OpenCUP, l’informazione al centro

Giunto alla fine della seconda fase, il progetto del DiPE, Invitalia e Sogei mette a disposizione i dati sugli investimenti pubblici.

Si è tenuto il 16 dicembre 2019 a Roma presso il Talent Garden, l’evento conclusivo del progetto OpenCUP, dati che creano valore.

L’iniziativa, nata dall’idea del Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica (DiPE), ha voluto valorizzare la banca dati del Sistema Codice Unico di Progetto – CUP con la pubblicazione in formato open dell’Anagrafe dei progetti d’investimento pubblico sulPortale OpenCUP.  All’indirizzo opencup.gov.it, il portale, infatti, mette a disposizione di tutti, cittadini, istituzioni ed altri enti, i dati, in formato aperto, sulle decisioni di investimento pubblico finanziate con fondi pubblici nazionali, comunitari o regionali o con risorse private registrate con il Codice Unico di Progetto.

L’iniziativa è giunta al compimento della sua seconda fase ed è finanziata dai fondi europei (PON Governance e Capacità istituzionale 2014-2020): l’evento è stato l’occasione per condividere l’esperienza maturata negli ultimi tre anni anche nell’ambito delle solide collaborazioni che si sono instaurate con i partner Invitalia e Sogei; illustrare i risultati raggiunti e prospettare gli sviluppi futuri del progetto OpenCUP.

Tra i presenti, oltre ai protagonisti dell’iniziativa, l’Autorità di Gestione del PON finanziatore del progetto, Invitalia S.p.A. e Sogei S.p.A, i testimonial del riuso dei dati OpenCUP, da Bankitalia fino al caso di Tom Tom che attraverso i dati OpenCUP può creare servizi di geo-referenziazione ad alto valore aggiunto. Presente anche il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Mario Turco, che ha dichiarato: “I sistemi di monitoraggio degli investimenti pubblici sono diventati strumenti cruciali nell’attuazione degli interventi programmati, perché consentono sia di seguirne i progressi, che di evidenziare i casi di blocco nei processi e di effettuare le opportune riprogrammazioni di risorse. Bisogna però precisare che in questo ambito, ci sono ad oggi delle criticità a più livelli che ne impediscono una piena operatività. Il rafforzamento del monitoraggio deve necessariamente passare per un cambiamento culturale che porti gli attori coinvolti, monitoranti e monitorati, ad un dialogo tra centro e periferia per ritenere tale azione non solo come un onere ma anche come un’opportunità.”  

I NUMERI DEL PORTALE OPENCUP

La seconda fase del progetto ha ingrandito e ampliato il pannel dei dati. Opencup.gov.it, online dal dicembre del 2015, ha reso disponibili ad oggi i dati su 3,3 milioni di interventi pubblici (tra questi 1 milione di records riguardano i lavori pubblici (erano già 800mila nel 2015); 2,2 milioni di dati sugli incentivi alle imprese e circa 100mila records sui contributi per la ricostruzione post eventi sismici. Tutto è rilasciato in formato aperto e scaricabile in un unico dataset complessivo.

Durante l’evento il DiPE ha annunciato anche la consegna delle chiavi di accesso al sistema MGO per il monitoraggio delle grandi opere a favore della DIA, per aumentare la legalità e contrastare le infiltrazioni mafiose negli appalti. Attualmente sono monitorate 67 grandi opere per 66 miliardi di euro.

IMPORTANTI COLLABORAZIONI

Un portare che propone, dunque, uno sguardo d’insieme sugli investimenti pubblici. Tutto questo è stato possibile grazie all’interoperabilità tra diversi sistemi informativi e all’ottimizzazione del corredo informativo. Tramite il portale OpenCUP, infatti, è possibile ricercare un determinato progetto e se esistono dati su quest’ultimo, si può cercare anche su altri portali. Le cooperazioni già attive sono con OpenCoesione, OpenCantieri e Italia sicura scuole. Collaborazioni come quella con il Centro Nazionale delle ricerche e il Politecnico di Milano hanno contribuito, infine, all’innalzamento della qualità dei dati.

«Oggi tradurre le esigenze di innovazione del Paese in benefici per i cittadini significa mettere il cittadino stesso al centro dei servizi pubblici e consentirgli di interagire con lo Stato in trasparenza anche attraverso canali e strumenti digitali di Open Government – ha dichiarato Andrea Quacivi, Ad di Sogei. #NoidiSogei supportiamo i nostri Clienti in progetti reali, Open Cup rappresenta una eccellenza dell’Italia, un esempio di progetto innovativo digitale, oltre ad essere un servizio pubblico precursore nell’uso degli Open data, creato e sviluppato per favorire la conoscenza e la consapevolezza dei cittadini sulle decisioni di investimento pubblico. L’Italia si posiziona al 4’ posto nell’ambito della componente Open data dell’indice DESI 2019, dietro solo all’ Irlanda, alla Spagna e alla Francia, questo è un risultato significativo di cui si parla troppo poco, gli Open data costituiscono una risorsa primaria, un bene comune come l’aria e l’acqua, disponibile senza barriere tecniche, giuridiche, di prezzo».

I RICONOSCIMENTI PER OPERNCUP

Il progetto, per la sua utilità e trasparenza, ha ricevuto importanti riconoscimenti come l’Open Data Maturity Report 2018 – Best practice europea (20 novembre 2018); il Premio “Agenda digitale” dell’Osservatorio del Politecnico di Milano (13 dicembre 2018) e il Premio Innovazione 2018 conferito dal Senato della Repubblica in collaborazione con la Fondazione COTEC (Roma, 4 marzo 2019).

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Il contratto di matrimonio tra Fca e Psa si firma il 18 dicembre

Sul testo hanno lavorato 50 persone, La fusione vale 50 miliardi. Ancora da capire se i cinesi di Dongfeng usciranno dall'azionariato del gruppo automobilistico francese.

Le nozze tra Fiat Chrysler e Psa sono sempre più vicine. È attesa per mercoledì la firma del Memorandum of understanding, il documento vincolante che delinea i prossimi passi verso la fusione delle due case automobilistiche. Un’operazione che dovrebbe concretizzarsi entro un anno. Il Memorandum, che in pratica riprende i contenuti delle comunicazioni ufficiali diffuse il 31 ottobre, non conterrà i dettagli su produzione, fabbriche, modelli e sinergie perché di questo si comincerà a parlare dopo l’accordo. In rialzo a Piazza Affari il titolo Fca (+1%).

AL LAVORO 50 PERSONE E NOVE GRUPPI SUL TESTO

Il testo dell’accordo, dopo un fine settimana di lavoro per tentare di chiudere le ultime questioni in sospeso, sarà presentato al consiglio di sorveglianza di Psa. Lo Stato francese conferma, intanto, il suo parere favorevole all’operazione. Fonti del ministero dell’Economia sottolineano che, come già dichiarato nelle scorse settimane, «questa operazione ha senso» perché permette «costruire un nuovo campione di statura mondiale per rispondere alle sfide della mobilità sostenibile». Alla definizione del Memorandum hanno lavorato 50 persone in nove gruppi, guidati da Doung Ostermann, tesoriere e direttore delle operazioni di Fca, e da Olivier Bourges, direttore dei programmi e delle strategie di Psa. All’operazione guardano con attenzione anche gli Stati Uniti, mentre hanno espresso un giudizio positivo il governo italiano e i sindacati europei del gruppo. Dalla fusione, che vale 50 miliardi, nascerà il quarto gruppo mondiale dell’auto.

UNA FUSIONE DA 50 MILIARDI

La nuova società sarà paritetica 50% Fca e 50% Psa (la holding Exor al 14,5%, mentre lo Stato francese, la famiglia Peugeot e il socio cinese Dongfeng Motor avranno il 5,9% ciascuno), avrà sede in Olanda e sarà quotata a Milano, Parigi e Wall Street. Le sedi operative saranno a Torino, Parigi e Auburn Hills. Alla guida del gruppo ci saranno Carlos Tavares, amministratore delegato e John Elkann, presidente. Il consiglio di amministrazione sarà formato da cinque rappresentanti dei soci Psa e cinque dei soci Fca, mentre l’undicesimo consigliere sarà Tavares che avrà un mandato iniziale di 5 anni. Non ancora chiarito il ruolo di Mike Manley, attuale amministratore delegato di Fca, che dovrebbe continuare a lavorare a stretto contatto con Tavares. Le sinergie annuali a breve termine sono stimate intorno ai 3,7 miliardi di euro, ma non chiuderanno stabilimenti. Resta da definire il ruolo dei cinesi di Dongfeng che nelle scorse settimane hanno paventato la possibilità di uscire dall’azionariato di Psa. Per i suoi azionisti Fca prevede, prima del perfezionamento dell’operazione, che porterà alla nascita di un gruppo con ricavi pari a quasi 170 miliardi di euro e un utile operativo di oltre 11 miliardi, un dividendo spe

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Il contratto di matrimonio tra Fca e Psa si firma il 18 dicembre

Sul testo hanno lavorato 50 persone, La fusione vale 50 miliardi. Ancora da capire se i cinesi di Dongfeng usciranno dall'azionariato del gruppo automobilistico francese.

Le nozze tra Fiat Chrysler e Psa sono sempre più vicine. È attesa per mercoledì la firma del Memorandum of understanding, il documento vincolante che delinea i prossimi passi verso la fusione delle due case automobilistiche. Un’operazione che dovrebbe concretizzarsi entro un anno. Il Memorandum, che in pratica riprende i contenuti delle comunicazioni ufficiali diffuse il 31 ottobre, non conterrà i dettagli su produzione, fabbriche, modelli e sinergie perché di questo si comincerà a parlare dopo l’accordo. In rialzo a Piazza Affari il titolo Fca (+1%).

AL LAVORO 50 PERSONE E NOVE GRUPPI SUL TESTO

Il testo dell’accordo, dopo un fine settimana di lavoro per tentare di chiudere le ultime questioni in sospeso, sarà presentato al consiglio di sorveglianza di Psa. Lo Stato francese conferma, intanto, il suo parere favorevole all’operazione. Fonti del ministero dell’Economia sottolineano che, come già dichiarato nelle scorse settimane, «questa operazione ha senso» perché permette «costruire un nuovo campione di statura mondiale per rispondere alle sfide della mobilità sostenibile». Alla definizione del Memorandum hanno lavorato 50 persone in nove gruppi, guidati da Doung Ostermann, tesoriere e direttore delle operazioni di Fca, e da Olivier Bourges, direttore dei programmi e delle strategie di Psa. All’operazione guardano con attenzione anche gli Stati Uniti, mentre hanno espresso un giudizio positivo il governo italiano e i sindacati europei del gruppo. Dalla fusione, che vale 50 miliardi, nascerà il quarto gruppo mondiale dell’auto.

