Gli intrecci tra l’omicidio di Daphne Galizia e il presunto mandante Fenech

Giro d'affari e ombre di uno degli uomini più potenti di Malta. Dagli interessi nel settore energetico al legame coi Panama Papers. Il giornalista Delia: «Questa vicenda contaminerà la politica. Il ministro Mizzi deve dimettersi».

L’hanno bloccato a bordo del suo yacht mentre stava per fuggire da Malta, pochi giorni dopo aver rassegnato le dimissioni dal board di Tumas Group. Yorgen Fenech, arrestato il 20 novembre nell’ambito delle indagini sull’omicidio della giornalista Daphne Caruana Galizia, è uno degli uomini più potenti di Malta. Figlio del businessman George Fenech e nipote di Tumas Fenech, per anni ha fatto affari in alcuni tra i settori chiave dell’economia dell’isola: turismo, gaming, ma soprattutto energia e shipping. Tumas Group è una delle società più potenti e importanti a Malta, con asset nel 2017 per oltre 350 milioni di euro.

TUMAS GROUP, ASSET MILIONARI E INTERESSI NEL SETTORE ENERGETICO

Tra i beni della società figurano la Portomaso Business Tower di Malta, il vicino hotel Hilton, il ristorante Blue Elephant e soprattutto il Portomaso Casinò, lo stesso dove venne visto Alfred De Giorgio, uno degli indagati nel processo per la morte di Caruana Galizia. Ma non è tutto. Tumas Group, infatti, fa parte del consorzio Electrogas che ha interessi nell’energia ed è in lizza per la costruzione di una centrale Lng nella località di Delimara, progetto appoggiato anche dall’attuale governo che ne fece uno dei suoi cavalli di battaglia nella campagna elettorale del 2013, sostenendo che una volta in funzione l’impianto avrebbe ridotto le tariffe dell’energia per i maltesi. A sostenere questo progetto fu l’ex ministro dell’Energia, Konrad Mizzi, mentre l’attuale primo ministro, Joseph Muscat, promise che si sarebbe dimesso se non fosse andato in porto.

Quello che da tre anni si vuole coprire è un omicidio compiuto per mettere a tacere una corruzione milionaria

Emanuel Delia, autore di Murder on the Malta Express

Daphne Caruana Galizia aveva iniziato a indagare proprio su queste società e sulle presunte tangenti pagate a due membri del governo laburista di Malta, il capo di gabinetto Keith Schembri e il ministro Mizzi. Tangenti che sarebbero passate attraverso la 17Black, società basata a Dubai – e di cui è amministratore delegato proprio Fenech -, già individuata da Daphne Caruana Galizia. «Quello che da tre anni si vuole coprire», spiega Emanuel Delia, giornalista e autore del libro-inchiesta Murder on the Malta Express. Who killed Daphne Caruana Galizia? (scritto insieme a Carlo Bonini e John Sweeney), «è un omicidio compiuto per mettere a tacere un’indagine su una corruzione milionaria».

Lo yacht intercettato il 20 novembre con a bordo Yorgen Fenech.

IL RUOLO E I TIMORI DEL TASSISTA MELVIN THEUMA

A fare il nome di Fenech è stato Melvin Theuma, un tassista che lavorava nell’hotel Hilton, di proprietà di Tumas Group, individuato già nel 2018 sia dalla polizia sia dai giornalisti di inchiesta maltesi e arrestato nei giorni scorsi. Theuma era stato citato nell’interrogatorio di uno degli indagati, Vincent Muscat, che lo aveva indicato come colui che aveva assoldato i sicari per portare a termine l’omicidio di Daphne Caruana Galizia. E Theuma si aspettava di essere arrestato, tanto da aver dettato il proprio testamento il giorno successivo al fermo dei presunti esecutori materiali del delitto.

I LEGAMI CON LO SCANDALO DEI PANAMA PAPERS

L’arresto di Fenech, prosegue Delia, «avrebbe potuto avvenire molto tempo fa, quando emerse il coinvolgimento di questo tassista. Una volta raccolta la sua testimonianza, hanno provato a ignorarla, a far passare del tempo ma già da tre o quattro mesi noi giornalisti avevamo capito cosa stava succedendo e ci eravamo resi conto che Fenech poteva essere coinvolto». L’indizio, dice Delia, è stato il riferimento alla Portomaso, società in passato vicina a Nitto Santapaola: «Adesso il governo vorrebbe che questa storia non contaminasse il mondo politico, ma è impossibile. E se anche certi personaggi del governo non sono direttamente coinvolti nell’omicidio di Daphne, è certo che ci sia una responsabilità politica cui dovrebbero rispondere. Se tre anni fa, quando emerse il coinvolgimento di Schembri e Mizzi nella questione panamense, Muscat li avesse cacciati dal governo, oggi Daphne sarebbe ancora viva». Ora, dice Delia, «il premier sta rischiando tutto, ma il suo è un governo diviso, che sta sopravvivendo».

Schembri e Mizzi? Nessuno può fargli domande se sono al potere. Dovrebbero lasciare per essere interrogati

Emanuel Delia

E proprio Joseph Muscat continua a ribadire che per il momento sono escluse le dimissioni dei suoi gregari. «È una linea che sta tenendo da tre anni», prosegue Delia, «Muscat ha garantito di propria iniziativa l’immunità all’intermediario che ha promesso di fare il nome dei mandanti, come se fosse lui stesso a condurre le indagini. La verità è che questo omicidio è nato dalle questioni relative alla 17Black e ai Panama Papers, vicende in cui sono coinvolti anche alcuni tra i nostri politici. In questo senso, dovrebbero dimettersi tutti e subito, proprio come è accaduto con il caso di Ján Kuciak (il giornalista di 27 anni ucciso in Slovacchia nel febbraio 2018, ndr)». E sull’omicidio di Daphne Caruana Galizia conclude: «Non posso affermare che Schembri e Mizzi ne sapessero qualcosa, non ho elementi. Quello che non posso tollerare però è che non lascino la poltrona: nessuno può fargli domande se sono al potere. Dovrebbero lasciare per essere interrogati».

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Il giallo del drone italiano precipitato in Libia

Il velivolo si è schiantato nella zona a nord di Tarhouna a circa 60 km da Tripoli. L'esercito di Haftar ha rivendicato l'abbattimento la la Difesa nega: «Caduto per problemi tecnici».

Un drone militare italiano è precipitato il 20 novembre in Libia. Lo ha comunicato lo Stato maggiore della Difesa, spiegando che è stato perso «il contatto con un velivolo a pilotaggio remoto dell’Aeronautica militare, successivamente precipitato sul territorio libico». Il velivolo, «che svolgeva una missione a supporto dell’operazione Mare sicuro, seguiva un piano di volo preventivamente comunicato alle autorità libiche», ha aggiunto la Difesa. Sono in corso approfondimenti per accertare le cause.

LE FORZE DI HAFTAR RIVENDICA L’ABBATTIMENTO

Secondo il sito Libya Akhbar il velivolo a pilotaggio remoto è stato “abbattuto” dalla contraerea delle forze del generale ribelle Khalifa Haftar. Il sito ha citato il generale capo delle «sale operative della regione occidentale», che ha definto il velivolo «un drone ostile abbattuto dalla difesa antiaerea a nord di Tarhouna». L’abbattimento sarebbe stato confermato anche da fonti di alto livello dell’Esercito nazionale libico guidato dall’uomo forte della Cirenaica. «Il maggior generale Mabrouk al Ghazawi, comandante del gruppo che opera nella regione regione, ha confermato che le difese anti-aeree della 9/a Brigata di fanteria hanno abbattuto il velivolo sulla zona di Souk El Ahad quando è penetrato nello spazio aereo della zona per una missione ostile nell’area delle operazioni», ha scritto peraltro il sito.

Citando una «fonte militare» della sala operativa del Comando, Libya Akhbar ha precisato che sulle prime si era pensato che si trattasse di un drone «di fabbricazione turca», «ma poi si è appurato che portava il logo dell’aviazione italiana» e «un esame preliminare dei rottami del velivolo indicano che si tratta di un Predator». Il sito, ma anche altri media vicini al maresciallo Haftar come Al Marsad, hanno rilanciato una foto in cui si vede l’ala color celeste chiaro di un velivolo con i tre cerchi concentrici rosso-bianco-verde. Il rottame è legato su un pick-up sul quale posa un miliziano in mimetica e mitragliatore in pugno.

