Arrivando il presidente dimissionario ha annunciato l'intenzione di voler «continuare la lotta per fare in modo che tutti i popoli del mondo abbiano tutto il diritto di liberarsi».
Il presidente dimissionario della BoliviaEvo Morales è arrivato in Messico. Lo si apprende dalla stampa locale, secondo la quale il suo aereo è appena atterrato. L’ex presidente, ha scritto la Bbc, ha spiegato di aver chiesto asilo in Messico preoccupato della propria incolumità.
Appena atterrato in Messico, l’ex presidente ha rilanciato la lotta: «È necessario continuare la lotta e siamo sicuri che i popoli del mondo abbiano tutto il diritto di liberarsi e porre fine all’oppressione, ma ci sono comunque dei gruppi che non rispettano la vita né tantomeno la patria. E questo farà parte della lotta ideologica culturale e sociale che porteremo avanti».
In Bolivia intanto la senatrice Jeanine Anez, considerata probabile presidente ad interim in base a quanto indicato dalla successione costituzionale, ha confermato che si terrà una sessione straordinaria del parlamento per designare il successore di Morales.
RESTA L’INCOGNITA DEL QUORUM
«Non ci può più essere un malgoverno», ha detto Anez, affermando che si stanno compiendo sforzi per fare in modo che giungano a La Paz «quei senatori o deputati che per qualche motivo non sono stati in grado di arrivare». La senatrice ha anche dichiarato alla stampa boliviana che ha fiducia che sarà raggiunto il quorum necessario per realizzare la sessione, sebbene il partito Movimento per il socialismo (Mas) di Morales abbia una maggioranza in entrambe le camere dei parlamento.
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Gli attacchi ai pozzi a terra e il sequestro delle navi cisterna sono costati al governo un miliardo in un anno. Centinaia di assalti come quello all'italiana Remas. Il presidente Obrador schiera la Marina.
Il Messico, stretto nella tenaglia della guerra tra i cartelli narco che causa migliaia di morti ogni anno, è alle prese da diversi anni con un nuova emergenza criminalità: la pirateria del petrolio, che costa allo Stato quasi un miliardo di dollari l’anno. Il presidente Andrés Manuel López Obrador ha lanciato a inizio 2019 una campagna contro le bande di trafficanti che nell’entroterra perforano gli oleodotti per prelevare carburante da rivendere clandestinamente e al largo attaccano piattaforme, navi cisterna o di rifornimento offshore, come la Remas assaltata oggi.
OLTRE 300 ASSALTI IN UN ANNO: IL MESSICO SCHIERA LA MARINA
Nelle acque del Golfo del Messico il governo ha schierato le navi della Marina, dopo un anno record, il 2018, in cui gli attacchi dei pirati sono cresciuti vertiginosamente del 310%. Da allora, le navi messicane hanno registrato oltre 300 assalti, per rubare il carburante ma anche macchinari e altri equipaggiamenti che valgono una fortuna sul mercato nero, dai pezzi di motori all’alluminio. Questi pirati moderni si travestono da pescatori, oppure da agenti messicani, e riescono a sfuggire ai controlli dei pattugliatori e degli elicotteri. Il fenomeno si sta rapidamente diffondendo e ai pirati non basta più l’oro nero, tanto che non sono mancati i casi di furti di contante negli assalti sulle piattaforme.
A SETTEMBRE PRESI DI MIRA DEI TURISTI
Lo scorso aprile un equipaggio di sei persone di un impianto off-shore è stato sequestrato per ore mentre i pirati davano la caccia a qualsiasi cosa di valore, mentre lo scorso settembre sono stati presi di mira i primi turisti. Le barche vengono abbordate, gli ospiti minacciati con le armi e depredati, come mostra il video girato fortunosamente da uno dei turisti con il proprio telefono divenuto virale nel Paese.
TORNANO ANCHE I PIRATI DEI CARAIBI
Ma non è solo il Messico a patire l’emergenza: i pirati sono rispuntati anche nel Mar dei Caraibi. Qui non è il petrolio l’obiettivo ma soprattutto gli yacht di lusso. Gli attacchi, 71 solo lo scorso anno, avvengono soprattutto davanti alle coste del Venezuela, sguarnite dalla crisi politica nel Paese. In un attacco del 2016 venne ucciso un cittadino tedesco, il suo yacht gravemente danneggiato. I pirati, a volto coperto e armati fino ai denti, assaltarono l’imbarcazione ancorata nella Baia di St Vincent a Wallilabou. La stessa baia dove, ironia della sorte, venne girato Pirati dei Caraibi, che ormai da quelle parti non è più solo il titolo di un film.
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Dal 1990 compariva nella lista delle 25 specie perdute più ricercate. Grande come un coniglio e dotato di due piccole zanne, la sua prima descrizione risale ai primi del Novecento.
I minuscoli zoccoli che saltellano tra i sassi, il naso appuntito che rovista tra le foglie a terra e poi gli occhi neri che per qualche istante fissano con curiosità la telecamera: ecco le immagini che mettono fine alla trentennale ‘latitanza’ del Tragulo del Vietnam. Si tratta di un rarissimo topo-cervo dalla pelliccia argentata: grande quanto un coniglio e dotato di due piccole zanne, aveva fatto perdere le sue tracce dal 1990, tanto da finire nella lista delle 25 specie perdute più ricercate.
RACCOLTE 2 MILA FOTO IN CINQUE MESI
La sua riscoperta è annunciata su Nature ecology and evolution dai ricercatori di Global wildlife conservation (Usa), Southern institute of ecology (Vietnam) e Leibniz institute for zoo and wildlife research (Germania). Grazie alle loro videotrappole, sono quasi 2 mila le foto dell’animale raccolte in cinque mesi.
LA PRIMA DESCRIZIONE RISALE AL 1910
Timido e solitario, il Tragulo del Vietnam è il più piccolo animale ungulato al mondo. Venne descritto per la prima volta nel 1910, studiando quattro esemplari catturati nel Sud del Paese. Un quinto animale venne trovato da una spedizione russa nel 1990, ma questo non ha permesso di raccogliere informazioni sufficienti per ricostruire l’ecologia e valutare lo stato di conservazione della specie. «Per anni è sembrato che questa specie esistesse solo nella nostra immaginazione», commenta il capo della spedizione, An Nguyen. «Scoprire che in realtà è ancora là fuori è il primo passo per assicurarci di non perderlo di vista un’altra volta: per questo ci stiamo muovendo rapidamente per capire come proteggerlo al meglio».
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I giudici di Lussemburgo hanno stabilito in una sentenza che gli alimenti originari da insediamenti israeliani in Cisgiordania devono recare l'indicazione «di tale provenienza».
L‘etichetta che indichi se i prodotti vengono dai Territori palestinesi occupati da Israele e dalle colonie che Tel Aviv ha creato in Cisgiordania. La corte di Giustizia Ue del Lussemburgo ha stabilito infatti in una sentenza che gli alimenti originari dei territori occupati dallo Stato di Israele «devono recare l’indicazione del loro territorio di origine accompagnata, nel caso in cui provengano da un insediamento israeliano all’interno di detto territorio, dall’indicazione di tale provenienza».
RISCHIO È TRARRE IN INGANNO I CONSUMATORI
La Corte ha scritto che «il Paese di origine o il luogo di provenienza di un alimento deve essere indicato qualora l’omissione di una simile indicazione possa indurre in errore i consumatori, facendo pensare loro che tale alimento abbia un paese di origine o un luogo di provenienza diverso dal suo paese di origine o dal suo luogo di provenienza reale». L’indicazione, in sostanza, «non deve essere ingannevole».