UNA FUSIONE DA 50 MILIARDI

La nuova società sarà paritetica 50% Fca e 50% Psa (la holding Exor al 14,5%, mentre lo Stato francese, la famiglia Peugeot e il socio cinese Dongfeng Motor avranno il 5,9% ciascuno), avrà sede in Olanda e sarà quotata a Milano, Parigi e Wall Street. Le sedi operative saranno a Torino, Parigi e Auburn Hills. Alla guida del gruppo ci saranno Carlos Tavares, amministratore delegato e John Elkann, presidente. Il consiglio di amministrazione sarà formato da cinque rappresentanti dei soci Psa e cinque dei soci Fca, mentre l’undicesimo consigliere sarà Tavares che avrà un mandato iniziale di 5 anni. Non ancora chiarito il ruolo di Mike Manley, attuale amministratore delegato di Fca, che dovrebbe continuare a lavorare a stretto contatto con Tavares. Le sinergie annuali a breve termine sono stimate intorno ai 3,7 miliardi di euro, ma non chiuderanno stabilimenti. Resta da definire il ruolo dei cinesi di Dongfeng che nelle scorse settimane hanno paventato la possibilità di uscire dall’azionariato di Psa. Per i suoi azionisti Fca prevede, prima del perfezionamento dell’operazione, che porterà alla nascita di un gruppo con ricavi pari a quasi 170 miliardi di euro e un utile operativo di oltre 11 miliardi, un dividendo spe

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Le valutazioni della Banca d’Italia sulla crisi della Banca Popolare di Bari

Secondo Palazzo Koch l'eventuale liquidazione dell'istituto potrebbe causare danni rilevanti. Sul piatto almeno 4,5 miliardi per rimborsare i piccoli correntisti. Già 10 anni fa un primo controllo aveva dato esito sfavorevole. La situazione.

Mentre il governo è corso ai ripari con un procedimento ad hoc per puntallare la Banca popolare di Bari, sono arrivate anche le valutazioni della Banca d’Italia. Palazzo Koch ha rilasciato un “documento di approfondimento” con diverse valutazioni sullo stato dell’istituto pugliese, dai controlli del 2010 allo stato dei conti.

DANNI RILEVANTI SE L’ISTITUTO DOVESSE ESSERE LIQUIDATO

Nel documento si legge chiaramente che «nell’ipotesi in cui si dovesse pervenire a uno scenario liquidatorio con rimborso dei depositanti (senza cessione di attività e passività ad un altro intermediario), le ricadute del dissesto sarebbero assai rilevanti, sia sul tessuto economico sia sul risparmio locale». «La liquidazione», si legge nel dossier, «implicherebbe innanzi tutto l’azzeramento del valore delle azioni che esacerberebbe il contenzioso legale con i soci». Secondo la Banca d’Italia, «sulla base di prime stime verrebbero inoltre colpiti integralmente i creditori chirografari e i depositi eccedenti i 100.000 euro non riconducibili a famiglie e piccole imprese, con il rischio che siano colpiti, in quota parte, anche quelli superiori a 100.000 euro facenti capo a tali ultimi soggetti». «La cessazione dell’attività della banca implicherebbe anche il blocco dell’operatività con forte pregiudizio della continuità di finanziamento di famiglie e imprese; gli impatti sul territorio sarebbero considerevoli».

Nell’infografica realizzata da Centimetri la scheda della Banca popolare di Bari. ANSA/CENTIMETRI

POSSIBILI RIMBORSI DA 4,5 MILIARDI

Nell’ipotesi in cui si dovesse pervenire a uno scenario con rimborso dei depositanti della Popolare, «il Fitd dovrebbe effettuare rimborsi a favore dei depositanti protetti per un importo complessivo di euro 4,5 miliardi circa, a fronte di una dotazione finanziaria che a dicembre 2019 sarà pari a 1,7 miliardi di euro», ha spiegato ancora Bankitalia.

LA FOTOGRAFIA: 600 MILA CLIENTI PER 8 MILIARDI DI DEPOSITI

Nel report si mette in luce che alla banca fanno capo poco meno di 600.000 clienti, tra cui oltre 100.000 aziende; a queste ultime è riferibile circa il 60% degli impieghi (intorno a 6 miliardi). I depositi da clientela ammontano a 8 miliardi di euro, di cui 4,5 miliardi di ammontare inferiore a 100.000 euro «e come tali protetti dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (Fitd)». La banca ha quote di mercato significative, nell’intorno del 10%, sia degli impieghi sia della raccolta, in Puglia, Basilicata e Abruzzo. Il radicamento capillare della banca e la sua natura di cooperativa sul territorio hanno determinato l’ampia diffusione degli strumenti finanziari emessi dalla Popolare. Il numero dei soci è pari a 70.000 circa, con quote di partecipazione mediamente pari a 2.500 azioni, corrispondenti a 5.900 euro, considerando l’ultimo prezzo rilevato sul mercato Hi-MTF prima della recente sospensione (2,38 euro). Le obbligazioni della banca (senior e subordinate), pari nel complesso a 300 milioni di euro, sono per oltre i due terzi in mano a privati e clientela al dettaglio.

GOVERNO AVVISATO CON QUATTRO LETTERE

Un primo accertamento ispettivo nel 2010 si era concluso con una valutazione «parzialmente sfavorevole». A quello sono poi seguiti una ventina di passaggi e verifiche, con «continui scambi informativi con la Consob», «numerose e continue interlocuzioni con l’autorità giudiziaria» e «l’aggravamento della situazione aziendale della Banca Popolare di Bari più volte portata all’attenzione anche del ministro dell’Economia, con lettere del 27 febbraio, 23 maggio, 2 ottobre e 26 novembre».

LA TIMELINE DEGLI EVENTI DOPO IL 2010:

  • Nel 2011-12 faro della vigilanza «sull’efficacia e funzionalità del sistema dei controlli interni» e richiamo «all’esigenza di rafforzare i presidi» sui «rischi di liquidità e compliance».
  • Nel 2013 nuovi accertamenti ispettivi sul rischio di credito. Le verifiche «mettono in luce progressi» ma «viene peraltro evidenziato il permanere di alcune aree di debolezza». Si chiede un piano. Poi «in considerazione degli interventi posti in essere» vengono rimossi i provvedimenti restrittivi.
  • Nel luglio 2014 «la Banca d’Italia autorizza Bpb ad acquisire il controllo di Banca Tercas; al fine di garantirne la sostenibilità, l’intervento viene accompagnato da un contributo di 330 milioni alla Bpb da parte del Fondo Interbancario». Viene fatta una specifica due diligence. Il coinvolgimento della Bpb nell’operazione si configura come un intervento di salvataggio, di salvaguardia dei depositanti e rilancio della banca volto alla salvaguardia dell’interesse dei depositanti e al rilancio commerciale del gruppo abruzzese.
  • Primavera del 2015: l’intervento del Fitd viene contestato dalla Commissione Europea «per la sua presunta configurabilità come aiuto di Stato». L’intervento viene sostituito ma «si ritardano i tempi di integrazione con significative conseguenze negative sulla attività di entrambi gli istituti”. Poi «solo nel 2019 il Tribunale dell’Unione annulla la decisione Ue sugli aiuti a Banca Tercas». La Commissione europea si appella. In connessione con la riforma delle banche popolari «l’Assemblea dei soci (…) delibera la riduzione da 9,53 euro a 7,5 euro del valore delle azioni; ne seguono un malcontento della base sociale e richieste di vendita delle azioni».
  • Nei primi mesi del 2016 la Banca d’Italia richiede un’indagine sulle eventuali connessioni tra finanziamenti e sottoscrizioni delle suddette nuove azioni e obbligazioni (fenomeno delle cosiddette “operazioni baciate”).
  • Giugno 2016. Nuova ispezione «mirata ai profili di adeguatezza patrimoniale e del credito»: giudizio «parzialmente sfavorevole». Viene rilevato «che l’azione di indirizzo e controllo dell’Organo amministrativo e dell’Esecutivo della Capogruppo non è stata pienamente adeguata ad affrontare le accresciute complessità derivanti, tra l’altro, dall’ampliamento del perimetro operativo conseguito con l’acquisizione del gruppo Tercas. Non emergono significative evidenze di operazioni “baciate”». Scattano anche segnalazioni alla Consob che poi comminerà una multa da 2 milioni.
  • Nel dicembre 2016, per effetto delle Ordinanze del Consiglio di Stato che sospendono l’attuazione della riforma delle banche popolari, si interrompe il processo di trasformazione della Bpb in società per azioni. Viene quindi meno una condizione importante per raccogliere capitale di rischio.
  • Con lettera contestuale del 15 marzo 2017 «la Vigilanza sottolinea che la Bpb ha bisogno di un rafforzamento patrimoniale e della governance con l’ingresso di elementi con specifiche competenze in materia bancaria e finanziaria; invita inoltre il Presidente a dar corso ai propositi di rassegnare le proprie dimissioni». Nuova richiesta di rafforzare il comparto creditizio e contenere i costi, che viene ribadita anche dopo.
  • Nei primi mesi del 2018, la banca elabora alcuni progetti alternativi di trasformazione societaria e ipotesi di integrazione con altre popolari “less significant” operanti nel centro-sud. Le analisi effettuate dalla vigilanza evidenziano tuttavia i rilevanti rischi legali di questi progetti pertanto accantonati. In varie occasioni nel corso dell’anno la banca comunica contatti con investitori potenzialmente interessati. Seguono diversi incontri con i vertici della banca, nei quali la vigilanza ribadisce la necessità di una ricapitalizzazione
  • Nel 2018 il processo di trasformazione societaria attraversa fasi alterne. Si accelera il deterioramento della situazione aziendale: il primo semestre si chiude con un rosso di 140 mln.
  • Novembre 2018, Bankitalia evidenzia «l’inadeguatezza del percorso di ristrutturazione aziendale» e chiede notizia su «progressi nel progetto di integrazione con altre banche popolari». Faro anche sugli accantonamenti sulle esposizioni nei confronti dei maggiori gruppi affidati. L’esercizio 2018 si chiude con una perdita consolidata di 430 milioni.
  • All’inizio del 2019 emergono forti conflittualità tra Presidente e l’ad. «Si determina un vero e proprio stallo gestionale».
  • Nel giugno 2019 la Banca d’Italia avvia una procedura sanzionatoria amministrativa nei confronti dell’intermediario e di alcuni dirigenti ed ex dirigenti, per carenze nei controlli.
  • Nella prima metà del 2019, in numerosi incontri «la Vigilanza sottolinea agli esponenti aziendali la necessità di preservare la coesione nella governance in una fase particolarmente delicata per la banca». Chiede esponenti autorevoli nel Cda, che si rinnova parzialmente a fine luglio 2019.
  • Il 18 giugno 2019 vengono avviati presso la capogruppo accertamenti ispettivi di vigilanza a spettro esteso. L’ispezione si concentra in una prima fase sul ricambio della governance, avvenuto a fine luglio, per poi passare all’analisi della qualità del credito. I risultati, ufficializzati a dicembre, evidenziano l’incapacità della nuova governance di adottare con sufficiente celerità ed efficacia le misure correttive necessarie per superare la stasi operativa e riequilibrare la situazione reddituale e patrimoniale della BPB. Emergono inoltre gravi perdite patrimoniali che portano i requisiti prudenziali di Vigilanza al di sotto dei limiti regolamentari.

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Siamo appena agli inizi della digital revolution

I cambiamenti sperimentati finora sono solo un assaggio. La vera trasformazione avverrà nei prossimi 20 anni. E porterà a un’economia Ict driven in tutti i settori.

