La società svedese diventa content partner della compagnia cinese. «Il nostro obiettivo è di fare appassionare le giovani generazioni alla lettura di notizie di qualità e allo stesso tempo aiutare le testate giornalistiche ad acquisire più traffico e più ricavi», ha commentato il Ceo Johan Otelius.
Squid, società media-tech di Stoccolma, sarà content partner per il newsfeed in Huawei Browser e Huawei Assistant. Agli utenti verrà fornito un feed consigliato con notizie provenienti da diverse categorie e da una varietà di editori. «Siamo entusiasti che Huawei ci abbia scelto come partner per offrire ai suoi utenti le notizie di attualità più interessanti», ha commentato Johan Othelius, Ceo e fondatore di Squid App. «Il nostro obiettivo è di fare appassionare le giovani generazioni alla lettura di notizie di qualità e allo stesso tempo aiutare le testate giornalistiche ad acquisire più traffico e più ricavi». Squid App offre agli utenti Huawei notizie in 35 lingue e permette ai lettori di personalizzare il proprio newsfeed. L’obiettivo è di aprire le porte dei millennial, soprattutto in Europa e America Latina, a un mondo di notizie dalle fonti più autorevoli.
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Accordo con Exor per la cessione delle quote di Cir nel gruppo editoriale (43,78%) al prezzo di 0,46 euro per azione, per un controvalore pari a 102,4 milioni di euro.
Al termine di un cda durato tutta la giornata, la finanziaria controllata dai De Benedetti (Cir) ha firmato un accordo per la cessione a Exor (famiglia Agnelli) della sua partecipazione nel Gruppo Gedial prezzo di 0,46 euro per azione, per un controvalore pari a 102,4 milioni di euro. Si tratta di quasi il doppio della cifra (0,25 euro ad azione) offerta a metà ottobre da Carlo De Benedetti per riprendere dai figli il controllo del gruppo editoriale. Al termine dell’operazione, da realizzare tramite una società di nuova costituzione, verrà lanciata un’opa allo stesso prezzo. Cir reinvestirà nella nuova società per una quota pari al 5% di Gedi.
ELKANN: «PROGETTO EDITORIALE RIGOROSO»
«Con questa operazione ci impegniamo in un progetto imprenditoriale rigoroso, per accompagnare Gedi ad affrontare le sfide del futuro», ha detto John Elkann, presidente e amministratore delegato di Exor.
RODOLFO DE BENEDETTI: «TESTIMONE A UN AZIONISTA DI LIVELLO»
«Passiamo il testimone ad un azionista di primissimo livello, che da più di due anni partecipa alla vita della Società, che conosce l’editoria e le sue sfide, che in essa ha già investito in anni recenti e che anche grazie alla propria proiezione internazionale saprà sostenere il gruppo nel processo di trasformazione digitale in cui esso, come tutto il settore, è immerso», è stato il commento del presidente di Cir, Rodolfo De Benedetti.
IL GRUPPO GEDI
Gedi è il primo editore di quotidiani in Italia, con La Repubblica, La Stampa e 13 testate locali, edita periodici tra cui il settimanale L’Espresso, è leader per audience nell’informazione digitale ed è uno dei principali gruppi nel settore radiofonico, con tre emittenti nazionali, tra cui Radio Deejay. Opera, inoltre, nel settore della raccolta pubblicitaria, tramite la concessionaria Manzoni, per i propri mezzi e per editori terzi.
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I fratelli avrebbero deciso di vendere il gruppo che edita Repubblica, La Stampa e l'Espresso al rampollo Agnelli. Lo fa sapere Dagospia.
I fratelli De Benedetti avrebbero deciso di vendere il gruppo Gedi (Repubblica, Stampa, Espresso) a John Elkann. Lo fa sapere Dagospia. L’affare sarebbe stato deciso il 28 novembre a Milano e la cifra messa sul piatto dal presidente di Fca sarebbe stata di quelle che non si possono rifiutare. Il rampollo della famiglia Agnelli è già azionista al 6,2% del gruppo Gedi.
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La due giorni di dibattiti e interviste organizzata da Rivista Studio va in scena sabato 30 novembre e domenica 1 dicembre. Moda, design, mobilità sostenibile, sport e tanto altro ancora.
Studio in Triennale, il festival organizzato da Rivista Studio in collaborazione con Triennale Milano, torna per l’ottava edizione in programma sabato 30 novembre e domenica 1 dicembre 2019. Teatro dell’evento il Palazzo dell’Arte in viale Alemagna.
Il filo rosso della due giorni di dibattiti e interviste dedicati a media, cultura, innovazione, design, stili di vita, sport e ambiente sarà il superamento di ogni codice, genere, limite e barriera. Tutti gli incontri sono a ingresso libero. Ecco il programma completo.
SABATO 30 NOVEMBRE
Ore 14.00 No Code! Moda, design, arte, stili di vita: la rottura dei codici Con: Yong Bae Seok (designer), Lorenza Baroncelli (direttrice artistica Triennale Milano), Michele Lupi (Tod’s), Angela Rui (curatrice). Modera: Federico Sarica (direttore Rivista Studio)
Ore 15.15 Come ci muoveremo Dallo skateboard all’elettrico, ragionamenti attorno alla mobilità sostenibile Con: Pablo Baruffo (skatepark designer, CTRL+Z), Paolo Gagliardo (Ad Qooder), Michele Lupi (Tod’s), Diana Manfredi (regista). Modera: Serena Scarpello (Rivista Studio)
Ore 16.30 I nuovi femminili Le donne, i media e le community, fra social e giornali tradizionali Con: Imen Boulahrajane (esperta di economia e influencer), Francesca Delogu (direttrice Cosmopolitan), Cristina Fogazzi (Estetista Cinica), Annalisa Monfreda (direttrice Donna Moderna). Modera: Silvia Schirinzi (Rivista Studio)
Ore 17.45 Incontro con David Szalay, scrittore (Turbolenza, Adelphi) Intervengono: Veronica Raimo, Marco Rossari (autori di Le Bambinacce, Feltrinelli).
Ore 18.45 Incontro con Lawrence Wright, scrittore (Dio salvi il Texas, NR Edizioni) Intervengono: Giuseppe De Bellis (direttore Sky Tg24), Paola Peduzzi (Il Foglio)
DOMENICA 1 DICEMBRE
Ore 11.00 Fabbrica Futuro Dalle nuove professioni alla formazione continua, ragionamenti sul futuro del lavoro Con: Riccardo Barberis (AD ManpowerGroup Italia), Davide Oldani (chef) Modera: Giuseppe De Bellis (direttore SkyTg24) Case history: Barbara Cominelli (Microsoft Italia), Giampaolo Grossi (Starbucks Italy)
Ore 12.00 Il calcio è donna (finalmente!) La rottura dei codici tradizionali nello sport maschile per eccellenza Con: Regina Baresi (Inter FC), Carolina Morace (Sky), Francesca Vitale (AC Milan) Modera: Alessia Tarquinio (Sky Sport)
A seguire Il tennis come istigazione al racconto Un monologo breve di Matteo Codignola (Adelphi)
Ore 14.30 Incontro con Marracash, musicista Interviene: Giovanni Robertini (autore tv e giornalista)
Ore 15.30 Il caso Fitzcarraldo Come un editore indipendente può arrivare, in cinque anni, a pubblicare due premi Nobel (e delle copertine bellissime) Con: Jacques Testard (direttore Fitzcarraldo Editions) Modera: Cristiano de Majo (Rivista Studio)
Ore 16.45 Contro Milano. Viva Milano Una riflessione aperta sulla città e il suo rapporto col resto del Paese Con: Michele Masneri (Il Foglio), Francesco Caldarola (autore tv), Mattia Carzaniga (giornalista), Irene Graziosi (autrice Venti), Virginia Valsecchi (produttrice). Modera: Federico Sarica (direttore Rivista Studio)
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L'ad di Viale Mazzini sotto pressione per il cambio dei direttori dei telegiornali. Ma a preoccupare sono anche il presunto conflitto di interessi del capo comunicazione Giannotti e il costo dell'operazione Viva RaiPlay.
