È nelle botteghe degli stilisti, in passerella e nei negozi che si definiscono o ridefiniscono i canoni estetici prima che il “senso comune” li adotti come propri.

Se sposarsi è concepibile e di fatto concepito, è altrettanto immaginabile la possibilità di avere una vita sentimentale e/o sessuale soddisfacente

Ma le modelle della Camille Boillet Cotoure così come il manichino della boutique inglese mettono in bella mostra anche un altro messaggio, ugualmente importante: convolare a nozze è un sogno possibile e realizzabile anche da donne con disabilità, anche da bellezze “diverse dalla norma”. E, se sposarsi è concepibile e di fatto concepito, è altrettanto immaginabile la possibilità di avere una vita sentimentale e/o sessuale soddisfacente (che peraltro è possibile avere indipendentemente dal vincolo matrimoniale).

ATTENZIONE AGLI ECCESSI DEL POLITCALLY CORRECT

Nonostante mostrare bellezze “altre” sia stata una scelta lodevole, se mi sposassi ci penserei prima di comprare il mio vestito da Camille per una questione politica prima ancora che estetica. Il marchio Boillet vanta di aver creato una moda adatta a tutti i tipi di disabilità. A parte il fatto che personalmente, guardando le foto, non noto differenze tra gli abiti indossati da modelle “a quattro ruote” e da quelle “bipedi” mi sembra che con il politically correct stiamo un pochino esagerando. Come se noi donne disabili fossimo delle aliene o qualcosa di simile, bisognose quindi di abiti indossabili solo dalla nostra “specie”.

Specializzarsi nella produzione di capi di abbigliamento adatti a tutti i corpi non mi pare un elemento di particolare distinzione

Per carità, è vero, spesso i nostri corpi sono “diversi” da quelli della maggioranza della popolazione ma non così tanto da doverci dedicare un’apposita linea di abiti (fatto salvo per quelli che facilitano l’autonomia nel vestirsi ma si tratta di un altro discorso). E poi, a pensarci bene, specializzarsi nella produzione di capi di abbigliamento adatti a tutti i corpi non mi pare un elemento di particolare distinzione rispetto agli altri negozi perché dappertutto è prevista la possibilità di apportare modifiche ad un abito per renderlo adeguato alle proprie esigenze.

Infatti i modelli disponibili in commercio sono stati progettati e confezionati sulla base di corpi femminili “standard” ma per nostra fortuna quei corpi non si vedono passeggiare per strada perché semplicemente non esistono. Sono solo prototipi convenzionali a cui ci riferiamo e che abbiamo “costruito” perché ci aiutino ad orientarci nell’immensa eterogeneità dei fenotipi umani ma che usiamo quasi sempre in modo errato e fallace. Infatti molte donne (“normaloidi”, eh), tagliando la testa al toro, scelgono mica per niente di farsi confezionare un abito su misura da una sarta.

STRATEGIE DI MARKETING TARATE SU UN PARTICOLARE TIPO DI CONSUMATORE

Quindi pubblicizzare abiti da sposa specificatamente per donne con disabilità e/o adatti a qualsiasi corpo è un eccesso di politically correct che non ha alcun senso. Oppure è un’astuta strategia di mercato (basata sulla falsa teoria secondo cui sarebbe necessario personalizzare un abito sulla base delle supposte esigenze di una “categoria” di donne) per accaparrarsi una potenziale fetta di consumatrici e ricoprire la propria azienda con una patina “social”.

Future spose su quattro ruote, non lasciatevi sedurre dagli specchietti per le allodole

Quindi, future spose su quattro ruote, non lasciatevi sedurre dagli specchietti per le allodole quando deciderete da chi e come farvi confezionare il vostro abito nuziale. Prendetevi il vostro tempo e sceglietelo con accuratezza ma che la selezione non sia uno stress. Infatti vi confiderò un segreto: il giorno delle vostre nozze sarete felici e, proprio per questo, bellissime. Qualsiasi vestito starete indossando.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

I risultati delle elezioni presidenziali a Taiwan

Vittoria e nuovo mandato per l'anticinese Tsai-Ing-wen: «Pechino smetta di minacciarci». Staccato di oltre un milione di voti il rivale Han Kuo-yu, dei Nazionalisti del Kuomintang.