LEGGI ANCHE: L’Italia e la guerra dei droni: un mare di incognite

LA DIFESA ITALIANA INSISTE: «PROBLEMA TECNICO»

Fonti italiane qualificate hanno spiegato che le cause della caduta del predator italiano «sono ancora in corso di accertamento», ma al momento «l’ipotesi prevalente è che si tratti di un incidente provocato da un problema tecnico». Per le stesse fonti «è ancora presto per dare una risposta definitiva, ma questa è l’ipotesi più accreditata». In particolare, è stato sottolineato che le forze del generale Haftar non avrebbero tecnologie in grado di colpire un aereo che, come il Predator, vola a circa 20.000 piedi di quota.

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Il giallo del drone italiano precipitato in Libia

Il velivolo si è schiantato nella zona a nord di Tarhouna a circa 60 km da Tripoli. L'esercito di Haftar ha rivendicato l'abbattimento la la Difesa nega: «Caduto per problemi tecnici».

Un drone militare italiano è precipitato il 20 novembre in Libia. Lo ha comunicato lo Stato maggiore della Difesa, spiegando che è stato perso «il contatto con un velivolo a pilotaggio remoto dell’Aeronautica militare, successivamente precipitato sul territorio libico». Il velivolo, «che svolgeva una missione a supporto dell’operazione Mare sicuro, seguiva un piano di volo preventivamente comunicato alle autorità libiche», ha aggiunto la Difesa. Sono in corso approfondimenti per accertare le cause.

LE FORZE DI HAFTAR RIVENDICA L’ABBATTIMENTO

Secondo il sito Libya Akhbar il velivolo a pilotaggio remoto è stato “abbattuto” dalla contraerea delle forze del generale ribelle Khalifa Haftar. Il sito ha citato il generale capo delle «sale operative della regione occidentale», che ha definto il velivolo «un drone ostile abbattuto dalla difesa antiaerea a nord di Tarhouna». L’abbattimento sarebbe stato confermato anche da fonti di alto livello dell’Esercito nazionale libico guidato dall’uomo forte della Cirenaica. «Il maggior generale Mabrouk al Ghazawi, comandante del gruppo che opera nella regione regione, ha confermato che le difese anti-aeree della 9/a Brigata di fanteria hanno abbattuto il velivolo sulla zona di Souk El Ahad quando è penetrato nello spazio aereo della zona per una missione ostile nell’area delle operazioni», ha scritto peraltro il sito.

Citando una «fonte militare» della sala operativa del Comando, Libya Akhbar ha precisato che sulle prime si era pensato che si trattasse di un drone «di fabbricazione turca», «ma poi si è appurato che portava il logo dell’aviazione italiana» e «un esame preliminare dei rottami del velivolo indicano che si tratta di un Predator». Il sito, ma anche altri media vicini al maresciallo Haftar come Al Marsad, hanno rilanciato una foto in cui si vede l’ala color celeste chiaro di un velivolo con i tre cerchi concentrici rosso-bianco-verde. Il rottame è legato su un pick-up sul quale posa un miliziano in mimetica e mitragliatore in pugno.

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LA DIFESA ITALIANA INSISTE: «PROBLEMA TECNICO»

Fonti italiane qualificate hanno spiegato che le cause della caduta del predator italiano «sono ancora in corso di accertamento», ma al momento «l’ipotesi prevalente è che si tratti di un incidente provocato da un problema tecnico». Per le stesse fonti «è ancora presto per dare una risposta definitiva, ma questa è l’ipotesi più accreditata». In particolare, è stato sottolineato che le forze del generale Haftar non avrebbero tecnologie in grado di colpire un aereo che, come il Predator, vola a circa 20.000 piedi di quota.

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Perché Trump e il Congresso Usa non sono allineati su Hong Kong

Da una parte, lo schiaffo del Senato alla Cina. Dall'altra, la cautela del presidente. Che teme la polarizzazione dello scontro. E vuole tener fede alla propria retorica sovranista. v

Schiaffo del Congresso americano alla Cina. Il Senato ha approvato un disegno di legge a favore dei dimostranti di Hong Kong, spingendo così la Casa Bianca a imporre delle sanzioni ai funzionari del governo cinese che violino i diritti umani. Il testo prevede, tra l’altro, che venga elaborata una strategia per tutelare i cittadini statunitensi nell’ex colonia britannica. «Il Senato degli Stati Uniti ha preso una posizione a sostegno del popolo di Hong Kong», ha affermato il senatore repubblicano Jim Risch in un comunicato. «Approvare questo disegno di legge è un importante passo avanti nel ritenere il Partito comunista cinese responsabile della sua erosione dell’autonomia di Hong Kong e della sua repressione delle libertà fondamentali». Parole condivise anche dal collega democratico, Ben Cardin.

Durissima la reazione di Pechino, con il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang, che ha sostenuto che la norma «viola gravemente il diritto internazionale e le leggi basilari che regolano i rapporti internazionali. La Cina lo condanna e si oppone fermamente». Lo scorso ottobre, la Camera dei Rappresentanti aveva già approvato un provvedimento simile a larghissima maggioranza. I due rami del Congresso dovranno quindi ora ratificare un testo comune da inviare a Donald Trump, il quale dovrà a sua volta decidere se concedere la propria firma o porre il veto.

LA SVOLTA DEL 2008 NEI RAPPORTI CON LA CINA

Che il Campidoglio fosse abbastanza agguerrito nei confronti di Pechino sulla questione di Hong Kong non è del resto esattamente una novità: a partire da alcuni settori del Partito Repubblicano, che vedono nella Repubblica Popolare un crescente pericolo. Si tratta d’altronde di una linea che non nasce oggi ma che affonda, se vogliamo, le proprie radici soprattutto nella crisi economica del 2008. Sino ad allora, i repubblicani avevano mantenuto un atteggiamento relativamente aperto nei confronti della Cina, soprattutto in ossequio a logiche economiche energicamente liberoscambiste. E, in tal senso, avevano in gran parte spalleggiato a livello parlamentare la politica di amichevolezza commerciale condotta negli Anni 90 dall’allora presidente democratico, Bill Clinton. Beninteso, questo non vuol dire che non si siano verificati anche attriti (basti pensare al delicato dossier di Taiwan). Ma, in generale, l’Elefantino tendeva a mostrare un atteggiamento di apertura.

LA LINEA DURA DEL PARTITO REPUBBLICANO

A seguito della recessione, la situazione è mutata, con molti repubblicani che hanno iniziato a vedere nella Cina un pericoloso concorrente sul piano geopolitico, militare ed economico. In particolare, negli ultimissimi anni, a risultare decisamente attivi nella linea dura contro Pechino si sono rivelati i senatori repubblicani Ted Cruz, Tom Cotton e Marco Rubio. Proprio quest’ultimo è stato del resto tra i principali promotori dell’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, approvato al Senato.

Trump è intervenuto poco sulla questione di Hong Kong e lo stesso segretario di Stato, Mike Pompeo, ha esposto il 15 novembre una posizione non troppo netta

A fronte di questa postura non poco assertiva da parte del Congresso, la Casa Bianca ha finora scelto una linea molto più cauta. Trump è intervenuto poco sulla questione di Hong Kong e lo stesso segretario di Stato, Mike Pompeo, ha esposto il 15 novembre una posizione non troppo netta. Pur sostenendo di non escludere alcuna opzione (soprattutto qualora la Cina ricorresse all’intervento dell’esercito), il capo del Dipartimento di Stato ha tuttavia affermato di voler tutelare il principio “un Paese, due sistemi”. Trump teme d’altronde che un’eccessiva sottolineatura della questione dei diritti umani possa portare a una polarizzazione dello scontro tra Washington e Pechino. Senza poi contare che un intervento diretto sul dossier di Hong Kong rischierebbe per così dire di inficiare la sua dottrina di politica estera: una dottrina che ha sempre trovato il proprio centro gravitazionale nella difesa e nel rispetto del principio di sovranità nazionale.

I TIMORI DI TRUMP E L’IMPASSE DEL 1989

Pur condividendo con i senatori repubblicani preoccupazione e ostilità nei confronti di Pechino, l’inquilino della Casa Bianca è rimasto finora convinto che la leva principale da usare nel confronto con la Cina debba infatti essere quella della pressione commerciale. In altre parole, nella sua ottica realista, Trump teme che una battaglia in gran parte incentrata sui diritti umani rischi di far deragliare completamente le relazioni con la Repubblica Popolare. Il presidente americano potrebbe quindi dover affrontare un’impasse simile a quella in cui si ritrovò George H. W. Bush nel 1989, ai tempi delle proteste di Piazza Tienanmen, quando – come racconta Henry Kissinger nel suo libro On China – dovette barcamenarsi tra le esigenze del realismo geopolitico e le istanze di chi – soprattutto al Congresso – invocava la linea dura contro Pechino.

trump xi jinping
I presidenti di Cina e Usa, Xi Jinping e Donald Trump.