Il 26 novembre Fabrizio Salini è pronto a essere ascoltato in Commissione di vigilanza Rai. Per l’amministratore delegato della tivù di Stato si annunciano giorni di passione, cosa che lui, che soffre la troppa pressione, sicuramente vorrebbe evitarsi. Ma oramai la partita Rai non è più rinviabile. Ovvero non è più procrastinabile intervenire su una situazione che è ancora figlia del Conte Uno e dell’alleanza giallo-verde.
Ora, se Giuseppe Conte (bis) e i grillini sono rimasti, sono il Pd e Matteo Renzi che, entrati nella nuova compagine di governo, reclamano a gran voce che il tormentato universo della tivù pubblica ne prenda atto. Come fatto trapelare senza troppi paludamenti, il partito di Nicola Zingaretti punta al Tg1, guidato ora da Giuseppe Carboni in quota M5s. Il suo candidato è il sempreverde (il colore non allude ovviamente a simpatie leghiste) Antonio Di Bella, attualmente alla guida di Rai News.
Di Bella è il candidato più forte, ma non l’unico: c’è il vecchio direttore della testata ammiraglia nonché ex direttore generale dell’ente Mario Orfeo che chiede di essere valorizzato. Momentaneamente parcheggiato a Rai Way, Orfeo vuole tornare a pieno titolo nell’agone delle news. Sconta però un certo ostracismo dei pentastellati, che gli preferiscono di gran lunga Franco Di Mare, da luglio vicedirettore di RaiUno con delega agli approfondimenti e alle inchieste.
ANCORA NESSUNA CERTEZZA PER LE NOMINE DEI TELEGIORNALI
Ma che i telegiornali vengano toccati dall’ondata delle future nomine è ancora tutto da vedere. Salini sa che la materia è incandescente, e nel tentativo di limitare i danni vorrebbe offrire in pasto alla politica solo il rinnovo dei direttori di rete. I corridoi di viale Mazzini segnalano, ma con la dovuta aleatorietà di una situazione che cambia da un giorno all’altro, il seguente organigramma: Stefano Coletta a RaiUno, Marcello Ciannamea alla Seconda Rete, e l’onniprensente Di Mare, sempre non vada al Tg1, al vertice di RaiTre.
A viale Mazzini quasi sempre chi entra papa rimane cardinale
Ma si sa, a viale Mazzini quasi sempre chi entra papa rimane cardinale, e dunque la prudenza è d’obbligo. Un puzzle che è ulteriormente complicato dal fatto che Salini, forte dell’approvazione del suo piano industriale da parte del Mise, deve procedere alla nomina dei responsabili delle divisioni trasversali. Lo farà o tergiverserà ancora? Qualcosa forse si saprà nel cda Rai che si terrà due giorni dopo l’audizione dell’ad in Commissione di vigilanza.
E poi c’è una ulteriore grana che non promette nulla di buono. Complice Striscia la notizia, è deflagrato il caso della società di comunicazione Mn, dove Marcello Giannotti ha lavorato dal 2015 al 2018 prima di essere chiamato da Salini a guidare la comunicazione Rai. Quasi sicuro che il cda chiederà a Salini spiegazioni su quello che alcuni giudicano un conflitto di interessi, altri come minimo una evidente caduta di stile. Mn, in trattativa per Sanremo (anche se la società smentisce), segue la comunicazione di Fiorello e della nuova serie I Medici, pagata da Lux Vide ma nell’ambito di una coproduzione Rai.
I DETTAGLI ECONOMICI SUL PROGRAMMA DI FIORELLO RIMANGONO UN MISTERO
Sempre nei corridoi di viale Mazzini si sussurra anche di un altro capitolo che chiamerebbe in causa Giannotti, ovvero una serie di contratti che la Comunicazione avrebbe sottoscritto con alcune testate online per ospitare una serie di redazionali sull’attività della Rai e del suo ad. E poi c’è il caso Fiorello, l’operazione su cui Salini ha puntato, ma i cui contorni sono ancora avvolti nel mistero. Per quello che è stato venduto come l’appuntamento televisivo dell’anno, il ritorno dello showman sulla piattaforma di Rai Play, non sono mai stati comunicati i dettagli economici.
Indiscrezioni in possesso di Lettera43 parlano di un costo complessivo dell’operazione Fiorello di circa 10 milioni di euro
Sarà il prossimo cda l’occasione per fare chiarezza? Indiscrezioni in possesso di Lettera43 parlano di un costo complessivo dell’operazione di circa 10 milioni di euro. Una cifra che comprende l’ingaggio di Fiorello, quello dei suoi autori, la campagna di marketing che ha accompagnato il ritorno dello showman sul piccolo schermo, e la realizzazione di tre set volanti destinati a essere smontati il prossimo dicembre alla fine del programma.
Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.
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L'ad di Viale Mazzini sotto pressione per il cambio dei direttori dei telegiornali. Ma a preoccupare sono anche il presunto conflitto di interessi del capo comunicazione Giannotti e il costo dell'operazione Viva RaiPlay.
Il 26 novembre Fabrizio Salini è pronto a essere ascoltato in Commissione di vigilanza Rai. Per l’amministratore delegato della tivù di Stato si annunciano giorni di passione, cosa che lui, che soffre la troppa pressione, sicuramente vorrebbe evitarsi. Ma oramai la partita Rai non è più rinviabile. Ovvero non è più procrastinabile intervenire su una situazione che è ancora figlia del Conte Uno e dell’alleanza giallo-verde.
Ora, se Giuseppe Conte (bis) e i grillini sono rimasti, sono il Pd e Matteo Renzi che, entrati nella nuova compagine di governo, reclamano a gran voce che il tormentato universo della tivù pubblica ne prenda atto. Come fatto trapelare senza troppi paludamenti, il partito di Nicola Zingaretti punta al Tg1, guidato ora da Giuseppe Carboni in quota M5s. Il suo candidato è il sempreverde (il colore non allude ovviamente a simpatie leghiste) Antonio Di Bella, attualmente alla guida di Rai News.
Di Bella è il candidato più forte, ma non l’unico: c’è il vecchio direttore della testata ammiraglia nonché ex direttore generale dell’ente Mario Orfeo che chiede di essere valorizzato. Momentaneamente parcheggiato a Rai Way, Orfeo vuole tornare a pieno titolo nell’agone delle news. Sconta però un certo ostracismo dei pentastellati, che gli preferiscono di gran lunga Franco Di Mare, da luglio vicedirettore di RaiUno con delega agli approfondimenti e alle inchieste.
ANCORA NESSUNA CERTEZZA PER LE NOMINE DEI TELEGIORNALI
Ma che i telegiornali vengano toccati dall’ondata delle future nomine è ancora tutto da vedere. Salini sa che la materia è incandescente, e nel tentativo di limitare i danni vorrebbe offrire in pasto alla politica solo il rinnovo dei direttori di rete. I corridoi di viale Mazzini segnalano, ma con la dovuta aleatorietà di una situazione che cambia da un giorno all’altro, il seguente organigramma: Stefano Coletta a RaiUno, Marcello Ciannamea alla Seconda Rete, e l’onniprensente Di Mare, sempre non vada al Tg1, al vertice di RaiTre.
A viale Mazzini quasi sempre chi entra papa rimane cardinale
Ma si sa, a viale Mazzini quasi sempre chi entra papa rimane cardinale, e dunque la prudenza è d’obbligo. Un puzzle che è ulteriormente complicato dal fatto che Salini, forte dell’approvazione del suo piano industriale da parte del Mise, deve procedere alla nomina dei responsabili delle divisioni trasversali. Lo farà o tergiverserà ancora? Qualcosa forse si saprà nel cda Rai che si terrà due giorni dopo l’audizione dell’ad in Commissione di vigilanza.
E poi c’è una ulteriore grana che non promette nulla di buono. Complice Striscia la notizia, è deflagrato il caso della società di comunicazione Mn, dove Marcello Giannotti ha lavorato dal 2015 al 2018 prima di essere chiamato da Salini a guidare la comunicazione Rai. Quasi sicuro che il cda chiederà a Salini spiegazioni su quello che alcuni giudicano un conflitto di interessi, altri come minimo una evidente caduta di stile. Mn, in trattativa per Sanremo (anche se la società smentisce), segue la comunicazione di Fiorello e della nuova serie I Medici, pagata da Lux Vide ma nell’ambito di una coproduzione Rai.
