Silvio Berlusconi morto, la trasformazione di un Paese e una mesta uscita di scena

Silvio Berlusconi non c’è più. E la notizia della morte, per altro anticipata dal continuo aggravamento delle sue condizioni di salute, è qualcosa cui si stenta a credere. Perché il Cavaliere aveva costruito una buona parte della sua narrazione sulla compiaciuta mitologia del suo essere immortale, perché comunque la si giudichi la sua figura ha condizionato gli ultimi cinquant’anni della vita pubblica. Prima come imprenditore rampante, poi come politico. Infine dal 1994, anno della sua discesa in campo, come politico-imprenditore.

Berlusconi è stato ispiratore, vittima, innovatore, narciso

Molto su di lui è già stato scritto, molto detto, e ancora se ne scriverà negli anni a venire. Perché la biografia di Silvio ha le prerogative dell’interminabilità. Perché l’uomo ha inciso non solo sull’economia e poi sulla politica, ma pure sull’immaginario collettivo di un Paese che a lui deve una mutazione antropologica. Dal quartiere modello di Milano due al partito azienda, nulla della vita pubblica di questo Paese è rimasto immune dalla sua impronta. Giocata con grandissima abilità su più registri: ispiratore, vittima, custode come nessuno mai del suo personale tornaconto, innovatore, narciso fino a rasentare la parodia di se stesso.

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Silvio Berlusconi morto, la trasformazione di un Paese e una mesta uscita di scena
Silvio Berlusconi. (Getty)

Forza Italia morirà con lui al termine di una diaspora già iniziata

Che succederà ora? Berlusconi lascia un impero mediatico il cui futuro è denso di interrogativi. I figli, specie Marina e Pier Silvio, lo vorranno portare avanti. Ma avranno la forza di faro senza alle spalle un padre che ne ha sempre accompagnato le mosse, anche quando sembrava che la politica e poi la malattia allontanasse il suo interesse? E lascia anche un partito, Forza Italia, sui cui destini è più facile scommettere. Una sua personale creatura, una geniale invenzione che nel 1993 si affacciò sulla scena politica sorretta da un marketing senza precedenti, che non può avere eredi, e che quindi morirà con lui al termine di una diaspora per altro già da tempo iniziata. E sulla quale Giorgia Meloni potrà ultimare la sua Opa non ostile concordata con la figlia Marina nei suoi primi giorni di governo.

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Silvio Berlusconi morto, la trasformazione di un Paese e una mesta uscita di scena
Silvio Berlusconi nel 1985. (Getty)

La mossa con Fini e lo sdoganamento della destra missina

Per chi ne ha seguito dall’inizio l’irresistibile ascesa, viene in mente anche con una certa nostalgia il Berlusconi del Mundialito, del sole in tasca con cui pretendeva si presentassero i suoi venditori, della capacità di sparigliare la scena politica sponsorizzando Gianfranco Fini come sindaco di Roma e di fatto dando il via allo sdoganamento della destra missina che proprio con l’ingresso di Meloni a Palazzo Chigi ha avuto il suo compimento.

Silvio Berlusconi morto, la trasformazione di un Paese e una mesta uscita di scena
Silvio Berlusconi dopo la vittoria nel 2001. (Getty)

Silvio un uomo di folgoranti inizi, ma di mesti finali

Il prima e il dopo nella vita di Berlusconi hanno segnato la biografia del personaggio. I successi imprenditoriali sono innegabili, così come la sua azione dirompente in politica. Se c’è un’osservazione da fare, a caldo, prima che di lui nei prossimi anni si scrivano fiumi di inchiostro, è che è stato un maestro nell’entrare in scena, ma non uno che alla fine è stato capace di uscirvi, quando avrebbe potuto ritirarsi forte della nomea di padre nobile che nessuno avrebbe messo in discussione. Silvio un uomo di folgoranti inizi, ma di mesti finali, impaurito forse dall’idea della morte che ha cercato di arginare non come l’accettazione di un destino che la vecchiaia serenamente impone, ma sciorinando il mito di una eterna giovinezza che il suo inesausto e a volte stonato slancio vitale non ha mai fatto venire meno.

Il destino di Forza Italia dopo la morte di Berlusconi

«E ora che succede?». È questa la domanda che risuona già nei capannelli di Forza Italia e non solo. Sarà l’interrogativo principale anche a Palazzo Chigi. Sì, perché la morte del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi avrà ripercussioni non solo dentro i confini azzurri, ma anche sulla stabilità dello stesso governo. Lo sa benissimo Giorgia Meloni che con la virata verso FdI impressa nell’ultimo periodo dal coordinatore di Fi Antonio Tajani e dalla compagna di Silvio, Marta Fascina, naturalmente con la benedizione della primogenita del Cav Marina, aveva visto in qualche modo puntellata la sua maggioranza. Adesso senza il leader, lo scenario torna a essere fluido e la stessa Forza Italia corre il serio rischio di spaccarsi. O di scomparire.

Il destino di Forza Italia dopo la morte di Berlusconi
Marta Fascina e Silvio Berlusconi nel settembre 2022 (da Fb).

I nodi economici e quelli politici di Forza Italia

Il prezzo che giocoforza paga un partito personale che non ha mai avuto altro leader al di fuori di Silvio. Del resto, è lunga la teoria di delfini che il Cav prima ha osannato e poi messo da parte. Una fine che forse ha rischiato di fare lo stesso Tajani che, nella nuova geografia azzurra, si sarebbe trovato al fianco tre commissari (uno per il Nord, uno per il centro e uno per Sud). Una riorganizzazione che avrebbe dovuto cominciare a vedere la luce sabato ad Arcore, se non fosse sopraggiunto il ricovero improvviso del leader. A tal proposito, le parole di un ex azzurro e ora esponente di Azione come Osvaldo Napoli colgono nel segno: «È certo che lascia un’importante eredità politica, ma non lascia eredi da lui riconosciuti. Con la sua scomparsa si chiude davvero una stagione politica e l’Italia entra in una terra incognita tutta da esplorare». Una terra tutta da esplorare, appunto. Non subito, naturalmente. Adesso è il momento del cordoglio e dell’unità. Ma prima o poi i nodi verranno al pettine. A cominciare da quelli economici, visto che a foraggiare Forza Italia è sempre stato in larghissima parte Berlusconi. Dal 2014 il Cav ha iniettato quasi 100 milioni di euro nelle casse del partito, mentre i figli hanno versato  500 mila euro nel 2022. Una ‘donazione’ necessaria, visto che solo nel 2023 37 parlamentari su 62 hanno pagato la quota. Normale quindi che molti eletti comincino a chiedersi se la famiglia continuerà su questa linea oppure no. Ma sono i nodi politici quelli che scottano di più e che, come detto, rischiano di rendere Meloni meno salda in sella. Tant’è che la premier, nel suo videomessaggio di saluto al Cavaliere, ha provato subito a serrare le fila, toccando le corde dell’emotività: «Con lui l’Italia ha imparato che non doveva mai farsi porre dei limiti, ha imparato che non doveva mai darsi per vinta», ha detto. «Con lui noi abbiamo combattuto, vinto, perso, molte battaglie. E anche per lui porteremo a casa gli obiettivi che, insieme, ci eravamo dati».