«I TERRITORI HANNO DIVERSO STATUS»
I giudici, secondo una nota diffusa dalla stessa corte, hanno precisato che «il fatto di apporre su alcuni alimenti l’indicazione secondo cui lo Stato di Israele è il loro ‘paese d’origine’, mentre tali alimenti sono in realtà originari di territori che dispongono ciascuno di uno statuto internazionale proprio e distinto da quello di tale Stato, che sono occupati da quest’ultimo e soggetti a una sua giurisdizione limitata, in quanto potenza occupante ai sensi del diritto internazionale umanitario, rientrerebbe nella fattispecie delle indicazioni ingannevoli. O, secondo le parole della Corte, trarrebbe «in inganno» i consumatori europei.
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Ucciso nella notte dalle forze israeliane Bahaa Abu al-Ata. Tel Aviv: «Era pronto a compiere attentati». Immediata la risposta: «Avete oltrepassato ogni linea rossa». Decine di razzi dalla Striscia.
La Striscia di Gaza torna ad infiammarsi. Nella notte del 12 novembre è stato ucciso Bahaa Abu al-Ata, capo militare della Jihad islamica palestinese. «La sua abitazione è stata attaccata in una operazione congiunta delle nostre forze armate e dei servizi segreti», ha annunciato un comunicato militare di Israele. L’emittente ha aggiunto che la stessa Jihad islamica ha confermato la sua morte. Nella zona è stato subito elevato lo stato di allerta, mentre le sirene di allarme hanno iniziato a suonare in una vasta aerea del Sud di Israele, ad Ashdod e Ghedera fino a Tel Aviv.
Israele ha oltrepassato tutte le linee rosse. Reagiremo con forza
Ziad Nahale, leader politico della Jihad islamica
Centinaia di migliaia di persone hanno avuto ordine di restare nelle immediate vicinanze di rifugi e di stanze protette nei loro appartamenti. Nella prima mattina, decine di razzi sono stati sparati da Gaza verso Israele, secondo prime stime ufficiose. «Stiamo ancora contando il loro numero preciso», ha detto una fonte militare in risposta alla domanda di un giornalista. «La nostra reazione farà tremare l’entità sionista», ha detto il leader politico della Jihad islamica, Ziad Nahale. «Israele ha oltrepassato tutte le linee rosse. Reagiremo con forza».
ISRAELE: ABU AL-ATA ERA PRONTO A COMPIERE ATTENTATI
Abu al-Ata era responsabile della maggior parte delle attività militari della Jihad islamica a Gaza, ha affermato il portavoce israeliano, ed era «come una bomba ad orologeria», perché si accingeva a compiere attentati terroristici. «Aveva addestrato commando che dovevano infiltrarsi in Israele ed attacchi di tiratori scelti, nonché lanci di droni e lanci di razzi in profondità». Nell’anno passato, secondo il portavoce militare, è stato responsabile della maggior parte degli attacchi giunti dalla striscia di Gaza e di ripetuti lanci di razzi. La sua uccisione, ha precisato il portavoce, «è stata decisa per sventare una minaccia immediata» ed è stata ordinata da Benjamin Netanyahu nella sua qualità di premier e ministro della Difesa, un incarico – quest’ultimo – che proprio il 12 novembre si accinge a passare a Naftali Bennett, leader del partito nazionalista ‘Nuova destra’.
RIUNITI I COMANDANTI DELLE FAZIONI ARMATE DI GAZA
A Gaza, dai minareti delle moschee sono rilanciate invocazioni alla vendetta. Hamas ha pubblicato un messaggio di cordoglio in cui rende onore alla figura del «combattente» Abu al-Ata. Su ordine delle autorità locali, tutti gli istituti scolastici nella striscia restano chiusi. In mattinata i comandanti delle varie fazioni armate di Gaza si riuniscono in una apposita sala di comando congiunta per stabilire la linea di condotta di fronte all’attacco israeliano.
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Il 12 novembre 2013 un attentato in Iraq fece 19 morti italiani. Tra cui il funzionario della Farnesina. La moglie Carla racconta quella strage: «Mi crollò tutto. Mio marito era lì per un mondo di uguaglianza. E ora con la sua associazione proseguiamo la missione». L'intervista.
Nassiriya, Iraq. Il 12 novembre del 2003, alle ore 10.40 locali, un kamikaze al volante lanciò a tutta velocità un’autocisterna imbottita con 4 mila chili di tritolo contro la base “Maestrale” dei carabinieri. Il boato si avvertì a oltre 10 chilometri di distanza. Esplose anche il deposito di munizioni. Quando cadde a terra la polvere sollevata dalle macerie comparve solo distruzione, carcasse annerite di mezzi militari, un edificio sventrato e un cratere enorme. La “Ground zero” dell’Italia fece 28 morti, di cui 19 italiani, e fra questi due civili: il regista Stefano Rolla e Marco Beci, funzionario della Farnesina per la Cooperazione allo sviluppo.
«SI TROVAVA LÌ PER CASO»
Beci aveva 43 anni e tre figli, di cui l’ultima piccolissima, che lo aspettavano a casa. Era di Pergola, nel Pesarese. Carla Baronciani, sua moglie, dopo 16 anni da quella strage racconta a Lettera43.it: «Si trovava lì per caso. Era in una missione esplorativa. Doveva trovare un luogo adatto per aprire un ufficio governativo in rappresentanza della Farnesina. Aveva individuato la sede per l’ufficio con cui avrebbe gestito per conto del ministero degli Esteri i progetti per la ricostruzione dell’ospedale e dell’acquedotto. L’ultima volta che l’ho sentito è stato il giorno prima dell’attacco: l’11 novembre. Era sereno e tranquillo».
MISSIONI TRA AFRICA E BALCANI
Marco Beci nacque nel 1960. Una laurea in Scienze politiche e alle spalle lunghi anni di lavoro in Africa, nell’ambasciata in Etiopia, in Somalia, in Kenia, nell’ex Jugoslavia e in Kosovo. Nel 1995 entrò alla Farnesina come funzionario e poco dopo dalla Bosnia portò in Italia due bimbi mutilati dalle bombe, Sanja e Aladin, per garantire loro le giuste cure a Budrio. In Africa salvò Goitom, il suo autista eritreo “accerchiato” dal conflitto armato. Poi l’Iraq. L’ultima fermata.
DOMANDA. Signora Carla, chi era suo marito? RISPOSTA. Un uomo in trincea che ha fatto della cooperazione internazionale uno stile di vita. Per lui non era un lavoro, ma una missione dell’anima. Credeva in un mondo diverso, fatto di amore e di uguaglianza. Per questo era a Nassiriya, come in Etiopia o nei Balcani. Se lo dico sembro di parte. Invece era proprio così: un grande uomo.
Cosa si ricorda di quel giorno? Ero a casa, con la piccola Maria Ludovica, mentre Giacomo e Vittoia erano a scuola. Mia madre mi chiamò verso mezzogiorno e mi disse: «Accendi la televisione. È successo qualcosa dove si trova Marco». Vidi le immagini confuse. Caserma. Fumo. Disastro. Ero frastornata. Poi mi tranquillizzai pensando che lo avevo sentito il giorno prima ed era sereno. Passarono le ore. Arrivò un primo bilancio della strage. Quando sentii che erano coinvolti due civili, chiamai l’unità di crisi della Farnesina.
E poi? Ho iniziato a tempestarli di chiamate. Mi dicevano sempre di stare tranquilla, che mi avrebbero fatto sapere loro, appena avrebbero saputo il nome delle vittime. Il tempo passava ed ero sempre più terrorizzata. Verso le otto di sera, mentre Mentana faceva il nome di mio marito in tivù, i carabinieri di Pergola hanno bussato alla porta: un urlo di disperazione. Il mondo e la mia vita in pezzi in un istante con tre figli da crescere da sola.
Ora i suoi figli sono grandi. Sì. Maria Ludovica è al quarto anno di liceo in America. Vittoria è una web designer e Giacomo sta facendo la specialistica per diventare medico infettivologo delle malattie tropicali. Sta seguendo le orme del padre. Ho tre figli d’oro. Marco mi diceva: «Mi raccomando, ai nostri figli non deve mancare nulla. Tanto amore e un futuro migliore». Sto cercando di rispettare quella promessa. Mi sono rimboccata le maniche. Ho fatto lavori umili e ho cercato di trasmettere amore e rispetto ai miei figli.