I risultati non sono ancora definitivi, ma lo spoglio iniziato subito dopo la chiusura dei seggi e arrivato ormai al 95% non lascia alcun dubbio. L’anticinese Tsai Ing-wen ha vinto le elezioni presidenziali a Taiwan, ottenendo così un nuovo mandato.

OLTRE UN MILIONE DI VOTI DI VANTAGGIO PER TSAI ING-WEN

Tutti i conteggi dei principali media locali le danno un vantaggio di oltre un milione di voti sul suo rivale, Han Kuo-yu, candidato dei Nazionalisti del Kuomintang. Tsai è accreditata del 58% dei consensi, Han è fermo al 38%.

AL FIANCO DI HONG KONG

Quest’ultimo, di fronte al divario ormai incolmabile, ha ammesso la sconfitta e ha riconosciuto la vittoria di Tsai, premiata dagli elettori soprattutto per la sua linea dura nei confronti di Pechino e per il suo essersi schierata al fianco di Hong Kong.

LEGGI ANCHE: Perché le elezioni a Taiwan preoccupano la Cina

«LA CINA SMETTA DI MINACCIARCI»

Le prime parole di Tsai Ing-wen confermano la volontà di opporsi a ogni tentativo di ingerenza: «La Taiwan democratica e il nostro governo eletto democraticamente non cederanno alle minacce e alle intimidazioni. La Cina deve abbandonare la minaccia dell’uso della forza». Alla domanda se il risultato del voto sia il frutto di una scelta di campo tra Cina e Stati Uniti, Tsai ha replicato: «È una scelta per la libertà e la democrazia».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Meloni si rassegni, la destra giornalistica non la ama

Feltri, Giordano e adesso anche Sallusti hanno adottato Salvini. Neppure con il Cav furono così servili. Mentre la leader di Fratelli d'Italia li spaventa.

Vittorio Feltri e gli altri big della destra giornalistica hanno adottato Matteo Salvini. Lo trattano come il pupo di casa, lo difendono con accanimento, ne vantano qualità inesistenti, raccontano di minacce simili al famoso attentato che Maurizio Belpietro disse di aver subito. Neppure con Silvio Berlusconi furono così servili. Anzi, dire “servili” non è giusto, né beneducato, diciamo che neppure con Berlusconi furono così coinvolti. Il Cavaliere era il capo, il padrone, quello che li faceva felici con stipendi da favola e che raccontava storie bellissime come quella sulla nipote di Mubarak.

Feltri & Co si bevvero tutto quel liquido caramelloso perché Berlusconi combatteva la sinistra e anche ora questo gruppo di colleghi, nei giornali di carta e su Rete 4 (tranne Barbara), pur di annichilire la sinistra, è pronto a tutto. Con Salvini, però, è diverso. «È de loro», come dicono a Roma. Racconta palle inverosimili, fa cose scorrettissime che mandano in sollucchero tipini fini come Mario Giordano, dà l’idea che se va al potere a quelli di sinistra gli spacca quella parte del corpo lì dietro.

Obiezione: ma come può accadere che un gruppo di agguerritissimi colleghi che ne ha fatte più di Carlo in Francia si innamori di questo ragazzaccio che ha un’evidente voglia di non fare una mazza per tutta la vita? E ancora: ma come, avete a disposizione Giorgia Meloni, di destra autentica, e inseguite questo burlone che non si sa mai che cosa può dire e con chi può mettersi?

IL CAV PRETENDEVA OBBEDIENZA, SALVINI NO

Il mondo di cui parliamo osannò i giudici di Mani Pulite. Divenne garantista solo quando andò al potere Berlusconi. L’orizzonte è tuttavia rimasto quella roba che chiamiamo l’antipolitica. Nel senso che si sentono tutti come Eugenio Scalfari, hanno l’ambizione di dettare le regole a politici che devono solo obbedire. Uno solo di loro, Vittorio Feltri, può ambire ad essere lo Scalfaretto di destra perché dovunque va trascina con sé lettori. Gli altri seguono l’onda. A Berlusconi dovevi obbedire, anche a Umberto Bossi dovevi obbedire, con Salvini fai quello che ti pare. Ecco il successo del puer birroso.