Il destino di Forza Italia dopo la morte di Berlusconi
Giorgia Meloni e Matteo Salvini (Getty Images).

L’ala Tajani-Fascina teme il ritorno dei ronzulliani

Per adesso il timone è in mano all’ala Tajani-Fascina-Marina Berlusconi che ha depotenziato l’area vicina a Licia Ronzulli. Non è da escludere però che a breve inizi uno smottamento di azzurri verso la Lega, verso la stessa FdI, ma pure verso Azione e Italia viva. L’attuale capogruppo al Senato ha sempre intrattenuto buoni rapporti con Matteo Salvini. «Se è vero che la vendetta è un piatto che va servito freddo», azzarda una fonte di Fi con Tag43, «non è fantapolitica immaginare che presto Licia, dopo aver subito lo smacco di essere stata allontanata dal cerchio ristretto di Berlusconi, di esser stata defenestrata da coordinatore di Fi in Lombardia e di aver rischiato sabato scorso di perdere anche il ruolo di presidente dei senatori, sposti i suoi sempre più verso la Lega». E con i suoi si intende parlamentari come Alessandro Cattaneo, anche lui vittima dello spoils system targato Fascina, o di Paolo Emilio Russo, da poco sostituito con Danila Subranni a capo della comunicazione azzurra. Senza contare tutti quei forzisti che nel riassetto immaginato ad Arcore avrebbero dovuto rinunciare a ruoli nel partito, dal sottosegretario Giuseppe Mangialavori, coordinatore di Fi in Calabria, al presidente della commissione Affari sociali della Camera, Ugo Cappellacci, coordinatore in Sardegna. Si dirà che questo però non cambia nulla sul fronte della coalizione di maggioranza ed è vero. Ma è altrettanto vero che il peso specifico e di contrattazione di Salvini potrebbe aumentare su battaglie che, invece, non scaldano troppo i Fratelli d’Italia. Vale per l’autonomia, ma vale anche per Quota 100.

La mappa di Forza Italia: chi sta con Ronzulli e chi con Tajani
Licia Ronzulli e Alessandro Cattaneo (da Fb).

I governisti azzurri potrebbero bussare alle porte di FdI

Ben diverso il quadro, invece, se alcuni azzurri decidessero di fare le valigie e traslocare in Azione o Italia viva. Pure il partito di Calenda, in realtà, potrebbe avere un certo appeal dalle parti degli azzurri, potendo far leva sul peso di ex pezzi da novanta di Forza Italia come Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna. Scenario che una fonte parlamentare di centrodestra tende però a escludere: «Se Renzi e Calenda parlassero dall’alto di un 10 per cento, questo discorso avrebbe un senso, ma con percentuali tra il 2 e il 3 per cento quale azzurro dovrebbe decidere di fare un salto nel buio?». Un effetto calamita, insomma, Renzi potrebbe suscitarlo solo in una prospettiva di breve periodo e cioè in un’ottica di sostegno all’attuale maggioranza, «ma siamo sicuri», continua la fonte, «che Meloni ci starebbe e non farebbe lei stessa saltare il tavolo per imporsi poi sì con il 30 per cento? Più probabile casomai che se Forza Italia nei prossimi mesi dovesse implodere, l’ala azzurra più governista bussi direttamente alla porta di FdI». Poco male per la tenuta complessiva della maggioranza, anche se suonerebbe come un fallimento dell’effettiva presa sul partito di Tajani…

Priorità a una legge sul consumo di suolo, le parole al vento dei ministri dell’Ambiente

«La necessità, non più rinviabile, di predisporre una legge nazionale per il contenimento del consumo del suolo è prevista tra le riforme del Pnrr, ma è anche contemplata nel Piano per la transizione ecologica». Con queste parole, pronunciate alla Camera, Gilberto Pichetto Fratin iscrive il suo nome tra i ministri dell’Ambiente che sono intervenuti sul consumo del suolo, un tema che «va affrontato subito» (Gian Luca Galletti, 2015, governo Renzi) ed era giudicato «urgente» già nel 2013 (Andrea Orlando, governo Letta). Nel Paese delle catastrofi naturali (in Emilia-Romagna quello più recente, ma ancora prima Ischia, le Marche, solo per citare gli ultimi territori colpiti) non esiste una legge organica sul consumo di suolo. Al di là del merito della questione, che di per sé è assai complicata perché investe molti piani istituzionali – dal governo centrale alle Regioni e i Comuni – e tocca ancora più interessi, ci si chiede: come è possibile che la politica non riesca intervenire su un tema che da almeno un decennio essa stessa ritiene una priorità?

Ue, sì al regolamento sullo stop alle auto a benzina e diesel: l'Italia si astiene. Pichetto Fratin punta a reintrodurre i biocarburanti tra i combustibili neutri
Il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin. (Getty)

La «svolta» sul tema doveva esserci già nel 2014…

Questa carrellata dei ricordi, che non vuole essere per nulla esaustiva, potrebbe iniziare da Andrea Orlando, ministro Pd dell’Ambiente tra il 2013 e il 2014. Proprio a inizio 2014 Orlando portò in Consiglio dei ministri una legge sul tema che definì «una svolta per l’uso del suolo nel nostro Paese». Pochi mesi dopo – con la caduta del governo Letta e il passaggio di Orlando alla Giustizia – il dossier finì nelle mani di Maurizio Martina e Gian Luca Galletti, rispettivamente ministri dell’Agricoltura e dell’Ambiente dell’esecutivo Renzi. I due provarono a dare una spinta al disegno di legge che intanto avanzava più che lentamente alla Camera. A novembre 2014, infatti, inviarono una lettera all’allora ministra per i Rapporti con il parlamento, Maria Elena Boschi, chiedendo di accelerare l’esame parlamentare.