Se qualcuno pensa oggi che il digitale abbia già apportato un grande cambiamento nelle nostre vite, rimarrà sorpreso di sapere che stiamo vivendo solamente l’inizio di una radicale trasformazione nel business e nella società. I cambiamenti degli ultimi 20 anni di digital revolution avranno pieno impatto nei prossimi 20 e più, fino ad avere un’economia ed una società Ict driven in tutti i settori. Infatti, mentre finora i cambiamenti più visibili erano nelle aree consumer, la rivoluzione e le opportunità digitali si stanno spostando negli ambiti operations, supply chain e nel business to business e business to government, settori più lenti nei cambiamenti ma che quando si muovono lo fanno con una scala che genera impatti molto profondi nel tessuto economico.

NESSUN SETTORE SARÀ RISPARMIATO DALLA RIVOLUZIONE

Non vi è settore che non sarà rivoluzionato. La digital revolution toccherà anche servizi finanziari ed assicurativi, di sicurezza, ma anche l’IT stesso, fino ad arrivare a quei settori considerati “maturi”, quali la logistica, l’agricoltura, l’industria. Ma, concretamente, quali sono i cambiamenti a cui le aziende nei vari settori dovranno prepararsi? Primo fra tutti il business model, cioè il modello fondamentale con cui oggi ottengono profitto. Inoltre, l’evoluzione dovrà tenere conto dei concorrenti attuali, di nuovi possibili entranti, nativi digitali, ma anche degli altri attori nella catena del valore attuale come clienti, distributori e fornitori. Il motto è “il tuo margine è la mia opportunità”. La lotta sarà per il controllo del cliente finale, degli asset strategici, delle competenze critiche e così via.

POCHISSIME AZIENDE ITALIANE TENGONO IL PASSO

Un altro cambiamento fondamentale sarà nella scala minima, nella massa critica, necessaria per restare competitivi in un mondo di giganti. In relazione alla struttura dei costi, agli investimenti in R&D ed in tecnologia, alla scala richiesta per acquisire e controllare competenze, brevetti, dati, accesso a materie prime, asset strategici, canali distributivi. Praticamente, tutti i fattori strategici e competitivi del futuro. Questo non solo per vincere nei mercati di sbocco, ma anche per essere attrattivi nel mercato dei capitali. Nel concreto, poche, pochissime aziende italiane – nei settori non regolamentati – hanno oggi la scala per essere protagonisti nei prossimi 20 anni. A tal fine, il tasso di innovazione del prodotto e di tutti i servizi ad esso collegati che definiscono la customer experience dovranno necessariamente accelerare. L’innovazione dovrà essere continua anche nei processi produttivi, nella gestione della supply chain e delle operations, per poter migliorare costantemente il livello di servizio al cliente mentre, riducendo il cost-to-serve.

Anche i ruoli aziendali saranno stravolti, ci sarà maggiore enfasi sulle figure professionali a contatto con il cliente e quelle legate alla tecnologia e all’innovazione

Tutti i cambiamenti elencati finora non potranno che mettere in discussione i modelli organizzativi aziendali tradizionali e verticalmente rigidi. I confini stessi dell’azienda verranno ridefiniti, con un processo di integrazione con l’ecosistema in cui l’azienda opera. Anche i ruoli aziendali saranno stravolti, ci sarà maggiore enfasi sulle figure professionali a contatto con il cliente e quelle legate alla tecnologia e all’innovazione, con uno stravolgimento nel ruolo e negli approcci dei manager, che rischieranno di diventare un elemento di rigidità in un sistema che dovrà essere molto fluido. I cambiamenti nei sistemi di gestione delle persone e del capitale umano, saranno ancora più drastici. A parte la sostituzione degli “umani” e dei decisori con robot e con machine learning, dovranno cambiare le modalità di attrazione e ritenzione del talento, delle nuove competenze, così come gli approcci alla divisione del lavoro, al team-working, alla fissazione degli obiettivi e alla misurazione dei risultati e delle modalità di compenso.

L’EVOLUZIONE DEL RAPPORTO CON GLI AZIONISTI

Ultimo cambiamento, ma non meno importante, sarà nel rapporto con i fornitori di capitale, azionisti in primis. Servono nuovi soggetti, che affianchino gli imprenditori, in grado di comprendere i nuovi modelli di rischio-rendimento, di creare sinergie e modelli di collaborazione all’interno di un certo ecosistema, di accompagnare le aziende in questo percorso di crescita continuo ed incerto con capitali “fedeli” ma anche flessibili nel lungo termine. Grandi sfide, grandi opportunità.

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Siamo appena agli inizi della digital revolution

I cambiamenti sperimentati finora sono solo un assaggio. La vera trasformazione avverrà nei prossimi 20 anni. E porterà a un’economia Ict driven in tutti i settori.

Se qualcuno pensa oggi che il digitale abbia già apportato un grande cambiamento nelle nostre vite, rimarrà sorpreso di sapere che stiamo vivendo solamente l’inizio di una radicale trasformazione nel business e nella società. I cambiamenti degli ultimi 20 anni di digital revolution avranno pieno impatto nei prossimi 20 e più, fino ad avere un’economia ed una società Ict driven in tutti i settori. Infatti, mentre finora i cambiamenti più visibili erano nelle aree consumer, la rivoluzione e le opportunità digitali si stanno spostando negli ambiti operations, supply chain e nel business to business e business to government, settori più lenti nei cambiamenti ma che quando si muovono lo fanno con una scala che genera impatti molto profondi nel tessuto economico.

NESSUN SETTORE SARÀ RISPARMIATO DALLA RIVOLUZIONE

Non vi è settore che non sarà rivoluzionato. La digital revolution toccherà anche servizi finanziari ed assicurativi, di sicurezza, ma anche l’IT stesso, fino ad arrivare a quei settori considerati “maturi”, quali la logistica, l’agricoltura, l’industria. Ma, concretamente, quali sono i cambiamenti a cui le aziende nei vari settori dovranno prepararsi? Primo fra tutti il business model, cioè il modello fondamentale con cui oggi ottengono profitto. Inoltre, l’evoluzione dovrà tenere conto dei concorrenti attuali, di nuovi possibili entranti, nativi digitali, ma anche degli altri attori nella catena del valore attuale come clienti, distributori e fornitori. Il motto è “il tuo margine è la mia opportunità”. La lotta sarà per il controllo del cliente finale, degli asset strategici, delle competenze critiche e così via.

POCHISSIME AZIENDE ITALIANE TENGONO IL PASSO

Un altro cambiamento fondamentale sarà nella scala minima, nella massa critica, necessaria per restare competitivi in un mondo di giganti. In relazione alla struttura dei costi, agli investimenti in R&D ed in tecnologia, alla scala richiesta per acquisire e controllare competenze, brevetti, dati, accesso a materie prime, asset strategici, canali distributivi. Praticamente, tutti i fattori strategici e competitivi del futuro. Questo non solo per vincere nei mercati di sbocco, ma anche per essere attrattivi nel mercato dei capitali. Nel concreto, poche, pochissime aziende italiane – nei settori non regolamentati – hanno oggi la scala per essere protagonisti nei prossimi 20 anni. A tal fine, il tasso di innovazione del prodotto e di tutti i servizi ad esso collegati che definiscono la customer experience dovranno necessariamente accelerare. L’innovazione dovrà essere continua anche nei processi produttivi, nella gestione della supply chain e delle operations, per poter migliorare costantemente il livello di servizio al cliente mentre, riducendo il cost-to-serve.

Anche i ruoli aziendali saranno stravolti, ci sarà maggiore enfasi sulle figure professionali a contatto con il cliente e quelle legate alla tecnologia e all’innovazione

Tutti i cambiamenti elencati finora non potranno che mettere in discussione i modelli organizzativi aziendali tradizionali e verticalmente rigidi. I confini stessi dell’azienda verranno ridefiniti, con un processo di integrazione con l’ecosistema in cui l’azienda opera. Anche i ruoli aziendali saranno stravolti, ci sarà maggiore enfasi sulle figure professionali a contatto con il cliente e quelle legate alla tecnologia e all’innovazione, con uno stravolgimento nel ruolo e negli approcci dei manager, che rischieranno di diventare un elemento di rigidità in un sistema che dovrà essere molto fluido. I cambiamenti nei sistemi di gestione delle persone e del capitale umano, saranno ancora più drastici. A parte la sostituzione degli “umani” e dei decisori con robot e con machine learning, dovranno cambiare le modalità di attrazione e ritenzione del talento, delle nuove competenze, così come gli approcci alla divisione del lavoro, al team-working, alla fissazione degli obiettivi e alla misurazione dei risultati e delle modalità di compenso.

L’EVOLUZIONE DEL RAPPORTO CON GLI AZIONISTI

Ultimo cambiamento, ma non meno importante, sarà nel rapporto con i fornitori di capitale, azionisti in primis. Servono nuovi soggetti, che affianchino gli imprenditori, in grado di comprendere i nuovi modelli di rischio-rendimento, di creare sinergie e modelli di collaborazione all’interno di un certo ecosistema, di accompagnare le aziende in questo percorso di crescita continuo ed incerto con capitali “fedeli” ma anche flessibili nel lungo termine. Grandi sfide, grandi opportunità.

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Tim, c’è burrasca nei rapporti tra Gubitosi e Nardello

Tra i due non c’è più il feeling di un tempo. Anzi, sono sorti degli screzi. Colpa dei numeri deludenti. E di qualche eccesso del braccio destro dell'ad.

Cosa succede in Tim tra Luigi Gubitosi e il suo storico braccio destro Carlo Nardello? Dalle parti di Corso Italia ne parlano anche gli uscieri: tra i due non c’è più il feeling di un tempo. Anzi, sono sorti degli screzi.

QUELL’AUTORITRATTO “REGALE” DI NARDELLO

Sarà che i numeri dell’ex monopolista delle Tlc stentano a girare e i due maggiori azionisti, Elliott e Vivendi, pur divisi su tutto sono concordi nel lamentarsene, e dunque c’è tensione nel vertice manageriale. O sarà perché Nardello, fin qui un fedelissimo di Gubitosi, al quale deve i suoi precedenti ruoli in Rai e Alitalia, avrebbe un po’ ecceduto nella considerazione di sé, come certifica, tra le altre cose, un enorme quadro appeso al muro dietro la sua scrivania che lo raffigura in un atteggiamento regale. Un autoritratto che colpisce tutti coloro che varcano la soglia del suo ufficio, e che lo ha esposto a qualche commento ironico. Sia come sia, sta di fatto che in Tim le strade dell’amministratore delegato e del “Chief strategy, customer experience and transformation officer” – questa è la nutrita definizione professionale di Nardello – sembrano allontanarsi se non addirittura dividersi.

Gelo anche tra Nardello e la CSC Vision Srl, la società di pubbliche relazioni di Costanza Esclapon, di cui un tempo egli fu socio con il 30%

Tanto che sarebbe sceso il gelo anche nei rapporti tra Nardello e la CSC Vision Srl, la società di pubbliche relazioni di Costanza Esclapon, di cui un tempo egli fu socio con il 30%. La comunicatrice, da sempre stretta collaboratrice di Gubitosi che ha seguito prima in Rai e poi in Alitalia, e il marito, il bravo Simone Cantagallo – che all’arrivo dell’ad ha assunto, lasciando Lottomatica, il ruolo di capo della comunicazione di Tim – nella controversia hanno preso decisamente le parti di “Gubi”, come tutti lo chiamano ai piani alti e bassi della società di telecomunicazioni. E ora, che farà Nardello? Sembra che voglia giocare una partita tutta sua. E per far questo cerca alleanze tra i dirigenti di prima fascia di Tim. Ma finora si sussurra nei corridoi che l’unico che sembra dargli retta è il responsabile del Procurement e del Real Estate, Federico Rigoni. C’è da scommettere che la reazione di Gubitosi non si farà attendere.

Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.

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Tim, c’è burrasca nei rapporti tra Gubitosi e Nardello

Tra i due non c’è più il feeling di un tempo. Anzi, sono sorti degli screzi. Colpa dei numeri deludenti. E di qualche eccesso del braccio destro dell'ad.

Cosa succede in Tim tra Luigi Gubitosi e il suo storico braccio destro Carlo Nardello? Dalle parti di Corso Italia ne parlano anche gli uscieri: tra i due non c’è più il feeling di un tempo. Anzi, sono sorti degli screzi.

QUELL’AUTORITRATTO “REGALE” DI NARDELLO

Sarà che i numeri dell’ex monopolista delle Tlc stentano a girare e i due maggiori azionisti, Elliott e Vivendi, pur divisi su tutto sono concordi nel lamentarsene, e dunque c’è tensione nel vertice manageriale. O sarà perché Nardello, fin qui un fedelissimo di Gubitosi, al quale deve i suoi precedenti ruoli in Rai e Alitalia, avrebbe un po’ ecceduto nella considerazione di sé, come certifica, tra le altre cose, un enorme quadro appeso al muro dietro la sua scrivania che lo raffigura in un atteggiamento regale. Un autoritratto che colpisce tutti coloro che varcano la soglia del suo ufficio, e che lo ha esposto a qualche commento ironico. Sia come sia, sta di fatto che in Tim le strade dell’amministratore delegato e del “Chief strategy, customer experience and transformation officer” – questa è la nutrita definizione professionale di Nardello – sembrano allontanarsi se non addirittura dividersi.

Gelo anche tra Nardello e la CSC Vision Srl, la società di pubbliche relazioni di Costanza Esclapon, di cui un tempo egli fu socio con il 30%

Tanto che sarebbe sceso il gelo anche nei rapporti tra Nardello e la CSC Vision Srl, la società di pubbliche relazioni di Costanza Esclapon, di cui un tempo egli fu socio con il 30%. La comunicatrice, da sempre stretta collaboratrice di Gubitosi che ha seguito prima in Rai e poi in Alitalia, e il marito, il bravo Simone Cantagallo – che all’arrivo dell’ad ha assunto, lasciando Lottomatica, il ruolo di capo della comunicazione di Tim – nella controversia hanno preso decisamente le parti di “Gubi”, come tutti lo chiamano ai piani alti e bassi della società di telecomunicazioni. E ora, che farà Nardello? Sembra che voglia giocare una partita tutta sua. E per far questo cerca alleanze tra i dirigenti di prima fascia di Tim. Ma finora si sussurra nei corridoi che l’unico che sembra dargli retta è il responsabile del Procurement e del Real Estate, Federico Rigoni. C’è da scommettere che la reazione di Gubitosi non si farà attendere.

Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.

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Poche persone disabili assunte, l’ultimo spreco italiano

Nonostante gli obblighi di legge, ci sono 145 mila posti vacanti per le categorie protette. Eppure gli iscritti alle liste di collocamento mirato sono 775 mila. Ci rimettono la società e le aziende. Ma non ci stancheremo di proporre le nostre competenze nel mercato del lavoro.

Hollie-Ann Brooks, giornalista inglese con disabilità, si è scagliata contro le dichiarazioni di Sally-Ann Hart, candidata conservatrice alle elezioni nel Regno Unito, che, se reffettivamente rilasciate, sarebbero false e molto discriminatorie.

PREGIUDIZI CHE OSTACOLANO IL DIRITTO AL LAVORO

La rappresentante politica avrebbe infatti detto che il salario minimo non dovrebbe essere applicato ai lavoratori con disabilità cognitive perché «non capiscono il valore dei soldi». Che abbia pronunciato queste parole è verosimile, cioè è un esempio dei pregiudizi che ancora ostacolano il diritto al lavoro di tante persone disabili.

STEREOTIPI E DISCRIMINAZIONI IN ITALIA

Ma i nostri compagni inglesi non sono gli unici a dover combattere la discriminazione sul mercato del lavoro. Anche in Italia ci difendiamo bene in quanto a stereotipi che, ahinoi, hanno ripercussioni concrete sulle nostre carriere professionali e chi ancora non ci crede può leggere questa interessante ricerca promossa dalla Fondazione studi consulenti del lavoro (qui un riassunto).

DATI SCONCERTANTI SUGLI OCCUPATI

Al di là dell’esiguo numero dei lavoratori disabili assunti dalle aziende, delle disparità di genere, regionali e intergenerazionali – tutte informazioni già note – ciò che mi ha colpito maggiormente riguarda i posti di lavoro riservati alle persone con disabilità ma ancora vacanti. Sono 145 mila a fronte di solo 360 mila lavoratori disabili occupati dichiarati dalle aziende. Il dato è sconcertante se si pensa che il numero di iscritti alle liste di collocamento mirato, secondo i ricercatori, ammonta a 775 mila ed è in continuo aumento.

EPPURE CI SONO LEGGI CHE TUTELANO LA CATEGORIA

Quasi la metà delle ditte tenute ad adempiere agli obblighi di legge in materia di assunzioni di lavoratori appartenenti alle categorie protette non li rispettano o lo fanno solo parzialmente. Eppure in Italia esistono buone leggi che tutelano il diritto al lavoro delle persone disabili, in primis la 68/99. Come mai non riusciamo a farla rispettare?

IL (BASSO) RISCHIO DI SANZIONI NON BASTA

I datori di lavoro preferiscono incorrere nel rischio delle sanzioni previste per chi viola la normativa piuttosto che mettersi in regola. Probabilmente questo succede anche perché sanno che il pericolo di subire dei controlli è molto basso a causa della scarsità del personale deputato a fare gli accertamenti e degli strumenti necessari per effettuare le verifiche. A loro quindi conviene correre il basso rischio di essere sanzionati piuttosto che assumere un lavoratore ipoteticamente meno produttivo dei suoi colleghi “abili” ed essere magari pure costretti a investire denaro per rendere accessibile il luogo di lavoro.

SINTOMO DI ARRETRATEZZA CULTURALE

Ennesima dimostrazione di come un sistema basato sulle sanzioni sia fallimentare. Far leva solo sugli obblighi di legge e sul denaro – inteso sia in termini di contravvenzioni per chi commette infrazioni sia come incentivi destinati a chi assume – significa agire solo sul piano legale ed economico. Questo è un errore perché l’elevatissimo tasso di disoccupazione delle persone con disabilità è soprattutto conseguenza dell’imperdonabile arretratezza culturale e socio-politica di cui sono intrise le teorie di senso comune rispetto al valore (o piuttosto disvalore) di questi lavoratori.

PERSA L’OPPORTUNITÀ DI AVERE UNA RISORSA IN PIÙ

Le leggi sono necessarie ma devono essere accompagnate, se non addirittura precedute, dal contrasto del pregiudizio secondo cui le persone disabili non sono idonee per il mercato del lavoro. Questa teoria ormai vecchia e soprattutto falsa dovrebbe essere definitivamente sepolta e invece persiste nella mentalità comune, provocando danni sia alle persone con disabilità, a cui viene negato il diritto/dovere di lavorare, sia ai datori di lavoro che perdono l’opportunità di una risorsa in più nella squadra.

RICCHEZZA POTENZIALE NON SFRUTTATA

L’omologazione dei tempi e delle modalità di produzione non c’entra proprio niente con l’enorme varietà della specie umana e le differenze individuali che ciascuno può apportare all’interno di un team sono un’enorme ricchezza potenziale che consentirebbe a tutti, se venisse adeguatamente sfruttata, di essere più efficaci ed efficienti.

LO SMART WORKING PUÒ AIUTARE

Inoltre le migliorie nell’organizzazione aziendale utili ad alcuni specifici lavoratori potrebbero rivelarsi soluzioni ottimali anche per altri. Non mi riferisco solo agli adattamenti dell’ambiente fisico di lavoro, ma anche a modalità di esercitare la propria professione che stanno prendendo piede, ancora troppo lentamente, in questi ultimi anni. Il telelavoro o lo smart working sono degli esempi di come si possa lavorare dalla propria abitazione o in un luogo diverso dalla sede aziendale.

ALTERNATIVE CONTRO LE BARRIERE ARCHITETTONICHE

Potrebbero costituire delle valide alternative non solo per chi è impossibilitato a presentarsi nella sede della propria impresa a causa delle barriere architettoniche presenti o, per ipotesi, per via di particolari condizioni di salute. Anche altre categorie di lavoratori ne trarrebbero vantaggio: per esempio chi ha figli piccoli o coloro che abitano distanti dalla sede. Anche i datori di lavoro ne guadagnerebbero perché aumentare la qualità della vita dei propri dipendenti significa metterli nella condizione di produrre di più e soprattutto meglio.

MA NON CI STANCHEREMO DI PROPORRE LE NOSTRE COMPETENZE

Nonostante queste considerazioni mi paiano ovvietà l’Italia è ultima in Europa sia rispetto al lavoro da casa sia relativamente allo smart working, ossia la possibilità di esercitare la propria professione ovunque. Il panorama italiano è quindi in generale molto desolante, ma noi possiamo nel nostro piccolo cercare di contrastare il senso comune non stancandoci di proporre le nostre competenze all’interno del mercato del lavoro e facendo conoscere tutte quelle realtà – e non sono poche – che credono nel nostro valore come lavoratori.

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Le tensioni nel governo sul salvataggio della Banca Popolare di Bari

Il giorno dopo la minaccia di rottura da parte di Italia viva, Conte prova a ricomporre il caso: «Non tuteleremo nessun banchiere». Di Maio contro Bankitalia: «Quante ispezioni sono state fatte?»

La tensione resta alta nella maggioranza, alle prese col salvataggio della Banca Popolare di Bari che ha innescato un’ulteriore frattura nei già fragili equilibri di governo. Il giorno dopo i toni forti utilizzati da Italia viva per stigmatizzare «il salvataggio dei banchieri» da parte di Movimento 5 stelle e Partito democratico c’è spazio per le mediazioni. E per il tentativo del presidente del Consiglio Giuseppe Conte di ridimensionare una questione che rischia seriamente di mettere a repentaglio la tenuta dell’esecutivo.

«NON TUTELEREMO NESSUN BANCHIERE»

«Non tuteleremo nessun banchiere», ha detto Conte nella conferenza stampa sui primi 100 giorni di governo nella Sanità, specificando che sulla Popolare di Bari «interverremo attraverso uno strumento nella pancia di Invitalia, Mediocredito Centrale. Cerchiamo di fare di necessità virtù. Assicureremo a Mediocredito centrale le necessarie risorse per poi, con un fondo interbancario, intervenire per rilanciare la Pop Bari. Avremo una sorta di Banca del Sud degli investimenti a partecipazione pubblica». Il premier ha poi provato a smorzare le polemiche, sottolineando di aver chiarito la posizione di Italia viva sulla vicenda. «Nessuna tensione», ha detto, «abbiamo chiarito, con Marattin ci siamo anche sentiti al telefono».