Tutto questo non deve comunque portare automaticamente a ritenere che il realismo politico equivalga ipso facto a un disinteresse nei confronti dei manifestanti dell’ex colonia britannica. L’estate scorsa, l’inquilino della Casa Bianca ha infatti vincolato i progressi nelle trattative commerciali anche alle reazioni del governo cinese verso i dimostranti. Sotto questo aspetto, non bisogna trascurare un elemento importante. La guerra dei dazi in corso tra Washington e Pechino ha determinato duri contraccolpi per entrambi i Paesi: se gli Stati Uniti stanno soffrendo soprattutto nel settore agricolo, la Cina ha riscontrato forti problemi nel manifatturiero. Il punto è che, a causa di queste tensioni commerciali, la Repubblica Popolare sta iniziando a dover affrontare anche questioni legate alla disoccupazione e a un welfare state in affanno: due fattori, questi ultimi, che rischiano di produrre serie conseguenze anche sul piano della politica interna cinese.

LE DIFFICOLTÀ DI XI E IL BIVIO DI DONALD

Tutto ciò evidenzia come, quello attuale, non possa esattamente definirsi un periodo felice per il presidente Xi Jinping: se i fatti di Hong Kong lo hanno posto sotto i riflettori di una sempre più critica opinione pubblica internazionale, le tensioni commerciali con Washington possono determinare un’erosione del suo potere interno. Trump, dal canto suo, è chiamato a scegliere quale strategia adottare. Rompere con il Congresso (come accaduto sullo Yemen). Oppure cercare un’articolata coordinazione, che permetta agli Stati Uniti di portare compattamente avanti il confronto con Pechino, pur su piani differenti.

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Proteste e torture: alta tensione tra Cina, Usa e Uk su Hong Kong

Il Senato statunitense ha approvato un pacchetto di norme in favore dell'ex colonia. Intanto un ex dipendente del consolato britannico dell'ex colonia denuncia di essere stato torturato.

Altissima tensione tra Cina e Usa su Hong Kong. Il senato americano ha infatti approvato all’unanimità un pacchetto di norme a sostegno dei manifestanti pro-democrazia dell’ex colonia britannica. Pechino «condanna con forza e si oppone con determinazione» alla mossa Usa, che definisce un’interferenza negli affari interni della Cina».

IL DIPENDENTE DEL CONSOLATO BRITANNICO DENUNCIA TORTURE

Intanto Simon Cheng, ex dipendente del consolato Gb a Hong Kong scomparso ad agosto per giorni durante un viaggio a Shenzhen, ha denunciato di essere stato torturato e accusato dalle autorità cinesi di alimentare le proteste pro-democrazia nell’ex colonia. Cheng, 29 anni, ha spiegato ai media stranieri di essere stato bendato e picchiato nella detenzione dalla polizia cinese, ritenendo che identica sorte sia capitata ad altri di Hong Kong. Per la vicenda, il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha convocato l’ambasciatore cinese Liu Xiaoming.

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Proteste e torture: alta tensione tra Cina, Usa e Uk su Hong Kong

Il Senato statunitense ha approvato un pacchetto di norme in favore dell'ex colonia. Intanto un ex dipendente del consolato britannico dell'ex colonia denuncia di essere stato torturato.

Altissima tensione tra Cina e Usa su Hong Kong. Il senato americano ha infatti approvato all’unanimità un pacchetto di norme a sostegno dei manifestanti pro-democrazia dell’ex colonia britannica. Pechino «condanna con forza e si oppone con determinazione» alla mossa Usa, che definisce un’interferenza negli affari interni della Cina».

IL DIPENDENTE DEL CONSOLATO BRITANNICO DENUNCIA TORTURE

Intanto Simon Cheng, ex dipendente del consolato Gb a Hong Kong scomparso ad agosto per giorni durante un viaggio a Shenzhen, ha denunciato di essere stato torturato e accusato dalle autorità cinesi di alimentare le proteste pro-democrazia nell’ex colonia. Cheng, 29 anni, ha spiegato ai media stranieri di essere stato bendato e picchiato nella detenzione dalla polizia cinese, ritenendo che identica sorte sia capitata ad altri di Hong Kong. Per la vicenda, il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha convocato l’ambasciatore cinese Liu Xiaoming.

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Cosa c’è dietro lo scontro tra California e Fca sulle emissioni

Braccio di ferro tra il Golden State e alcune case automobilistiche. Il governo di Sacramento ha vietato gli acquisti per le auto dello Stato dai produttori vicini alle politiche di Trump sulle emissioni.

La California è passata al contrattacco e vietato gli acquisti di auto prodotte dalle case automobilistiche che si sono schierate con l’amministrazione Trump nella battaglia sulle emissioni. Si tratta di General Motors, Fca, Toyota e altri costruttori, le cui vetture non potranno più essere acquistate dalle agenzie del Golden State a partire probabilmente da gennaio 2020.

«Le case automobilistiche che hanno scelto di schierarsi sul lato sbagliato della storia perderanno il potere di acquisto della California» ha affermato il governatore dello stato, Gavin Newsom sfidando Donald Trump, ‘colpevole’ a suo avviso di voler abbassare gli standard sulle emissioni e strappare allo stato l’autorità di fissare i propri target in termini di inquinamento.

Non è chiaro quale sarà l’impatto preciso della decisione della California sui conti delle case automobilistiche ‘boicottate’: secondo i dati del New York Times il governo dello Stato conta su 51.000 auto, ma ne acquista 2.000-3.000 l’anno. Dei veicoli in suo possesso circa 14.000 sono Ford, 10.000 sono Gm, 4.000 Fca e 1.200 Toyota. Secondo Automotive News, fra il 2016 e il 2018 la California ha acquistato auto Gm per 58,6 milioni di dollari, Fca per 55,8 milioni di dollari, Toyota per 10,6 milioni di dollari e Nissan per 9 milioni.

POSSIBILI ACQUISTI DIROTTATI SU BMW, FORD E VOLKSWAGEN E HONDA

La Casa Bianca non ha commentato la sfida della California. Gm si è limitata, con un suo portavoce, a precisare che il divieto ridurrà la possibilità di scelta dello Stato in termini di auto economiche e pulite. Ma Sacramento non è sembrata impaurita e ha ritenuto di poter contare su una vasta scelta visto il numero di case automobilistiche che ha sposato la causa della California sulle emissioni: le agenzie statali potranno infatti acquistare più Bmw, Ford, Volkswagen e Honda, i costruttori che hanno sposato la battaglia dello Stato per auto più verdi.

IL BRACCIO DI FERRO TRA CALIFORNIA E WASHINGTON

Lo scontro fra la California e l’amministrazione Trump sulle emissioni ha avuto come risultato quello di spaccare l’industria automobilistica. Bmw, Honda, Volkswagen e Ford hanno raggiunto un accordo con lo Stato per seguire le sue regole sulle emissioni, le più stringenti negli Stati Uniti. Gm, Fca e Toyota hanno invece scelto di schierarsi con Trump nella convinzione che sia il governo federale e non la California a dover dettare gli standard sulle emissioni di auto e mezzi pesanti. Posizioni contrastanti che rischiano di aver come effetto solo quello che siano i consumatori e l’ambiente a pagarne le conseguenze.

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Dall’India è in arrivo la prima “pillola” anticoncezionale maschile

Secondo l'Hindustan Times negli ultimi trials il farmaco ha avuto il 97,3% di risultati positivi e senza effetti collaterali. Si tratta di un prodotto da iniettare già inviato all'Agenzia del farmaco indiana per l'approvazione.

Potrebbe cambiare le nostre abitudini sessuali e avere effetti sociali non da poco: dall’India con tutta probabilità arriverà la pillola maschile. L‘Istituto indiano per la ricerca medica (Indian Council of Medical Research, ICMR) ha infatti completato con successo l’ultima fase dei trials clinici sul primo contraccettivo destinato al maschio, un prodotto iniettabile, che è stato inviato recentemente, per l’approvazione, all‘Agenzia del farmaco indiana, la Drug controller general of India, Dcgi. La notizia è stata anticipata da alcuni ricercatori coinvolti nel progetto, secondo i quali, scrive il quotidiano Hindustan Times, il farmaco avrebbe efficacia per almeno tredici anni.