Andrea Orlando.

La tragedie recenti e il problema del dissesto idrogeologico

«Il disegno di legge in questione», si leggeva nella lettera congiunta, «rappresenta un passaggio importante e molto atteso al fine di introdurre norme per contenere il consumo del suolo, valorizzare il suolo non edificato, promuovere l’attività agricola che sullo stesso si svolge o potrebbe svolgersi, nonché per perseguire gli obiettivi del prioritario riuso del suolo edificato e della rigenerazione urbana rispetto all’ulteriore consumo del suolo inedificato, al fine complessivo di impedire che lo stesso venga eccessivamente “eroso” e “consumato” dall’urbanizzazione. Tali esigenze risultano particolarmente pressanti anche alla luce dei fenomeni di dissesto idrogeologico che sono alla base di numerose tragedie anche recenti». I ministri Martina e Galletti chiedevano, infine, «di voler sollecitare alla presidenza della Camera una rapida conclusione dell’esame del disegno di legge al fine di una sua calendarizzazione in assemblea auspicabilmente prima della fine dell’anno».

Priorità a una legge sul consumo di suolo, le parole al vento dei ministri dell'Ambiente
L’ex ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti. (Getty)

Ddl approvato alla Camera nel 2016, ma impantanato in Senato

Spinte che portarono, effettivamente, a un primo via libera parlamentare nel maggio 2016. «Il disegno di legge sul consumo del suolo è una vera urgenza nazionale: per questo ritengo l’approvazione del testo avvenuta oggi alla Camera un fatto politico di grande rilievo», aveva detto Galletti il giorno dell’ok, auspicando un’approvazione anche al Senato per «superare un problema italiano come il consumo del suolo e insieme aprire nuove opportunità di sviluppo sostenibile». Per il testo, però, Palazzo Madama si trasformò presto in una palude e il ddl finì impantanato.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella sta visitando in queste ore l'Emilia-Romagna martoriata dalle alluvioni.
Conselice allagata dopo l’alluvione in Emilia-Romagna. (Getty)

La Meloni ha stanziato 160 milioni di euro dal 2023 al 2027: pochi

Nell’ultima legge di Bilancio, il governo Meloni ha inserito un articolo dal titolo “Fondo per il contrasto del consumo di suolo”. Lo stanziamento ammonta a 160 milioni di euro dal 2023 al 2027. Le risorse sono destinate la rinaturalizzazione di suoli degradati o in via di degrado in ambito urbano e periurbano. Secondo Per Paolo Pileri, professore di pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano, si tratta di «nulla che contrasti il consumo di suolo, nulla che fermi la cementificazione che sta uccidendo il Paese. Stanno solo mettendo soldi (e pochi) per “rinaturalizzare” suoli (non si sa come: magari pure denaturalizzando altrove) che un attimo prima erano stati degradati, cosa che, diciamo pure, dovrebbe fare chi li ha inquinati e degradati». Un parere che è stato pubblicato su Altraeconomia.

Priorità a una legge sul consumo di suolo, le parole al vento dei ministri dell'Ambiente
Sergio Costa, ex ministro dell’Ambiente in quota M5s. (Getty)

Sergio Costa e il solito ritornello del «non c’è un pianeta B»

Insomma, in sette anni poco o nulla si è mosso. Tranne le dichiarazioni. Per dire, di nuovo Orlando qualche mese fa, all’indomani dell’alluvione che ha investito Ischia, è tornato a ripetere che «bisogna fare una legge sul consumo del suolo». E il titolare dell’Ambiente del Movimento 5 stelle Sergio Costa diceva solennemente a fine 2019: «È fondamentale agire ora per arrestare il consumo di suolo. Perché domani potrebbe essere troppo tardi. E non c’è un pianeta B. Mi appello, dunque, alle forze politiche di maggioranza affinché, parallelamente all’iter parlamentare del “Cantiere ambiente”, fondamentale per la messa in sicurezza del nostro Paese dal dissesto idrogeologico, si discuta e si approvi celermente la legge sul consumo di suolo». Ora si è iscritto anche l’attuale ministro. E il flusso delle dichiarazioni scorre.

Meloni, il rapporto col direttore del Corriere Fontana e la rete dei media

Pubblichiamo un estratto del libro I potenti al tempo di Giorgia, edito da Chiarelettere, uscito il 30 maggio e scritto proprio dal direttore di Tag43.it Paolo Madron e da Luigi Bisignani. Il capitolo in questione è quello su “Giorgia e la rete dei media”.

I potenti al tempo di Giorgia, arriva il libro di Paolo Madron e Luigi Bisignani
I potenti al tempo di Giorgia.

La7 procura a Cairo dei mal di pancia, può sempre contare su Luciano Fontana, che gli fa da pontiere come meglio non si può. Il rapporto tra uno dei più longevi direttori del «Corriere della Sera» e la premier è di lunga data e solidissimo. Tra i due messaggi ed emoticon, che lei ama usare à gogo.

Se n’è avuta prova anche di recente, in uno degli inciampi più spinosi che il governo ha dovuto affrontare, il caso dell’anarchico Cospito e le polemiche sul 41 bis. Meloni non è andata a rendere conto in Parlamento, ma ha scritto al «Corriere» per far sapere la sua posizione. Come ha fatto Rachele Silvestri per la fake sul figlio.

Se è per questo, Fontana ha anche dato un’intera pagina a Lollobrigida perché potesse giustificarsi dell’infelice uscita sulla sostituzione etnica, e ha dato ampio spazio ad Arianna per dire che non conosceva la nuova ad di Terna Giuseppina Di Foggia, e ancora alla premier per illustrare la sua posizione sul 25 aprile.