Lei volutamente non si è costituita parte civile al processo. Perché? Rispetto la decisione degli altri familiari delle vittime. Ma ho agito da mamma. Che voleva far crescere i suoi figli nella totale serenità. Andare alla ricerca spasmodica di un colpevole o dei colpevoli non mi avrebbe restituito Marco. E sarebbe stata la negazione di quei valori in cui lui credeva e che donava agli altri: amore, serenità, libertà. E
posso dirle una cosa?
Certo. La gioia più grande, oltre ai miei figli, è stata quando Aladin, il ragazzo salvato da mio marito, ci ha invitato al suo matrimonio in Bosnia. Un tuffo al cuore. Marco è sempre con noi. Ma in quel momento ero felicissima perché ho visto ciò che aveva fatto per gli altri. Credeva in un mondo pieno di amore.
Lei ha creato l’associazione “Marco Beci”. Di cosa si occupa? È una no profit, intitolata a mio marito che senza clamore e nel silenzio cerca di aiutare gli altri. La missione d’umanità continua, anche se lui non c’è più. Abbiamo aperto una scuola in Congo. Aiutato bimbi cardiopatici in Iraq. Oppure semplicemente paghiamo le bollette di chi è in difficoltà. Diamo una mano a chi ne ha bisogno. Estero, Italia o nelle Marche, dove sia non importa. La missione di Marco in questo modo continua. E nessuno lo dimenticherà.
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Il 12 novembre 2013 un attentato in Iraq fece 19 morti italiani. Tra cui il funzionario della Farnesina. La moglie Carla racconta quella strage: «Mi crollò tutto. Mio marito era lì per un mondo di uguaglianza. E ora con la sua associazione proseguiamo la missione». L'intervista.
Nassiriya, Iraq. Il 12 novembre del 2003, alle ore 10.40 locali, un kamikaze al volante lanciò a tutta velocità un’autocisterna imbottita con 4 mila chili di tritolo contro la base “Maestrale” dei carabinieri. Il boato si avvertì a oltre 10 chilometri di distanza. Esplose anche il deposito di munizioni. Quando cadde a terra la polvere sollevata dalle macerie comparve solo distruzione, carcasse annerite di mezzi militari, un edificio sventrato e un cratere enorme. La “Ground zero” dell’Italia fece 28 morti, di cui 19 italiani, e fra questi due civili: il regista Stefano Rolla e Marco Beci, funzionario della Farnesina per la Cooperazione allo sviluppo.
«SI TROVAVA LÌ PER CASO»
Beci aveva 43 anni e tre figli, di cui l’ultima piccolissima, che lo aspettavano a casa. Era di Pergola, nel Pesarese. Carla Baronciani, sua moglie, dopo 16 anni da quella strage racconta a Lettera43.it: «Si trovava lì per caso. Era in una missione esplorativa. Doveva trovare un luogo adatto per aprire un ufficio governativo in rappresentanza della Farnesina. Aveva individuato la sede per l’ufficio con cui avrebbe gestito per conto del ministero degli Esteri i progetti per la ricostruzione dell’ospedale e dell’acquedotto. L’ultima volta che l’ho sentito è stato il giorno prima dell’attacco: l’11 novembre. Era sereno e tranquillo».
MISSIONI TRA AFRICA E BALCANI
Marco Beci nacque nel 1960. Una laurea in Scienze politiche e alle spalle lunghi anni di lavoro in Africa, nell’ambasciata in Etiopia, in Somalia, in Kenia, nell’ex Jugoslavia e in Kosovo. Nel 1995 entrò alla Farnesina come funzionario e poco dopo dalla Bosnia portò in Italia due bimbi mutilati dalle bombe, Sanja e Aladin, per garantire loro le giuste cure a Budrio. In Africa salvò Goitom, il suo autista eritreo “accerchiato” dal conflitto armato. Poi l’Iraq. L’ultima fermata.
DOMANDA. Signora Carla, chi era suo marito? RISPOSTA. Un uomo in trincea che ha fatto della cooperazione internazionale uno stile di vita. Per lui non era un lavoro, ma una missione dell’anima. Credeva in un mondo diverso, fatto di amore e di uguaglianza. Per questo era a Nassiriya, come in Etiopia o nei Balcani. Se lo dico sembro di parte. Invece era proprio così: un grande uomo.
Cosa si ricorda di quel giorno? Ero a casa, con la piccola Maria Ludovica, mentre Giacomo e Vittoia erano a scuola. Mia madre mi chiamò verso mezzogiorno e mi disse: «Accendi la televisione. È successo qualcosa dove si trova Marco». Vidi le immagini confuse. Caserma. Fumo. Disastro. Ero frastornata. Poi mi tranquillizzai pensando che lo avevo sentito il giorno prima ed era sereno. Passarono le ore. Arrivò un primo bilancio della strage. Quando sentii che erano coinvolti due civili, chiamai l’unità di crisi della Farnesina.
E poi? Ho iniziato a tempestarli di chiamate. Mi dicevano sempre di stare tranquilla, che mi avrebbero fatto sapere loro, appena avrebbero saputo il nome delle vittime. Il tempo passava ed ero sempre più terrorizzata. Verso le otto di sera, mentre Mentana faceva il nome di mio marito in tivù, i carabinieri di Pergola hanno bussato alla porta: un urlo di disperazione. Il mondo e la mia vita in pezzi in un istante con tre figli da crescere da sola.
Ora i suoi figli sono grandi. Sì. Maria Ludovica è al quarto anno di liceo in America. Vittoria è una web designer e Giacomo sta facendo la specialistica per diventare medico infettivologo delle malattie tropicali. Sta seguendo le orme del padre. Ho tre figli d’oro. Marco mi diceva: «Mi raccomando, ai nostri figli non deve mancare nulla. Tanto amore e un futuro migliore». Sto cercando di rispettare quella promessa. Mi sono rimboccata le maniche. Ho fatto lavori umili e ho cercato di trasmettere amore e rispetto ai miei figli.
Lei volutamente non si è costituita parte civile al processo. Perché? Rispetto la decisione degli altri familiari delle vittime. Ma ho agito da mamma. Che voleva far crescere i suoi figli nella totale serenità. Andare alla ricerca spasmodica di un colpevole o dei colpevoli non mi avrebbe restituito Marco. E sarebbe stata la negazione di quei valori in cui lui credeva e che donava agli altri: amore, serenità, libertà. E
posso dirle una cosa?
Certo. La gioia più grande, oltre ai miei figli, è stata quando Aladin, il ragazzo salvato da mio marito, ci ha invitato al suo matrimonio in Bosnia. Un tuffo al cuore. Marco è sempre con noi. Ma in quel momento ero felicissima perché ho visto ciò che aveva fatto per gli altri. Credeva in un mondo pieno di amore.
Lei ha creato l’associazione “Marco Beci”. Di cosa si occupa? È una no profit, intitolata a mio marito che senza clamore e nel silenzio cerca di aiutare gli altri. La missione d’umanità continua, anche se lui non c’è più. Abbiamo aperto una scuola in Congo. Aiutato bimbi cardiopatici in Iraq. Oppure semplicemente paghiamo le bollette di chi è in difficoltà. Diamo una mano a chi ne ha bisogno. Estero, Italia o nelle Marche, dove sia non importa. La missione di Marco in questo modo continua. E nessuno lo dimenticherà.
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Il presidente dimissionario della Bolivia vittima di un colpo di Stato. Trump esulta per la sua uscita di scena: «Un grande momento per la democrazia».
Il Messico ha annunciato di aver concesso asilo politico al presidente dimissionario della Bolivia, Evo Morales. L’annuncio è stato fatto dal ministro degli Esteri, Marcelo Ebrard. Morales, deposto alla vigilia di quello che molti considerano un colpo di Stato, aveva formalizzato la richiesta nelle scorse ore al governo messicano.