«MASSIMA TUTELA PER I RISPARMIATORI»

Conte ha poi promesso la massima tutela per i risparmiatori. «Non resteremo mai indifferenti rispetto a una situazione critica di una banca, perché dietro ci sono 70 mila azionisti e tanti correntisti. C’è la massima tutela dei risparmiatori», c’è l’occasione di «approfittare per potenziare il sistema creditizio del Sud e per il rilanciare la Popolare di Bari».

DI MAIO ALL’ATTACCO DI BANKITALIA

È «un’altra banca con mega-buco provocato dai manager e da chi evidentemente doveva controllare e non l’ha fatto bene», è l’opinione di Luigi Di Maio. «Tutti in queste ore parlano di decreto legge. Ma non corriamo troppo. Per noi ci sono due cose da fare prima di arrivare a un decreto: vogliamo sapere da chi doveva sorvegliare cosa è emerso in questi anni. Quante sono state le ispezioni di Bankitalia negli ultimi tre anni? Cosa è emerso? Vogliamo sapere chi ha prestato soldi e a chi». E ancora: «Se dobbiamo mettere soldi pubblici in una banca per evitare che saltino i conti correnti dei pugliesi, quella banca deve diventare di proprietà dello Stato per creare la banca pubblica per gli investimenti. Non faremo come qualcuno in passato con le banche venete, che furono ripulite con i soldi degli italiani e poi furono regalate (al prezzo di un euro) ad altre banche».

SALVINI INVOCA UN COMITATO DI SICUREZZA NAZIONALE

Toni ancor più emergenziali quelli utilizzati da Matteo Salvini. «Se vogliamo salvare l’Italia, fermiamoci e mettiamoci attorno a un tavolo con un comitato di salvezza nazionale», è stato l’appello lanciato dal leader della Lega. «Se salta la Popolare Bari, salta la Puglia e salta l’Italia. Stiamo vivendo un momento drammatico, non penso sia più il momento delle polemiche».

I COMMISSARI STRAORDINARI INCONTRANO I MANAGER

Intanto i commissari straordinari della banca Popolare di Bari nominati il 13 dicembre da Bankitalia, Enrico Ajello e Antonio Blandini, hanno incontrato nella sede barese la dirigenza dell’istituto di credito. A quanto si è appreso, nell’incontro sono state fornite rassicurazioni sull’impegno per lo svolgimento delle attività necessarie alla ricapitalizzazione della banca e al suo rilancio. Sono state anche fornite rassicurazioni rivolte ai correntisti. I conti correnti, è stato sottolineato, non corrono alcun rischio.

UNA NUOVA INDAGINE SULLA BANCA

La Procura di Bari ha invece aperto nelle ultime settimane un’ulteriore nuova indagine sulla banca, oltre quella basata sulla lettera inviata dalla Consob. Questa nasce da un esposto presentato il 15 novembre scorso da un azionista che riguarderebbe gli aumenti di capitale del 2014 e del 2015. Anche in questo caso non ci sono al momento indagati né ipotesi di reato.

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La morale degli straricchi: fare beneficenza, ma non pagare le tasse

I Paperoni sono disposti a spendere miliardi in filantropia, ma guai a parlare di aumentare le imposte. Distribuiscono laute mance, ma senza pagare il conto. Intanto le politiche di redistribuzione vengono sconfitte dalle proposte di tagli per tutti.

«La guerra di classe esiste, eccome. Però la stiamo vincendo noi ricchi»: così parlò Warren Buffet nel summit di Davos del 2015. Ma quattro anni dopo quell’affermazione va corretta, dicendo che la stanno stravincendo. Gli straricchi infatti continuano, in tutto il mondo, ad aumentare sensibilmente le loro ricchezze. E non c’è amore, pietas, solidarietà, senso di giustizia che oggi possa anche solo scalfire la fascinazione che produce lo spettacolo del denaro. Al punto che il no tax, rivendicato dai più abbienti viene convintamente fatto proprio da chi non lo è. Nel contempo chi s’azzarda a parlare di patrimoniali o di sensibile aumento delle tasse ai ricchi, per finanziare servizio sanitario nazionale e sostenere redditi più bassi, come Jeremy Corbyn in Inghilterra o Bernie Sanders e Elizabeth Warren negli Usa, viene bollato come socialista arcaico. Nel caso del primo, poi, abbandonato anche dai suoi elettori tradizionali della working class.

IL REDDITO DI CITTADINANZA INDIGNA PIÙ DELLA DISEGUAGLIANZA

In Italia invece ha una certa presa la narrazione di destra, alla Billionaire, ossia alla Briatore & Santanchè, sulla “invidia sociale” istigata dai partiti di sinistra, nei confronti di chi è ricco e ce l’ha fatta. Un sentimento questo che si scatena ogni qualvolta la Guardia di Finanza si mette a caccia di possessori di auto e barche di lusso. Ovviamente domiciliate nei paradisi fiscali. In tale contesto indigna di più l’introduzione del reddito di cittadinanza che non il 5% più ricco degli italiani che detiene da solo la stessa quota di patrimonio detenuta dal 90% più povero.

PRIMO QUESITO: PERCHÉ IL REDDITO NON VIENE DATO DAGLI STRARICCHI?

Non sarebbe logico – ed è il primo dei tre quesiti che vorrei porre alla vostra attenzione – che fosse appunto questo 5%, e non la fiscalità generale, a farsi carico del sostegno al reddito delle famiglie e italiani più poveri? Nei giorni scorsi è apparsa la notizia che i 300 miliardari svizzeri hanno accresciuto quest’anno il loro già notevolissimo patrimonio (640 miliardi di euro) in misura mai registrata prima. Allo stesso modo dei 20 tech-miliardari più ricchi del mondo, che nei primi dieci mesi del 2019 hanno realizzato sostanziosi incrementi. Tranne Jeff Bezos, ma solo perché per divorziare ha dovuto versare 38 miliardi all’ex moglie (la separazione più cara della storia). Tutti questi super ricchi però si segnalano per una sensibile propensione alla beneficenza. Nello stesso tempo in cui, però si oppongono a qualsiasi proposta di innalzamento delle tasse. Insomma sono disponibili a spendere, e spendono effettivamente miliardi, in buone cause però si dichiarano assolutamente contrari a pagare di più al fisco.

SECONDO QUESITO: PERCHÉ SONO DISPOSTI ALLA BENEFICENZA MA NON ALLE TASSE?

E qui siamo al secondo quesito: perché Bill Gates, Mark Zuckerberg sono pronti a regalare metà e anche più delle loro ricchezze, ma sono indisponibili a pagare maggiori imposte? La classe miliardaria americana sembra concordare con Bernie Sanders e Elizabeth Warren di essere in possesso di troppa ricchezza. Ma sono convinti di potere loro, in prima persona, provvedere a un’efficace ridistribuzione della ricchezza. E per questo hanno dato di vita a Giving Pledge: un movimento, un’associazione, un club (non si sa come chiamarlo) fondato nell’agosto 2010 da 40 delle persone più ricche d’America. Creato da Bill e Melinda Gates e Warren Buffett, il Giving Pledge si è presto allargato ai più ricchi di tutto il mondo. Oggi ha miliardari filantropi di 23 Paesi. Manca l’Italia. Verosimilmente perché i miliardari nostrani, con in testa Leonardo Del Vecchio e Silvio Berlusconi, sono avidi e taccagni, come di norma è la categoria, ma non si curano nemmeno di nasconderlo sotto spoglie da buoni samaritani.

L’inadeguatezza della beneficenza come strumento di distribuzione della ricchezza

Ma per tornare al tema, come scrive l’analista Alexander Sammon su The American Prospect, l’inadeguatezza del Giving Pledge come strumento significativo di distribuzione della ricchezza è stata persino ammessa da molti dei firmatari stessi. Che tuttavia non pensano proprio di passare la mano ai poteri pubblici. Anche perché nonostante le donazioni miliardarie i loro patrimoni (in titoli e investimenti finanziari) continuano a crescere: «Il patrimonio netto di Mark Zuckerberg è aumentato di circa il 40% solo quest’anno…Steve Ballmer ex n.2 di Microsoft è due volte più ricco di quanto fosse all’inizio del 2017… Bill Gates regala circa 5 miliardi di sovvenzioni all’anno, ma mantiene un patrimonio netto che è aumentato di 18 miliardi solo nel 2019». I Paperoni americani non vogliono cedere il potere di decidere loro chi e cosa finanziare.

Il problema non è il denaro ma il potere

«Il problema non è il denaro ma il potere… è la cessione del potere decisionale su cosa fare con i loro soldi che i miliardari trovano così odioso». Effettivamente l’aumento delle tasse sui grandi patrimoni ha un significato che va ben oltre l’incremento delle entrate statali, rappresentando la capacità di un governo di regolare gli eccessi sociali più deleteri, di minimizzare le disuguaglianze e sancire che la classe miliardaria è anch’essa subordinata al processo democratico. Però di questa consapevolezza che è ben presente ai protagonisti si perde traccia a livello di classe politica e di governo, ma anche di opinione pubblica. Incredibile ma è così: la stragrande maggioranza delle persone, non essendo povere ma nemmeno ricche, avrebbero tutto l’interesse a sostenere proposte di maggiore tassazione della ricchezza e di redistribuzione della medesima.

TERZO QUESITO: PERCHÉ VINCE CHI TASSA MENO I RICCHI?

E invece no: plaudono e votano chi (Trump) le tasse ai ricchi al contrario le taglia o chi (Salvini) promette flat tax per tutti. Perché? È il terzo quesito, al quale, nonostante la dirompente materialità economica e politica, si può rispondere solo evocando categorie e spiegazioni psicologiche. È la fascinazione prodotta da più di trent’anni di narrazione incessante ed esaltata del binomio soldi&successo che abbaglia e rende incapaci di vedere e valutare le poste in gioco. Ma è anche l’esito di un processo che è antico come il mondo, ma sempre efficacissimo nell’imporre un dominio simbolico sulla realtà che però non è percepito nella sua distruttività da chi lo subisce.

DIFFIDARE DEGLI ATTI DI GENEROSITÀ

I doni, i regali, come ha scritto Georges Bataille, facendo eco a una vasta letteratura, distruggono chi li riceve non chi li fa. Che anzi accresce ancor più il suo potere. I filantropi facendo del bene lo fanno soprattutto a se stessi. Visto che, come già ricordato, più danno miliardi in beneficenza più aumentano le loro ricchezze. Nel contempo ci guadagnano pure l’aureola da santi laici. Timeo danaos ac dona ferentes: temo i greci anche se portano doni, lamentava inascoltato dai suoi concittadini Laooconte, riferendosi a quel grande cavallo di legno che avevano lasciato in dono alla città di Troia.

Distribuiscono laute mance, ma non vogliono pagare il conto

Ecco, se vogliamo una società più giusta e ricca per tutti, bisognerebbe cominciare non solo a diffidare ma addirittura a rifiutare tutto ciò che per quanto mosso da sincero spirito altruistico si configuri come dono, atto di generosità, gesto beneficente. Della serie niente regali ma tasse, che perseguano un impatto significativo sulla vita e il benessere dell’intera collettività. «Sono dei bei rompicoglioni, i filantropi», ha scritto Ferdinand Celine. Distribuiscono laute mance, ma non vogliono pagare il conto.

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La previdenza dei medici prenderà un altro bidone tipo Brexit?