Selvaggia Lucarelli contro il ministro Lollobrigida: «Chiede di lavorare nei campi ma si è laureato dal divano». Il tweet si riferisce alle parole dell'uomo al Vinitaly
Giorgia Meloni e Francesco Lollobrigida. (Getty)

A questo punto Giorgia direbbe: «Noi a Quarto potere je famo ’na pippa».

Cortesia e disponibilità si ricambiano. Quando Berlusconi ha deciso di non candidare la brianzola Michela Vittoria Brambilla alle ultime elezioni, Fontana ha chiesto aiuto a Meloni e lei l’ha piazzata in un collegio sicuro in Sicilia. Nel feudo dove il Cavaliere ha fatto eleggere anche la sua finta moglie Marta Fascina.

Ad accomunarle, per usare un eufemismo, la scarsa frequentazione dell’isola e lo stupore dei locali elettori di trovarsele in lista.

E che c’entra Fontana con la più animalista dei parlamentari, conduttrice di una fortunata trasmissione tivù a difesa dei quattro zampe?

Si dice che sia stata proprio Brambilla, con la quale vanta un’antica amicizia, a portarlo la prima volta ad Arcore a conoscere Berlusconi. E che Fontana abbia ricambiato il favore presentandola a Bernardo Caprotti, il patron di Esselunga, perché la sua azienda ittica potesse trovare spazio tra gli ambiti scaffali dei suoi supermercati. Ma magari sono solo favole metropolitane.

Corsa alla candidatura nel centrodestra: tutti i nomi in lizza
Michela Vittoria Brambilla e Silvio Berlusconi nel 2009. (Getty)

Per Meloni avere il «Corriere della Sera» non pregiudizialmente contro mi pare cosa non da poco. Basterà a farla sentire meno isolata, a mitigare la sindrome di accerchiamento di cui lei e il suo entourage sembrano sempre più soffrire.

Mi verrebbe da dire «lo scopriremo solo vivendo», ma già qualche scenario lo si intuisce. Meloni dovrà stare attenta alle invasioni di campo. Non ti sarà sfuggito che Cairo non ha preso benissimo l’espansione a Milano della famiglia Angelucci, importanti imprenditori della sanità.

Paolo Berlusconi, Antonio Angelucci e il Giornale.

Ma se lo sapevano anche i muri che stavano trattando con Berlusconi l’acquisto del «Giornale»

Sì, ma considerando che la partita andava avanti da tempo in un lungo tira e molla, tutti erano convinti che alla fine il Cav non avrebbe venduto. E invece la costanza e il rapporto personale tra le due famiglie hanno favorito la conclusione dell’affare, suggellata con un pranzo milanese a casa di Marina.

Un segnale dell’indurimento di Cairo è arrivato anche dal rinnovo dei vertici della Fondazione Corriere, uno dei salottini buoni dell’intellighenzia meneghina. Poteva essere l’occasione per mettere dentro qualcuno che strizzasse l’occhio alla destra. Ha scelto De Bortoli, Mieli, Calabi e Mario Monti, che non sembrano meloniani sfegatati.

Milano è una enclave della sinistra, un editore non può non tenerne conto.

Tiriamo le somme. Tra i media su chi può contare Meloni? «Libero», «il Giornale», «Il Tempo», «La Verità», «La Gazzetta del Mezzogiorno», i quotidiani di Riffeser, Mediaset e due telegiornali Rai. E la non ostilità di via Solferino. Fossi in lei non mi lamenterei.

E i giornali di Caltagirone da che parte stanno?

L’ingegnere, col suo fiuto, da tempo ha puntato su Meloni.

Tra i direttori che più fanno opinione, Giorgia ha dalla sua Vittorio Feltri, che si è tra l’altro dimostrato un formidabile acchiappavoti, portandosi dietro un bacino di consensi importante, le due volte che si è candidato con lei. Al punto che nel 2015 Meloni e Salvini lo volevano pure portare al Quirinale.

Emilia-Romagna, il tweet choc di Feltri: «Prima piangono che non piove, poi perché qualcuno annega». Critiche sui social
Vittorio Feltri (Youtube)

Forse la premier deve cercare di essere più inclusiva, di non chiudersi a riccio bollando come reato di lesa maestà quando un giornale scrive un articolo critico nei suoi confronti. Non deve essere difficile, in fondo è giornalista anche lei. Ma ora sta seguendo la massima di Francesco Cossiga, suggerita da Margaret Thatcher: i giornali è meglio non leggerli.

La Romagna, l’acqua che dà e toglie e la secolare arte di reinventarsi

«Eravate pesci!». Questo diceva ai padani della redazione di Cuore Roberto Perini, meraviglioso e indimenticabile vignettista e illustratore, autore, fra le altre cose, delle più belle copertine dei libri di Stefano Benni per Feltrinelli. Romano con lontane radici romagnole, Perini voleva rimarcare scherzosamente la superiorità di chi veniva dai Sette Colli rispetto a noi, oriundi di quello che in origine era un lembo di Adriatico, progressivamente riempito decine di migliaia di anni di fa dai sedimenti trascinati dai fiumi che vi sfociavano e dai detriti morenici portati a valle dalle masse d’acqua prodotte dal disgelo dei ghiacciai. Quanto mi aveva fatto ridere, l’iperbolica provocazione di Perini.

La Romagna, l'acqua che dà e toglie e la secolare arte di reinventarsi
Sala di Cesenatico (da un video su Fb).

L’acqua che ci ha regalato, un’era dopo l’altra, la terra su cui camminiamo può portarcela via in una notte

Trent’anni dopo, mentre vedo la mia terra e i paesi dei miei antenati (Cesena, Sarsina, Mercato Saraceno) sommersi o assediati dall’acqua, rido un po’ meno. Mi suona sinistramente come «ricordati che pesce sei e pesce ritornerai»: l’acqua che ti ha regalato, un’era dopo l’altra, la terra su cui cammini e su cui sorgono le tue case, può portartela via in una notte. Perché non è più l’acqua lenta e costante del disgelo post Würm. Anche lei, come gli esseri umani contemporanei, è diventata più iraconda, aggressiva, esagerata. Vuole dare spettacolo, come se sapesse che finirà su TikTok e su Instagram e le sue gesta diventeranno virali su Internet. In un’ora trasforma un rigagnolo in un mostro torbido e possente e un borgo in Atlantide. Ma non ci darà il tempo di farci ritrovare pinne e branchie, anche se i tempi dell’evoluzione sono sicuramente più rapidi di quelli necessari a cacciarci nella zucca l’importanza della prevenzione, della manutenzione, della cura degli argini. Già è molto se ci farà sentire più vicini ai bengalesi e agli indiani, alle prese con monsoni incattiviti dai cambiamenti climatici.