Era stato lo stesso governo messicano a offrire rifugio a Morales, dopo aver accolto nei suoi uffici di La Paz una ventina di personalità dell’esecutivo e del parlamento boliviano. «Difendiamo le libertà e chiediamo il rispetto dell’ordine costituzionale e della democrazia in Bolivia», ha twittato il ministro messicano Ebrard, secondo cui «il golpe rappresenta un passo indietro per tutto il continente».
TRUMP ESULTA E TIRA IN BALLO VENEZUELA E NICARAGUA
Il presidente del Messico, Andres Manuel Lopez Obrador, ha sottolineato la «decisione responsabile» del presidente boliviano di lasciare il suo incarico per evitare che il popolo fosse esposto alla violenza. Mentre il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha definito l’uscita di scena del leader della Bolivia un «momento significativo per la democrazia» e un «segnale forte anche ai regimi illegittimi di Venezuela e Nicaragua».
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I militari feriti erano parte di un contingente ristretto altamente selezionato. In missione per il training e l'assistenza ad azioni antiterrorismo non convenzionali. Cosa c'è dietro le operazioni contro i talebani e l'Isis e l'impenetrabilità sui loro ingaggi.
La Task force 44 degli incursori della marina (Goi) e dell’esercito (Col Moschin) colpita dall’attentato in Iraq rivendicato dall’Isisnell’area settentrionale tra le città di Kirkuk e Suleymania, è tra i contingenti italiani più enigmatici dell’estero. Al di là dell’incarico ufficiale di «mentoring e di training delle forze di sicurezza irachene impegnate nella lotta all’Isis», precisato nella nota della Difesa sull’accaduto, nulla si saprà nel dettaglio sulle operazioni affidate ai cinque italiani feriti nel Nord dell’Iraq il 10 novembre 2019. Fino a che punto in particolare l’assistenza ai militari del Paese, iracheni e curdi, si spinga a interventi sul campo e di che natura sia questa assistenza, è no comment.
NON ADDESTRATORI DI ROUTINE
Si può ragionevolmente ipotizzare, sulla base delle missioni, che è emerso (da inchieste giornaliste o da ammissioni ex post, degli stessi governi) dalla Task force 44 in Iraq, negli anni precedenti, o della Task force gemella 45 operativa in Afghanistan contro i talebani, che i militari italiani feriti dall’ordino artigianale esploso (Ied) non fossero a sminare l’area. Un compito fin troppo elementare, come anche l’addestramento di base dei peshmerga curdi e della fanteria irachena, che l’Italia istruisce e allena con la missione Prima Parthica. Come parte della coalizione internazionaleInherent Resolve, costituita nel 2014 contro l’Isis e a guida americana.
GLI INVISIBILI DI PRIMA PARTHICA
Il centinaio di unità di elité stimate nella Task force 44 sono una parte molto ristretta dei 1.100 militari italiani (scesi poi di alcune centinaia) mandati in Iraq per contrastare l’Isis a partire dal 2014. Soprattutto sono una parte sconosciuta, non palesata all’approvazione delle missioni all’estero in parlamento. Unità impiegate semmai per formare corpi di éliteantiterrorismo iracheni. Che vuol dire anche guidarli e assisterli, come avveniva nell’Operazione Sarissa in Afghanistan della Task force 45, in esplorazioni speciali,azioni talvolta dirette contro terroristi. Operazioni di cosiddetta guerranon convenzionale. Anche per trovare materiale utile per l’intelligence italiana e le alleate.
Le missioni affidate alle unità speciali italiane degli incursori sono per definizione coperte dal segreto militare
L’ASSISTENZA IN AZIONI COPERTE
Le missioni affidate alle unità speciali italiane degli incursori (anche di corpi scelti dei carabinieri e dell’aeronautica, presenti in task force di questa natura in Medio Oriente) sono per definizione coperte dal segretomilitare: contingenti di élite, militari bravissimi in special modo sembra gli italiani, considerati i migliori addestratori al mondo e voluti per lavorare a stretto contatto soprattutto con i corpi scelti americani. Impegnati quest’ultimi in operazioni antiterrorismo, anche in Libia contro al Qaeda ma più platealmente e di recente in Iraq, che i loro vertici non avrebbero mai palesato se non a missione compita. Con la morte per esempio del capo dell’Isis Abu Bakr al Baghdadi.
OBIETTIVO: NEUTRALIZZARE I TERRORISTI
La richiesta di una task force per l’Iraq di unità di questo tipo dall’Italia fu rivelata nel 2015 da un’inchiesta de l’Espresso che parlò di un gruppo di «pochi uomini delle forze speciali che colpiscono con discrezione ed efficacia estrema», e di «tanti istruttori, pronti però anche a combattere spalla a spalla con i soldati che addestrano». Dagli accordi di mentoring siglati – per la «neutralizzazione di bersagli di alto valore», si scriveva – , dopo l’Afghanistan che è stato un laboratorio per questo tipo di missioni antiterrorismo, erano pronte secondo indiscrezioni a essere dislocate forze simili in Somalia e in Iraq. Un anno dopo il Fatto Quotidiano tornò a raccontare della «guerra segreta dell’Italia» all’Isis.
Nel 2016 la Task force 44 fu in azione in Iraq durante le offensive contro l’Isis, allora nell’Al Anbar
L’OPERAZIONE CENTURIA
Operazioni militari condotte in Iraq dalle «forze speciali e decise dal governo all’insaputa del parlamento». Da «autorevoli fonti militari», il quotidiano aveva appreso di azioni della «Task force 44» nell’area che nel 2016 era teatro delle principali offensive anti-Isis. Un contingente selezionato, secondo le fonti, ridotto di un centinaio di unità rispetto a quello analogo in Afghanistan, come lasciava intendere anche il nome della nuova operazione Centuria. Degli italiani in azione tra Falluja e Ramadi ne parlavano allora anche i marines, per una missione inquadrata nell’intervento internazionale legittimato dall’Onu del quale è parte anche Prima Parthica. Ma «cosa ben diversa» si specificava da essa.
I NAVY SEAL ITALIANI
Del Comando interforze per le operazioni delle forze speciali (Cofs) italiane fanno parte gli incursori del 9° reggimento d’assalto della Folgore (Col Moschin), della Marina (Comsubin-Goi), del 17° stormo dell’aeronautica e il Gruppo di intervento speciale (Gis) dei carabinieri, affiancati spesso dai parà di ricognizione (185° reggimento) della Folgore e dai ranger alpini (4° reggimento). Il Gis fu creato negli Anni 70 per sconfiggere il terrorismo in Italia. In questi mesi e ancor più dalla morte di al Baghdadi, le intelligence segnalano una recrudescenza degli attacchi jihadisti nel Nord dell’Iraq, soprattutto nell’area di Kirkuk (oltre 30 solo nella prima metà di ottobre) e un aumento di cellule dell’Isis.
DINAMICA E ZONA INCERTE
I militari del commando italiano colpiti dalla bomba artigianale avanzavano a piedi: nel convoglio c’erano anche blindati, ma un pattuglia era a terra. In una zona non ancora identificata con precisione. Da fonti proprie, l’agenzia Ansa ha riportato che si tratterebbe della zona di Suleymania, dentro la Regione autonoma del Kurdistan iracheno. Altre fonti indicano invece l’area a Sud-Ovest di Kirkuk, sul confine interno con la regione, dove avrebbe ora sede la Task Force 44, proprio con il compito di addestrare corpi scelti iracheni di antiterrorismo e forze speciali curde. A la Repubblica più ufficiali dei peshmerga hanno smentito un coinvolgimento curdo nelle operazioni dell’attacco agli italiani.
Fino a che punto l’assistenza antiterrorismo a corpi scelti iracheni può diventare aiuto in scontri e battaglie?