GLI EFFETTI DURANO 13 ANNI

Pensato come sostituto alla vasectomia chirurgica, il contraccettivo ha una durata di ben tredici, dopodiché perde la sua potenza, spiega il quotidiano di New Delhi. Ricerche simili sono in corso anche negli Stati Uniti dove però sono ancora in fase di sviluppo e in Gran Bretagna dove una pillola maschile ha dato come effetti collaterali acne e cattivo umore e ne è stato bloccato lo studio. Quella dell‘Icmr, istituto biomedico finanziato dal governo di New Delhi, è la ricerca più avanzata a livello globale.

IL 97,3% DI RISULTATI POSITIVI

La terza fase del trial, appena conclusa, è stata condotta su 303 candidati, con il 97,3 di risultati positivi, e senza che siano stati riportati effetti collaterali. «Il farmaco è pronto e può essere definito il primo contraccettivo maschile del mondo», ha detto il dottor Rs Sharma, ricercatore senior dell’Icmr, che ha condotto la supervisione dei trial. L’Icmr è la più qualificata agenzia governativa indiana per la ricerca biomedica, sotto l’egida del ministero della Salute.

ALTRI SETTE MESI PRIMA DELLA FABBRICAZIONE

«Direi che ci vorranno ancora dai sei ai sette mesi prima che tutte le autorizzazioni vengano concesse prima che il prodotto possa essere fabbricato», ha dichiarato all’Hindustan Times VG Sonami, capo dell’agenzia del farmaco indiana. 

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Dall’India è in arrivo la prima “pillola” anticoncezionale maschile

Secondo l'Hindustan Times negli ultimi trials il farmaco ha avuto il 97,3% di risultati positivi e senza effetti collaterali. Si tratta di un prodotto da iniettare già inviato all'Agenzia del farmaco indiana per l'approvazione.

Potrebbe cambiare le nostre abitudini sessuali e avere effetti sociali non da poco: dall’India con tutta probabilità arriverà la pillola maschile. L‘Istituto indiano per la ricerca medica (Indian Council of Medical Research, ICMR) ha infatti completato con successo l’ultima fase dei trials clinici sul primo contraccettivo destinato al maschio, un prodotto iniettabile, che è stato inviato recentemente, per l’approvazione, all‘Agenzia del farmaco indiana, la Drug controller general of India, Dcgi. La notizia è stata anticipata da alcuni ricercatori coinvolti nel progetto, secondo i quali, scrive il quotidiano Hindustan Times, il farmaco avrebbe efficacia per almeno tredici anni.

GLI EFFETTI DURANO 13 ANNI

Pensato come sostituto alla vasectomia chirurgica, il contraccettivo ha una durata di ben tredici, dopodiché perde la sua potenza, spiega il quotidiano di New Delhi. Ricerche simili sono in corso anche negli Stati Uniti dove però sono ancora in fase di sviluppo e in Gran Bretagna dove una pillola maschile ha dato come effetti collaterali acne e cattivo umore e ne è stato bloccato lo studio. Quella dell‘Icmr, istituto biomedico finanziato dal governo di New Delhi, è la ricerca più avanzata a livello globale.

IL 97,3% DI RISULTATI POSITIVI

La terza fase del trial, appena conclusa, è stata condotta su 303 candidati, con il 97,3 di risultati positivi, e senza che siano stati riportati effetti collaterali. «Il farmaco è pronto e può essere definito il primo contraccettivo maschile del mondo», ha detto il dottor Rs Sharma, ricercatore senior dell’Icmr, che ha condotto la supervisione dei trial. L’Icmr è la più qualificata agenzia governativa indiana per la ricerca biomedica, sotto l’egida del ministero della Salute.

ALTRI SETTE MESI PRIMA DELLA FABBRICAZIONE

«Direi che ci vorranno ancora dai sei ai sette mesi prima che tutte le autorizzazioni vengano concesse prima che il prodotto possa essere fabbricato», ha dichiarato all’Hindustan Times VG Sonami, capo dell’agenzia del farmaco indiana. 

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Arrestate le due guardie che dovevano vigilare su Epstein

Si sarebbero addormentati durante i controlli che avvenivano ogni mezz'ora. Poi avrebbero falsificato i documenti per nascondere la mancanza. Il finanziere si era impiccato in cella in attesa del processo.

Sono state arrestate le due guardie carcerarie che erano in servizio al Metropolitan correctional center di Manhattan la notte in cui il finanziere Jeffrey Epstein si è ucciso, lo scorso agosto. Lo riporta il New York Times, precisando come l’accusa a loro carico è quella di aver fallito nel controllare il miliardario detenuto per abusi sessuali, sfruttamento della prostituzione e traffico di minori.

I DUE SI SAREBBERO ADDORMENTATI DURANTE I CONTROLLI

I due agenti federali del Bureau of Prisons dovrebbero comparire a breve davanti alla Corte distrettuale di Manhattan. Erano loro quella notte i responsabili del monitoraggio nell’unità di massima sicurezza dove era detenuto il finanziere. Ma invece di controllarlo ogni mezz’ora – secondo fonti informate – si sono addormentati per tre ore e hanno falsificato i documenti per nascondere la mancanza. Le accuse contro di loro sono le prime nell’ambito dell’indagine penale sulla morte di Epstein, impiccatosi in cella mentre era detenuto in attesa del processo.

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Svezia, stop alle indagini per stupro su Julian Assange

Un procuratore ha dichiarato che l'inchiesta sul fondatore di Wikileaks è stata interrotta.

La procura svedese ha interrotto le indagini preliminari sulle accuse di stupro avanzate nei confronti del fondatore di WikiLeaks Julian Assange, attualmente in prigione in Gran Bretagna. Un procuratore ha affermato che le indagini sono state interrotte.

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In Libano i manifestanti chiudono l’accesso al parlamento

I deputati non riescono a entrare e salta la discussione su un controverso progetto di amnistia. Intanto, le banche riaprono con la polizia a proteggere ogni filiale.

In Libano la tensione tra piazza e palazzi del potere resta ai livelli di guardia. Il presidente del parlamento Nabih Berri ha rinviato a data da destinarsi la sessione prevista il 19 novembre che doveva discutere della controversa proposta di legge per una amnistia riguardante diversi crimini comuni e finanziari. La decisione è stata presa, riferisce l’ufficio stampa di Berri, a causa dell’assenza del quorum dei deputati. Molti infatti non si sono presentati per l’assedio di migliaia di manifestanti fuori dal parlamento di Beirut che hanno tentato di impedire l’accesso dei parlamentari.

I manifestanti hanno circondato gli accessi a piazza Etoile, sede del parlamento libanese e protetta da un rigido apparato di sicurezza. La polizia s’è schierata in tenuta anti-sommossa e gli ingressi alla piazza sono stati transennati e bloccati da filo spinato e blocchi di cemento. La mobilitazione si inserisce nel quadro delle proteste popolari anti-governative in corso da più di un mese. La seduta era prevista una settimana fa ma era stata rinviata per ragioni di sicurezza.

STALLO PER IL PREMIER DOPO IL “NO” DI SAFADI

Sul fronte della maggioranza, il 15 novembre leader politico-confessionali libanesi si erano accordati per la nomina di Muhammad Safadi come nuovo premier incaricato dopo le dimissioni lo scorso 29 ottobre del premier Saad Hariri. Il diretto interessato, però, ha rifiutato l’incarico. Per convenzione, il premier deve essere musulmano sunnita. Safadi, 75 anni, è sunnita della città di Tripoli, nel Nord del Paese, ed è noto per esser da decenni parte del sistema clientelare al governo in Libano dalla fine, 30 anni fa, della guerra civile (1975-90). La moglie di Safadi, Violette, è attualmente ministro del governo Hariri e dirige il dicastero per il Rafforzamento del ruolo della donna.