La Romagna, l'acqua che dà e toglie e la secolare arte di reinventarsi
Soccorsi a Massa Lombarda (Getty Images).

La Romagna oggi come l’Assam un anno fa, ma un’alluvione in Asia è una non-notizia

Le immagini che ci arrivano dalla Romagna – tetti che spuntano dall’acqua, campi trasformati in lagune, visi sbigottiti – somigliano molto a quelle che arrivavano un anno esatto fa dall’Assam e dalla regione di Sylhet e che guardavamo distrattamente quando passavano sui canali all-news (per i tiggì generalisti un’alluvione in Asia è una non-notizia). Le alluvioni eurasiatiche in genere sono catastrofi meno glamour degli uragani e dei cicloni americani, costruiti e gestiti come cattivi dell’universo Marvel: hanno un nome, una data e un luogo di nascita, si avvicinano alle città in un crescendo di suspence e di terrore scandita dalle raccomandazioni e dagli allarmi pressanti di tivù e radio. Quando la calamità si tinge di epopea, sopravvivere non è una fortuna, è una vittoria, anche se non hai più una casa e il ciclone non ti ha portato nel magico regno di Oz, ma su una brandina di fortuna in uno stadio con una dozzina di bagni per migliaia di senzatetto. Essere scampato alla furia di Katrina ti rende speciale, attiva la tua resilienza, crea legami con chi ha vissuto la tua esperienza, anche in luoghi e tempi diversi. Si erigono memoriali, si organizzano convention per ricordare ed elaborare, come fanno i veterani di guerra.

La Romagna, l'acqua che dà e toglie e la secolare arte di reinventarsi
Lugo, in provincia di Ravenna (Getty Images).

Risorgere dopo una guerra devastante come dieci alluvioni ci ha obbligato a tirare fuori le nostre risorse migliori 

Forse anche nel Vecchio continente dovremmo imparare a chiamare per nome gli eventi meteorologici estremi cui bisognerà fare l’abitudine, e a fronteggiarli, almeno psicologicamente, all’americana. E se c’è qualcuno che può provarci sono i romagnoli. E non solo perché la nostra riviera è stata ribattezzata “la Florida d’Italia“. La gente di qui ha qualcosa che sa di America. Si è reinventata, proprio come fanno gli emigranti, ma restando nella propria terra. Da razza misera e violenta di briganti con il grilletto facile e il pugnale in tasca anche quando diventavano presidenti del Consiglio (no, non mi riferisco a Mussolini, ma al ravennate Luigi Carlo Farini, che nel 1863, capo del governo, puntò un coltello alla gola di re Vittorio Emanuele per costringerlo a schierarsi con gli insorti polacchi contro la Russia), siamo riusciti a costruirci un’immagine completamente diversa e a diventare simpatici e apprezzati da tutti, in Italia e all’estero. Risorgere dopo una guerra devastante come dieci alluvioni ci ha obbligato a tirare fuori le nostre risorse migliori e a fare un oculato restyling di quelle peggiori. E così il nostro accento, che un secolo fa metteva in allarme i carabinieri, oggi mette di buonumore, evoca solo buon cibo, ospitalità e divertimento.

Perfino i deprecati bagnini anti-Bolkenstein si riscattano mentre sgobbano h24 per ripulire l’arenile

Avere investito tanto sul fare star bene gli altri, anche solo per qualche settimana all’anno, in queste ore si sta traducendo in un’incredibile corrente di simpatia, solidarietà e affetto, anche da parte di chi non può esimersi dal ricordare il rovescio della medaglia del “modello romagnolo“, lo sfruttamento insensato del territorio e le manchevolezze dei politici locali. Non c’è articolo o servizio televisivo in cui non si sottolinei il carattere unico dei romagnoli. Twitter, una volta tanto, gronda di belle parole, di calore e di partecipazione. Perfino i deprecati bagnini anti-Bolkenstein si riscattano davanti all’opinione pubblica, mentre da Cesenatico a Cattolica sgobbano h24 per ripulire l’arenile dagli ammassi di legname accumulati dalle mareggiate e sistemare lettini dispersi e cabine allagate. Entro il weekend tutto sarà come prima, assicurano. Ehi, non commuovetevi troppo, io li conosco: nel caso peggiore erano pronti a trasformare la spiaggia in un parco acquatico a tema Spongebob. Anche quando diventeranno pesci si nutriranno di turismo.

L’effetto Palenzona sulla tregua nel Real Estate di Milano

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A Milano, dopo le tensioni dei mesi passati, nell’immobiliare sembra essere arrivati a una pace per quanto, visti gli appetiti che si muovono nel settore, non si sa quanto possa essere duratura. Ma la odierna fotografia della situazione del Real Estate meneghino sembra aver consolidato i nuovi assetti e le strategie finanziarie che intorno a essi si muovono.

Immobiliare e banche, partita incrociata

L’ascesa di Fabrizio Palenzona alla guida di Fondazione Crt nonché dell’associazione che raggruppa tutte le fondazioni bancarie di Piemonte e Liguria ha prodotto effetti diversi a seconda che si parli di ambito bancario o immobiliare. Se sul primo, come si è dato conto su queste colonne, il dinamismo è notevole soprattutto sull’asse che vede Bpm perno di un possibile terzo polo nazionale, sul secondo la competizione tra grandi attori si è tramutata in cooperazione.

Le mosse di Palenzona verso Crt, tra Cirio e Lo Russo
Il banchiere Fabrizio Palenzona.