CON I CORPI SCELTI DI BAGHDAD?
I connazionali si sarebbero invece trovati in una zona dove erano attive le forze di Baghdad. Sunniti, non è escluso anche sciiti sostenuti dai reparti speciali all’estero dei pasdaran iraniani. E fino a che punto la formazione e l’assistenza antiterrorismo a corpi scelti iracheni può diventare aiuto in scontri e battaglie contro cellule o gruppi dell’Isis? Al confine con il Kurdistan iracheno sarebbe entrata in azione anche l’aeronautica. Un contingente di addestratori italiani molto specializzati, del corpo dei carabinieri, opera poi anche a Baghdad con gli agenti della polizia federale da dislocare nelle zone liberate dall’Isis. La maggioranza dei militari di Prima Parthica (circa 350) si trova invece a Erbil.
LA RIVENDICAZIONE DELL’ISIS
Nella capitale del Kurdistan iracheno si addestrano di routine i peshmerga. A scanso di equivoci, la Task force 44 non ha mai fatto parte neanche della brigata di fanteria Friuli in missione, fino al marzo 2019, a presidio della diga di Mosul dopo la liberazione della capitale irachena dei territori dell’Isis. L’attacco in Iraq agli italiani, rivendicato dall’Isis, è avvenuto alla vigilia dell’anniversario della strage di Nassiriya il 12 novembre 2003. Ma si ritiene che non avesse come target gli italiani. Piuttosto genericamente chi combatte sul campo i terroristi islamici, come il primo ottobre per la bomba al convoglio militare in Somalia. Dove opera un’altra task force speciale italiana contro gli al Shabaab.
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Due giovani attivisti pro-democrazia sono rimasti feriti in mattinata dopo uno scontro con gli agenti. Uno dei due sarebbe stato colpito al petto da alcuni colpi d'arma da fuoco.
Violenti scontri nella mattinata dell’11 novembre a Hong Kong tra polizia e manifestanti, impegnati a bloccare la circolazione stradale: almeno due persone sarebbero state colpite da colpi di pistola sparati dagli agenti a Sai Wan Ho.
Quello più grave, un ragazzo 21enne, è stato colpito da un colpo di pistola ravvicinato sparato da un agente di polizia: il ragazzo, raggiunto al petto, è stato prima soccorso e portato via che era ancora cosciente e poi operato d’urgenza. Attualmente, è in terapia intensiva dove è sotto stretta osservazione, riferiscono i media locali.
Nel frattempo per le strade dell’ex colonia britannica resta alta la tensione. Gli agenti in assetto anti sommossa hanno lanciato cinque raffiche di lacrimogeni a Pedder Street, nel cuore della città con molti uffici, tentando di disperdere i manifestanti che in piccoli gruppi stanno cercando di bloccare i mezzi trasporto creando barricate sulle principali vie in diversi distretti.
Per la terza volta in 5 mesi, da quando a giugno sono iniziate le proteste contro la legge sulle estradizioni in Cina trasformatesi poi in anti-governative e pro-democrazia, la polizia ha usato armi da fuoco con feriti. Il primo ottobre, infatti, uno studente è stato colpito al petto dopo l’assalto dei manifestanti a un gruppetto di agenti rimasto isolato, mentre pochi giorni dopo è stata la volta di un 14enne colpito alla gamba: entrambi sono stati poi arrestati.
ALTA TENSIONE DOPO LA MORTE DI UN 22ENNE
La tensione è salita dopo la morte di venerdì 8 novembre di Chow “Alex” Tsz-lok, studente di 22 anni, prima vittima delle proteste: il ragazzo è deceduto a seguito dei traumi riportati cadendo da un parcheggio, nella notte tra il 3 e 4 novembre scorsi, secondo modalità ancora tutte da chiarire mentre cercava di sfuggire all’assalto della polizia con i lacrimogeni a Tseung Kwan. Nel fine settimana si sono tenute veglie e sit-in in memoria di Chow, con la chiamata a manifestazioni spontanee e allo sciopero generale. Poi, scontri con la polizia e atti vandalici che hanno preso di mira soprattutto le stazioni della metro.
WONG: «CITTÀ IN STATO DI POLIZIA»
Durissimo il commento di Joshua Wong, leader del ‘movimento degli ombrelli’ del 2014 e tra gli attivisti più in vista del fronte pro-democrazia: «È doloroso vedere la città caduta in uno stato di polizia». In altri tweet Wong ha pubblicato immagini degli scontri tra i quali un video amatoriale in cui si vede un agente in moto che cerca di investire gli attivisti vestiti di nero.
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Due giovani attivisti pro-democrazia sono rimasti feriti in mattinata dopo uno scontro con gli agenti. Uno dei due sarebbe stato colpito al petto da alcuni colpi d'arma da fuoco.
Violenti scontri nella mattinata dell’11 novembre a Hong Kong tra polizia e manifestanti, impegnati a bloccare la circolazione stradale: almeno due persone sarebbero state colpite da colpi di pistola sparati dagli agenti a Sai Wan Ho.
Quello più grave, un ragazzo 21enne, è stato colpito da un colpo di pistola ravvicinato sparato da un agente di polizia: il ragazzo, raggiunto al petto, è stato prima soccorso e portato via che era ancora cosciente e poi operato d’urgenza. Attualmente, è in terapia intensiva dove è sotto stretta osservazione, riferiscono i media locali.
Nel frattempo per le strade dell’ex colonia britannica resta alta la tensione. Gli agenti in assetto anti sommossa hanno lanciato cinque raffiche di lacrimogeni a Pedder Street, nel cuore della città con molti uffici, tentando di disperdere i manifestanti che in piccoli gruppi stanno cercando di bloccare i mezzi trasporto creando barricate sulle principali vie in diversi distretti.
Per la terza volta in 5 mesi, da quando a giugno sono iniziate le proteste contro la legge sulle estradizioni in Cina trasformatesi poi in anti-governative e pro-democrazia, la polizia ha usato armi da fuoco con feriti. Il primo ottobre, infatti, uno studente è stato colpito al petto dopo l’assalto dei manifestanti a un gruppetto di agenti rimasto isolato, mentre pochi giorni dopo è stata la volta di un 14enne colpito alla gamba: entrambi sono stati poi arrestati.
ALTA TENSIONE DOPO LA MORTE DI UN 22ENNE
La tensione è salita dopo la morte di venerdì 8 novembre di Chow “Alex” Tsz-lok, studente di 22 anni, prima vittima delle proteste: il ragazzo è deceduto a seguito dei traumi riportati cadendo da un parcheggio, nella notte tra il 3 e 4 novembre scorsi, secondo modalità ancora tutte da chiarire mentre cercava di sfuggire all’assalto della polizia con i lacrimogeni a Tseung Kwan. Nel fine settimana si sono tenute veglie e sit-in in memoria di Chow, con la chiamata a manifestazioni spontanee e allo sciopero generale. Poi, scontri con la polizia e atti vandalici che hanno preso di mira soprattutto le stazioni della metro.
WONG: «CITTÀ IN STATO DI POLIZIA»
Durissimo il commento di Joshua Wong, leader del ‘movimento degli ombrelli’ del 2014 e tra gli attivisti più in vista del fronte pro-democrazia: «È doloroso vedere la città caduta in uno stato di polizia». In altri tweet Wong ha pubblicato immagini degli scontri tra i quali un video amatoriale in cui si vede un agente in moto che cerca di investire gli attivisti vestiti di nero.
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Dopo tre settimane di proteste nel Paese, le forze armate hanno chiesto al presidente di lasciare l'incarico.