GIORGIA CRESCE, MA PER LEI NESSUNA FANFARA

Giorgia Meloni, fatevelo dire da uno che sarebbe terrorizzato a vederla premier, a loro fa paura. La giovane donna è combattiva, ragiona con la sua testa, ha alle spalle uno come Guido Crosetto (tanta roba, in ogni senso), è «de destra» per davvero. Questo gruppo di giornalisti, oggi di destra, è stato democristiano, socialista, persino comunista, e in fondo non sopporta quelli di destra veri. Meloni si vede chiaramente che ha una storia, che ha un passato il cui elogio reprime, e soprattutto che comunica emotivamente con il suo elettorato. A mano a mano che il Salvini si affloscerà (lui si ammoscia sempre), la Meloni andrà avanti. I giornali di destra già ne parlano, ma senza entusiasmo, senza suonare la fanfara. Arrivasse davvero una che non si fa mettere i piedi in testa, non dico da Feltri ma da Giordano, da Pietro Senaldi, da Giovanna Maglie e compagnia bella?

GRANDI FIRME STATE ATTENTE, RISCHIATE UN’ALTRA FIGURACCIA

Poi Meloni è donna e con le donne si discute meno bene che con un chiacchierone da bar. Ovviamente il giorno in cui Meloni si avvicinerà a Salvini o lo supererà saranno tutti “meloniani”, con il timore però che una di destra vera può non trovare alleati che la portino alla premiership. Da qui il salvinismo coriaceo che oggi si è fatto più tosto dopo il ritorno in campo di Alessandro Sallusti, che per qualche mese era stato costretto a fare il berlusconiano moderato invece ora può urlare a più non posso. Dateci sotto ragazzi! È il vostro momento. Difendete il vostro bambolotto di pezza. Ma sappiate che dura poco e farete la solita figuraccia. Ricordate il proverbio napoletano: «A chi troppo s’acàla, ‘o culo se vede». «Culo» sapete cos’è, vi devo spiegare «s’acàla»? Non c’è bisogno.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Zingaretti vuole sciogliere il Pd dopo le elezioni regionali

Il segretario in un colloquio con Repubblica: «Vinciamo in Emilia e poi cambia tutto. Apro a Sardine, società civile, ecologisti». Non un «nuovo partito», ma un «partito nuovo».

Sciogliere il Pd. Non per fondare «un nuovo partito», ma per creare «un partito nuovo». Aperto alle Sardine, agli ecologisti e alla società civile. In un lungo colloquio con il quotidiano la Repubblica, il segretario Nicola Zingaretti ha rotto gli indugi esplicitando la sua strategia, da mettere in atto subito dopo le elezioni regionali del 26 gennaio in Emilia-Romagna e Calabria.

«Vinciamo in Emilia», dove «stiamo facendo la campagna elettorale per Stefano Bonaccini in splendida solitudine», ovvero senza l’appoggio di Italia viva e Movimento 5 stelle. E poi «cambio tutto», promette Zingaretti. Secondo il quale «in questi mesi la domanda di politica è cresciuta, non diminuita. E noi dobbiamo aprirci e cambiare per raccoglierla». Con una sottile distinzione: «Non penso a un nuovo partito, ma a un partito nuovo. Un partito che fa contare le persone ed è organizzato in ogni angolo del Paese».

Certo, bisogna sciogliere il nodo della legge elettorale. Il percorso è appena iniziato, ma il Germanicum va in direzione di un proporzionale puro con sbarramento al 5%. E per Zingaretti «ci indica una sfida». Occorre «costruire il soggetto politico dell’alternativa, convocando un congresso con una proposta politica e organizzativa di radicale innovazione e apertura. Dobbiamo rivolgerci però alle persone, non alla politica organizzata». Tradotto: «Dobbiamo aprirci alla società e ai movimenti che stanno riempiendo le piazze in queste settimane. Non voglio lanciare un’Opa sulle Sardine, rispetto la loro autonomia. Ma voglio offrire un approdo a chi non ce l’ha».