I DETTAGLI ECONOMICI SUL PROGRAMMA DI FIORELLO RIMANGONO UN MISTERO
Sempre nei corridoi di viale Mazzini si sussurra anche di un altro capitolo che chiamerebbe in causa Giannotti, ovvero una serie di contratti che la Comunicazione avrebbe sottoscritto con alcune testate online per ospitare una serie di redazionali sull’attività della Rai e del suo ad. E poi c’è il caso Fiorello, l’operazione su cui Salini ha puntato, ma i cui contorni sono ancora avvolti nel mistero. Per quello che è stato venduto come l’appuntamento televisivo dell’anno, il ritorno dello showman sulla piattaforma di Rai Play, non sono mai stati comunicati i dettagli economici.
Indiscrezioni in possesso di Lettera43 parlano di un costo complessivo dell’operazione Fiorello di circa 10 milioni di euro
Sarà il prossimo cda l’occasione per fare chiarezza? Indiscrezioni in possesso di Lettera43 parlano di un costo complessivo dell’operazione di circa 10 milioni di euro. Una cifra che comprende l’ingaggio di Fiorello, quello dei suoi autori, la campagna di marketing che ha accompagnato il ritorno dello showman sul piccolo schermo, e la realizzazione di tre set volanti destinati a essere smontati il prossimo dicembre alla fine del programma.
Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.
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I big in gara saranno non meno di 20 e non più di 24. I nomi verranno resi pubblici il 6 gennaio, durante la puntata speciale dei "Soliti ignoti" dedicata alla Lotteria Italia. Spunta l'ipotesi Chiara Ferragni sul palco dell'Ariston.
I big in gara al Festival di Sanremo 2020 li conosceremo ufficialmente il 6 gennaio, durante la puntata speciale dei Soliti ignoti su Rai 1 dedicata alla Lotteria Italia. Lo show sarà condotto da Amadeus, che come tutti sanno è anche il direttore artistico della 70esima edizione del Festival. Ma nelle ultime ore si sta facendo largo un’ipotesi suggestiva: accanto a lui, sul palco dell’Ariston, potrebbe esserci Chiara Ferragni.
Amadeus ha dato qualche anticipazione sul Festival che verrà durante l’incontro ‘Milano-Saremo’, che ha aperto la Milano Music Week. Il numero dei cantanti in gara, ha spiegato l’ex dj, è ancora incerto, ma «saranno non meno di 20 e non più di 24, per motivi televisivi». Gli otto artisti che si contenderanno il Sanremo Giovani si conosceranno il 19 dicembre, mentre il cast dei conduttori sarà presentato a metà gennaio, nella tradizionale conferenza stampa ufficiale del Festival.
In Rete, tuttavia, circola con insistenza un’indiscrezione. A Sanremo 2020 potrebbe approdare l‘influencer più famosa d’Italia, ovvero Chiara Ferragni. Lei stessa, intervistata dal quotidiano il Messaggero, ha in qualche modo contribuito ad alimentare queste voci. Alla domanda: «A Sanremo va oppure no?», ha infatti risposto: «Mi dicono di dire no comment su Sanremo». Una frase che – naturalmente – ha scatenato le speculazioni. Dopo l’esperienza al cinema con il documentario Chiara Ferragni Unposted, non è quindi escluso che la moglie di Fedez possa misurarsi anche con la televisione. E il debutto a Sanremo sarebbe un colpo mediatico di grande richiamo.
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L'inviato del Giornale racconta 30 anni di reportage. Ma anche la paura e la perdita di amici come Almerigo Grilz. E mette in guardia dall'informazione mordi e fuggi sui social. L'intervista.
Raccontare i conflitti del mondo. Quelli lontani, dimenticati, sconosciuti. E quelli più vicini. Dall’Afghanistan alla Birmania, dall’Ucraina alla ex Jugoslavia. Dall’Africa fino al Medio Oriente. Al seguito di guerriglie, eserciti e soldati di ventura. Nel deserto o nella giungla. Tra speranze, violenze e sogni. È quello che da più di 30 anni fanno Gian Micalessin e Fausto Biloslavo che hanno raccolto molti dei loro lavori nel libro Guerra, guerra, guerra, uscito per Mondadori nell’aprile del 2018 e ora in edicola con Il Giornale.
Quello scelto dagli autori è un titolo con due significati ben precisi. «Guerra tre volte perché attraverso i reportage raccontiamo i cambiamenti intercorsi nell’arco di tre decenni», spiega a Lettera43.it Gian Micalessin. Il lavoro dei due reporter, infatti, inizia al seguito dei mujaheddin nell’Afghanistan del 1983 invaso quattro anni prima dall’Unione Sovietica. «Il mondo era ancora diviso tra Usa e Urss, l’Italia si affacciava sulla scena internazionale con la missione in Libano, internet e telefoni cellulari appartenevano alla fantascienza e noi eravamo dei ragazzini poco più che ventenni», racconta il giornalista. «Sotto i nostri occhi, mentre corriamo da una guerra all’altra, si susseguono i grandi cambiamenti politici e tecnologici che modificheranno la nostra vita e il mondo. Tutto questo si riflette, inevitabilmente, anche nelle guerre e nel nostro modo di raccontarle»
Nei racconti scritti nel libro, con Micalessin e Biloslavo continua a viaggiare e vivere anche il ricordo di Almerigo Grilz, «l’amico e compagno di viaggi con cui iniziammo questa lunga avventura». Il reporter ucciso e il 19 maggio 1987 mentre raccontava la guerra civile in Mozambico, è stato il primo giornalista italiano a cadere dopo la Seconda Guerra mondiale. Ma è anche il più ignorato dagli ambienti giornalistici del nostro Paese. «Questo libro», precisa Micalessin, «è anche un modo per contribuire al suo ricordo e a quello di altri amici persi lungo la strada».
QUELLA PAURA CHE NON SCOMPARE MAI
A distanza di oltre 30 anni, la vicinanza con la morte continua a fare paura. «La paura c’è sempre. C’è prima di partire, quando ti dici non può andare sempre bene. C’è prima di andare in battaglia perché sai che non ci sono garanzie», mette in chiaro Micalessin. «In due occasioni ho avuto più paura del solito, in Congo nel 1995 e in Iraq nel 2016. In Congo perché andai a raccontare non una guerra, ma la seconda grande epidemia di Ebola. E lo feci direttamente dall’epicentro del contagio a Kikwit. Qui l’incubo maggiore fu ignorare, per oltre 20 giorni dopo il ritorno a casa, se il virus aveva colpito anche me». E poi nel 2016, in Iraq, quando il reporter era insieme alle milizie sciite che andavano all’attacco dell’aeroporto di Tal Afar sotto scacco dello Stato Islamico. «Alle tre di notte mia moglie, che era incinta, mi mandò l’immagine della prima ecografia in cui si vedevano i 23 millimetri di mio figlio Almerigo. Andare in battaglia alle sei di mattina con quell’immagine negli occhi non fu per niente facile».
IL VIAGGIO INDIMENTICABILE IN BIRMANIA
Uno dei reportage a cui Micalessin è più affezionato e che viene raccontato anche su Guerra Guerra Guerra, è un lungo viaggio nel Sud-Est dell’Asia. «Nel 1985 io e Almerigo tornammo nelle terre dei Karen in Birmania per realizzare uno speciale di Jonathan, la trasmissione condotta da Ambrogio Fogar sul giornalismo di guerra. Viaggiammo per un mese seguendo una colonna di combattenti che prima risalì il fiume Salween e poi con gli elefanti attraversò le giungle e le montagne del Paese spingendosi ai limiti estremi dei territori controllati da questa minoranza dimenticata ancora in guerra». Un viaggio avventuroso in una terra fuori dal tempo e dalla civiltà che Micalessin sogna di rifare. «Ancora oggi sogno di tornare a inseguire quelle lunghe colonne di elefanti e uomini immergendomi in un reportage lontano dalle frenesie dei collegamenti via satellite e degli articoli quotidiani».
INTERNET E I SOCIAL HANNO SOSTITUITO IL “VECCHIO” GIORNALISMO
Già, perché il giornalismo è cambiato. E purtroppo lo spazio per raccontare le guerre dimenticate è sempre di meno. «Al tempo stavamo via mesi e quando tornavamo vendevamo le nostre storie alle grandi reti televisive che le mandavano in onda come se fossero state girate qualche ora prima. Oggi sarebbe impossibile, i telefonini e internet ci raccontano quel che succede anche nei posti dove i giornalisti non arrivano», spiega il reporter. Questo, però, diffonde solo la sensazione di sapere tutto e conoscere tutto anche senza il tramite dei professionisti, perché «quel che vediamo e conosciamo è solo un post o un tweet, non certo un racconto giornalistico vissuto in prima persona».