Il presidente della BoliviaEvo Morales si è dimesso. Quello che sembrava uno dei capi di Stato di maggiore successo in America latina, ha visto il potere sfuggirgli dalle mani in pochi giorni, per una crescente pressione dell’opposizione interna, formata da partiti tradizionali e comitati civici radicati nelle città da sempre a lui ostili, a cui si sono uniti alla fine anche settori operanti nell’area privata di agricoltura e miniere. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata quando alle grida dell’opposizione si sono associati anche i vertici delle forze armate e della polizia che oggi – dopo che Morales aveva annunciato nuove elezioni sulla scia delle massicce contestazioni seguite alla sua vittoria alle presidenziali del 20 ottobre – gli hanno chiesto di abbandonare l’incarico «per il bene del Paese».
Prendendo tutti alla sprovvista, Da La Paz, a bordo dell’aereo presidenziale, Morales si è spostato a Chimorè – città a lui cara nel dipartimento di Cochabamba, per annunciare al popolo boliviano la decisione di dimettersi. Fonti giornalistiche locali, vedendo il presidente imbarcarsi subito dopo la richiesta dei vertici militare di lasciare l’incarico, avevano ipotizzato che stesse abbandonando il Paese diretto in Argentina. Morales ha spiegato, in una breve dichiarazione che la decisione di dimettersi derivava dall’«obbligo di operare per la pace». «Mi fa molto male», ha detto Morales, «che ci si scontri fra boliviani e che alcuni comitati civici e partiti che hanno perso le elezioni abbiano scatenato violenze ed aggressioni».
«È per questa ed altre ragioni che sto rinunciando al mio incarico inviando la mia lettera al Parlamento plurinazionale», ha concluso. In mattinata Morales aveva annunciato che si sarebbe votato di nuovo, a seguito anche del fatto che l’Organizzazione degli Stati americani (Osa), incaricata di indagare lo scorso processo elettorale, aveva pubblicato un rapporto in cui rendeva noto di aver constatato la presenza di irregolarità anche gravi, e proponeva di convocare un nuovo voto sotto la responsabilità di un rinnovato Tribunale supremo elettorale (Tse). Lodando il lavoro della sua squadra, il segretario generale dell’Osa, Luis Almagro, aveva però voluto precisare che «i mandati costituzionali in Bolivia non debbono essere interrotti, compreso quello del presidente Morales».
Tuttavia l’annuncio del capo dello Stato non ha avuto l’effetto sperato di calmare le proteste che da tre settimane hanno sconvolto la vita dei boliviani toccando anche la polizia, in parte ammutinatasi, e causando almeno tre morti e centinaia di feriti. Con Morales che è arrivato a parlare di “golpe fascista” dopo che le case dei governatori di Chuquisaca ed Oruro e quella di sua sorella sono state date alle fiamme. I partiti di opposizione, e ancora di più i comitati civici guidati dal presidente del ‘Comité pro Santa Cruz’, Luis Fernando Camacho, hanno sfruttato le parole del capo dello Stato per forzarne il più presto possibile l’uscita di scena, ricordando l’esito di un referendum che respinse la sua richiesta di candidarsi per un quarto mandato.
Così l’ex presidente Carlos Mesa, leader del partito Comunidad Ciudadana giunto secondo nel voto del 20 ottobre, ha dichiarato che «nel nuovo processo elettorale annunciato oggi, il presidente Morales ed il suo vice, Alvaro Garcia Linera, non potranno essere candidati». Ed ha aggiunto che il rapporto preliminare dell’Osa «ha evidenziato irregolarità da molto gravi a indicative, cosa che per noi significa che vi sono stati brogli di cui il capo dello Stato è responsabile». Più dura, se possibile, la posizione di Camacho, che aveva anticipato che lo sciopero a tempo indeterminato indetto dai comitati civici sarebbe continuato fino alla rinuncia del presidente Morales e del suo vice Garcia Linera. Il leader dei comitati civici aveva infine chiesto «le dimissioni di tutti i deputati e senatori» e dei membri del Tribunale supremo elettorale (Tse). Quando questo avverrà, aveva aggiunto, dovrà assumere la guida del Paese una Giunta di governo eletta fra personaggi di rilievo boliviani.
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Alle 14 ha votato il 37,9%: dato in calo di 3,6 punti rispetto alla precedente tornata di aprile.
Urne aperte in Spagna per la quarta volta in quattro anni. L’affluenza sarà la chiave di volta: una mancata mobilitazione della sinistra, scoraggiata per il fallito accordo tra i socialisti al governo e Podemos, potrebbe contribuire alla crescita del Partito popolare e di Vox. Si vota dalle 8 alle 19.
ALLE 14 AFFLUENZA AL 37,9%
Alle ore 14 l’affluenza è del 37,9%, 3,6 punti in meno rispetto all’ultima tornata delle Politiche di aprile 2019 (41,49%).
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Secondo i media della Valletta, l'intesa prevede che le forze armate dell'isola segnalino alle motovedette di Tripoli le imbarcazioni dei trafficanti prima che entrino nelle acque territoriali. Alarm Phone: «Così si impedisce di fuggire da una zona di guerra».
Un accordo segreto tra Malta e Libia, per un coordinamento tra le forze armate dell’isola (Marina compresa) e la controversa Guardia costiera di Tripoli. L’intesa, secondo il quotidiano Times of Malta, prevede che i barconi dei migranti vengano segnalati dalla Marina maltese alle motovedette libiche prima che facciano ingresso nelle acque della Valletta, affinché vengano intercettati e riportati indietro. Per Alarm Phone si tratta di un fatto gravissimo, perché l’accordo «impedisce alle persone di fuggire da una zona di guerra e viola le convenzioni internazionali sui diritti umani»
Il sito web del Times of Malta pubblica la foto di un incontro tra il colonnello maltese Clinton O’Neil, capo delle operazioni e dell’intelligence Afm, ed il vicepremier libico Ahmed Maiteeq, organizzato dall’ambasciatore maltese a Tripoli. In primo piano, un membro del gabinetto del primo ministro maltese, Neville Gafà, più volte accusato di corruzione nel rilascio di visti per ragioni mediche irregolarmente concessi.
Secondo l’edizione domenicale del quotidiano maltese, Gafà si è accreditato come “inviato speciale del premier Joseph Muscat” in incontri con il governo libico e lo scorso anno fu costretto ad ammettere di aver avuto un incontro con Hajthem Tajouri, leader di una milizia che gestisce un campo privato di detenzione ed il racket delle estorsioni. Secondo quanto indicato da fonti di alto livello del governo, citate dal quotidiano, i primi contatti tra La Valletta e Tripoli risalirebbero allo scorso anno.
“Ora abbiamo raggiunto un accordo che possiamo chiamare di comprensione con i libici – ha detto la fonte – Quando c’è un battello che si dirige verso le nostre acque, la Afm si coordina con i libici che li prende e li riporta in Libia prima che entrino nelle nostre acque e diventino di nostra responsabilità”. La fonte governativa, secondo il Times of Malta, avrebbe anche sottolineato che senza l’accordo l’isola sarebbe stata “sommersa dai migranti”.
Dal gabinetto del primo ministro, un portavoce ha affermato che incontri bilaterali vengono continuamente condotti da Malta su base regolare, aggiungendo che il paese “rispetta sempre” le convenzioni e le leggi internazionali. “L’Ue – ha detto – si spende attivamente a favore del rispetto delle istruzioni delle competenti autorità europee che sono contro l’ostruzione delle operazioni condotte dalla guardia costiera libica, che è finanziata ed addestrata dall’Unione europea stessa per sostenere la gestione dei migranti e combattere il traffico di esseri umani”. La Ong
Alarm Phone su Twitter ha commentato: “Sebbene non sia una sorpresa, ora è confermato che le autorità maltesi coordinano le intercettazioni in collaborazione con la Libia. Questo impedisce alle persone di fuggire da una zona di guerra e viola le convenzioni internazionali dei diritti dell’uomo”.
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Il Paese iberico al voto per la quarta volta in quattro anni. Psoe avanti ma senza maggioranza. Mentre si alza lo spettro di Vox.
