La morale degli straricchi: fare beneficenza, ma non pagare le tasse

I Paperoni sono disposti a spendere miliardi in filantropia, ma guai a parlare di aumentare le imposte. Distribuiscono laute mance, ma senza pagare il conto. Intanto le politiche di redistribuzione vengono sconfitte dalle proposte di tagli per tutti.

«La guerra di classe esiste, eccome. Però la stiamo vincendo noi ricchi»: così parlò Warren Buffet nel summit di Davos del 2015. Ma quattro anni dopo quell’affermazione va corretta, dicendo che la stanno stravincendo. Gli straricchi infatti continuano, in tutto il mondo, ad aumentare sensibilmente le loro ricchezze. E non c’è amore, pietas, solidarietà, senso di giustizia che oggi possa anche solo scalfire la fascinazione che produce lo spettacolo del denaro. Al punto che il no tax, rivendicato dai più abbienti viene convintamente fatto proprio da chi non lo è. Nel contempo chi s’azzarda a parlare di patrimoniali o di sensibile aumento delle tasse ai ricchi, per finanziare servizio sanitario nazionale e sostenere redditi più bassi, come Jeremy Corbyn in Inghilterra o Bernie Sanders e Elizabeth Warren negli Usa, viene bollato come socialista arcaico. Nel caso del primo, poi, abbandonato anche dai suoi elettori tradizionali della working class.

IL REDDITO DI CITTADINANZA INDIGNA PIÙ DELLA DISEGUAGLIANZA

In Italia invece ha una certa presa la narrazione di destra, alla Billionaire, ossia alla Briatore & Santanchè, sulla “invidia sociale” istigata dai partiti di sinistra, nei confronti di chi è ricco e ce l’ha fatta. Un sentimento questo che si scatena ogni qualvolta la Guardia di Finanza si mette a caccia di possessori di auto e barche di lusso. Ovviamente domiciliate nei paradisi fiscali. In tale contesto indigna di più l’introduzione del reddito di cittadinanza che non il 5% più ricco degli italiani che detiene da solo la stessa quota di patrimonio detenuta dal 90% più povero.

PRIMO QUESITO: PERCHÉ IL REDDITO NON VIENE DATO DAGLI STRARICCHI?

Non sarebbe logico – ed è il primo dei tre quesiti che vorrei porre alla vostra attenzione – che fosse appunto questo 5%, e non la fiscalità generale, a farsi carico del sostegno al reddito delle famiglie e italiani più poveri? Nei giorni scorsi è apparsa la notizia che i 300 miliardari svizzeri hanno accresciuto quest’anno il loro già notevolissimo patrimonio (640 miliardi di euro) in misura mai registrata prima. Allo stesso modo dei 20 tech-miliardari più ricchi del mondo, che nei primi dieci mesi del 2019 hanno realizzato sostanziosi incrementi. Tranne Jeff Bezos, ma solo perché per divorziare ha dovuto versare 38 miliardi all’ex moglie (la separazione più cara della storia). Tutti questi super ricchi però si segnalano per una sensibile propensione alla beneficenza. Nello stesso tempo in cui, però si oppongono a qualsiasi proposta di innalzamento delle tasse. Insomma sono disponibili a spendere, e spendono effettivamente miliardi, in buone cause però si dichiarano assolutamente contrari a pagare di più al fisco.

SECONDO QUESITO: PERCHÉ SONO DISPOSTI ALLA BENEFICENZA MA NON ALLE TASSE?

E qui siamo al secondo quesito: perché Bill Gates, Mark Zuckerberg sono pronti a regalare metà e anche più delle loro ricchezze, ma sono indisponibili a pagare maggiori imposte? La classe miliardaria americana sembra concordare con Bernie Sanders e Elizabeth Warren di essere in possesso di troppa ricchezza. Ma sono convinti di potere loro, in prima persona, provvedere a un’efficace ridistribuzione della ricchezza. E per questo hanno dato di vita a Giving Pledge: un movimento, un’associazione, un club (non si sa come chiamarlo) fondato nell’agosto 2010 da 40 delle persone più ricche d’America. Creato da Bill e Melinda Gates e Warren Buffett, il Giving Pledge si è presto allargato ai più ricchi di tutto il mondo. Oggi ha miliardari filantropi di 23 Paesi. Manca l’Italia. Verosimilmente perché i miliardari nostrani, con in testa Leonardo Del Vecchio e Silvio Berlusconi, sono avidi e taccagni, come di norma è la categoria, ma non si curano nemmeno di nasconderlo sotto spoglie da buoni samaritani.