MISURE STRAORDINARIE CONTRO LA FUGA DEI CAPITALI

Nel frattempo, il 19 novembre le banche libanesi hanno riaperto gli sportelli dopo 10 giorni di chiusura, dovuta allo sciopero degli impiegati, impauriti dalla graduale tensione sociale. Per la prima volta dall’inizio della crisi più di un mese fa, agenti di polizia sono ora dispiegati agli ingressi di ogni filiale su tutto il territorio libanese a protezione delle sedi bancarie e degli impiegati. Alla riapertura, le banche hanno cominciato ad applicare «misure straordinarie» per contenere la fuga dei capitali in un contesto in cui, a causa della grave crisi sociale, economica e politica libanese, i risparmiatori cercano di prelevare dai loro conti correnti in dollari americani in contanti.

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L’arresto che segna una possibile svolta nell’omicidio di Daphne Caruana Galizia

L'uomo catturato a Malta sarebbe un intermediario tra i mandanti e gli esecutori dell'omicidio. Potrebbe collaborare dietro la concessione di una grazia.

Un uomo arrestato alcuni giorni fa a Malta con l’accusa di essere l’intermediario tra i mandanti e gli esecutori materiali dell’omicidio della giornalista investigativa Daphne Caruana Galizia, uccisa con una bomba nella sua auto il 16 ottobre 2017, potrebbe godere di una grazia presidenziale in cambio di informazioni vitali per ricostruire il caso e l’identità dei mandanti. A scriverlo sono alcuni media maltesi, fra cui Times of Malta e Malta Today. L’uomo, che avrebbe accettato quindi di diventare collaboratore di giustizia, sarebbe legato a un’associazione a delinquere dedita al riciclaggio di denaro sporco. Le condizioni per la sua grazia sono state oggetto di intense discussioni fra il ministro della Giustizia e il premier, Joseph Muscat, sempre secondo il Times of Malta.

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Il Politecnico di Hong Kong sotto assedio della polizia

Trenta studenti si sono arresi. All'interno ne restano oltre 100. La governatrice Lam: «Sono molto preoccupata, situazione pericolosa». Ma nega di voler chiedere aiuto all'esercito cinese.

Il Politecnico di Hong Kong, teatro di duri scontri tra polizia e manifestanti pro-democrazia nelle ultime ore, resta sotto l’assedio delle forze dell’ordine. Secondo il network pubblico Rthk, 30 studenti si sono arresi alla polizia intorno alle 10 del 19 novembre (le 3 in Italia). Quasi contestualmente, la governatrice Carrie Lam ha detto in conferenza stampa che oltre 100 persone erano ancora arroccate nel campus, mentre 600 erano andate via, tra cui 200 minori. Lam, pur dicendosi «molto preoccupata per la pericolosa situazione» all’interno del Politecnico, ha anche assicurato che non chiederà aiuto all’Esercito di liberazione popolare, le forze armate cinesi, fino a quando il suo governo e la polizia riusciranno a gestire le turbolenze nella città.

Nel frattempo, la polizia di Hong Kong in tenuta anti-sommossa ha disperso la “protesta della pausa pranzo“, che si ripeteva da lunedì 11 novembre a Central, il distretto finanziario e degli uffici della città. Il blitz delle forze dell’ordine è avvenuto a Pedder Street, dove la folla aveva iniziato a radunarsi verso le 13 (le 6 in Italia), cominciando a scandire slogan anti-governativi. Nei giorni scorsi, tuttavia, l’approccio era stato ben più morbido per evitare un confronto diretto anche a Des Voeux Road, nonostante le barricate spuntate a Connaught Road, vicino a Exchange Square. Il 12 novembre, gli agenti erano intervenuti a Pedder Street a 15 minuti dall’avvio del sit-in. Questa volta, invece, la polizia ha issato immediatamente la bandiera blu a segnalare la violazione della legge per una manifestazione non autorizzata, invitando la folla a disperdersi. Diversi partecipanti, muniti di maschere – ormai non più illegali -, hanno continuato per pochi minuti ancora la loro azione di protesta prima di andare via.

LA CINA CONTRO L’ALTA CORTE DI HONG KONG

Proprio sulla decisione dell’Alta Corte dell’ex colonia che ha giudicato l’incostituzionalità del divieto di indossare le maschere in pubblico, varato lo scorso mese per frenare le manifestazioni di massa, la Cina è intervenuta a gamba tesa: «Nessun’altra istituzione ha il diritto di giudicare o di prendere decisioni se non il Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo», ha commentato in una nota Zang Tiewei, portavoce della Commissione Affari legislativi.

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Cosa succede in Iran col black out sulle rivolte della benzina

Internet e telefoni bloccati. Decine di morti, secondo l’opposizione, nelle proteste contro il rincaro dei carburanti per le sanzioni di Trump. Rohani ammette: è la situazione più grave dal 1979. Ma resta d’accordo con la repressione. Il punto.

Nessuno, fuori dall’Iran, sa cosa accade in Iran. Le rivolte sono montate in tutte le città, all’impennata del costo della benzina: sono state bloccate strade e incendiate centinaia tra banche e negozi. Immagini delle devastazioni rimbalzavano sui social network, ma poi è calato il blocco di internet più massiccio in 40 anni di Repubblica islamica. Gli arrestati sarebbero migliaia, alcune decine di morti (due quelli ammessi dalle autorità), centinaia probabilmente i feriti nelle «proteste per il carburante». La Germania e la Francia invitano il regime a «rispettare le legittime manifestazioni e la libertà di espressione»: il messaggio cifrato sottende il ritorno anche da parte dell’Unione europea, in caso contrario, alle sanzioni economiche che hanno fatto riesplodere la pentola a pressione iraniana.

IRANIANI STROZZATI DA TRUMP

Da più di un anno c’è forte sofferenza per l’embargo totale di Donald Trump. Il presidente iraniano Hassan Rohani ha ammesso una «situazione difficile e complicata» come internamente non accadeva dalla rivoluzione nel 1979. Sui carburanti ha annunciato un piano di rincari nelle sovvenzioni, secondo il quale il prezzo calmierato (circa 11 centesimi di euro al litro per i primi 60 litri al mese) della benzina aumenterà del 50% a 15 mila rial, per i litri successivi del 300%. Lo scopo dichiarato è redistribuire i risparmi in sussidi per gli oltre due terzi di popolazione in difficoltà. Ma gli iraniani non gli credono: se e quando i risparmi saranno redistribuiti non varranno più nulla. Dal 2018 lo Stato fa i conti con un’inflazione al 40%, i risparmi di tante famiglie sono spariti.

Iran rivolte benzina petrolio sanzioni
Una banca incendiata in Iran nelle rivolte della benzina. (Twitter)

PEGGIO CHE NELLA GUERRA CON L’IRAQ

Anche per il Fondo monetario internazionale la crisi è peggiore che negli anni della lunga guerra tra l’Iran e l’Iraq (1980-1988). È un paradosso che la potenza dell’Opec, dove un altro maxi giacimento da 50 miliardi stimati di barili di petrolio è stato appena scoperto, non possa godere del suo oro nero. Ma in un anno l’export è crollato da circa 2 milioni e mezzo a un milione e mezzo di barili al giorno: resiste soprattutto verso Paesi asiatici amici come la Cina. Neanche l’Italia (fino ad aprile 2019 esentata con altri 8 Paesi dal blocco finanziario e commerciale Usa) può più acquistare greggio e altre merci: anche le società dei Paesi europei che continuano a rispettare l’accordo sul nucleare (Jcpoa) con l’Iran vengono colpiti dalle sanzioni secondarie americane.

Scontri con le forze dell’ordine sono stati ripresi anche nella città santa sciita di Mashhad

LA PARALISI CON L’OCCIDENTE

Il meccanismo finanziario alternativo creato dall’Ue per continuare a scambiare beni con l’Iran non funziona. Sebbene la Repubblica islamica cerchi di diversificare l’economia, riesce a esportare verso l’Occidente solo merci come lo zafferano, del quale è pressoché unica produttrice mondiale: un primato che porta le aziende del settore ad aggirare le multe. Per il resto è paralisi: il ceto medio iraniano non può permettersi spese extra, per i poveri la carne è un lusso, anche molti ricchi evitano gli spostamenti all’estero. Come negli anni bui della presidenza Ahmadinejad, la merce europea non si trova quasi più e gli affitti sono schizzati. Proteste a catena contro le banche erano esplose già due Natali fa in Iran, ma stavolta sono più violente e massicce.