L'Enpam fa diversi investimenti all'estero. Come quando acquisì il 50% della sede di Amazon a Londra. Ma la vittoria del sì al referendum nel 2016 causò una grossa minusvalenza. Ora ci riprova in Germania, a Stoccarda. Proprio mentre la locomotiva d'Europa rallenta. Forse manca il fiuto per gli affari?

L’Enpam è la cassa di previdenza dei medici italiani, investe i soldi dei suoi contribuenti con la finalità di mantenere e sviluppare il patrimonio, circa 21 miliardi, che questi ultimi gli hanno affidato a fini pensionistici.

INVESTIMENTI IMMOBILIARI ALL’ESTERO

Gli investimenti che Enpam fa ogni anno sono di varia natura, dall’obbligazionario all’azionario, ma la parte da leone lo fa l’immobiliare che, pur variando di anno in anno, vale circa il 30% del totale (limite di legge). Enpam da alcuni anni ha deciso di rivolgere i suoi investimenti immobiliari anche all’estero.

COMPRATO IL 50% DELLA SEDE DI AMAZON A LONDRA

II primo investimento in assoluto è stato in Inghilterra. Infatti la Cassa di previdenza, a ridosso dell’avvio del processo per la Brexit, ha portato a termine I’acquisizione del 50% della sede di Amazon a Londra.

MA L’AFFARE, CON LA BREXIT, L’HA FATTO IL VENDITORE

Purtroppo l’inaspettato successo dei al referendum sulla Brexit del giugno 2016 ha determinato una rilevante minusvalenza in casa Enpam, sia per effetto dell’andamento del mercato immobiliare, sia dell’andamento del tasso di cambio, lasciando il sospetto che all’epoca sia stato più accorto il venditore, uno dei principali fondi di investimento canadese.

COME IL VATICANO COI SOLDI DELL’OBOLO DI SAN PIETRO

Più o meno, è quello che è accaduto al Vaticano quando recentemente, attraverso il fondo Centurion e con il denaro dell’Obolo di San Pietro, ha comprato un palazzo a Londra perdendo molti soldi in poco tempo.

Enpam pare scommettere su un rapido rilancio dell’economia tedesca, proprio in un momento in cui i dati confermano il rallentamento della locomotiva d’Europa

Ora l’Enpam ritenta con un secondo investimento. E ha comperato, questa volta in Germania, a Stoccarda, un immobile di oltre 50 mila metri quadri investendo 240 milioni di euro. Con l’operazione Enpam pare scommettere su un rapido rilancio dell’economia tedesca, proprio in un momento in cui i dati confermano il rallentamento della locomotiva d’Europa e gli investitori internazionali iniziano a prendere beneficio dei risultati finora raggiunti (il venditore è stato un fondo della compagnia assicurativa coreana Samsung Life).

QUALCHE PERPLESSITÀ SULLA CAPACITÀ DI ANALISI

Solo il futuro darà indicazioni sulla bontà della scommessa, non piccola, realizzata. La vicenda londinese lascia però qualche perplessità sulla capacità di prevedere l’andamento dei mercati internazionali in casa Enpam.

SPERANDO CHE ABBIANO STUDIATO MEGLIO IL MERCATO

La speranza è che Antirion, la Società di gestione del risparmio guidata come amministratore dall’intermediario israeliano Ofer Arbib attraverso cui Enpam realizza gli investimenti immobiliari, abbia questa volta studiato meglio il mercato; e con lui gli advisor dell’operazione, anche in questo caso Colliers Deutschland GmbH coinvolta nella faccenda inglese come advisor. Del resto se Arbib, già per tanti anni punto di riferimento di Colliers in Italia, vuole proseguire in queste campagne estere, è giunto il momento di dare prova del suo fiuto per gli affari.

Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.

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In Italia oltre 450mila lavoratori autonomi “dipendenti” da clienti

Secondo l'Istat nel nostro Paese sta cambiando la fisionomia del lavoro, con un aumento dei liberi professionisti che somigliano ai lavoratori dipendenti ma che restano senza contratto.

L’occupazione è ferma nel terzo trimestre. L’ultimo rapporto sul mercato del lavoro dell’Istat ha registrato una stazionarietà di fondo, dove la crescita dei lavoratori dipendenti, compensa il calo degli autonomi. Rispetto a prima della crisi, nel terzo trimestre 2008, ci sono 492 mila lavoratori indipendenti in meno a fronte di 774 mila dipendenti in più.

CHI SONO I “DEPENDENT CONTRACTOR”

Queste due categorie, secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro Ilo, non sono più sufficienti a raccontare il mondo del lavoro, dove sono emerse nuove figure autonome, simili per molti aspetti al lavoro dipendente. Sono i cosiddetti “dependent contractor“, lavoratori autonomi senza dipendenti – oltre 450 mila in Italia, secondo la prima stima dell’Istat – i cui compensi sono completamente stabiliti da clienti o da terzi. Spesso sono donne (il 39,1%), con meno di 35 anni (il 26,4%) e con una laurea in tasca (il 32,9%). Lavorano come agenti di commercio, agenti assicurativi, gestori finanziari, insegnanti di arte o lettere, istruttori di sport, infermieri, ostetrici, autisti, guide e operatori di call center. Circa un quarto ha un contratto come collaboratore, gli altri si dividono tra lavoratori in proprio e liberi professionisti.

IDENTIKIT DEI LIBERI PROFESSIONISTI

Quest’ultima categoria è cresciuta a doppia cifra nell’ultimo decennio, mentre quella dei collaboratori si è quasi dimezzata. Contraddistinguono questi lavoratori alcuni aspetti per i quali sono più simili ai lavoratori dipendenti che agli autonomi in senso stretto. La metà lavora per un unico cliente e uno su tre ha limitazioni sul luogo e l’orario di lavoro. Quelli che dichiarano di cercare una nuova occupazione è vicina a quella dei dipendenti a termine (8,5% e 9,6%, rispettivamente), anche perché molti lavorano a tempo parziale, fino a 20 ore a settimana. La diffusione del part time, e in particolare di quello involontario, è un altro aspetto che è emerso dagli ultimi dati Istat. Oltre un lavoratore su dieci lavora a tempo ridotto non per propria volontà nel terzo trimestre.

CRESCONO I CONTRATTI A TEMPO INDETERMINATO

Complessivamente gli occupati sono 151 mila in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, ma questo aumento riguarda solo i lavoratori part-time, mentre quelli a tempo pieno sono in calo. Nei dodici mesi appare anche una tendenza a rapporti di lavoro un po’ più stabili: la crescita degli occupati è trainata dai dipendenti a tempo indeterminato, che sono 212 mila in più, mentre calano i precari e gli indipendenti. Aumenta inoltre la permanenza nell’occupazione, soprattutto per le donne e i ragazzi sotto i 35 anni, e le transizioni verso il tempo indeterminato. Le ore lavorate crescono dello 0,4% rispetto al trimestre precedente e dello 0,5% rispetto al 2018, mentre il tasso di disoccupazione scende al 9,8%. I disoccupati sono ancora oltre 2 milioni e mezzo, ma la situazione migliora rispetto allo scorso anno (c’è un calo del 2,5%), in particolare per le persone in cerca della loro prima occupazione.

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In Italia oltre 450mila lavoratori autonomi “dipendenti” da clienti

Secondo l'Istat nel nostro Paese sta cambiando la fisionomia del lavoro, con un aumento dei liberi professionisti che somigliano ai lavoratori dipendenti ma che restano senza contratto.

L’occupazione è ferma nel terzo trimestre. L’ultimo rapporto sul mercato del lavoro dell’Istat ha registrato una stazionarietà di fondo, dove la crescita dei lavoratori dipendenti, compensa il calo degli autonomi. Rispetto a prima della crisi, nel terzo trimestre 2008, ci sono 492 mila lavoratori indipendenti in meno a fronte di 774 mila dipendenti in più.

CHI SONO I “DEPENDENT CONTRACTOR”

Queste due categorie, secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro Ilo, non sono più sufficienti a raccontare il mondo del lavoro, dove sono emerse nuove figure autonome, simili per molti aspetti al lavoro dipendente. Sono i cosiddetti “dependent contractor“, lavoratori autonomi senza dipendenti – oltre 450 mila in Italia, secondo la prima stima dell’Istat – i cui compensi sono completamente stabiliti da clienti o da terzi. Spesso sono donne (il 39,1%), con meno di 35 anni (il 26,4%) e con una laurea in tasca (il 32,9%). Lavorano come agenti di commercio, agenti assicurativi, gestori finanziari, insegnanti di arte o lettere, istruttori di sport, infermieri, ostetrici, autisti, guide e operatori di call center. Circa un quarto ha un contratto come collaboratore, gli altri si dividono tra lavoratori in proprio e liberi professionisti.

IDENTIKIT DEI LIBERI PROFESSIONISTI

Quest’ultima categoria è cresciuta a doppia cifra nell’ultimo decennio, mentre quella dei collaboratori si è quasi dimezzata. Contraddistinguono questi lavoratori alcuni aspetti per i quali sono più simili ai lavoratori dipendenti che agli autonomi in senso stretto. La metà lavora per un unico cliente e uno su tre ha limitazioni sul luogo e l’orario di lavoro. Quelli che dichiarano di cercare una nuova occupazione è vicina a quella dei dipendenti a termine (8,5% e 9,6%, rispettivamente), anche perché molti lavorano a tempo parziale, fino a 20 ore a settimana. La diffusione del part time, e in particolare di quello involontario, è un altro aspetto che è emerso dagli ultimi dati Istat. Oltre un lavoratore su dieci lavora a tempo ridotto non per propria volontà nel terzo trimestre.

CRESCONO I CONTRATTI A TEMPO INDETERMINATO

Complessivamente gli occupati sono 151 mila in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, ma questo aumento riguarda solo i lavoratori part-time, mentre quelli a tempo pieno sono in calo. Nei dodici mesi appare anche una tendenza a rapporti di lavoro un po’ più stabili: la crescita degli occupati è trainata dai dipendenti a tempo indeterminato, che sono 212 mila in più, mentre calano i precari e gli indipendenti. Aumenta inoltre la permanenza nell’occupazione, soprattutto per le donne e i ragazzi sotto i 35 anni, e le transizioni verso il tempo indeterminato. Le ore lavorate crescono dello 0,4% rispetto al trimestre precedente e dello 0,5% rispetto al 2018, mentre il tasso di disoccupazione scende al 9,8%. I disoccupati sono ancora oltre 2 milioni e mezzo, ma la situazione migliora rispetto allo scorso anno (c’è un calo del 2,5%), in particolare per le persone in cerca della loro prima occupazione.

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Come maneggiare i pregiudizi nelle assunzioni e nel marketing

L'effetto alone fa formulare valutazioni specifiche basandosi su impressioni generali. Per esempio facendoci ingaggiare una persona solo per l'aspetto fisico. Colloqui strutturati evitano questa distorsione. Che invece serve a valorizzare i brand. Guida per aziende ai "bias" cognitivi.

Nonostante le loro migliori intenzioni, anche i manager possono cadere preda di generalizzazioni, stereotipi e pregiudizi. Questi meccanismi sono in grado di influenzare profondamente l’individuo e, conseguentemente, l’andamento dell’azienda, arrivando perfino a ostacolarne il buon processo decisionale.