L’inadeguatezza della beneficenza come strumento di distribuzione della ricchezza

Ma per tornare al tema, come scrive l’analista Alexander Sammon su The American Prospect, l’inadeguatezza del Giving Pledge come strumento significativo di distribuzione della ricchezza è stata persino ammessa da molti dei firmatari stessi. Che tuttavia non pensano proprio di passare la mano ai poteri pubblici. Anche perché nonostante le donazioni miliardarie i loro patrimoni (in titoli e investimenti finanziari) continuano a crescere: «Il patrimonio netto di Mark Zuckerberg è aumentato di circa il 40% solo quest’anno…Steve Ballmer ex n.2 di Microsoft è due volte più ricco di quanto fosse all’inizio del 2017… Bill Gates regala circa 5 miliardi di sovvenzioni all’anno, ma mantiene un patrimonio netto che è aumentato di 18 miliardi solo nel 2019». I Paperoni americani non vogliono cedere il potere di decidere loro chi e cosa finanziare.

Il problema non è il denaro ma il potere

«Il problema non è il denaro ma il potere… è la cessione del potere decisionale su cosa fare con i loro soldi che i miliardari trovano così odioso». Effettivamente l’aumento delle tasse sui grandi patrimoni ha un significato che va ben oltre l’incremento delle entrate statali, rappresentando la capacità di un governo di regolare gli eccessi sociali più deleteri, di minimizzare le disuguaglianze e sancire che la classe miliardaria è anch’essa subordinata al processo democratico. Però di questa consapevolezza che è ben presente ai protagonisti si perde traccia a livello di classe politica e di governo, ma anche di opinione pubblica. Incredibile ma è così: la stragrande maggioranza delle persone, non essendo povere ma nemmeno ricche, avrebbero tutto l’interesse a sostenere proposte di maggiore tassazione della ricchezza e di redistribuzione della medesima.

TERZO QUESITO: PERCHÉ VINCE CHI TASSA MENO I RICCHI?

E invece no: plaudono e votano chi (Trump) le tasse ai ricchi al contrario le taglia o chi (Salvini) promette flat tax per tutti. Perché? È il terzo quesito, al quale, nonostante la dirompente materialità economica e politica, si può rispondere solo evocando categorie e spiegazioni psicologiche. È la fascinazione prodotta da più di trent’anni di narrazione incessante ed esaltata del binomio soldi&successo che abbaglia e rende incapaci di vedere e valutare le poste in gioco. Ma è anche l’esito di un processo che è antico come il mondo, ma sempre efficacissimo nell’imporre un dominio simbolico sulla realtà che però non è percepito nella sua distruttività da chi lo subisce.

DIFFIDARE DEGLI ATTI DI GENEROSITÀ

I doni, i regali, come ha scritto Georges Bataille, facendo eco a una vasta letteratura, distruggono chi li riceve non chi li fa. Che anzi accresce ancor più il suo potere. I filantropi facendo del bene lo fanno soprattutto a se stessi. Visto che, come già ricordato, più danno miliardi in beneficenza più aumentano le loro ricchezze. Nel contempo ci guadagnano pure l’aureola da santi laici. Timeo danaos ac dona ferentes: temo i greci anche se portano doni, lamentava inascoltato dai suoi concittadini Laooconte, riferendosi a quel grande cavallo di legno che avevano lasciato in dono alla città di Troia.

Distribuiscono laute mance, ma non vogliono pagare il conto

Ecco, se vogliamo una società più giusta e ricca per tutti, bisognerebbe cominciare non solo a diffidare ma addirittura a rifiutare tutto ciò che per quanto mosso da sincero spirito altruistico si configuri come dono, atto di generosità, gesto beneficente. Della serie niente regali ma tasse, che perseguano un impatto significativo sulla vita e il benessere dell’intera collettività. «Sono dei bei rompicoglioni, i filantropi», ha scritto Ferdinand Celine. Distribuiscono laute mance, ma non vogliono pagare il conto.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Il governo cerca di salvare la banca Popolare di Bari

Consiglio dei ministri sull'istituto di credito, dopo che il consiglio di amministrazione era stato convocato da Banca d'Italia.