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L'inviato del Giornale racconta 30 anni di reportage. Ma anche la paura e la perdita di amici come Almerigo Grilz. E mette in guardia dall'informazione mordi e fuggi sui social. L'intervista.
Raccontare i conflitti del mondo. Quelli lontani, dimenticati, sconosciuti. E quelli più vicini. Dall’Afghanistan alla Birmania, dall’Ucraina alla ex Jugoslavia. Dall’Africa fino al Medio Oriente. Al seguito di guerriglie, eserciti e soldati di ventura. Nel deserto o nella giungla. Tra speranze, violenze e sogni. È quello che da più di 30 anni fanno Gian Micalessin e Fausto Biloslavo che hanno raccolto molti dei loro lavori nel libro Guerra, guerra, guerra, uscito per Mondadori nell’aprile del 2018 e ora in edicola con Il Giornale.
Quello scelto dagli autori è un titolo con due significati ben precisi. «Guerra tre volte perché attraverso i reportage raccontiamo i cambiamenti intercorsi nell’arco di tre decenni», spiega a Lettera43.it Gian Micalessin. Il lavoro dei due reporter, infatti, inizia al seguito dei mujaheddin nell’Afghanistan del 1983 invaso quattro anni prima dall’Unione Sovietica. «Il mondo era ancora diviso tra Usa e Urss, l’Italia si affacciava sulla scena internazionale con la missione in Libano, internet e telefoni cellulari appartenevano alla fantascienza e noi eravamo dei ragazzini poco più che ventenni», racconta il giornalista. «Sotto i nostri occhi, mentre corriamo da una guerra all’altra, si susseguono i grandi cambiamenti politici e tecnologici che modificheranno la nostra vita e il mondo. Tutto questo si riflette, inevitabilmente, anche nelle guerre e nel nostro modo di raccontarle»
Nei racconti scritti nel libro, con Micalessin e Biloslavo continua a viaggiare e vivere anche il ricordo di Almerigo Grilz, «l’amico e compagno di viaggi con cui iniziammo questa lunga avventura». Il reporter ucciso e il 19 maggio 1987 mentre raccontava la guerra civile in Mozambico, è stato il primo giornalista italiano a cadere dopo la Seconda Guerra mondiale. Ma è anche il più ignorato dagli ambienti giornalistici del nostro Paese. «Questo libro», precisa Micalessin, «è anche un modo per contribuire al suo ricordo e a quello di altri amici persi lungo la strada».
QUELLA PAURA CHE NON SCOMPARE MAI
A distanza di oltre 30 anni, la vicinanza con la morte continua a fare paura. «La paura c’è sempre. C’è prima di partire, quando ti dici non può andare sempre bene. C’è prima di andare in battaglia perché sai che non ci sono garanzie», mette in chiaro Micalessin. «In due occasioni ho avuto più paura del solito, in Congo nel 1995 e in Iraq nel 2016. In Congo perché andai a raccontare non una guerra, ma la seconda grande epidemia di Ebola. E lo feci direttamente dall’epicentro del contagio a Kikwit. Qui l’incubo maggiore fu ignorare, per oltre 20 giorni dopo il ritorno a casa, se il virus aveva colpito anche me». E poi nel 2016, in Iraq, quando il reporter era insieme alle milizie sciite che andavano all’attacco dell’aeroporto di Tal Afar sotto scacco dello Stato Islamico. «Alle tre di notte mia moglie, che era incinta, mi mandò l’immagine della prima ecografia in cui si vedevano i 23 millimetri di mio figlio Almerigo. Andare in battaglia alle sei di mattina con quell’immagine negli occhi non fu per niente facile».
IL VIAGGIO INDIMENTICABILE IN BIRMANIA
Uno dei reportage a cui Micalessin è più affezionato e che viene raccontato anche su Guerra Guerra Guerra, è un lungo viaggio nel Sud-Est dell’Asia. «Nel 1985 io e Almerigo tornammo nelle terre dei Karen in Birmania per realizzare uno speciale di Jonathan, la trasmissione condotta da Ambrogio Fogar sul giornalismo di guerra. Viaggiammo per un mese seguendo una colonna di combattenti che prima risalì il fiume Salween e poi con gli elefanti attraversò le giungle e le montagne del Paese spingendosi ai limiti estremi dei territori controllati da questa minoranza dimenticata ancora in guerra». Un viaggio avventuroso in una terra fuori dal tempo e dalla civiltà che Micalessin sogna di rifare. «Ancora oggi sogno di tornare a inseguire quelle lunghe colonne di elefanti e uomini immergendomi in un reportage lontano dalle frenesie dei collegamenti via satellite e degli articoli quotidiani».
INTERNET E I SOCIAL HANNO SOSTITUITO IL “VECCHIO” GIORNALISMO
Già, perché il giornalismo è cambiato. E purtroppo lo spazio per raccontare le guerre dimenticate è sempre di meno. «Al tempo stavamo via mesi e quando tornavamo vendevamo le nostre storie alle grandi reti televisive che le mandavano in onda come se fossero state girate qualche ora prima. Oggi sarebbe impossibile, i telefonini e internet ci raccontano quel che succede anche nei posti dove i giornalisti non arrivano», spiega il reporter. Questo, però, diffonde solo la sensazione di sapere tutto e conoscere tutto anche senza il tramite dei professionisti, perché «quel che vediamo e conosciamo è solo un post o un tweet, non certo un racconto giornalistico vissuto in prima persona».
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Le grandi società possono influire sulle istituzioni. Arrivando persino a distorcere la realtà, manipolando l'opinione pubblica. Per questo è necessario un serio processo di responsabilizzazione.
Gli attacchi alla democrazia sono sempre più frequenti, strutturati e imprevedibili. Le minacce, al giorno d’oggi, provengono da più fronti: dalla finanza al web fino alla globalizzazione, sono tantissimi i fattori che influenzano negativamente l’andamento delle democrazie globali e minano il ruolo delle istituzioni. Non è un caso, infatti, che il premio Nobel per l’Economia, Joseph Stiglitz, lo scorso sabato a Roma al Festival Economia Come: l’impresa di crescere, abbia ribadito che i sistemi democratici sono sotto attacco, incrinando così il rapporto fiduciario tra cittadini e istituzioni. Nel suo discorso, Stiglitz, una delle voci più autorevoli nella critica della globalizzazione e del liberismo, ha sottolineato che l’aspetto più inquietante del presente momento politico risiede nell’attacco al nostra conoscenza con effetti di vasta portata sulla civiltà, sul nostro standard di vita e sul funzionamento dei nostri sistemi di organizzazione politica e sociale. Un chiaro esempio di questi effetti, ha aggiunto Stiglitz, risiede nella negazione del cambiamento climatico e nella disinformazione perpetrata a riguardo negli ultimi anni. Tale negazione e manipolazione di informazioni ha provocato, infatti, effetti «esistenziali», come li ha definiti lo stesso premio Nobel, mettendo in crisi la credibilità delle istituzioni stesse.
PIÙ UN’ISTITUZIONE È NEUTRALE E PIÙ È CONSIDERATA AFFIDABILE
I continui attacchi alla democrazia hanno instillato sospetto e incertezze nei confronti delle istituzioni, accrescendo sentimenti di sfiducia da parte dei cittadini. I recenti studi condotti da Fondapol.org (Fondation pour l’innovation politique), think tank francese liberale, insieme con l’Iri (International Republican Institute), un’organizzazione no profit e non profit, già richiamati in altri articoli, hanno rilevato, a riguardo, un dato sorprendente: il governo (64%), il parlamento (59%), i partiti politici (77%), i sindacati (55%) e i media (66%) non sono ritenuti affidabili dalla maggioranza degli intervistati. Più un’istituzione appare neutrale e non legata alla politica, più questa viene percepita come essenziale e affidabile per rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini. Non è un caso, quindi, che le Ong (60%) ottengano un livello di fiducia maggioritario. Si tratta, quindi, di una relazione che associa fiducia e prossimità, servizi forniti e neutralità politica.