LE CRITICHE CONTRO IL REGIME

Come nel Libano e nell’Iraq – dipendenti dall’Iran – la popolazione contesta anche il regime, chiede un cambiamento economico e politico. Scontri con le forze dell’ordine sono stati ripresi anche nella città santa sciita di Mashhad: sono in rivolta tanto la maggioranza sciita quanto le minoranze sunnite. Ad Ahvaz, nel Sud-Ovest arabo ricco di pozzi, le proteste si erano propagate qualche giorno prima dell’annuncio dei rincari, per la morte sospetta di un giovane poeta e attivista della minoranza. Poi l’annuncio sulla benzina è stata la miccia. Disordini sono esplosi anche all’università di Tabriz, nel Nord azero. Tra gli zoroastriani di Yazd e nella conservatrice Isfahan. Nella capitale sono state bloccate strade e attaccati benzinai e mezzi della polizia.

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Il presidente iraniano Hassan Rohani.

L’INTRANSIGENZA DEI PASDARAN

Diversi commercianti del Gran bazar di Teheran hanno chiuso i battenti. Ma per la Guida suprema Ali Khamenei sono solo «banditi manovrati dall’esterno»: la stessa spiegazione data dalla teocrazia alle mobilitazioni in piazza Tahrir a Baghdad e in piazza dei martiri a Beirut. Come in Iraq (oltre 200 civili morti dall’inizio di ottobre), in Iran sarebbero partiti dei colpi di arma da fuoco: un testimone, rimasto anonimo per ragioni di sicurezza, ha raccontato all’agenzia Reuters di aver «udito spari» ad Ahvaz. Decine di dimostranti sarebbero in ospedale in condizioni critiche nell’hinterland di Teheran. Come le loro forze sciite in Iraq e in Libano, i pasdaran iraniani minacciano «azioni decisive» per riportare l’ordine. La loro risposta è l’intransigenza.

INTERNET E CELLULARI BLOCCATI

La censura è totale, anche i siti delle agenzie ufficiali sono lenti o inaccessibili. Le reti di telefonia mobile sono bloccate: chi vive in zone di confine tenta di comunicare con le schede straniere. In vista delle Legislative di febbraio 2020, i politici dell’opposizione invitano governo e parlamento ad ascoltare i manifestanti. Rohani è incalzato, le forze – di sistema – che sono fuori dall’esecutivo cavalcano la rabbia popolare. Ma sarebbe stato lo stesso Rohani, a capo del Consiglio supremo di sicurezza, a dare l’ordine del black-out. Il presidente iraniano condanna le violenze, senza ascoltare le critiche della gente per i miliardi inviati dall’apparato di Difesa a Gaza, agli Assad in Siria, agli Hezbollah in Libano e alle milizie in Iraq. Ma è probabile che anche le sollevazioni nei Paesi satellite derivino dal gap economico e di democrazia esportato dall’Iran.

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Nuovo allarme Unicef: ogni giorno muoiono 15mila bambini

Il rapporto dell'agenzia traccia un bilancio della Convenzione per l'infanzia avviata 30 anni fa. Grandi passi avanti, ma la mortalità infantile resta alta.

Secondo il nuovo rapporto Unicef “Ogni diritto per ogni bambino – La Convenzione sui Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza a un punto di svolta”, da quando la stessa Convenzione è stata adottata 30 anni fa, sono stati raggiunti storici traguardi per tutti bambini del mondo, ma ancora molti tra i bambini più poveri devono sentirne gli impatti, come testimoniano i 15 mila morti registrati ogni giorno.

IN 30 ANNI TASSI DI MORTALITÀ RIDOTTI DEL 60%

Sui progressi nei diritti dei bambini degli ultimi 30 anni, il rapporto ha rilevato che: i tassi globali di mortalità dei bambini sotto i 5 anni sono diminuiti di circa il 60%; il numero di bambini in età da scuola primaria che non vanno a scuola è diminuito dal 18 all’8%; i principi guida della Convenzione: non discriminazione, superiore interesse dei bambini, diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo, il diritto alla protezione hanno influenzato numerose costituzioni, leggi, politiche e pratiche a livello globale.

NEL 2018 OGNI GIORNO MORTI 15 MILA BAMBINI

Tuttavia questi progressi non sono stati realizzati ugualmente nel mondo: a livello globale, più di un bambino su quattro vive in paesi colpiti da conflitti o disastri naturali; il numero di gravi violazioni verificate contro i bambini durante i conflitti si è quasi triplicato dal 2010; quasi 20 milioni di bambini sono a rischio di contrarre malattie prevenibili con i vaccini; si stima che per il 2040, in tutto il mondo, una persona su quattro sotto i 18 anni (circa 600 milioni) vivrà in aree soggette a stress idrico molto elevato; solo nel 2018, sono morti ogni giorno mediamente 15mila bambini sotto i 5 anni, principalmente a causa di malattie curabili o per altre cause prevedibili; nel 2018 sono stati registrati circa 350mila casi di morbillo, più del doppio rispetto al 2017.

ALLARME MALATTIE: 800 MORTI AL GIORNO PER DIARREA

Più di 800 bambini ogni giorno muoiono a causa di malattie diarroiche legate a un inadeguato approvvigionamento idrico e scarsità di servizi igienici e sanitari. Nel 2017, ultimo anno per il quale sono disponibili i dati, solo la malaria ha causato 266mila morti sotto i 5 anni. Nei paesi a basso e medio reddito, i bambini delle famiglie più povere hanno il doppio delle probabilità di morire per cause prevenibili prima dei 5 anni rispetto ai bambini di famiglie più ricche. Secondo gli ultimi dati disponibili, solo la metà dei bambini delle famiglie più povere i Africa Sub Sahariana sono vaccinati contro il morbillo, rispetto all’85% dei bambini delle famiglie più ricche.

ALLARME SULLA COPERTURA VACCINALE

Nonostante siano oggi vaccinati più bambini che mai, un rallentamento dei tassi di copertura vaccinale negli ultimi 10 anni sta minacciando di capovolgere i difficili traguardi raggiunti, si legge ancora nel dossier: la copertura vaccinale per il morbillo è agli stessi livelli dal 2010, contribuendo a una ricomparsa di questa malattia mortale in diversi paesi. Nel 2018 sono stati registrati circa 350mila casi di morbillo, più del doppio rispetto al 2017.

IL PESO DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO SULLA SICUREZZA DEL CLIMA

Il rapporto affronta anche le minacce vecchie e nuove che colpiscono i bambini nel mondo. Povertà, discriminazione e marginalizzazione continuano a lasciare milioni fra i bambini più svantaggiati a rischio: conflitti armati, crescente xenofobia e la crisi globale dei migranti e rifugiati hanno avuto un impatto devastante sui progressi global. I bambini sono fisicamente, fisiologicamente e dal punto di vista epidemiologico i più a rischio per gli impatti legati alla crisi del clima: il rapido cambiamento del clima sta diffondendo malattie, incrementando l’intensità e la frequenza di condizioni meteorologiche estreme e creando insicurezza alimentare e idrica.

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Sparatoria durante una festa a Fresno, in California: quattro morti

Uno o più uomini ha fatto irruzione in un giardino privato aprendo il fuoco sui presenti. Ancora ignoti i motivi del gesto. Killer ancora in fuga.

Almeno quattro persone sono morte e altre sei sono rimaste ferite a Fresno, in California, dove qualcuno in serata, forse più di un killer, è entrato in un giardino di casa dove era in corso un party privato e ha aperto il fuoco sulla gente, che stava guardando insieme una partita di football. Lo rendono noto i media statunitensi, fra cui il New York Times. Non è ancora chiaro il motivo del gesto, né chi siano gli autori dell’agguato. Alcuni dei feriti sono stati portati in ospedale in condizioni critiche.

Michael Reid, vicecapo della polizia di Fresno, ha spiegato che nel giardino privato erano radunate 35 persone quando i killer si sono introdotti aprendo il fuoco. I quattro morti – ha aggiunto il funzionario di polizia – sono tutti uomini fra i 25 e i 30 anni e non ci sono indicazioni sul fatto che chi ha sparato conoscesse le vittime. La polizia ha ricevuto numerose chiamate di vicini che hanno udito gli spari e all’arrivo di polizia e ambulanze tre delle vittime erano già decedute mentre una quarta è morta in seguito, in ospedale.

Nessuno ha visto i killer né ha descritto la presenza di veicoli sospetti nei paraggi. La polizia sta ora esaminando i filmati delle telecamere di sicurezza. «Il mio cuore è con le famiglie delle vittime di questa violenza insensata», ha detto Reid, aggiungendo che sarà fatto tutto il possibile per assicurare i responsabili alla giustizia.