NO ALLA «CULTURA DELLE BANDIERINE» NEL GOVERNO

Parlando del governo, il segretario dem puntualizza: «È inutile che ci giriamo intorno, non possiamo fare melina fino al 26 gennaio, non possiamo fare ogni giorno l’elenco delle cose sulle quali non c’è accordo nella maggioranza. Purtroppo questo è il risultato della cultura delle bandierine, in cui ci si illude di esistere solo se si difende una cosa. Lo dico ogni giorno a Giuseppe Conte e a Luigi Di Maio: un’alleanza è come un’orchestra, il giudizio si dà sull’esecuzione dell’opera, non sulla fuga di un solista che casomai dà pure fastidio alle orecchie». La linea unitaria «sta pagando, come dimostrano i sondaggi. E casomai apre contraddizioni in chi non vuole scegliere. L’Italia sta gradualmente tornando a uno schema bipolare».

RESISTERE ALLE DESTRE

Per Zingaretti, quindi, «non è il tempo di distruggere, ma di costruire subito una visione e poi un’azione comune, su pochi capitoli chiari: come creare lavoro, cosa significa green new deal, come si rilancia la conoscenza, come si ricostruiscono politiche industriali credibili nell’era digitale». E «questo salto di qualità lo può fare solo il nostro partito», che «ha retto l’urto di due scissioni e oggi i sondaggi ci danno al 20%. Siamo l’unico partito nazionale dell’alleanza, l’unico che si presenta ovunque alle elezioni, l’unico sul quale si può cementare il pilastro della resistenza alle destre».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

L’Iran ha ammesso di aver abbattuto l’aereo ucraino

Il velivolo è stato scambiato per errore per un bersaglio nemico dal sistema di difesa, che era in allerta dopo l'attacco alle basi americane in Iraq.

Quattro giorno dopo la strage che ha portato alla morte di 176 persone, l’Iran ha ammesso di aver abbattuto per errore l’aereo dell’Ukraine Interntational Airlines decollato da Teheran poche ore dopo l’attacco alle basi americane in Iraq.

«La Repubblica islamica dell’Iran si rammarica profondamente per questo errore disastroso», ha detto il presidente Hassan Rouhani, «le indagini proseguiranno per identificare e perseguire» i responsabili di «questo sbaglio imperdonabile».

Le forze armate iraniane hanno spiegato che il Boeing è stato «erroneamente» e «involontariamente» preso di mira dalla contraerea, che lo ha scambiato per un «velivolo ostile». Il sistema di difesa era in allerta per contrastare ogni possibile ritorsione degli americani dopo l’attacco alle basi militari in Iraq. E il Boeing è stato erroneamente identificato come un bersaglio nemico.

Sebbene Teheran abbia riconosciuto la propria responsabilità, il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif ha tuttavia affermato che «l’errore» è avvenuto in un «momento di crisi causato dall’avventurismo degli Stati Uniti».

Il premier canadese, Justin Trudeau, ha chiesto «trasparenza e giustizia» per le vittime, ricordando che 63 vittime erano canadesi, molti con doppia nazionalità iraniana.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

In Iran il vero bersaglio era la Cina?

Gli analisti di Pechino sono convinti che l'attacco americano che ha portato all’uccisione di Soleimani sia una provocazione contro la Repubblica popolare. Perché gli Usa vogliono contrastare l'espansione commerciale cinese nel Medio Oriente che ha in Teheran il suo partner principale.

Attaccando l’Iran gli Stati Uniti hanno voluto attaccare la Cina. I “falchi” a Pechino ne sono convinti fin dal primo momento dell’attacco americano che ha portato all’uccisione del generale Qassen Soleimani. Tra gli altri sostiene questa tesi un interessante editoriale apparso sul quotidiano in lingua inglese di Hong Kong, il South China Morning Post, firmato da Ann Lee, dal titolo The real target of the US assassination of Iranian military leader Qassen Soleimani: China (Il vero obiettivo dell’assassinio del leader militare iraniano Qassen Soleimani: la Cina, ndr).

Ann Lee è un’analista cinese molto accreditata, già docente di relazioni internazionali alla Peking University e professore aggiunto alla New York University and Pace University dove insegna macroeconomia e finanza internazionale, oltre che autrice di molti volumi sui rapporti Stati Uniti-Cina, come What the US Can Learn from China e Will China’s Economy Collapse?. La tesi della Lee è piuttosto chiara: «Gli Stati Uniti hanno reso pubblicamente evidente che considerano la Cina un “concorrente strategico”, un modo ducato per dire che la Cina è un nemico» scrive la professoressa nel suo editoriale. «L’America», spiega Lee, «ha attivamente cercato di trascinare la Cina in uno scontro militare fin dal 2013, sotto l’amministrazione Obama, trasformando improvvisamente i mari della Cina meridionale e della Cina orientale in punti caldi dopo decenni di pace nella regione».