TRA I BIG TECH SCRICCHIOLA SOLO FACEBOOK
Diversa è, invece, la percezione e la fiducia dei cittadini nei confronti delle imprese. Nonostante la maggior parte degli intervistati affermi di non fidarsi delle grandi imprese e di prediligere le piccole e medie (78%), Microsoft (77%), Google (75%), Amazon (71%) e Apple (69%) ricevono un buon tasso di fiducia. Solo Facebook genera la maggior parte della sfiducia (58%). Questa è causata dal coinvolgimento dell’azienda in numerose controversie, compresa la sua influenza politica, la sua associazione con le notizie false e il suo trattamento dei dati personali degli utenti.
GLI ATTACCHI DI WARREN A EXON MOBIL
Nonostante il loro successo in termini di credito, le Big Tech e le grandi imprese pesano sulla democrazia e sono in grado di inficiare il lavoro delle istituzioni democratiche, dei politici e del sistema giudiziario attivando processi mirati di disinformazione, come ricordato dallo stesso Stiglitz. Proprio martedì, la candidata alle primarie democratiche per le Presidenziali Usa del 2020, Elizabeth Warren, di cui abbiamo già avuto modo di parlare relativamente alla sponsorizzazione intenzionale di fake news su Mark Zuckerberg, ha lanciato una nuova campagna su Twitter contro alcuni operatori dell’industria accusati di fornire consapevolmente informazioni false e fuorvianti alle agenzie di regolamentazione federali, fornendo così materiale da utilizzare come scusa per invalidare le regole vigenti. Nello specifico, la campagna di Warren si rivolge alla Exxon Mobil, uno dei principali gruppi mondiali del settore energetico. Gli scienziati del gigante petrolifero, pur avendo confermato negli Anni 70 e 80 che i combustibili fossili hanno contribuito al riscaldamento globale, avrebbero poi successivamente chiuso la loro ricerca sul clima, secondo quanto riportato, abbracciando una campagna di pubbliche relazioni per diffondere dubbi sulla scienza del clima e finanziare la negazione del cambiamento climatico. Dunque, secondo la candidata, la Exxon avrebbe speso milioni di dollari in think tank per generare incertezza sulla scienza del clima, pubblicando e promuovendo una scienza non revisionata per fuorviare il popolo americano sui cambiamenti climatici.
I GUAI GIUDIZIARI DEL GIGANTE PETROLIFERO
La Exxon è attualmente coinvolta in molteplici cause legali che sostengono che l’azienda abbia ingannato i suoi azionisti sui rischi climatici. New York ha citato in giudizio l’azienda per presunte frodi climatiche ed è in attesa di una sentenza del giudice della Corte Suprema di New York, Barry Ostrager. Qualora le accuse trovassero fondamento, si tratterebbe di una delle tante falsità intenzionalmente diffuse da grandi aziende per agevolare il business, ostacolando, però, la comprensione dei fatti per i cittadini e influenzando agenzie federali come l’Epa (United States Environmental Protection Agency). Le agenzie federali, in alcuni casi, sollecitano il pubblico a fornire informazioni sulle regole proposte attraverso un processo chiamato notice-and-comment, che dovrebbero aiutare l’agenzia a sollecitare il feedback degli esperti, rendendo chiaro, trasparente e responsabile il processo.
SONO NECESSARI PROCESSI DI RESPONSABILIZZAZIONE
Investimenti finalizzati alla disinformazione possono minare, dunque, i processi democratici. Se questi provengono da aziende, in particolare grandi aziende, risulta essere sempre più necessario dare vita a processi di responsabilizzazione. Questo può avvenire, non solo attraverso l’istituzione di una legge sulla “falsa testimonianza aziendale“, come suggerito da Warren, ma attraverso la creazione di una nuova sensibilità e di un piano strategico di comunicazione istituzionale interna ed esterna volta a evitare quanto preannunciato da Stiglitz, ovvero un attacco incontrastato al sistema epistemologico di base.
SONO IN GIOCO LA REPUTAZIONE E IL BUSINESS DELL’AZIENDA
Comunicazione e digitalizzazione ricoprono un ruolo fondamentale in questo campo e rappresentano attori cruciali e preziosi per lo sviluppo di una coscienza responsabile, in grado di mettere al primo posto il benessere dei cittadini e ispirare loro fiducia e solidità. Per quanto difficile possa essere trasmettere la complessità delle istituzioni e verificare la serietà e responsabilità aziendale, questo risulta essere necessario per il futuro, non solo delle istituzioni, ma delle aziende stesse: il conseguimento di una buona responsabilità aziendale può rappresentare un’ottima leva per incrementare la reputazione dell’azienda stessa e il suo business.
*Professore di Strategie di Comunicazione, Luiss, Roma
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Sono sempre di più le persone che, specialmente su Twitter, rivelano di avere un tumore cercando conforto nelle interazioni. Lo strazio di una verità che nessuno vorrebbe pronunciare ma un giorno si ritrova a urlare a una platea virtuale, sperando che diventi vera e curi almeno la solitudine.
Si parla tanto di tendenze in Rete, di insulti e controinsulti, di hate speech e free speech e c’è chi vuole metter dei sacchi di sabbia vicino alle finestre dei social, per dire il controllo anagrafico, capillare, maniacale che poi non serve a niente. Ecco, si parla sempre delle autostrade dell’odio che viaggiano tra Facebook e Twitter e non c’è dubbio, perché la pianta storta dell’umanità non può raddrizzarsi nel mondo virtuale, anzi si esalta nelle sue contorsioni, l’uomo storto nasce e storto muore.
Però, poi, c’è un però. Però non è solo questo, la Rete. Non sono solo questi, i social. Qui c’è tanta solitudine. Qui c’è paura, e disperato urlo muto di speranza, e sconcertata richiesta di qualcosa, qualcuno cui aggrapparsi anche per finta, anche senza conoscerlo. Qui c’è il grido: io sono vivo, io voglio restare vivo. Malgrado tutto, a dispetto della cattiveria degli umani, della loro distanza, di un domani che mi aspetta tremendo come un percorso di guerra.
Perché sui social, Twitter in particolare, sono sempre di più quelli che annunciano: ho un cancro, comincio la chiemioterapia, restatemi vicino. E li vedi, ci inciampi contro, e non sai come reagire, non sai cosa pensare: è giusto, dare in pasto il proprio male? È normale, chiedere aiuto in questo modo così drammatico e volatile? Serve a qualcosa, o è solo patetico? Ma poi, non siamo tutti patetici di fronte al nostro male, che minaccia di spegnerci? Che senso ha chiedere parole sconosciute, se siamo lastre di vetro dove parole scorrono?
QUELLE GRIDA DI AIUTO COSÌ DIVERSE E COSÌ UGUALI
Eppure, i social scoppiano di queste grida quiete, gentili, quasi titubanti, quasi esitanti. C’è la signora in età, i capelli bianchi, vaporosi, c’è la ragazzina che non penseresti mai, così fresca, così ragazzina. E c’è la donna fatta, coi suoi percorsi speciali, la fatica e il lavoro, donna madre con figli da rassicurare, mentre è lei a tremare. E c’è il signore che ti guarda fisso, vorrebbe dimostrarsi uomo, forte, sicuro anche in questa prova, ma cos’è un uomo senza la paura da sfidare?
Ho paura, non so chi sei, ma stammi vicino perché la vita mi sta mettendo alla prova più estrema e allora non c’è più spazio per l’odio, l’anonimato, il mondo virtuale, quello reale
Sono tanti, e sono sempre di più; anche a voler sospettare che qualcuno cerchi solo attenzione, o che, pure in buona fede, sia caduto nell’emulazione di quella spinosa tendenza tra i vip a raccontare proprio tutto, anche questo, anche la malattia, buona ultima Emma Marrone, la cantante di cui non si è mai capito del tutto il nemico, ma tutti abbiamo immaginato il peggiore, e finalmente, dopo un mese, eccola sulle pareti di tutte le stazioni della metropolitana col volto del suo nuovissimo disco; anche a calcolare la malizia degli uomini e donne che restano piante deboli e storte, la maggior parte di questi profili sono umani, troppo umani.