Le due cordate in campo

Banche, fondazioni e protagonisti del mattone sembrano far convergere i propri investimenti su un comune interesse di sistema, ovvero la crescita di Milano e dei suoi grandi progetti infrastrutturali ed edilizi. Nulla di ufficiale e labbra cucite tra gli operatori del mercato e della finanza, ma in quest’ottica è curiosa l’emersione di un “patto incrociato” che vincola reciprocamente le differenti cordate in campo. Tradizionalmente l’asse banche-fondazioni-real estate ne vedeva due competere per la supremazia cittadina. Da un lato, quella del sistema-Palenzona. Costituita da Unicredit, banca di cui è stato a lungo vicepresidente, dal fondo immobiliare italiano Prelios di cui l’ex politico e manager di Novi Ligure è presidente, in alleanza con Hines e Fondazione Crt. Dall’altro, l’impero Intesa San Paolo-Fondazione Cariplo affiancato da Coima, il fondo immobiliare del costruttore Manfredi Catella.

La tregua del real estate a Milano: quanto pesa l'effetto Palenzona?
Manfredi Catella (dal sito Coima).

Verso un nuovo equilibrio

Gli accordi sul terreno per la spartizione di progetti dall’alto impatto sistemico come MilanoSesto e il Villaggio Olimpico, accelerati dopo l’ascesa di Palenzona a Crt, sono il terreno su cui si sta costruendo la possibile intesa. A cui potrebbero contribuire i nuovi assetti in Fondazione Cariplo, in cui l’elezione a presidente dell’ex rettore del Politecnico di Milano Giovanni Azzone è l’ultimo colpo del “grande vecchio” Giuseppe Guzzetti. Che, da buon democristiano, è uomo certamente abituato a smussare conflitti e tensioni più che a cimentarsi in aspre battaglie. Per ora il riassetto nelle fondazioni, polmone e centro di confronto tra interessi, è servito da deterrente. Lo si è visto con la fine della querelle su MilanoSesto, dove a Prelios e agli americani di Hines mirava a sostituirsi in toto Manfredi Catella con Coima. Il motivo? Il fatto che il principale sostenitore del più grande progetto europeo di rigenerazione urbana fosse Intesa San Paolo, il cui l’azionista Cariplo era, tramite Redo Sgr, alleata di Coima nel tentativo di acquisto dei diritti sul progetto detenuti da Prelios e Hines.

La tregua del real estate a Milano: quanto pesa l'effetto Palenzona?
Il render del Villaggio Olimpico (dal sito scaloportaromana).

MilanoSesto, laboratorio della tregua immobiliare milanese

«Toccherà agli storici dirimere il quesito se quella di Sesto San Giovanni», combattutasi ai primordi della primavera, «sia stata una vera guerra o solo una scaramuccia», ha scritto Dario Di Vico su Il Foglio. «Di sicuro la pace è stata raggiunta e, sembra, con reciproca soddisfazione di tutti i contendenti. Una pace imperniata, e non avrebbe potuto essere diversamente, sul ruolo di Intesa Sanpaolo che nell’operazione immobiliare aveva investito dall’inizio 900 milioni e, giustamente, voleva capire meglio in che direzione si stesse andando». Catella non ha conquistato l’intero pacchetto di MilanoSesto ma, in asse con Redo, ha ottenuto il social housing del nuovo progetto che da sempre fa molta gola a Cariplo, per un controvalore di 100 milioni di euro. A Hines e Prelios resta la parte di uffici e quella dell’edilizia a fini produttivi e economici ad alto valore aggiunto. Prelios a suo volta resta centrale nel progetto a guida Intesa di MilanoSesto. E Coima e Cariplo si muovono con attenzione su Porta Nuova, dove si trova il grattacielo sede di Unicredit, partecipata da Crt. Mentre Coima e Catella sono in prima fila in progetti come Pirelli 39 e la nuova skyline di Via Melchiorre Gioia.

La tregua del real estate a Milano: quanto pesa l'effetto Palenzona?
Il progetto MilanoSesto (dal sito Milanosesto).

Progetti complementari tra nord e sud della città

Del resto, la Milano verticale che cresce fa gola a tutti. I piani a guida Prelios-Hines di MilanoSesto per la riqualificazione dell’area delle acciaierie Falck sono destinati a essere complementari al grande progetto di Coima, il Villaggio Olimpico nell’ex Scalo di Porta Romana. Attorno a cui sorgeranno progetti legati agli studentati, all’housing sociale delle università pubbliche e ai nuovi alloggi della Bocconi, che a due passi dal futuro Villaggio Olimpico ha il suo nuovo campus.

C’è spazio per tutti, anche per Generali e Covivio

Insomma, dopo mesi di tensioni si è giunti all’idea che a Milano ci sia spazio per tutti. Anche per l’arrivo di nuovi attori. Oltre alle suddette due cordate, infatti, gli operatori seguono con interesse anche le mosse di Generali Real Estate e Covivio. La prima sta entrando in punta di piedi tra hotel e housing, forte del legame con un’azionista chiave come Mediobanca. Il secondo è il fondo legato all’eredità dell’impero di Leonardo Del Vecchio, che sembra giocare, per ora, all’ombra di Catella. Symbiosis, il distretto direzionale di Via Adamello vicino a Fondazione Prada, e le nuove torri del quartier generale di Snam sorgeranno con Covivio all’ombra del Villaggio Olimpico. Ma il gruppo Delfin, braccio finanziario della famiglia di Agordo, intende muoversi slegandosi dai grandi giochi finanziari. Il recente annuncio dell’imminente delisting da Piazza Affari di Covivio appare un ramoscello d’ulivo che lo svincola dalle grandi partite finanziarie e fa del real estate il business chiave del gruppo. E in un certo senso sembra favorire la distensione a cui tutti stanno lavorando. Quanto durerà lo scopriremo nei prossimi mesi.

Dalla Corte dei Conti a Draghi: per il governo Meloni la colpa è sempre di qualcun altro

Dai benzinai a Mario Draghi passando per gli scafisti. Fino alla Corte dei conti, l’ultima protagonista di quella che potremmo definire la saga dal titolo È colpa di altri. In questi mesi di governo, infatti, non sono mancati scaricabarili e ‘nemici’ utili per allontanare responsabilità e colpe dal perimetro della maggioranza.