Il 10 novembre la Spagnatorna alle urne per la quarta volta in quattro anni e a una manciata di settimane dalle ultime elezioni politiche dello scorso 28 aprile. Poco più di sei mesi dopo quell’appuntamento però a Madrid – alla Moncloa e alle Corte -, poco sembra essere cambiato, con le previsioni che ancora una volta stimano il Partito socialista (Psoe) in testa ma senza i numeri necessari per una maggioranza solida.
OCCHI PUNTATI SULL’ULTRADESTRA DI VOX
L’incognita vera è però sul fronte opposto, con la possibilità che l’ultradestra di Vox, dopo l’exploit di aprile con l’ingresso in parlamento, guadagni ancora, anche sull’onda della polarizzazione sul tema dell’indipendentismo, con i recenti sviluppi giudiziari e la mobilitazione di piazza delle ultime settimane in Catalogna.
PSOE AVANTI NEI SONDAGGI, CROLLA CIUDADANOS
Secondo un sondaggio divulgato dal quotidiano El País, i socialisti otterrebbero il 27,2% dei voti e 116 seggi, sette in meno rispetto ad aprile. Alle loro spalle, il Partito popolare, col 21,1% e 94 seggi (+28 seggi). Quindi Vox, con il 12,8% dei voti e 42 seggi (+18). A seguire, Unidas Podemos con il 12,7% delle preferenze e 36 seggi (-6), e Ciudadanos con il 9% e 19 seggi (-38).
L’APPELLO DEL PREMIER SANCHEZ
L’8 novembre il premier socialista Pedro Sanchez s’è rivolto così agli elettori: «Siamo tutti convocati alle urne il 10 novembre non per rispondere agli orientamenti della politica, giacchè gli spagnoli lo hanno già fatto lo scorso 28 aprile e il 26 maggio dando la maggioranza al Psoe. Gli spagnoli vogliono una risposta progressista ai loro problemi. Ciò che è in questione è se abbiamo un governo o no».
IL LIVEBLOGGING DELLA GIORNATA ELETTORALE
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Il 10 novembre la Spagnatorna alle urne per la quarta volta in quattro anni e a una manciata di settimane dalle ultime elezioni politiche dello scorso 28 aprile. Poco più di sei mesi dopo quell’appuntamento però a Madrid – alla Moncloa e alle Corte -, poco sembra essere cambiato, con le previsioni che ancora una volta stimano il Partito socialista (Psoe) in testa ma senza i numeri necessari per una maggioranza solida.
OCCHI PUNTATI SULL’ULTRADESTRA DI VOX
L’incognita vera è però sul fronte opposto, con la possibilità che l’ultradestra di Vox, dopo l’exploit di aprile con l’ingresso in parlamento, guadagni ancora, anche sull’onda della polarizzazione sul tema dell’indipendentismo, con i recenti sviluppi giudiziari e la mobilitazione di piazza delle ultime settimane in Catalogna.
PSOE AVANTI NEI SONDAGGI, CROLLA CIUDADANOS
Secondo un sondaggio divulgato dal quotidiano El País, i socialisti otterrebbero il 27,2% dei voti e 116 seggi, sette in meno rispetto ad aprile. Alle loro spalle, il Partito popolare, col 21,1% e 94 seggi (+28 seggi). Quindi Vox, con il 12,8% dei voti e 42 seggi (+18). A seguire, Unidas Podemos con il 12,7% delle preferenze e 36 seggi (-6), e Ciudadanos con il 9% e 19 seggi (-38).
L’APPELLO DEL PREMIER SANCHEZ
L’8 novembre il premier socialista Pedro Sanchez s’è rivolto così agli elettori: «Siamo tutti convocati alle urne il 10 novembre non per rispondere agli orientamenti della politica, giacchè gli spagnoli lo hanno già fatto lo scorso 28 aprile e il 26 maggio dando la maggioranza al Psoe. Gli spagnoli vogliono una risposta progressista ai loro problemi. Ciò che è in questione è se abbiamo un governo o no».
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Accusati di aver ostacolato i lavori parlamentari durante la discussione sulla legge sull'estradizione in Cina, sono stati rilasciati dopo qualche ora su cauzione. Se condannati, rischiano fino a un anno di carcere.
Sei parlamentari pro-democrazia sono stati arrestati ad Hong Kong con l’accusa di aver ostacolato i lavori parlamentari a maggio 2019, quando era discussione la contestata legge sull’estradizione in Cina che ha innescato cinque mesi di proteste e violenze tra polizia e manifestanti nell’ex colonia britannica. Nonostante siano stati rilasciati su cauzione dopo qualche ora, la mossa, all’indomani della morte di uno studente ferito nelle manifestazioni, rischia di far crescere ulteriormente la rabbia nell’attesa dell’11 novembre, giorno in cui i parlamentari dovranno presentarsi in tribunale. Se saranno condannati, rischiano fino ad un anno di carcere.
PREGHIERE, FIORI E CANDELE PER LO STUDENTE MORTO
Il 9 novembre la collera ha lasciato il posto al dolore per Chow Tsz-lok, lo studente di 22 anni morto per le gravi ferite riportate alla testa cadendo da un parcheggio una settimana prima, durante l’ennesima notte di scontri con la polizia. Migliaia di persone si sono riunite in preghiera e hanno lasciato candele, fiori bianchi e gru di carta, diventate uno dei simboli della proteste. «Hong Kong libera», «La gente di Hong Kong vuole vendetta», gridavano i partecipanti tra i quali qualche irriducibile col volto coperto. «La gente di Hong Kong può essere colpita ma mai sconfitta», ha detto uno di questi rivolgendosi alle persone riunite. La veglia, una delle poche autorizzate dalle forze dell’ordine nelle ultime settimane di manifestazioni, si è svolta in modo pacifico nonostante la notizia poche ore prima dell’arresto dei sei parlamentari, rilasciati poche ore dopo su cauzione. Un settimo, Lam Cheuk-ting, è stato invitato a presentarsi in una stazione di polizia ma si è rifiutato. «Se credete che io abbia violato qualche legge, venite a prendermi», ha dichiarato alla stampa accusando la polizia di aver agito ad arte per posporre o cancellare le elezioni per il rinnovo del consiglio distrettuale in programma il 24 novembre, considerato un banco di prova per il governo di Carrie Lam e un messaggio a Pechino. Accusa alla quale ha replicato il ministro di Hong Kong per gli affari costituzionali, Patrick Nip, spiegando come gli arresti siano stati eseguiti sulla base di indagini e non hanno nulla a che vedere col voto.
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La cancelliera tedesca parla davanti al Memoriale: «Non dimentichiamo le vittime della Ddr. La democrazia non è scontata».
Le rose infilate in una fessura orizzontale del Memoriale del Muro di Berlino dal presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier e dai capi di Stato di Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia hanno aperto le cerimonie per i 30 anni dalla caduta della barriera di cemento che separò la Germania dell’Ovest da quella dell’Est, il mondo occidentale da quello comunista. Il gesto è stato imitato dagli altri partecipanti alla cerimonia, tra cui la cancelliera Angela Merkel, il presidente del parlamento tedesco Wolfgang Schaeuble e molti giovani. Il Memoriale conserva impianti di confine con tutte le loro installazioni, compresa la striscia della morte, oltre a 212 metri della barriera di cemento che divise Berlino e il mondo per 28 anni.
«UN GIORNO FATIDICO DELLA NOSTRA STORIA»
«Il 9 novembre è un giorno fatidico della storia tedesca», ha detto la cancelliera Angela Merkel durante il suo discorso, «oggi ricordiamo anche le vittime dei pogrom di novembre dell’anno 1938, i crimini che furono perpetrati nella notte tra il 9 e il 10 novembre» ai danni «di persone ebree e quello che seguì fu il crimine contro l’umanità e il crollo della civiltà rappresentato dalla Shoah». Parlando nella Cappella della riconciliazione annessa al Memoriale, la cancelliera ha aggiunto che «il 9 novembre, in cui in maniera particolare si riflettono i momenti terribili e quelli felici della nostra Storia, ci ammonisce che dobbiamo contrastare in modo deciso odio, razzismo e antisemitismo. Ci esorta a fare tutto quello che è in nostro potere per difendere dignità umana e stato di diritto».