A questi non serve l’anonimato, non lo cercano. Vogliono solo che qualcuno, o tanti, tutti sconosciuti, che non incontreranno mai, che non li vedranno mai sulle loro poltrone di dolore, però si prendano cura di loro per un attimo: ho paura, non so chi sei, ma stammi vicino perché la vita mi sta mettendo alla prova più estrema e allora non c’è più spazio per l’odio, l’anonimato, il mondo virtuale, quello reale, le autostrade della follia.
LA RICERCA DI QUALCUNO NELLA SOLITUDINE DELLA MALATTIA
Adesso è solo assenzio, che brucia e, speriamo, guarisce, e pazienza, e dietro le vetrate quel sole che speriamo di poter riprendere in mano un giorno. Presto. Stammi vicino, ho un tumore, «domani inizio la chemioterapia, ma io sono forte, ce la farò». E, sotto, le centinaia le migliaia di cuori, di condivisioni, di auguri magari di circostanza, ma almeno ci sono: non sarebbe atroce se un urlo così cadesse in un imbuto di disattenzione? Forse, malgrado le storture, nella pianta umana qualcosa da salvare ancora c’è. C’è la fragilità di chi è colpito, la solidarietà automatica, distante, distratta, ma presente, di chi se ne accorge. «Aiutami», l’invocazione che rende umano un essere umano. «Ci sono», la risposta che rende umano un essere umano.
Nei social ci sono anche istanti di eternità, c’è lo strazio di una verità che nessuno vorrebbe pronunciare ma un giorno si ritrova ad urlare a una platea possibile, sperando che diventi vera
Magari, è solo un’illusione. Magari invece fa bene per davvero. Ma, ecco, è per dire che le autostrade dei social non sono solo piene di scontri di ego, carambole di meschinità, epocali cazzate senza speranza, finzioni di finzioni avvolte nella bugia. Ci sono anche istanti di eternità, c’è lo strazio di una verità che nessuno vorrebbe pronunciare ma un giorno si ritrova ad urlare a una platea possibile, sperando che diventi vera. L’incubo di tutti, ho un cancro, comincio una cura difficile, aleatoria, statemi vicino, vi cercherò inchiodato alla mia poltrona di dolore, mentre l’assenzio scorre in me insieme alla paura e alla speranza.
Non è un discorso d’odio e non lo è di libertà. È solo spavento, pietà. E sono così tanti, e poi sempre di più. Sì, probabilmente qualcuno ha pensato che se succede a un vip, se lo fa anche un vip, allora può farlo anche lui. E dopo di lui un altro, e un altro, e un altro. Tu ci inciampi e ti chiedi se sia giusto poi metterci un cuore, se sia giusto tirare via. In tutti i casi è strano, imbarazzante e ingrato. Ma, mentre vai via, più o meno leggero di un cuore distante, non puoi fare a meno di specchiarti. Perché un giorno quel grido muto su Twitter potresti lanciarlo tu.
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Sono sempre di più le persone che, specialmente su Twitter, rivelano di avere un tumore cercando conforto nelle interazioni. Lo strazio di una verità che nessuno vorrebbe pronunciare ma un giorno si ritrova a urlare a una platea virtuale, sperando che diventi vera e curi almeno la solitudine.
Si parla tanto di tendenze in Rete, di insulti e controinsulti, di hate speech e free speech e c’è chi vuole metter dei sacchi di sabbia vicino alle finestre dei social, per dire il controllo anagrafico, capillare, maniacale che poi non serve a niente. Ecco, si parla sempre delle autostrade dell’odio che viaggiano tra Facebook e Twitter e non c’è dubbio, perché la pianta storta dell’umanità non può raddrizzarsi nel mondo virtuale, anzi si esalta nelle sue contorsioni, l’uomo storto nasce e storto muore.
Però, poi, c’è un però. Però non è solo questo, la Rete. Non sono solo questi, i social. Qui c’è tanta solitudine. Qui c’è paura, e disperato urlo muto di speranza, e sconcertata richiesta di qualcosa, qualcuno cui aggrapparsi anche per finta, anche senza conoscerlo. Qui c’è il grido: io sono vivo, io voglio restare vivo. Malgrado tutto, a dispetto della cattiveria degli umani, della loro distanza, di un domani che mi aspetta tremendo come un percorso di guerra.
Perché sui social, Twitter in particolare, sono sempre di più quelli che annunciano: ho un cancro, comincio la chiemioterapia, restatemi vicino. E li vedi, ci inciampi contro, e non sai come reagire, non sai cosa pensare: è giusto, dare in pasto il proprio male? È normale, chiedere aiuto in questo modo così drammatico e volatile? Serve a qualcosa, o è solo patetico? Ma poi, non siamo tutti patetici di fronte al nostro male, che minaccia di spegnerci? Che senso ha chiedere parole sconosciute, se siamo lastre di vetro dove parole scorrono?
QUELLE GRIDA DI AIUTO COSÌ DIVERSE E COSÌ UGUALI
Eppure, i social scoppiano di queste grida quiete, gentili, quasi titubanti, quasi esitanti. C’è la signora in età, i capelli bianchi, vaporosi, c’è la ragazzina che non penseresti mai, così fresca, così ragazzina. E c’è la donna fatta, coi suoi percorsi speciali, la fatica e il lavoro, donna madre con figli da rassicurare, mentre è lei a tremare. E c’è il signore che ti guarda fisso, vorrebbe dimostrarsi uomo, forte, sicuro anche in questa prova, ma cos’è un uomo senza la paura da sfidare?
Ho paura, non so chi sei, ma stammi vicino perché la vita mi sta mettendo alla prova più estrema e allora non c’è più spazio per l’odio, l’anonimato, il mondo virtuale, quello reale
Sono tanti, e sono sempre di più; anche a voler sospettare che qualcuno cerchi solo attenzione, o che, pure in buona fede, sia caduto nell’emulazione di quella spinosa tendenza tra i vip a raccontare proprio tutto, anche questo, anche la malattia, buona ultima Emma Marrone, la cantante di cui non si è mai capito del tutto il nemico, ma tutti abbiamo immaginato il peggiore, e finalmente, dopo un mese, eccola sulle pareti di tutte le stazioni della metropolitana col volto del suo nuovissimo disco; anche a calcolare la malizia degli uomini e donne che restano piante deboli e storte, la maggior parte di questi profili sono umani, troppo umani.
A questi non serve l’anonimato, non lo cercano. Vogliono solo che qualcuno, o tanti, tutti sconosciuti, che non incontreranno mai, che non li vedranno mai sulle loro poltrone di dolore, però si prendano cura di loro per un attimo: ho paura, non so chi sei, ma stammi vicino perché la vita mi sta mettendo alla prova più estrema e allora non c’è più spazio per l’odio, l’anonimato, il mondo virtuale, quello reale, le autostrade della follia.
LA RICERCA DI QUALCUNO NELLA SOLITUDINE DELLA MALATTIA
Adesso è solo assenzio, che brucia e, speriamo, guarisce, e pazienza, e dietro le vetrate quel sole che speriamo di poter riprendere in mano un giorno. Presto. Stammi vicino, ho un tumore, «domani inizio la chemioterapia, ma io sono forte, ce la farò». E, sotto, le centinaia le migliaia di cuori, di condivisioni, di auguri magari di circostanza, ma almeno ci sono: non sarebbe atroce se un urlo così cadesse in un imbuto di disattenzione? Forse, malgrado le storture, nella pianta umana qualcosa da salvare ancora c’è. C’è la fragilità di chi è colpito, la solidarietà automatica, distante, distratta, ma presente, di chi se ne accorge. «Aiutami», l’invocazione che rende umano un essere umano. «Ci sono», la risposta che rende umano un essere umano.
Nei social ci sono anche istanti di eternità, c’è lo strazio di una verità che nessuno vorrebbe pronunciare ma un giorno si ritrova ad urlare a una platea possibile, sperando che diventi vera
Magari, è solo un’illusione. Magari invece fa bene per davvero. Ma, ecco, è per dire che le autostrade dei social non sono solo piene di scontri di ego, carambole di meschinità, epocali cazzate senza speranza, finzioni di finzioni avvolte nella bugia. Ci sono anche istanti di eternità, c’è lo strazio di una verità che nessuno vorrebbe pronunciare ma un giorno si ritrova ad urlare a una platea possibile, sperando che diventi vera. L’incubo di tutti, ho un cancro, comincio una cura difficile, aleatoria, statemi vicino, vi cercherò inchiodato alla mia poltrona di dolore, mentre l’assenzio scorre in me insieme alla paura e alla speranza.