L’emendamento del governo per escludere la Corte dei conti dal controllo sul Pnrr

L’ultimo atto di questa strategia è l’emendamento presentato dal governo al dl Pa che esclude la Corte dei conti dal ‘controllo concomitante’ sul Pnrr, cioè il potere di verifica durante l’attuazione di un piano e non successivamente. In conferenza stampa il ministro per gli Affari Ue, Raffaele Fitto, ha più volte ribadito che non c’è nessuno scontro in atto con i giudici contabili, ma l’esecutivo ha applicato solo le norme e «il regolamento europeo indica chiaramente che la verifica del raggiungimento dell’obiettivo viene fatta tra Commissione Ue e Stato membro, quindi non è una competenza della Corte dei conti». Nonostante i toni felpati del ministro, difficile non leggere nella dinamica in atto una contrapposizione tra poteri dello Stato. Soprattutto dopo che la stessa Corte aveva evidenziato ritardi su alcuni progetti del Pnrr, come sulle colonnine di ricarica delle auto elettriche e sull’idrogeno. Anche perché, è sembrato il sottotesto di Fitto in alcuni passaggi della conferenza stampa, i rilievi della Corte stanno rendendo più difficile la trattativa del governo in Europa sulla revisione del Piano.

Dalla Corte dei Conti a Draghi: per il governo Meloni la colpa è sempre di qualcun altro
Il ministro per gli Affari Ue Raffaele Fitto (da Fb).

I ritardi sul Pnrr? Colpa di decisioni di altri

E non solo. Il ministro è tornato su un altro cavallo di battaglia del governo per giustificare l’attuazione non proprio spedita del Pnrr. «Alcuni elementi di criticità» relativi al Piano «sono oggetto di decisioni precedenti sulle quali noi abbiamo avviato un adeguamento e una correzione degli interventi». Così l’esecutivo è tornato a indicare in Draghi il responsabile delle difficoltà che sta riscontrando il Piano. Non una novità. Già a marzo scorso, infatti, si era registrata tensione tra l’attuale esecutivo e quello precedente. «Molti progetti sono irrealizzabili, non ce la facciamo», aveva sentenziato Fitto. Parecchi osservatori lessero la dichiarazione come un atto d’accusa all’ex premier tanto che i retroscena parlarono di una telefonata riparatoria tra Giorgia Meloni e l’ex banchiere centrale (mai confermata). Vero è, però, che Francesco Giavazzi, consigliere economico di Draghi a Palazzo Chigi, accettò un invito in tv per dire che «chi dice oggi che il Piano è in ritardo non capisce come funziona».

La scelta dei tecnici di governo non sta portando a Draghi i risultati sperati: da Saipem Tim, tempi duri per le aziende strategiche del Paese
Francesco Giavazzi  (Getty Images).

Il dito puntato da Meloni contro i benzinai e gli scafisti, unici bersagli del governo

Normale scaricabarile, si dirà. Giusto. Eppure in questi mesi di scaribarili se ne sono visti parecchi. Come non dimenticare infatti l’accusa ai benzinai di speculare sul prezzo del carburante? Tutto nacque dalla decisione del governo Meloni di non rinnovare lo sconto sulle accise messo in campo da Draghi dopo lo scoppio della guerra in Ucraina che aveva fatto lievitare, tra l’altro, il costo dei carburanti. Meloni, dopo un primo rinnovo, stoppò la misura, dirottando – legittimamente – quelle risorse ad altre voci di spesa. La conseguenza fu un aumento dei prezzi alla pompa. Una dinamica che portò, però, l’esecutivo ad accusare i distributori di speculare sul prezzo, tanto da spingere Palazzo Chigi a emanare un decreto legge per obbligarli a esporre cartelli con i prezzi medi nella zona di riferimento. Scelta mal digerita dai gestori che proclamarono uno sciopero, in parte poi revocato. Che dire poi dell’immigrazione? Grande cavallo di battaglia della destra pronta a blocchi navali (ricetta FdI) e chiusura di porti (Lega) all’opposizione. Gli ultimi dati disponibili parlano di quasi 50 mila sbarchi da gennaio. Nello stesso intervallo di tempo nel 2022 erano stati 19.550 e nel 2021 ancora meno, 14.700. Nel momento più critico dell’emergenza, segnato dalla tragedia di Cutro che costò la vita a 90 persone, Meloni scelse come bersagli gli scafisti. In un Cdm riunito proprio in Calabria per emanare norme durissime contro chi gestisce i viaggi illegali, la premier disse: «Noi siamo abituati a un’Italia che si occupa soprattutto di andare a cercare i migranti attraverso tutto il Mediterraneo, quello che vuole fare questo governo è andare a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo, perché vogliamo rompere questa tratta».

Dalla Corte dei Conti a Draghi: per il governo Meloni la colpa è sempre di qualcun altro
Giorgia Meloni durante la conferenza stampa a Cutro (Getty Images).

La maggioranza sotto nel voto sul Def a causa del taglio dei parlamentari

E come dimenticare il brutto incidente parlamentare di fine aprile quando la maggioranza finì sotto alla Camera sul voto sul Def? In quel caso, le forze di maggioranza individuarono la responsabilità nel taglio dei parlamentari. «Quello che abbiamo visto è una conseguenza di quella furia iconoclasta che ha portato a un taglio lineare dei parlamentari, senza preoccuparsi del fatto che i ruoli apicali della Camera dei deputati, a differenza del Senato, sono rimasti esattamente gli stessi», attaccò il capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari. Simile posizione era stata espressa anche dal collega di Fratelli d’Italia Tommaso Foti, secondo cui «alcuni quorum, funzionali per rendere efficaci le votazioni, che sono stati stabiliti quando questa camera era di 630 componenti, sono rimasti immutati, nonostante la Camera sia stata ridotta a 400 componenti». Non considerando che ovviamente con il taglio dei parlamentari anche i quorum sono stati visti al ribasso (alla Camera da 316 a 201). Di chi sarà la colpa del prossimo capitolo?

Fazio sul Nove, l’operazione di Caschetto e i link con La7

Il panorama editoriale televisivo italiano sembra una maionese impazzita. A livello di retroscena, più o meno smentiti, si rincorrono voci d’ogni sorta: Cairo-Rcs che secondo Dagospia sarebbe interessato ad acquistare Mediaset con una cordata di imprenditori, approfittando dell’inevitabile tramonto di Silvio Berlusconi; il gruppo Discovery che potrebbe a sua volta fiondarsi sul Biscione o che (in alternativa?) starebbe lavorando alla fusione tra Nove e La7. In ogni caso, il broadcaster che vanta 17 canali, oltre a Discovery+, tra cui Real Time, Food Network e soprattutto Nove, è sugli scudi in queste ore dopo il trasloco di Fabio Fazio e della squadra di Che Tempo Che Fa, “epurati” dalla nuova Rai targata Meloni.