«NON DIMENTICHIAMO I CRIMINI DELLA DDR»
In particolare, la cancelliera si è soffermata sui crimini del Comunismo: «Troppe persone furono vittima della dittatura della Sed», ha detto riferendosi al partito comunista della Ddr, e «non le dimenticheremo mai. Ricordo le persone che furono uccise su questo Muro perché cercavano la libertà» e «i 75 mila esseri umani che furono incarcerati per ‘fuga dalla Repubblica’», ha aggiunto. «Ricordo le persone» che furono vittima di «repressione perché loro parenti erano fuggiti» all’Ovest, ha detto ancora Merkel volgendo un pensiero anche a chi «fu sorvegliato e denunciato», o «furono oppressi e dovettero seppellire i loro sogni e speranze perché non si volevano piegare all’arbitrio statale». Dopo la caduta del Muro, «il richiamo della libertà creò nuove democrazie nell’Europa centrale ed orientale. La Germania e l’Europa poterono finalmente crescere insieme», ha proseguito ancora la cancelliera nel suo discorso. «Tuttavia i valori su cui si fonda l’Europa, uguaglianza, democrazia, libertà, stato di diritto», difesa dei «diritti umani, sono tutt’altro che scontati, devono essere sempre vissuti e difesi di nuovo».
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Nell'ex Ddr residenti in calo, maggiore invecchiamento della popolazione e meno giovani. Più disoccupati e reddito medio inferiore del 20%. Le infografiche sul divario.
C’è un paradosso, in Germania, che mostra un Paese ancora diviso a metà, nonostante il 9 novembre 2019 l’orologio della storia abbia segnato il 30esimo anniversario dalla caduta del Muro di Berlino. Un simbolo che ha separato Repubblica democratica tedesca e Repubblica federale di Germania per 28 anni, ma questo periodo ha segnato il Paese forse più della fine della Guerra fredda. E i dati infatti dimostrano che la Ddr esiste ancora.
Nel rapporto annuale sullo Stato dell’unità tedesca pubblicato nel 2018, le autorità del Paese hanno scritto che il “recupero” dei länder dell’Est procede più lentamente del previsto. Non solo. Il 57% dei residenti dell’ex Germania Est si considera cittadino di Serie B. Il primo dato per capire questo scollamento è quello della popolazione. Oggi, con la sola eccezione di Berlino, i distretti orientali mostrano residenti in calo, invecchiamento e diminuzione dei tassi di natalità.
La popolazione in Germania in numero di residenti per chilometro quadrato (fonte: ergebnisse.zensus2011.de)
Tra il 1989 e la metà degli Anni 2000 il numero di figli per donna è sceso da 1,58 a 0,78, salvo poi crescere leggermente negli ultimi anni, con un sorpasso solo nel 2017, quando le regioni orientali hanno superato quelle della ex Germania Ovest con 1,61 bambini per donna contro 1,57. Con questa inerzia demografica l’Est si trova ora con un’età media più alta: 46-48 anni contro i 40-44 dell’Ovest. L’altra mancanza endemica ha riguardato i giovani. Si stima che negli ultimi 30 anni siano passati dall’Est all’Ovest almeno 1,9 milioni di persone nate dopo il crollo del Muro.
La percentuale di giovani sotto 18 anni.
DISOCCUPAZIONE, L’EST DOPPIA IL DATO NAZIONALE
Lo spettro delle “due Germanie” si fa ancora più vivo osservando i dati economici e lavorativi. Una delle imprese più difficili per i governi di Berlino è stata quella di far riassorbire la disoccupazione. Basti pensare che nel 2019 nei cinque länder che componevano la Ddr il tasso delle persone senza lavoro si è attestato al 6,9%, oltre il doppio della media nazionale ferma al 3,1%.
La percentuale di disoccupati in Germania.
Dati analoghi anche sul fronte della disoccupazione giovanile. Secondo i dati dell’Eurostat nel 2019 la percentuale di lavoratori tra 15 e 24 anni senza lavoro si attestava al 6,2% a livello nazionale, mentre nei cinque land della ex Ddr, senza contare Berlino, il tasso cresceva al 7,8%, un divario anche più ampio se si conta il 5,8% della ex Germania Ovest.
La disoccupazione giovanile in Germania in %.
OLTRE 3 MILA EURO DI DIFFERENZA NEI SALARI
Anche il fronte economico non sorride appieno all’ex Repubblica democratica. Il governo federale tedesco ha calcolato che il Pil pro capite è cresciuto per tutto il Paese e che il divario è sceso, ma comunque resta: nel 1990 quello dei cittadini dell’Est era meno della metà – il 43% – di quello degli abitanti dell’Ovest, mentre nel 2018 è diventato il 75% di quello dei vicini. Mentre il reddito medio dell’Est è inferiore del 20% rispetto a quello dell’Ovest. Nel 1989 la forbice tra i salari era al suo apice (4.432 euro) e otto anni dopo, nel 1997, si è dimezzata passando a 2.092 euro. Ma con l’inizio degli Anni 2000 è tornata a crescere: nel 2016 è stata infatti di 3.623 euro.
Il Pil dei singoli länder in milioni di euro.
C’è un altro dato che separa Est e Ovest e riguarda la presenza di cittadini stranieri. L’ex Ddr ha mostrato uno scarso fattore attrattivo per i migranti e i tassi ti presenza sono molto bassi. Negli ultimi anni, soprattutto dopo l’emergenza profughi del 2015, la percentuale di stranieri sulla popolazione tedesca si è attestata intorno a 5,8%, superando i 10 milioni di residenti non tedeschi nel 2017. Numeri che però non hanno attecchito a Est. Quasi tutti i länder hanno infatti indici che si fermano intorno al 2%.
Percentuale di presenza straniera in rapporto alla popolazione.
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Scarcerazione sprint per l'ex leader. La Corte suprema ha deciso il 7 novembre di cambiare la propria giurisprudenza. E l'8 è stata accolta la richiesta della difesa.
Libero, grazie a un cambiamento nella giurisprudenza. Il presidente brasiliano Danilo Pereira Jr, del tribunale penale federale di Curitiba, ha accolto la richiesta della difesa dell’ex presidente Luiz Inacio Lula da Silva per la sua scarcerazione e lo ha autorizzato a lasciare la prigione di Curitiba, dove sta scontando la sua pena dall’aprile del 2018.
L’ex presidente brasiliano era agli arresti dal 7 aprile 2018 con l’accusa di corruzione e riciclaggio di denaro nell’ambito dell’inchiesta Lava Jato, considerata la Mani Pulite verdeoro. Ma era talmente sicuro di essere scarcerato da avere addirittura annunciato “un grande discorso alla nazione”, una volta fuori, oltre a far sapere che lascerà la prigione “più a sinistra” di quando vi è entrato. L’ottimismo era giustificato visto che il 7 novembre la Corte suprema di Brasilia ha deciso a maggioranza risicata (5 contrari e 6 favorevoli, grazie al voto decisivo del presidente del tribunale, Antonio Dias Toffoli), di modificare la propria giurisprudenza stabilendo che un imputato possa essere privato della libertà solo dopo aver esaurito tutti i ricorsi possibili.
MANCA IL RICORSO ALLA CORTE SUPREMA
L’ex presidente-operaio è già stato condannato in tre gradi nel caso del cosiddetto “triplex di Guarujà”, ma può ancora ricorrere proprio alla Corte suprema. E infatti i suoi legali hanno presentato subito l’8 novembre una richiesta di “scarcerazione immediata” alla giudice Carolina Lebbos, del foro di Curitiba, città dello Stato meridionale di Paranà dove Lula si trova attualmente detenuto. E gli è stata concessa immediatamente.
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