A Palazzo Chigi un Consiglio dei ministri sul dossier della Popolare di Bari. Il cda dell’istituto secondo quanto si apprende da fonti finanziarie, è stato convocato nel tardo pomeriggio dalla Vigilanza della Banca d’Italia. In serata sul sito della banca è stato dato l’annuncio: «La Banca d’Italia ha disposto lo scioglimento degli organi con funzioni di amministrazione e controllo e la sottoposizione della stessa alla procedura di amministrazione straordinaria, ai sensi degli articoli 70 e 98 del Testo Unico Bancario, in ragione delle perdite patrimoniali». In sostanza, la banca è stata commissariata. E in seguito è stata convocato un vertice di governo. A cui però ItaliaViva ha annunciato di non voler partecipare.

IL FONDO DI TUTELA DEI DEPOSITI PRONTO A INTERVENIRE

Il 12 dicembre il board della Popolare di Bari ha avviato le procedure per una azione di responsabilità nei confronti dell’ex amministratore delegato e di ex dirigenti dell’Istituto. Il Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) sta monitorando l’evoluzione della crisi della Banca Popolare di Bari, in attesa di capire come dovrà intervenire nel salvataggio della banca pugliese. In ogni caso il Fitd per intervenire ha bisogno di un «compagno di viaggio», un soggetto che si assuma il ruolo di partner industriale, come è stato Ccb per Carige. Per ora il nome che è circolato è stato quello di Mediocredito centrale, soggetto pubblico, controllato indirettamente dal Mef. Ma il premier Giuseppe Conte aveva detto nel pomeriggio che «al momento non c’è nessuna necessità di intervenire con nessuna banca».

ITALIA VIVA: «UN GRAVISSIMO PUNTO DI ROTTURA»

Successivamente il caso è diventato politico con Italia Viva che ha contestato il consiglio dei ministri: «La convocazione improvvisa di un Consiglio dei ministri sulle banche, senza alcuna condivisione e dopo aver espressamente escluso ogni forzatura o accelerazione su questa delicata materia, segna un gravissimo punto di rottura nel metodo e nel merito», ha dichiarato Luigi Marattin, vicepresidente di ItaliaViva.

AJELLO E BLANDINI COMMISSARI

L’istituto di credito ha rassicurato la clientela:«La banca prosegue regolarmente la propria attività. La clientela può pertanto continuare ad operare presso gli sportelli con la consueta fiducia». Bankitalia ha intanto nominato Enrico Ajello e Antonio Blandini commissari straordinari e Livia Casale, Francesco Fioretto e Andrea Grosso componenti del comitato di sorveglianza. A questi ultimi, si legge nella nota, è affidato il presidio della situazione aziendale, la predisposizione delle attività necessarie alla ricapitalizzazione della banca nonché la finalizzazione delle negoziazioni con i soggetti che hanno già manifestato interesse all’intervento di rilancio della banca.

CARIGE RIAMMESSA IN BORSA

Intanto per un salvataggio che si apre, uno si avvia alla chiusura. Si è conclusa oggi l’offerta in opzione dell’aumento di capitale di Carige. Le adesioni dei vecchi, pari al 19,7% della tranche dell’aumento offerta loro, sono sufficienti a ricostituire un flottante superiore al 10%, scongiurando il rischio che Carige fosse esclusa da Piazza Affari.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Francesca Schiavone ha rivelato di aver sconfitto un tumore

L'ex tennista azzurra ha raccontato in un video su Instagram la felicità per aver superato la sfida più grande. «Vivo di felicità, sono pronta ad affrontare nuovi progetti».

«Ho avuto il tumore, l’ho sconfitto e oggi vivo di felicità». La rivelazione Francesca Schiavone l’ha affidata ai social: 55 secondi per rendere pubblico il male, perché dopo mesi di assenza l’ex campionessa del tennis azzurro riappare e senza nascondere un briciolo di emozione, col viso provato, ma sereno, racconta la battaglia contro il male, ma soprattutto la vittoria. La sua più bella, lei che sui campi in terra o in cemento di tutto il mondo ha fatto grande l’Italia rosa della racchetta, lei capace di arrivare ai piedi del podio della classifica mondiale (quarta, solo Adriano Panatta era arrivato a tanto), lei che ha conosciuto nel trionfo al Roland Garros 2010 il punto più alto della sua carriera. Poi il ritiro, l’attività da allenatrice: adesso la parentesi buia rivelata a partita vinta.

«Vi racconto cos’è successo negli ultimi sette mesi della mia vita» – esordisce la campionessa milanese – «mi hanno diagnosticato un tumore maligno. È stata la lotta più dura, in assoluto, che abbia mai affrontato. Ho fatto la chemioterapia e la cosa più bella è che sono riuscita a vincere questa battaglia. Quando me l’hanno detto qualche giorno fa sono esplosa dalla felicità, anche ora vivo di felicità. Sono già pronta ad affrontare nuovi progetti che avevo ma non potevo realizzare. Ci rivedremo presto, felice di quello che sono oggi».