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Le proteste a Hong Kong del 18 novembre 2019

Duri scontri intorno al Politecnico. Fallita la mediazione tra rettore e forze dell'ordine sono ripresi gli scontri intorno alla struttura. E intanto l'Alta corte giudica incostituzionale il bando delle maschere.

È altissima la tensione a Hong Kong, dove prosegue l’assedio al Politecnico occupato mentre altri manifestanti pro democrazia sono tornati a bloccare questa nella mattinata del 18 novembre la centralissima Nathan Road.

La polizia ha eseguito decine di arresti fuori dall’Hotel Icon, su Science Museum Road, nelle vicinanze del PolyU. Poco prima le 7:00 locali (mezzanotte in Italia), il rettore dell’ateneo Teng Jin-Guang ha reso noto di aver raggiunto una tregua con la polizia a patto che gli studenti fermassero gli attacchi. L’evacuazione pacifica è però saltata quando la polizia ha ripreso a lanciare i lacrimogeni, spingendo molti studenti a tornare indietro

Sui social media sono circolate le immagini degli studenti ammanettati e schierati in riga in attesa di essere portati via. Non è chiara la dinamica che ha portato alla rottura della tregua e al ritorno degli scontri, ma alcuni media locali hanno parlato di carenza di comunicazione tra gli agenti impegnati nell’assedio del campus, alcuni dei quali avrebbero reagito istintivamente alla vista dei manifestanti dopo i violentissimi scontri partiti il 17 e continuati nella notte, tra ripetuti (e falliti) tentativi di sfondamento.

STUDENTI RESPINTI DAI GAS LACRIMOGENI

Le drammatiche immagini delle tv hanno mostrato corposi gruppi di studenti lasciare il campus sulla Science Museum Road prima di essere rispediti indietro dai lacrimogeni della polizia. Scenari simili si sono ripetuti vicino ad Austin Road, con gli studenti in fase di evacuazione e costretti a rientrare per sfuggire agli effetti dei gas.

ALMENO 39 FERITI NEGLI SCONTRI

La battaglia tra manifestanti arroccati nel PolyU e la polizia ha registrato un totale di 38 feriti, di cui 5 in condizioni gravi, secondo il bilancio stilato dalla Hospital Authority. Sono invece 18 le persone segnalate in condizioni stabili, mentre sei sono state dimesse. Un totale di 24 persone, invece, sono state ricoverate tra la mezzanotte e le 7:30 del mattino locali, e tra questi c’è anche un uomo di 84 anni.

L’ALTA CORTE DICE “NO” AL BANDO DELLE MASCHERE

Mentre gli scontri imperversavano l’Alta Corte di Hong Kong ha dichiarato l’incostituzionalità del divieto dell’uso delle maschere introdotto lo scorso mese dalla governatrice Carrie Lam facendo leva sulla legislazione di emergenza, una norma che aveva suscitato violentissime polemiche. La sentenza dell’Alta Corte, ha riferito il network pubblico Rthk, stabilisce la «incompatibilità con la Basic Law», la Costituzione locale, ed è maturata a seguito del ricorso promosso da 24 parlamentari pan-democratici.

I GIUDICI: GOVERNO OLTRE LE SUE PREROGATIVE

L’Alta Corte ha sancito che il divieto dell’uso delle maschere nelle manifestazioni pubbliche, con la previsione del carcere fino a sei mesi in caso di trasgressione, sia incostituzionale perché è una restrizione dei diritti fondamentali delle persone spinta oltre il necessario. In altri termini, «eccede quello che è ragionevolmente necessario da ottenere puntando all’applicazione della legge, alle indagini e alla punizione dei dimostranti violenti». La normativa, varata in base ai poteri d’emergenza di una ordinanza del 1922, in pieno periodo coloniale, puntava nei piani del governo a scoraggiare l’adesione di massa alle manifestazioni pro-democrazia che stanno scuotendo l’ex colonia da giugno. La polizia aveva anche il potere di ordinare o di togliere direttamente le maschere in qualsiasi momento e luogo. Sui social media, una volta diffusasi la notizia, sono apparsi foto e video di persone che consegnano le maschere a chi che si preparano ai sit-in di protesta in Central.

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Cosa si nasconde dietro l’aumento dei suicidi a Hong Kong

Molti giovani non sopportano la pressione psicologica dovuta alle violenze. Il sospetto però è che in alcuni casi si tratti di omicidi mascherati. Il punto.

da Hong Kong

Niko Cheng era pronta a morire in agosto, a 22 anni. Da mesi non frequentava più le lezioni alla scuola da infermiera e ormai aveva preso la sua decisione. Cheng era particolarmente conosciuta nel movimento e faceva parte del gruppo soprannominato I Combattenti, per il loro coraggio nel confrontarsi con la polizia di Hong Kong. La data era decisa: il 31 del mese. Esausta e stanca dopo mesi di proteste, Cheng in un primo tempo aveva preso in considerazione l’idea di lanciarsi contro la polizia e costringerla a spararle.

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«Non avevo alcuna motivazione a fare qualsiasi cosa. Ho solo pensato che fosse tutto inutile, insignificante», ha raccontato. Poi ha incontrato altri giovani compagni che l’hanno convinta a desistere e ha anche trovato l’aiuto di una Ong che si occupa del contrasto al suicidio nell’ex colonia britannica, e ce l’ha fatta. «Allora che ho capito che dovevo riprendermi la mia vita, una vita normale».

L’AUMENTO DEI SUICIDI CON L’INIZIO DELLE PROTESTE

Ma per una storia a lieto fine, come quella dell’aspirante infermiera, ce ne sono molte altre per le quali nessuno ha potuto evitare l’epilogo più tragico. Mentre infatti continuano le proteste, gli esperti di salute pubblica affermano è in corso anche un’altra battaglia più silente ma in qualche modo più pericolosa delle violenze di piazza: quella che da soli combattono sempre più residenti che mostrano segni di depressione, ansia e stress acuto. Dall’inizio delle proteste, a metà dello scorso giugno, il numero di suicidi denunciati è aumentato vertiginosamente. Nei due mesi successivi la media era di circa 10 ogni 10 giorni. Dal 21 al 31 agosto, il numero è salito improvvisamente a 18. E nei 10 giorni successivi si è arrivati a 49. Il bilancio, aggiornato a fine ottobre, parla di oltre 100 casi. E molte vittime sono giovani manifestanti.

Manifestanti per la democrazia in corteo nella ex colonia britannica.

DEPRESSIONE E ANSIA: L’EPIDEMIA DI HONG KONG

Esperti di sanità pubblica affermano che i manifestanti, molti anche più giovani di Cheng, non sarebbero attrezzati per affrontare l’esposizione alla violenza spinta così all’estremo. «Alcuni di loro sono molto giovani, molto ingenui. Si buttano a capofitto», ha dichiarato Yip Siu Fai, direttore del Center of Suicide Research and Prevention di Hong Kong. «Potrebbero non essere sufficientemente maturi dal punto di vista psicologico. Per loro, i danni potrebbero essere molto gravi. E per i più deboli tra loro, addirittura irreversibili». Ma non sono solo i manifestanti a essere a rischio. Uno studio dell’Università di Hong Kong pubblicato di recente, ha rilevato che un’abitante su 10 soffre di depressione, con un aumento dei pensieri suicidari esponenziale rispetto al passato.

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UNA PRESSIONE PSICOLOGICA DIFFICILMENTE GESTIBILE

Gabriel Leung, che ha guidato il team di ricercatori, ha spiegato che il disagio esistenziale non interessa soltanto chi partecipa alle proteste. Leung parla apertamente di un effetto di ricaduta a livello di comunità. Secondo lui, a Hong Kong siamo di fronte a una vera e propria «epidemia». «Tutta la società sta soffrendo», ha affermato Clarence Tsang, direttore esecutivo di Samaritan Befrienders Hong Kong, una Ong specializzata nella prevenzione del suicidio. «Questa situazione», ha dichiarato, «sta generando un’enorme pressione psicologica. Non è esagerato affermare che stia colpendo quasi l’intera popolazione».

Manifestanti a Hong Kong.

IL SOSPETTO È CHE SI TRATTI DI OMICIDI MASCHERATI

Ma c’è un aspetto ancora più inquietante, anzi terrificante, dietro questa ondata di suicidi: il sospetto che molti decessi siano in realtà degli omicidi mascherati da suicidi. Un fenomeno che pare essere aumentato drasticamente dopo l’irruzione della polizia alla stazione della metro di Prince Edward, il 31 agosto scorso. I testimoni raccontano di aggressioni volente da parte degli agenti. Secondo un dipendente delle pompe funebri ci sarebbero stati sei morti. Tutti con il collo rotto. La polizia dal canto suo ha sempre negato l’esistenza di vittime: l’ipotesi è che quei casi siamo stati poi fatti passare per suicidi.