«Dal momento che il presidente cinese Xi Jinping non ha abboccato su quel fronte, l’amministrazione Trump ha cercato di provocare la Cina sollevando ulteriori problemi con Taiwan, la Corea del Nord e lo Xinjiang. Le azioni statunitensi relative a Hong Kong sono coerenti con questa strategia», è la tesi dell’analista. «Infine», continua l’editoriale, «nonostante l’accordo commerciale Usa-Cina, gli Stati Uniti hanno discriminato apertamente i cinesi cercando di danneggiarne l’economia con ogni mezzo. Dal blocco degli investimenti cinesi in società statunitensi alla limitazione per i fornitori americani di alta tecnologia di fare affari con aziende cinesi come Huawei, fino alle false accuse mosse a studenti e scienziati cinesi di essere spie».

NEL MIRINO LO STRETTO RAPPORTO COMMERCIALE CINA-IRAN

Fin qui, le tesi portate avanti dalla Lee non si discostano dalle ragioni della propaganda ufficiale anti-Usa di Pechino. Ma in che modo Soleimani si inserirebbe in questo scenario? Qui gli argomenti portati avanti dalla professoressa si fanno decisamente più interessanti, e in parte anche condivisibili. La Cina è uno dei maggiori importatori di petrolio iraniano. E fa anche parte della Shanghai Cooperation Organization, il che la rende un partner stretto della Russia. Ed è altrettanto vero che da tempo Pechino investe in Iran per consolidare la sua presenza in Medio Oriente, rischiando così di creare nuove tensioni in una regione già problematica.

Xi Jinping sta cercando di costruire una rotta commerciale preferenziale per collegare in maniera più efficiente l’Asia all’Europa

Negli ultimi tempi Teheran si è trasformata nella punta di diamante della nuova Via della Seta cinese, il mega-progetto infrastrutturale attraverso cui il presidente Xi Jinping sta cercando di costruire una rotta commerciale preferenziale per collegare in maniera più efficiente l’Asia all’Europa. E in quest’ottica, non è certo un caso che il primo capo di Stato straniero a recarsi in visita ufficiale in Iran dopo la cancellazione delle sanzioni sia stato, a suo tempo, proprio Xi Jinping, che ha approfittato dell’occasione per firmare un accordo che aumenterà l’interscambio commerciale tra le due nazioni da 55 a 600 miliardi di dollari in appena 10 anni.

Una strategia rischiosa, quella cinese, che ha dimostrato con chiarezza di voler privilegiare le relazioni con Teheran cercando nello stesso momento di approfondire le relazioni con tutti gli altri Paesi del Medio Oriente. Insomma, la tesi dei “falchi” pechinesi è che l’attacco a sorpresa americano intenda proprio colpire e frenare questa politica “espansionistica” della Cina in Medio Oriente bloccandone l’avanzata in un Paese strategico come l’Iran. Uno scenario decisamente “bellicoso”, quello descritto dalla professoressa Lee nel suo editoriale, che contrasta apertamente però con l’atteggiamento molto prudente assunto da Pechino fin dai primi momenti dello scoppio della crisi tra Usa e Iran.

IN GENNAIO LA FIRMA PER METTERE FINE ALLA GUERRA COMMERCIALE USA-CINA

L’impressione infatti è che la Cina sia consapevole che non può permettersi di mettere a repentaglio i rapporti finalmente distesi con gli Stati Uniti e l’imminente firma della “fase”1” degli accordi per mettere fine alla guerra commerciale in corso. Una firma confermata da Donald Trump, malgrado la delicata situazione, per il 15 gennaio, e che difficilmente, stando alle previsioni, potrà slittare. Ma i “falchi” a Pechino, come la professoressa Lee, la vedono molto diversamente.