AUTOMATISMI MENTALI CHE CI FANNO SBAGLIARE

I bias cognitivi, così vengono denominate in psicologia le forme di comportamento mentale caratterizzate da valutazioni distorte della realtà, sono molto difficili da individuare e da tenere sotto controllo. Si tratta, infatti, di schemi di deviazione del giudizio, condizionati da concetti preesistenti nella nostra mente, spesso senza legami logici o razionali. Questi errori di giudizio e automatismi della mente possono spingerci a prendere decisioni affrettate, approssimative e sbagliate e avere importanti ripercussioni sulla vita personale e professionale di ognuno di noi.

SPUNTI INTERESSANTI PER LA GESTIONE AZIENDALE

Per questi motivi, alla luce degli studi condotti tra la fine degli Anni 60 e l’inizio degli Anni 70 da due psicologi israeliani, Amos Tversky e Daniel Kahneman, quest’ultimo vincitore del premio Nobel per l’Economia nel 2002, è necessario affrontare questa tematica anche in relazione alla gestione aziendale. In particolare, tra i tanti bias cognitivi esistenti e individuati nel corso di questi anni, l’halo effect o “effetto alone” sembra essere uno dei più interessanti.

IMPLICAZIONI NELLA SELEZIONE DEL PERSONALE

Se da un lato questo è in grado di incidere negativamente su delicate decisioni aziendali, dall’altro può essere sfruttato per incentivare la propria reputazione aziendale. Proprio in un articolo pubblicato sul Mckinsey Quarterly di dicembre 2019 sono state evidenziate le conseguenze dell’effetto alone su amministratori delegati di importanti aziende, in particolar modo come questo possa influenzare il processo di selezione del personale.

L’ASPETTO ESTETICO FA SEMBRARE TUTTO POSITIVO

L’effetto alone, infatti, influenza i singoli individui e li induce a formulare giudizi specifici basati su impressioni generali. In poche parole, secondo quanto riportato dallo psicologo Edward L. Thorndike, il primo a coniare il termine nel 1920, è sufficiente valutare positivamente una singola caratteristica di una persona, come per esempio l’aspetto estetico, per farsi l’idea che in essa siano presenti quasi esclusivamente aspetti positivi.

TEST IDENTICI E INDICATORI PRECISI EVITANO DISTORSIONI

Tra i compiti di un manager vi è certamente un’adeguata selezione del personale. Questa attività, così come il rapporto che si ha con i clienti, è profondamente influenzata dall’effetto alone. Per evitare che questo bias influenzi scelte aziendali, così come riporta l’articolo del McKinsey Quarterly, quando si tratta di decisioni di assunzione, la predisposizione di colloqui strutturati può contribuire a mitigare l’effetto alone. Impostare colloqui o test identici e misurati rispetto a precisi indicatori può certamente aiutare a gestire la selezione del personale.

SERVE UNA SCALA DI VALORI STANDARDIZZATA

Valutare i candidati secondo specifici criteri basati su mission, vision e obiettivi aziendali, utilizzando una scala di assunzione standardizzata, rappresenta certamente una valida soluzione per evitare di incappare nell’effetto alone e per consentire l’assunzione e la formazione di personale allineato sugli stessi obiettivi e valori. Dunque, certamente l’impostazione di colloqui strutturati non previene l’uso di bias cognitivi, ma può aiutare utilmente a ridurli e tenerli sotto controllo.

L’EFFETTO ALONE PUÒ ESSERE UN’ARMA PER IL MARKETING

Differentemente da quanto riportato rispetto all’assunzione del personale aziendale, l’effetto alone può rappresentare un’ottima arma per il marketing. In questo ambito, infatti, l’effetto alone viene ampiamente sfruttato per migliorare l’immagine di alcuni prodotti e posizionare un brand sul mercato. La condivisione di esperienze positive online di prodotti e servizi può influenzare altri clienti, creando così un orientamento positivo a favore dell’azienda stessa. Questo orientamento può essere costruito investendo sulla pubblicità di prodotti di punta e sull’associazione di personaggi famosi a particolari brand.

COSÌ SI AUMENTA FEDELTÀ A MARCHI E VALORI

In conclusione, una volta individuati e compresi i pregiudizi e le distorsioni della realtà che la nostra mente può attuare, è possibile sfruttarli in una visione strategica per implementare la reputazione aziendale e aumenterà la fedeltà a marchi e valori.

*Professore di Strategie di comunicazione, Luiss, Roma

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Come maneggiare i pregiudizi nelle assunzioni e nel marketing

L'effetto alone fa formulare valutazioni specifiche basandosi su impressioni generali. Per esempio facendoci ingaggiare una persona solo per l'aspetto fisico. Colloqui strutturati evitano questa distorsione. Che invece serve a valorizzare i brand. Guida per aziende ai "bias" cognitivi.

Nonostante le loro migliori intenzioni, anche i manager possono cadere preda di generalizzazioni, stereotipi e pregiudizi. Questi meccanismi sono in grado di influenzare profondamente l’individuo e, conseguentemente, l’andamento dell’azienda, arrivando perfino a ostacolarne il buon processo decisionale.

AUTOMATISMI MENTALI CHE CI FANNO SBAGLIARE

I bias cognitivi, così vengono denominate in psicologia le forme di comportamento mentale caratterizzate da valutazioni distorte della realtà, sono molto difficili da individuare e da tenere sotto controllo. Si tratta, infatti, di schemi di deviazione del giudizio, condizionati da concetti preesistenti nella nostra mente, spesso senza legami logici o razionali. Questi errori di giudizio e automatismi della mente possono spingerci a prendere decisioni affrettate, approssimative e sbagliate e avere importanti ripercussioni sulla vita personale e professionale di ognuno di noi.

SPUNTI INTERESSANTI PER LA GESTIONE AZIENDALE

Per questi motivi, alla luce degli studi condotti tra la fine degli Anni 60 e l’inizio degli Anni 70 da due psicologi israeliani, Amos Tversky e Daniel Kahneman, quest’ultimo vincitore del premio Nobel per l’Economia nel 2002, è necessario affrontare questa tematica anche in relazione alla gestione aziendale. In particolare, tra i tanti bias cognitivi esistenti e individuati nel corso di questi anni, l’halo effect o “effetto alone” sembra essere uno dei più interessanti.

IMPLICAZIONI NELLA SELEZIONE DEL PERSONALE

Se da un lato questo è in grado di incidere negativamente su delicate decisioni aziendali, dall’altro può essere sfruttato per incentivare la propria reputazione aziendale. Proprio in un articolo pubblicato sul Mckinsey Quarterly di dicembre 2019 sono state evidenziate le conseguenze dell’effetto alone su amministratori delegati di importanti aziende, in particolar modo come questo possa influenzare il processo di selezione del personale.

L’ASPETTO ESTETICO FA SEMBRARE TUTTO POSITIVO

L’effetto alone, infatti, influenza i singoli individui e li induce a formulare giudizi specifici basati su impressioni generali. In poche parole, secondo quanto riportato dallo psicologo Edward L. Thorndike, il primo a coniare il termine nel 1920, è sufficiente valutare positivamente una singola caratteristica di una persona, come per esempio l’aspetto estetico, per farsi l’idea che in essa siano presenti quasi esclusivamente aspetti positivi.

TEST IDENTICI E INDICATORI PRECISI EVITANO DISTORSIONI

Tra i compiti di un manager vi è certamente un’adeguata selezione del personale. Questa attività, così come il rapporto che si ha con i clienti, è profondamente influenzata dall’effetto alone. Per evitare che questo bias influenzi scelte aziendali, così come riporta l’articolo del McKinsey Quarterly, quando si tratta di decisioni di assunzione, la predisposizione di colloqui strutturati può contribuire a mitigare l’effetto alone. Impostare colloqui o test identici e misurati rispetto a precisi indicatori può certamente aiutare a gestire la selezione del personale.

SERVE UNA SCALA DI VALORI STANDARDIZZATA

Valutare i candidati secondo specifici criteri basati su mission, vision e obiettivi aziendali, utilizzando una scala di assunzione standardizzata, rappresenta certamente una valida soluzione per evitare di incappare nell’effetto alone e per consentire l’assunzione e la formazione di personale allineato sugli stessi obiettivi e valori. Dunque, certamente l’impostazione di colloqui strutturati non previene l’uso di bias cognitivi, ma può aiutare utilmente a ridurli e tenerli sotto controllo.

L’EFFETTO ALONE PUÒ ESSERE UN’ARMA PER IL MARKETING

Differentemente da quanto riportato rispetto all’assunzione del personale aziendale, l’effetto alone può rappresentare un’ottima arma per il marketing. In questo ambito, infatti, l’effetto alone viene ampiamente sfruttato per migliorare l’immagine di alcuni prodotti e posizionare un brand sul mercato. La condivisione di esperienze positive online di prodotti e servizi può influenzare altri clienti, creando così un orientamento positivo a favore dell’azienda stessa. Questo orientamento può essere costruito investendo sulla pubblicità di prodotti di punta e sull’associazione di personaggi famosi a particolari brand.

COSÌ SI AUMENTA FEDELTÀ A MARCHI E VALORI

In conclusione, una volta individuati e compresi i pregiudizi e le distorsioni della realtà che la nostra mente può attuare, è possibile sfruttarli in una visione strategica per implementare la reputazione aziendale e aumenterà la fedeltà a marchi e valori.

*Professore di Strategie di comunicazione, Luiss, Roma

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La manovra salva la cannabis light

Un emendamento prevede che sotto lo 0,5 il thc non sia più considerata sostanza stupefacente, liberalizzata la vendita dei fiori e la biomassa di canapa.

La cannabis light è alla fine stata salvata. Almeno stando a quanto scritto dal senatore Del Movimento Cinque stelle Matteo Mantero su Facebook: «Ragazzi ce l’abbiamo fatta: questa notte in commissione bilancio abbiamo approvato uno dei nostri emendamenti» alla manovra «sulla canapa industriale. È quello meno ambizioso, che riguarda principalmente la biomassa, ma che comunque modifica le legge sulla canapa consentendo di commercializzare i fiori e soprattutto modifica il testo unico per gli stupefacenti stabilendo una volta per tutte che sotto lo 0,5% di thc la canapa non si può considerare sostanza stupefacente».

LEGGI ANCHE: La sentenza della Cassazione sulla cannabis

A fine maggio la Cassazione aveva imposto il divieto di vendita di tutti i  prodotti «derivati dalla coltivazione della cannabis», mettendo in crisi il commercio da poco legalizzato della cannabis light.

LEGGI ANCHE: Tutti gli emendamenti alla manovra approvati in commissione al Senato

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La manovra salva la cannabis light

Un emendamento prevede che sotto lo 0,5 il thc non sia più considerata sostanza stupefacente, liberalizzata la vendita dei fiori e la biomassa di canapa.

La cannabis light è alla fine stata salvata. Almeno stando a quanto scritto dal senatore Del Movimento Cinque stelle Matteo Mantero su Facebook: «Ragazzi ce l’abbiamo fatta: questa notte in commissione bilancio abbiamo approvato uno dei nostri emendamenti» alla manovra «sulla canapa industriale. È quello meno ambizioso, che riguarda principalmente la biomassa, ma che comunque modifica le legge sulla canapa consentendo di commercializzare i fiori e soprattutto modifica il testo unico per gli stupefacenti stabilendo una volta per tutte che sotto lo 0,5% di thc la canapa non si può considerare sostanza stupefacente».