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UNA LISTA DELL’ORRORE

La lista da allora si è drammaticamente allungata. Il 10 ottobre un uomo è precipitato da un grattacielo nella zona di Sha Tin. Il coroner, sulla base delle analisi post-mortem, ha però dichiarato che l’uomo era morto almeno due giorni prima di precipitare dal grattacielo. E non si tratterebbe di un caso isolato. Diverse vittime cadute da edifici alti non sanguinavano, e i cadaveri presentavano ferite pregresse. Una vittima che si presumeva fosse “affogata” è stata ripescata con le mani legate. Un’altra, il cui corpo è stato trovato fluttuante nella baia di Tsuen Wan, aveva la bocca chiusa e non risultava morta per annegamento poiché nei suoi polmoni non era stata ritrovata acqua. Infine c’è il caso più raccapricciante, quello di una donna, nuda, caduta da un grattacielo, ma il cui corpo sembra sia stato praticamente tagliato in due mentre era ancora in vita.

Un manifestante di Hong Kong dà fuoco a un cumulo di rifiuti.

STUPRI E VIOLENZE: LE DENUNCE DEI MANIFESTANTI

Secondo l’osservatorio sull’intelligenza Artificiale The AI Organization, attraverso software di riconoscimento facciale sviluppati da Pechino, la polizia identificherebbe i manifestanti. Una volta catturati sarebbero vittime di violenze e stupri. Una volta morti verrebbero inscenati suicidi. Un quadro che apre a scenari terribili, ma a sostegno del quale mancano finora prove certe.  Anche se aumentano le denunce. L’ultima è quella di una 18enne che ha raccontato di essere stata violentata a settembre da quattro uomini mascherati nella stazione di polizia di Tsuen Wan dopo essere stata trascinata all’interno mentre passeggiava in zona. La ragazza non aveva raccontato nulla alla famiglia ma a metà ottobre dopo aver scoperto di essere incinta ha deciso di abortire. Ora si attende che l’analisi del dna del feto possa confermare o smentire questa brutta storia. E forse scoperchiare un vaso di pandora pieno di orrori.

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Germania, la chiamata alle armi della delfina di Merkel

Le celebrazioni per il compleanno della Bundeswehr. Il riarmo. Il pressing sul parlamento per più missioni all’estero. Un Consiglio nazionale di sicurezza. Così Kramp-Karrenbauer strizza l'occhio al militarismo.

Giusto qualche anno fa, nel 2015, l’esercito della Germania faceva notizia per imbracciare manici di scopa tinti di nero al posto dei fucili nelle esercitazioni della Nato, tanto era sguarnito. Per i training, al posto dei blindati si usavano alla bisogna dei furgoni Mercedes. Lo sgomento era così forte che qualcuno, tra i graduati, cominciò a inviare rapporti riservati a riguardo alla tivù pubblica tedesca (Ard). Un vento radicalmente cambiato dall’arrivo Annegret Kramp-Karrenbauer in capo alla Difesa, o quantomeno la delfina di Angela Merkel vorrebbe che cambiasse al più presto: per i 64 anni dalla nascita, il 12 novembre del 1955, della Bundeswehr ha dato ordine a tutti i governatori di festeggiare il «compleanno dell’esercito con parate di giuramento in tutti i Land». «All’aperto», senza vergogna, guai a ripararsi dentro le caserme.

LA PARATA A BERLINO

A Berlino il giuramento di 400 reclute è andato in scena ieratico nel grande campo davanti al Reichstag. Una cerimonia del genere, davanti alla scritta Dem deutschen Volke («al popolo tedesco») all’ingresso del parlamento, non avveniva dal 2013. E comunque mai si era cercata tanta enfasi: Ursula von der Leyen, prima alla Difesa, aveva tolto i giuramenti pubblici, avviando l’indispensabile dietro le quinte del riarmo delle truppe con una scia di inevitabili polemiche. Il passato dei Reich restava pesante: anche durante la Guerra fredda, quando la militarizzazione divenne d’obbligo per la Germania Ovest, le cerimonie militari avvenivano a testa bassa, in sordina. E dagli Anni 90, mezzi e uomini della Bundeswehr si erano assottigliati: si preferì approfittare della pax europea, anche con un esercito rinforzato delle truppe dell’Est.

INTERVENTISTA IN SIRIA

Per Kramp-Karrenbauer, Akk come la chiamano i tedeschi, è tempo di essere orgogliosi dei propri soldati, «parte e presidio della società democratica». Ed è tempo anche, ha spronato espressa sempre Akk il parlamento, che i soldati tedeschi siano più presenti nel mondo; che la Germania, con o senza la Nato, prenda l’iniziativa. Le uscite così ravvicinate sul riarmo e il piglio – molto diverso da quello di Von der Leyen – hanno valso rapidamente alla nuova titolare della Difesa la reputazione di militarista: soprattutto la proposta unilaterale di qualche settimana fa, senza consultare o informare neppure il collega degli Esteri, di una forza di peacekeeping europea in Siria, al posto degli americani, ha scatenato un’ondata di reazioni critiche. Nel governo, in parlamento e tra la popolazione tedesca. Anche le parate del 12 novembre sono state contestate da gruppi di pacifisti.

AKK È MILITARISTA?

Come la nuova presidente della Commissione Ue, Kramp-Karrenbauer è cresciuta sotto l’ala di Merkel. Entrambe devono l’ascesa alla cancelliera. Ma Akk è più a destra di Merkel e di Von der Leyen: integralista nell’etica, e sovranista in politica. Come primo provvedimento alla Difesa ha bloccato la privatizzazione, nella riorganizzazione disposta da Von der Leyen, del gruppo statale che mantiene e ripara i mezzi dell’esercito. Kramp-Karrenbauer si è anche posta da subito più vicino alle truppe: non potendo chiedere un ritorno alla leva obbligatoria, si è rammaricata che «della disaffezione alle forze armate dal suo abbandono». Ma se sulla Siria Akk ha fatto infuriare il titolare degli Esteri, il socialdemocratico (Spd) Heiko Maas, e diversi altri, dalle cerimonie per l’anniversario della Bundeswehr si è dissociata solo la sinistra radicale della Linke.

Germania riarmo Difesa Bundeswehr
AKK tra le truppe della Bundeswehr, Germania. GETTY.

IL CAMBIO DI MENTALITÀ

Si commenta che da tanto tempo i militari non erano così presenti in Germania. E non è per forza un male. Sul giuramento anche i Verdi, come i socialdemocratici, danno ragione ad Akk. La percezione della Bundeswehr, nata a Bonn con un centinaio di volontari nel 1955, è sempre meno distorta dallo spettro della Wehrmacht, soprattutto tra i giovani. Nel 1980, quando per la prima volta si tenne un giuramento delle forze armate in uno stadio, a Brema, esplosero proteste con centinaia di feriti. Ancora nel 2010 un capo dello Stato dovette dimettersi per aver affermato, come fece l’imprudente Horst Köhler (Cdu) probabilmente più da ex capo del Fondo monetario internazionale (Fmi), che un «Paese grande come la Germania avrebbe dovuto difendere i propri interessi anche commerciali, nell’emergenza, anche attraverso interventi militari».

IL CONSIGLIO DI SICUREZZA

Per Köhler si parlò di «politica da cannoniere». Come quella italiana, la Costituzione tedesca vieta azioni offensive, tanto più guerre commerciali, alle forze armate. E ogni intervento militare a scopo difensivo deve essere richiesto dal parlamento. Con Kramp-Karrenbauer si inizia a chiamare la «Germania poliziotto del mondo» e si torna a invocare il dettato costituzionale. Ma non scatta più tanta veemenza, e non se ne chiedono le dimissioni. La proposta di Akk di istituire un Consiglio nazionale di sicurezza di coordinamento tra gli apparati militari e dei ministeri dell’Economia, dell’Interno e dello Sviluppo è stata anzi apprezzata dai vertici diplomatici e dello stato maggiore. Chiusa la parata, la ministra ha annunciato il potenziamento delle forze armate con «nuovi equipaggiamenti e nuovi militari» entro il 2031. Lo chiede la Nato, ma non solo.

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