In Cina sono assolutamente convinti che gli Stati Uniti intendano trascinare Pechino in una guerra attraverso un l’Iran

Sono assolutamente convinti che, dal momento che gli Stati Uniti non hanno avuto un grande successo nel provocare la Cina in uno scontro militare in altre possibili teatri di conflitto, intendano trascinare Pechino in una guerra attraverso un altro Paese, l’Iran appunto, allo stesso modo in cui la Germania fu trascinata nella Prima guerra mondiale dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando. «E non è un caso», conclude la professoressa Lee nel suo editoriale, «se i dati delle ricerche su Google delle parole “Franz Ferdinand” hanno visto un picco proprio pochi minuti dopo l’assassinio di Soleimani. E la stragrande maggioranza di queste ricerche proveniva da Washington!».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Lavoro? Meglio gli Indiani metropolitani di questi politici

L'automazione offre spazi di liberazione. C'è chi li vede, come la premier finlandese. E chi già li immaginava, come il movimento bolognese degli Anni 70. Mentre la quasi totalità della nostra classe dirigente è incatenata a concezioni novecentesche.

«Mi sembra una bufala…ma in questo caso è una renna?». La battuta che non è granché, oggettivamente, è di un uomo solitamente molto serio.

Che però stavolta si è lasciato prendere dalla sindrome Twitter: una patologia che, solo che si disponga di un qualche migliaio di follower, colpisce tutti. Implacabilmente. 

Questa volta è Carlo Cottarelli a buttare in parodia l’idea della prima ministra finlandese Sanna Marin di riduzione significativa dell’orario di lavoro.

UNA NOTIZIA VECCHIA SPACCIATA PER NUOVA

La 34enne aveva infatti proposto, ma prima di diventare premier, di scendere a 24 ore settimanali con sei ore al giorno, per quattro giorni di lavoro. La tesi a supporto della sua proposta era che robotizzazione e digitalizzazione dei mezzi e processi produttivi consentono alle imprese margini di guadagni capaci di garantire lo stesso salario anche con orari ridotti.

Ma chiarito che l’idea della premier finlandese è stata venduta dai media europei come notizia fresca, quando in realtà, come già accennato, non lo era, aggiungeremo che però ha scatenato, soprattutto sui social, una tempesta mediale di grande intensità. Alimentata dai più disparati commenti, ma quasi tutti inclinanti come stile a quel misto di ironia e vaghezza che caratterizza il dibattito nazionale da quando si è cominciato a parlare di reddito di cittadinanza. E la “scomparsa del lavoro” è diventata occasione di bassa polemica politica nei confronti soprattutto del M5s e di reiterata affermazione, perlopiù di marca populista e sovranista, che bisogna «pagare la gente per lavorare e non per stare a casa a far niente». 

LA CRESCENTE AUTOMAZIONE E LA SCOMPARSA DEL LAVORO

Da noi infatti, a differenza di quanto avviene nel resto del mondo e nei Paesi più avanzati, il tema della scomparsa del lavoro per effetto della crescente automazione e delle applicazioni di intelligenza artificiale non è all’attenzione di governi o istituti di ricerca universitari e privati, di accademie e think tank. Siamo infatti nel pieno di un sommovimento epocale e di una profonda trasformazione del mercato mondiale del lavoro, che in questi anni hanno significato soprattutto perdita di posti e di addetti in ogni ambito dell’industria manifatturiera, che è quella tradizionale. E ancor oggi fondamentale, per quanto in grande affanno.

STRETTI TRA IL CAPITALISMO PARASSITARIO E DI SORVEGLIANZA

L’attuale modello di capitalismo, definito parassitario da Franklin Foer in World Without Mind. The Existential Threat Of Big Tech e di sorveglianza da Shoshana Zuboff in A human future in the Age of Surveillance, sta creando un mondo del lavoro sempre più precario, incerto, sottopagato e sfruttato che colpisce soprattutto i giovani: costretti a lavorare come affittacamere low cost per AirBnb, rider o autisti a partita Iva per Deliveroo o Uber, come web marketer o digital strategist a cottimo.

LEGGI ANCHE: Allegre Apocalissi, verso il futuro che ci attende

Naturalmente c’è anche da ridere, ma non allegramente, quando in simile contesto s’avanza un ministro dello Sviluppo economico, all’epoca il grillino Luigi Di Maio ora passato alla Farnesina, che annuncia il varo della Start Up Nation. Ma specularmente non è meno triste la parte maggioritaria di Italia, oggi populista e sovranista, che con Fratelli d’Italia voleva indire un referendum contro l’introduzione della fatturazione elettronica, e ora con la Lega non vuole limiti ai pagamenti in contanti. La prossima Lotteria degli scontrini racconta invece un Paese e un governo, quello attuale, che si affidano alla fortuna per la lotta all’evasione fiscale.