Non è un discorso d’odio e non lo è di libertà. È solo spavento, pietà. E sono così tanti, e poi sempre di più. Sì, probabilmente qualcuno ha pensato che se succede a un vip, se lo fa anche un vip, allora può farlo anche lui. E dopo di lui un altro, e un altro, e un altro. Tu ci inciampi e ti chiedi se sia giusto poi metterci un cuore, se sia giusto tirare via. In tutti i casi è strano, imbarazzante e ingrato. Ma, mentre vai via, più o meno leggero di un cuore distante, non puoi fare a meno di specchiarti. Perché un giorno quel grido muto su Twitter potresti lanciarlo tu.
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Più nell'editore matura l’idea di scendere in politica, sempre meno Fontana - il cui contratto scade a fine anno - gli pare adatto a guidare il giornale. Meglio il numero 1 della Stampa. Forte di relazioni internazionali che un giorno potrebbero tornare utili.
Dopo averci pensato per parecchio tempo, ora Urbano Cairo avrebbe preso la decisione con lo stesso spirito con cui chiede a Walter Mazzarri di cambiare i giocatori del suo Torino: fuori Luciano Fontana e dentro Maurizio Molinari. Sono mesi che l’azionista di controllo di Rcs non è più soddisfatto del direttore del Corriere della Sera, che una volta portava in palmo di mano.
IL CONTRATTO DI FONTANA SCADE NEL 2019
Via via che in Cairo cresceva l’idea di imitare il suo maestro e idolo Silvio Berlusconi e di scendere in politica, sempre meno Fontana gli pareva adatto a guidare “politicamente” il suo giornale. «Troppo morbida e indefinita la linea politica, poco pop il profilo editoriale del giornale», ha confidato Cairo agli amici più fidati, cui ha svelato che il contratto di Fontana è in scadenza a fine 2019. Così aveva accarezzato l’idea di affidare le redini del quotidiano di via Solferino ad Aldo Cazzullo, capace, tra libri sfornati a getto continuo e molte presenze televisive, di una forte popolarità mediatica.
A PESARE LE RELAZIONI INTERNAZIONALI DI MOLINARI
Poi però ci ha ripensato. Meglio il direttore della Stampa, Molinari, più sofisticato politicamente ma soprattutto dotato di un tale portafoglio di relazioni internazionali – più di altri Stati Uniti e Israele dove è stato a lungo corrispondente – che farebbe assai comodo a Cairo se decidesse di rompere gli indugi e mettersi alla testa di quel “partito di centro che non c’è” di cui tanto si parla. Naturalmente a Molinari non pare vero di approdare al soglio Solferino. E non solo per il prestigio del Corsera. Non gli dispiace affatto di lasciare Gedi, dove è sì finito lo scontro dentro la famiglia De Benedetti ma il futuro del gruppo è ancora tutto da scrivere.
Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.
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In 20 anni cambierà tutto. Anche tanti media, di carta e online, spariranno. Con molto meno lavoro ma molti più profitti. Pure per lo Stato. La sfida nell’etica e nella redistribuzione. Il futurologo a L43.
Un mondo senza auto a carburante e call center. Dove lavorare da indipendenti per tre ore al giorno, mantenuti da un reddito minimo di base, garantito dagli introiti statali di energie potenzialmente illimitate e dai costi di produzione massicciamente abbattuti. Un mondo dove andare poi a svagarsi in locali magari con l’insegna no smartphone accanto a no smoke. O accendendo radio e tivù on demand. Navigando con la voce su una Rete molto più veloce e snella di siti web, grazie al 5G e all’intelligenza artificiale (Ai) che sbrigherà tutte le ricerche dati e i compiti di routine. Quel mondo, secondo le previsioni del futurologo tedesco Gerd Leonhard, pensatore e da anni studioso dell’impatto delle tecnologie digitali, non sarà la società mostruosa dei film sul futuro di Hollywood. Ma potrebbe diventarlo se l’etica umana non riuscirà a dominarla.
LA RIVOLUZIONE PIÙ RAPIDA
L’autore di Technology vs. Humanity (2016) non minimizza sulle distopie di un avvenire pervaso da macchine in potenza superuomini. «Potremo fare delle bombe o dei miracoli, una responsabilità tremenda», spiega a Lettera43.it dall’Internet Festival di Pisa, «il mondo cambierà più nei prossimi 20 anni che non negli ultimi 300. Il decollo concomitante di più tecnologie – dal 5G, all’Internet delle cose (Idc), all’ingegneria genetica che modificherà il genoma – porterà al più grande e repentino cambio di paradigma della storia». Per Leonhard, con alle spalle oltre 1500 speech anche tra i big del tech, settori come il bancario verranno smantellati. La gran parte dei giornali sparirà, anche online, se non diverranno un brand con più offerta digitale. «Ma l’umanità creativa» assicura «vincerà i robot e li guiderà».
DOMANDA. Che input riceve quando raccomanda per esempio agli staff di Google o di Microsoft a restare umani, di collaborare per creare insieme i Consigli etici digitali? RISPOSTA. Sono fiducioso, anche loro sono esseri umani che non vogliono diventare macchine. Il problema delle tecnologie più potenti dell’uomo è che non hanno discrimine tra bene e male. Anche il Dalai Lama ritiene l’etica più importante della religione. Predico con urgenza una rete di Consigli etici digitali a livello di città, Paesi, regioni e infine del mondo, perché il gioco non sfugga di mano. Al momento sono una 20ina. Solo con questo sistema capillare e gerarchico potremo accordarci su cosa sia etico o meno. Dilemma tanto difficile quanto cruciale.
Non ci siamo riusciti nell’analogico su questioni come l’eutanasia o la maternità surrogata. Spesso si fraintende che l’etica sia dire sempre no. Invece è discernere caso per caso. Se per esempio con le tecnologie dell’ingegneria genetica posso prevenire l’insorgere del cancro, salvando anche solo una vita umana, ho il dovere di sforzarmi come scienziato. Ma non di creare un super soldato o un dio.
È ottimista anche sulle ricadute della perdita di centinaia di professioni: davvero, come sostiene, dopo la grande contrazione torneranno a circolare soldi, tanti, che verranno distribuiti? Per forza, i progressi saranno inevitabili, enormi e non graduali. E saranno un grosso business: comunicare diventerà come l’aria o l’acqua. L’energia pulita, solare e nucleare, sostituirà il petrolio e sarà illimitata. A basso costo come la gran parte della merce: con l’intelligenza artificiale, i computer quantistici e in 3d, le superconnessioni in 5G, si potrà produrre di più e in massa, a un costo infinitamente inferiore. I governi devono ancora incassare i soldi dai benefit: la sfida più grande, con l’etica, sarà la redistribuzione.
Ma i governi lo capiranno? Anche i partiti sono in una fase di rottura. Ogni politico dovrebbe superare il test del futuro con patentino. Tanti vivono ancora nel passato ma se, come credo, comprenderanno i margini di guadagno del cambiamento, gli Stati potranno offrire servizi di base a tutti e un reddito minimo garantito. Basterà lavorare 2 o 3 ore al giorno, con gli stessi compensi di oggi, per tutta una serie di impieghi. Adesso lavoriamo di più proprio a causa delle nuove tecnologie, ma presto sarà l’opposto. L’idea del lavoro dovrà essere ridefinita.
Quali impieghi crolleranno drasticamente? Le macchine faranno tutto il banking. Come parte dello scientifico e del sanitario: i robot operano già, in modo più invasivo e più economico dei chirurghi, e con più precisione. Tra 10 anni tutte le operazioni semplici, di contabilità e di routine saranno svolte dall’intelligenza artificiale in modo più efficiente e corretto: le informazioni per servizi si potranno avere in automatico parlando con le app: 20 milioni di operatori dei call center sono in estinzione. Come i contabili sostituiti da grandi calcolatori.
Lei prevede servizi pubblici più economici del 90% per i cittadini. Anche nell’informazione: libri e giornali di carta spariranno tra i media? Toccare la carta dà piacere, nella mente si attivano circuiti diversi che quando navighiamo su Internet: sono convinto che l’80% dei libri resterà, leggeremo di più per il tempo libero. Con la gran parte dei giornali andrà diversamente: prima la stampa era un modello di business per la pubblicità, ma oggi non più. Non è affatto necessario comprare un giornale all’edicola per informarsi. Ci sono tante altre fonti.