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A fine maggio la Cassazione aveva imposto il divieto di vendita di tutti i  prodotti «derivati dalla coltivazione della cannabis», mettendo in crisi il commercio da poco legalizzato della cannabis light.

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Perché il Mes rischia di mandare l’Italia in Serie B

La riforma del fondo salva-Stati crea un'Eurozona a due velocità. E il nostro Paese, il secondo più indebitato dell'Ue dopo la Grecia, è fuori dai parametri di sostenibilità. Così i Btp finiscono nel mirino delle speculazioni. Anche per i vincoli dei tedeschi sull'unione bancaria. I no degli esperti.

Riforma del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità per finanziare gli Stati dell’euro in gravi difficoltà in base alla sostenibilità dei loro debiti. Poi un’unione bancaria a patto che si valuti il tasso di rischio dei titoli sovrani (Btp) o con tetti alla loro detenzione. Su entrambe le manovre di politica monetaria dell’Unione europea l’Italia è esposta significativamente per il debito pubblico al 135% del Pil – molto oltre la soglia massima del 60% del Fiscal compact – e per i circa 400 miliardi di euro in Btp custoditi nelle banche del Paese, circa un quinto delle emissioni totali.

RISOLUZIONE APPROVATA DALLE CAMERE

Non a caso prima del Consiglio europeo del 12 e del 13 dicembre 2019, sulle modifiche al Fondo salva-Stati, il governo giallorosso ha messo all’approvazione di Camera e Senato una risoluzione per escludere in particolare «interventi di carattere restrittivo sulla dotazione di titoli sovrani da parte di banche e istituti finanziari, e comunque la ponderazione dei titoli di Stato».

L’APPELLO PER IL NO SU MICROMEGA

La lente del Mes sull’indebitamento (l’Italia è il secondo Paese nell’Ue per debito pubblico dopo la Grecia), e di conseguenza sui suoi mattoni dei Btp, ha fatto sobbalzare anche economisti come il governatore di Bankitalia Ignazio Visco o come Carlo Cottarelli dell’Osservatorio sui conti pubblici. Allarmati dalla possibilità, scongiurata all’ultimo vertice dell’Eurogruppo, che per accedere al nuovo Fondo salva-Stati i Paesi con un debito insostenibile (in Italia per il 70% in mano agli italiani) dovessero necessariamente ristrutturarlo. La prospettiva getterebbe le banche del Paese in pasto alle speculazioni dei mercati ben prima dell’ipotesi di salvataggio di uno Stato, incentivandolo. Scrivono 32 economisti nel loro appello su Micromega “No al Mes se non cambia la logica europea”, di non voler pensare che la «strada individuata dai nostri partner europei per forzare una riduzione del debito pubblico italiano sia quella di provocare una crisi».

Mes riforma Fondo salva-Stati Italia Draghi
Il tedesco Klaus Regling, a capo del Mes, nel 2014 con l’allora capo della Bce, Mario Draghi. (Getty).

PIÙ VULNERABILI AI MERCATI

Il pericolo di una spirale per l’Italia era noto agli ultimi governi e al mondo finanziario ben prima che il dibattito sul Mes si infiammasse, visto che i capitoli sulla riforma sono all’esame dei Paesi membri dell’eurozona dal 2018. Ma che alla fine siano spariti i passaggi sulla ristrutturazione automatica del debito non ripara dal rischio di avvitamento. Vladimiro Giacché, presidente del Centro Europa ricerche, dice a Lettera43.it: «Basta che resti la divisione tra i Paesi con i requisiti per una fast line sui finanziamenti e quelli senza, perché la vulnerabilità sia da subito molto chiara ai mercati». Un rating targato Ue istituzionalizzerebbe un’Europa a due, tre velocità. E le banche, anche quelle francesi con in pancia il 16% dei Btp, inizierebbero a disfarsi dei titoli di Stato con minori garanzie. A maggior ragione se nell’Ue prendesse corpo la proposta sull’unione bancaria del ministro alle Finanze tedesco Olaf Scholz, con garanzie e limitazioni sui titoli dei debiti sovrani.

CRISI INTERNE MA CONTAGI LIMITATI

Gli economisti della lettera sul “No al Mes” ammoniscono: «Uno strumento che dovrebbe aumentare la capacità di affrontare le crisi può trasformarsi nel motivo scatenante di una crisi». Il paradosso della riforma è che se anche «i giudizi sul debito» facessero «precipitare tutto il sistema creditizio» della terza economia dell’eurozona, cioè dell’Italia, sempre grazie al Mes le altre economie dell’euro sarebbero più protette rispetto, per esempio, agli effetti della crisi del debito sovrano della Grecia nel 2010. Il Fondo Ue salva-Stati è stato istituito nel 2012 proprio per ridurre i danni del contagio, e allo stesso scopo viene perfezionato. Giovanni Dosi dell’Istituto di economia della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, tra i firmatari dell’appello, spiega a L43: «È un meccanismo per isolare i mercati finanziari del Nord. Con questa riforma le probabilità di crisi interne in alcuni Stati dell’Ue aumenteranno, mentre diminuirà ancora il rischio sistemico per l’Europa».

I CRITERI DEL FISCAL COMPACT NEL MES

Anche uno studio del Centro Europa ricerche mette in guardia sui «nuovi strumenti di sostegno finanziario dell’Eurozona» che «si baserebbero ab origine su una distinzione fra buoni e cattivi». Le economie al momento più sensibili al monitoraggio del Mes sono nell’ordine la Grecia, l’Italia, la Spagna e il Portogallo. «Ed è evidente che il nostro Paese, al contrario di altri, non possa soddisfare a priori alcuni dei criteri inseriti per definire la sostenibilità», precisa Dosi, «oltre al tetto del debito sotto il 60% del Pil, a nostro svantaggio c’è il calcolo del saldo di bilancio strutturale pari o superiore al valore minimo di riferimento. In questo modo non si esce dalla logica dell’austerity, tanto più che con la riforma si rafforza il peso sulla politica del Mes, un organo tecnico con ai vertici economisti e banchieri centrali tedeschi e francesi». La combinazione del nuovo Fondo salva-Stati e dell’unione bancaria alla tedesca, aggiunge, sarebbe poi «esplosiva» per la tenuta dei Btp italiani.

Mes riforma Fondo salva-Stati Italia Scholz lagarde
Christine Lagarde, nuova presidente della Bce, con il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz. (Getty).

CONVERGENZA SULL’UNIONE BANCARIA

Va detto che mentre sul Mes si accelera per chiudere all’inizio del nuovo anno, sull’unione bancaria l’intesa è più lontana e resta problematica. Proprio la Germania – alle prese con una serie crescente di problemi bancari (di istituti nazionali e locali) sia a causa del peso dei derivati sia per la frenata dell’economia reale nel 2019 – quest’autunno ha aperto il dibattito nell’Ue per creare un’assicurazione comune che sia di aiuto nelle crisi bancarie dell’eurozona. Proponendo però valutazioni di rischio per i titoli di Stato, piuttosto che per prodotti opachi come i derivati. Di nuovo, un concept ritagliato sulle esigenze finanziarie di Stati come la Germania, piuttosto che come l’Italia. «C’è una convergenza in una direzione. Con la riforma del Mes, la proposta di completamento dell’unione bancaria, e anche con le pressioni per lo stop al Quantitative easing, cioè l’acquisto di titoli dalle banche da parte della Bce per stimolare la crescita, si accende un faro sul debito pubblico».

Sarebbe più utile per tutti modificare le regole sul bail-in che non completare l’unione bancaria a condizioni inaccettabili o modificare il Mes


Vladimiro Giacché, Centro Europa Ricerche

I COEFFICIENTI DI RISCHIO SUI BTP

Segnali chiari per i mercati e di impatto per i risparmiatori, come lo fu nel 2016 in Italia l’introduzione del bail-in: il «salvataggio interno» alle banche imposto dalla direttiva Ue che sgrava gli Stati dai salvataggi con fondi pubblici, scaricando i dissesti sugli azionisti e sugli investitori privati. Prima del bail-in obbligazionisti e correntisti non correvano rischi particolari, perché le banche non potevano fallire: il solo via libera alla nuova legge costò al sistema bancario italiano una perdita di capitalizzazione di 46 miliardi. Lo stesso scossone si avrebbe con i coefficienti di rischio sui titoli di Stato, premessa per la loro svalutazione. «Oltretutto, anche con una cornice ideale per le banche tedesche, i salvataggi resteranno complicati anche per i tedeschi a causa delle rigidità sulle norme del bail-in» conclude il presidente del Centro Europa ricerche, «sarebbe più utile per tutti modificare le regole sul bail-in che non completare l’unione bancaria a condizioni inaccettabili o modificare il Mes».

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Confindustria, per il dopo Boccia prende quota il nome di Andrea Illy

Volto autorevole del made in Italy, risponde al profilo gradito ai salotti del Nord. E può sparigliare tutti i giochi fatti fin qui in viale dell'Astronomia.

In Confindustria se ne comincia a parlare molto, specie dalle parti dell’Emilia e del Veneto: per il dopo Boccia alla presidenza ci vuole un imprenditore autentico, autorevole, autonomo, con alle spalle un’azienda digrandi dimensioni, con un marchio riconoscibile e internazionale, campione dell’Italia nel mondo. Insomma, uno rappresentativo della grande manifattura italiana. E nei salotti del Nord all’identikit dell’imprenditore giusto di cui si parla è stato anche dato un nome, quello di Andrea Illy, presidente di Illycaffè e capo di un gruppo del settore alimentare di fascia altissima che fattura oltre mezzo miliardo di euro.

VOLTO DEL MADE IN ITALY E UOMO DI PENSIERO

Cinquantacinque anni, fratello più giovane di Riccardo che è stato per diversi impegnato in politica, Andrea Illy ha appena terminato i sei anni di mandato come presidente di Altagamma, che raggruppa i marchi più prestigiosi del made in Italy. Per questo chi lo frequenta racconta di una sua disponibilità a prendere un impegno importante in Confindustria. Inoltre è uomo di pensiero – ha appena scritto per Piemme un libro, Italia Felix. Uscire dalla crisi e tornare a sorridere, in cui analizza con rigore il declino italiano e, sferzando il mondo del lavoro, dell’economia e della politica, indica le strade percorribili per uscire dal tunnel prima che sia troppo tardi – e questo non guasta in un mondo come quello della rappresentanza degli interessi oggi fortemente disintermediato rispetto ai processi decisionali.

UNA CANDIDATURA CHE PUÒ SPARIGLIARE TUTTI I GIOCHI

Per ora il nome viene tenuto coperto e lui non ha ancora manifestato le sue intenzioni, ma c’è chi scommette che l’eventuale candidatura di Illy alla successione di Boccia potrebbe davvero sparigliare tutti i giochi fin qui fatti – con largo e forse eccessivo anticipo – in Confindustria. Dove, per ora, si sono candidati il numero uno di Assolombarda Carlo Bonomi, il bresciano e leader degli imprenditori locali Giuseppe Pasini, la torinese Licia Mattioli, che è il nome su cui ora puntano i romani di viale dell’Astronomia, ed Emanuele Orsini, gran capo di Federlegno.

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