Ufficiale, Fabio Fazio lascia la Rai e passa a Warner Bros. Discovery. Insieme a lui trasloca anche Luciana Littizzetto.
Fabio Fazio (Getty Images).

Il vero regista del trasloco di Fazio a Nove guidato da Araimo è Beppe Caschetto

Un passaggio che, secondo molti, accredita in prospettiva proprio Nove quale nuovo canale generalista in competizione con i principali che normalmente scorriamo sul nostro telecomando. Dopo la migrazione di Maurizio Crozza, l’accordo con Fazio è il secondo “colpo” che fa rumore per l’azienda della Warner Bros che in Italia è guidata da Alessandro Araimo, un passato in Fininvest nel suo ricco curriculum. Ma il vero demiurgo dietro le quinte dell’operazione, il nome che collega la satira non allineata all’intrattenimento dei “Belli ciao” sbeffeggiati da Matteo Salvini è quello di Beppe Caschetto, agente che non casualmente rappresenta gli interessi professionali sia di Crozza che di Fazio. E non solo. Basti pensare al gruppo di giornalisti che fa capo al Fatto Quotidiano: Marco Travaglio, Andrea Scanzi e Peter Gomez animano una piattaforma tv, Loft, i cui contenuti vanno proprio su Nove. E guarda caso si tratta di firme ospiti con regolarità nei vari talk de La7. Del gruppo faceva parte anche Francesca Fagnani con il suo Belve, prima di passare in Rai: la giornalista è anche compagna di Enrico Mentana, direttore del telegiornale della stessa emittente di Urbano Cairo.

Fazio sul Nove, l'operazione di Caschetto e i link con La7
Alessandro Araimo.

La scuderia del “Richelieu della tv” e i link tra Nove e La7

Dunque, i link che tengono insieme La7 e la Nove sono molto stretti. E Caschetto ne è protagonista di default, data la grande e capillare rete di artisti, giornalisti e autori tv che a lui fanno capo. Tutto iniziò 30 anni fa con Alba Parietti, ma oggi i nomi illustri in bouquet spaziano da Virginia Raffaele a Sabrina Ferilli, da Stefano De Martino ad Andrea Delogu, da Geppi Cucciari a Luca e Paolo, senza dimenticare Enrico Brignano, Maurizio Lastrico, Pif, Neri Marcorè, Brenda Lodigiani, Geppi Cucciari, Fabio Volo e Alessia Marcuzzi, quest’ultima ormai da 30 anni. Ma l’elenco potrebbe continuare: in portfolio c’è anche l’altro nome celebre di Che Tempo Che Fa, Luciana Littizzetto, oltre a Federico Russo, Enrico Bertolino, Maddalena Corvaglia o Miriam Leone per la sola carriera televisiva. E poi i giornalisti: Roberto Saviano, Lucia Annunziata, Giovanni Floris, Lilli Gruber, Corrado Formigli, Massimo Gramellini, Cristina Parodi, Salvo Sottile, Ilaria D’Amico, Daria Bignardi, Luca Telese, Enrico Lucci, Mia Ceran, Roberta Rei, Alice Martinelli, Domenico Iannaccone. E in passato anche Nicola Porro, che ora potrebbe sbarcare trionfante in Rai, magari proprio al posto di Fazio (ma Mediaset vuole tenerselo stretto). Non manca poi qualche autore tv di prestigio, come il braccio destro dello stesso Crozza, Andrea Zalone, e una delle “menti” sia di Crozza che di Fazio, Piero Guerrera che ha lavorato con gli stessi Luca e Paolo e Cucciari, oltre ad aver scritto per la coppia comica Ale e Franz che lo stesso Caschetto ha prodotto in teatro. Come si vede dai nomi, il talent scout emiliano, classe 1957, ha in mano un bel pezzo dei palinsesti Rai, ma forse è persino più “invasivo” nell’informazione de La7. Adesso sta lavorando dietro le quinte alla costruzione della Nove e l’arrivo di Fazio-Littizzetto (con i loro ospiti fissi della scuderia, da Saviano a Brignano) è un pezzo di questa strategia. Un tempo i fuoriusciti Rai erano tutti destinati ad approdare dalle parti di Cairo. Ora il vento potrebbe cambiare? Singolare coincidenza: la presidente della tv pubblica, Marinella Soldi, è stata in passato Ceo di Discovery. Oggi il suo voto è stato decisivo per il via libera al nuovo assetto meloniano in Rai e una fonte di Viale Mazzini chiosa: «Non farà resistenza perché tra l’altro è di area renziana e a Renzi non dispiace il nuovo vento che spira».

Perché la rai di Fuortes e Soldi parte in salita
Marinella Soldi, presidente Rai.

Il dominio di Caschetto, Presta, Ballandi e l’autoregolamentazione di Salini rimasta lettera morta

In tutti i casi c’è molto lavoro per la bolognese Itc 2000, azienda di famiglia Caschetto: una quindicina di dipendenti, appartiene a Beppe per il 70 per cento, mentre il restante 30 è diviso tra la moglie Rossana Mignani e la figlia Federica. Il fatturato 2021 è a quota 3,3 milioni di euro, in calo rispetto ai 4,6 milioni del 2019, ma i numeri non restituiscono il senso dell’influenza esercitata dal “Richelieu della tv”, come Caschetto viene definito. Un potere condiviso con l’altro grande curatore delle star, Lucio Presta, e con la società Ballandi che fu fondata dal celebre Bibi, scomparso cinque anni fa. Vedremo adesso a quali riassetti porterà il cambio di stagione in Rai. Certo, a Viale Mazzini ricordano come appaia lettera morta l’autoregolamentazione che risale ai tempi dell’ad Fabrizio Salini, secondo cui ciascun agente esterno non dovrebbe rappresentare più del 30 per cento degli artisti di una stessa produzione e non potrebbe curare gli interessi di personaggi tv impegnati in trasmissioni da lui prodotte. Insomma, Tele-Caschetto o Tele-Presta, c’è da giurarci, continueranno a farla da padroni.