Soprattutto sui siti Internet. Distinguere tra carta e web è fuorviante. Tra 10 anni non ci saranno più neanche i siti web, tanto uomo e macchina si comprenetreranno. Non servirà più digitare a mano per trovare informazioni sulle pagine online: roba di 20 anni fa. Sarà tutto disponibile a voce, on demand. E comunicheremo a distanza con audio, video, ologrammi…
Così anche il giornalismo morirà. Affatto. Come altre professioni creative e umane sopravviverà, soprattutto nello storytelling. Il giornalismo non verrà soppiantato da macchine incapaci di comprendere e di intuire situazioni e relazioni, di indagare e di verificare dati, di creare video e immagini originali. I computer sono ottimi database e potranno anche simulare storie, ma in modo dozzinale: capire il mondo non è un dato di fatto. Certo di sicuro cambieranno i mezzi: vedremo le radio sparire dalle auto connesse a Internet. Tra i quotidiani reggeranno solo quelli molto buoni come il New York Times, l’Economist, il Guardian o der Spiegel in Germania, che da fogli di carta si stanno trasformando in brand digitali del lifestyle. Cioè in potenti società tecnologiche.
Due multinazionali digitali per eccellenza, Google e Facebook, cercano di fare informazione. Ma siamo già a una crisi dei social media, per la spazzatura generata dagli algoritmi. Che di per sé sono insufficienti a fare informazione, devono incontrarsi con gli old media. Con questo abbaglio negli ultimi 10 anni sono stati persi molti soldi, molti media hanno chiuso e quel che abbiamo è un cattivo giornalismo. Ma con la redistribuzione assisteremo a un grande revival, soprattutto dei media pubblici. Anche su questo sono ottimista.
Cos’altro non diventerà mai macchina, nonostante corpi contaminati dai chip, estensioni di robot? Ci sarà molta assistenza dell’Ai. Ma difficilmente guidare un’auto sarà totalmente automatizzato, a causa dell’imprevedibilità del traffico. Parte dei negozi resterà gestito da persone, per via delle relazioni umane indispensabili per la nostra natura. Pensiamo ai contatti in un café, al lavoro di uno chef… C’è principio paradossale nella scienza: tutto ciò che è semplice per un computer è difficile per l’uomo, e viceversa. Gli uomini hanno dei limiti logici che le macchine non hanno. In compenso riescono a comprendere e a sentire.
Però le menti dei bambini potrebbero essere plasmate dalle tecnologie, diventando macchine: si vedono navigare negli smartphone prima di imparare a leggere e a scrivere. È un’urgenza, come detto, proteggere la parte umana circondata da tecnologie potenti, accattivanti come le droghe. Ma c’è una strada già tracciata: i bambini per esempio non dovrebbero poter usare gli smartphone a scuola. E nei ristoranti sarebbe una bella regola il no smartphone – su base volontaria, non come obbligo per i ristoratori – oltre al no smoke.
Quali Paesi sono più avanti nella gestione responsabile delle nuove tecnologie? Paesi nordici come Finlandia e Danimarca. In Finlandia si educano già i bambini a essere più umani in un mondo digitale: lo scontro con le nuove tecnologie si vince grazie alla cultura. Occorre capire che insegnare la meccanica ai giovani li renderà disoccupati: se diventeremo macchine saremo oscurati dai robot.
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Il fondatore della enciclopedia libera ha deciso di applicare lo stesso modello a una piattaforma social dedicata all'informazione. Si chiama Wt.social e ha già 25 mila iscritti.
Il modello Wikipedia come arma nella guerra contro le fake news. È quello che ha pensato Jimmy Wales, co-fondatore dell’enciclopedia libera più famosa del mondo e attivista da sempre schierato a favore della libertà della Rete e che lo ha portato a lanciare Wt.social, una piattaforma social dedicata alle notizie. «Mi sono reso conto che il problema delle fake news e della disinformazione ha molto a che fare con le piattaforme social», spiega Wales dal suo profilo Twitter, specificando che questa nuova piattaforma è una evoluzione di WikiTribune, sito fondato nel 2017 in cui giornalisti e volontari, in stile Wikipedia, scrivono notizie neutrali e verificate. «Gli attuali social network si reggono su un modello di business legato alla pubblicità. Questo porta ad una dipendenza, a rimanere incollati ad un sito e ad essere trasportati in discorsi di odio e radicali, non nella cura del lato umano», aggiunge Wales. Per iscriversi alla piattaforma bisogna registrarsi ed essere maggiori di 13 anni. «Non venderemo mai i vostri dati – specifica il sito – ci manterremo sulle donazioni per assicurare la protezione della privacy e che lo spazio social sia privo di annunci». Insomma, lo stesso modello su cui si basa Wikipedia. L’interfaccia di Wt.social è solo in inglese ma si può pubblicare in qualsiasi lingua.
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In occasione dell'evento Tempo della salute, in Rcs si sono inventati una dicitura inedita nel mondo dei contenuti sponsorizzati: una genialata destinata ad aprire nuovi orizzonti per l'editoria agonizzante.
Peculiarità del tempo, anzi dei Tempi, direbbe la nota influencer Taylor Mega. Dopo quello delle donne, gigantesca macchina che alterna eventi, ospiti e sponsor generalmente catalogati come powered by in quanto fornitori di generoso contributo, il marketing del Corriere della sera replica con il Tempo della salute, una due giorni che inizia sabato 9 novembre e dove ciascuno può ritrovare l’universo mondo dei propri acciacchi e fior di esperti che pensosamente ne dibattono. Con tanto di aziende che per ciascun incontro aprono il portafoglio e finanziano.
Solamente che, a differenza delle Donne, qui lo sponsor puzza, trattandosi per la gran parte di aziende farmaceutiche che evidentemente potrebbero pesantemente condizionare il libero contenuto degli eventi. Naturalmente nessuno dubita della correttezza deontologica per cui se parlo di mal di testa non citerò ai quattro palmenti il marchio di una nota aspirina.
Però siccome a pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci si azzecca, in Rcs si sono inventati una dicitura inedita: il contributo non condizionante. Cosa vuol dire? Beh, che se si parla di osteoporosi e si illustreranno le medicine prodotte dalla Amgen non è perché il nome dell’azienda americana figura il calce come contributore, visto che il suo apporto è specificatamente indicato come non condizionante.
I NUOVI ORIZZONTI DEL CONTENUTO SPONSORIZZATO
Voi capite bene che nel rutilante e sempre più invasivo universo del contenuto sponsorizzato (del resto i giornali da soli faticano a stare in piedi) l’ingresso del contributo non condizionante è una genialata destinata ad aprire nuovi orizzonti. Prendiamo un caso: di recente il cdr del quotidiano si è lamentato dello spazio dato dalle sue austere colonne alla presentazione del calendario di For men magazine, che ha per protagonista una prorompente, sensuale e poco coperta Taylor Mega.
Siamo entusiasticamente convinti che il contributo non condizionante sarà la nuova frontiera, oltre che la panacea, dell’editoria agonizzante
I giornalisti hanno subito storto il naso, biasimando che la loro autorevole testata dedicasse spazio a un calendario per camionisti, ancorché realizzato su iniziativa di un periodico del loro editore. Ebbene, se Rcs avesse accompagnato all’occasione la performance di Taylor Mega con la dicitura di «contributo non condizionante della Cairo communication» si sarebbero evitata la ridda di mal di pancia. Siamo dunque entusiasticamente convinti che il contributo non condizionante sarà la nuova frontiera, oltre che la panacea, dell’editoria agonizzante. Fin da subito.
Infatti a guardare il calendario di Tempo della salute è tutto un florilegio di contributi non condizionanti. Con qualche effetto di involontaria ironia che deve essere sfuggito agli organizzatori. Quando per esempio si illustrano i contenuti della conferenza sull’emicrania, si definisce l’emicranico come «un malato in libertà condizionata tra una crisi e l’altra». Chissà che il contributo non condizionante della Novartis possa essere un benaugurante segno di guarigione possibile dalla fastidiosa malattia.
P.s. Questo articolo è stato scritto senza alcun contributo non condizionante, ma se qualcuno volesse farsi avanti, sempre senza condizionare, il marketing di Lettera43 è a diposizione.
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