VIVIAMO IN UN MIX DI IPERMODERNITÀ E ARCAISMO

Paradossalmente, tuttavia, questo mix di ipermodernità e arcaismo è in linea con la tendenza che vede ovunque avanzare un mondo sempre più popolato di macchine e robot, ma dal sapore ottocentesco, caratterizzato com’è da bassi salari, ricatti occupazionali e sfruttamento intensivo. E che soprattutto nell’Occidente sviluppato restituisce attualità al pensiero marxista, naturalmente adattato ai tempi nuovi. È il marxismo 3.0 che deve misurarsi con il nuovo sottoproletariato digitale, con l’esercito di riserva del web che, a differenza di quello otto/novecentesco, non ha più coscienza di esserlo.

VERSO UN MARXISMO 3.0

E qui ognuno di noi guardando al futuro può valutare se stia prevalendo chi, come John M. Keynes, nella lettera ai pronipoti scritta nel 1930, Economic Possibilities for Our Grandchildren, prevedeva che da lì a 100 anni le persone, grazie allo sviluppo tecnologico, avrebbero lavorato 3 ore al giorno, potendo dedicare il resto della giornata alla realizzazione di se stesse, o chi viceversa, come Karl Marx, scorgeva proprio nello sviluppo accelerato del macchinismo la causa di una superproduzione che avrebbe causato crescente disoccupazione e povertà per i lavoratori. Al momento, scrive Malcolm Harris sul magazine del Mit, sta vincendo largamente il secondo. Ed è questa la ragione principale perché i più giovani, la Generazione Z, stanno riscoprendo il socialismo. Che dato ufficialmente per morto dopo la fine dell’Unione sovietica e il crollo del Muro di Berlino, sta rinascendo in tutto l’Occidente sviluppato, ma soprattutto nel Paese che praticamente non lo aveva mai conosciuto: gli Usa

LEGGI ANCHE: L’Ok Boomer in realtà cancella i 40enni

Ovviamente la sfida fra i due campi, keynesiani e marxiani, resta aperta e tutta da verificare. Ma abbiamo tempo 10 anni. Nel frattempo però, tornando al tema della riduzione dell’orario di lavoro, dobbiamo sottolineare come il confronto non sia tanto o solo economico, ma soprattutto culturale. È noto infatti che in Italia si lavora molto ma la produttività è fra le più basse dell’area Ue e Ocse. Dal 2000 al 2016, dice l’ultimo Rapporto Istat sulla competitività dei settori produttivi, siamo cresciuti dello 0,4% contro il 15% di Francia, Inghilterra e Spagna, e il 18,3 della Germania. Ma le più recenti sperimentazioni, per esempio di Microsoft in Giappone, che hanno testato la settimana lavorativa di 4 giorni con il risultato di un aumento della produzione del 40%, dimostrano che l’ossessione tossica del lavorare 24/7 fa male sia ai lavoratori sia alle aziende. Però liberarsi di questa ossessione richiede uno sforzo culturale immenso. Perché a partire dalla prima rivoluzione industriale il lavoro è stato ed è la forma di legittimazione fondamentale della nostra esistenza. Economica, ma anche morale, valoriale, caratteriale. 

LEGGI ANCHE:Un mondo senza lavoro è possibile?

Ora tuttavia e sempre più nei prossimi anni l’accelerato processo di trasferimento alle macchine del lavoro umano apre inediti spazi di liberazione. Ma c’è chi li vede e in qualche modo li anticipa come la prima ministra finlandese, chi invece come la quasi totalità dei nostri imprenditori e politici continua ad avere una concezione novecentesca del lavoro. Correva l’anno 1977 e il nascente movimento autonomo scandiva a Bologna lo slogan: «Lavoro zero, reddito intero. Tutta la produzione all’automazione». Tragico o divertente che sia – ma probabilmente entrambe le cose – erano molto più avanti, visionari e sfidanti, gli “indiani metropolitani” di 40 anni fa della nostra attuale classe dirigente e di governo.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it