LEONESSA SUL CAMPO E FUORI

La Schiavone si era ritirata a settembre 2018, agli Us Open: congedandosi dal tennis giocato aveva detto col sorriso«ho realizzato i miei sogni». Sulla scena internazionale che conta e prima azzurra a vincere un torneo dello Slam battendo in finale a Parigi l’australiana Samantha Stosur (la seguirà nel 2015 Flavia Pennetta conquistando l’Open americano e proprio la pugliese inonda di cuori il post dell’ex compagna), Francesca Schiavone si è conquistata sul campo il soprannome di Leonessa.

QUANTI ESEMPI DI ATLETI CHE HANNO LOTTATO CONTRO IL CANCRO

E con la grinta di sempre deve aver combattuto, così come i tanti campioni che per una vita hanno giocato, perso, vinto e all’improvviso hanno dovuto fare i conti con la malattia. Senza mai arrendersi, così come insegna lo sport: lo sta dimostrando Sinisa Mihajlovic che ha confessato di avere la leucemia e continua a non mollare, stando vicino al suo Bologna. In tanti, abituati alla ribalta, agli ori, ai trofei, hanno avuto il coraggio di rendere pubblico il male: la pallavolista azzurra Eleonora Lo Bianco sconfisse in tempi record un tumore al seno. A Lance Armstrong venne diagnosticato al Tour de France un tumore ai testicoli e, dopo essere stato operato, vinse la Grande Bloucle per sette volte, prima di vedersi cancellare i successi per doping. Battaglia contro il cancro anche per Ivan Basso. In tanti la gara della vita sono riusciti a vincerla, come Eric Abidal che, dopo l’operazione per un tumore al fegato, tornò in campo dopo due mesi e contribuì al successo del Barcellona in Champions. E Francesco Acerbi della Lazio, cui venne diagnosticato un tumore ai testicoli, tutt’ora è uno dei pilastri della squadra di Inzaghi e della Nazionale di Mancini.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

L’ultimo film di Eastwood gioca con la storia e finisce nella bufera

In "Richard Jewell" il regista descrive una reporter, oggi morta, che si concede in cambio di notizie. Il giornale per cui lavorava pronto a denunciare il premio Oscar per diffamazione.

Bufera su Clint Eastwood per il nuovo film sull’attentato alle Olimpiadi di Atlanta: in Richard Jewell, che esce oggi nelle sale Usa, il regista americano premio Oscar per Million Dollar Baby insinua che Kathy Scruggs, una cronista di ‘nera’ del giornale locale Atlanta Journal-Constitution, offrì sesso all’agente dell’Fbi incaricato delle indagini in cambio di informazioni per uno scoop sul colpevole. Il film si presenta come una storia vera, sullo stile di The 15:17 to Paris, Sully o American Sniper: stavolta lo spunto di Eastwood sono l’attentato del luglio 1996 al Centennial Park di Atlanta e la tempesta mediatica che cambiò la vita di Jewell, una guardia giurata che risultò poi innocente. Jewell, che è morto nel 2007, fu effettivamente il principale sospetto, come l’Atlanta Journal-Constitution riferì in un articolo di prima pagina. Ripresa dalla Cnn, la storia rimbalzò immediatamente su tutti i media e l’uomo, che non fu mai incriminato, passò settimane asserragliato in casa, circondato da giornalisti e telecamere fino a quando non fu scagionato tre mesi dopo la bomba che provocò due morti e 111 feriti.

LA SEQUENZA “INCRIMINATA”

Nel film la Scruggs (Olivia Wilde) incontra l’agente dell’Fbi (Jon Hamm) in un bar giorni dopo l’esplosione. «Dammi qualcosa che posso stampare», chiede la donna. Lui all’inizio si nega («Neanche se vieni a letto con me»), ma poi cede quando la mano della giornalista gli risale sulla coscia e rivela che l’inchiesta sta puntando su Jewell, inizialmente salutato come eroe per aver scoperto la bomba, avvertito la polizia con venti minuti di anticipo sull’esplosione e limitato così il numero delle vittime. «Vuoi prendere una stanza o andiamo nella mia macchina?», chiede a quel punto la Scruggs, in una battuta contestata da chi la conosceva bene. La giornalista è morta a 42 anni nel 2001 per overdose di farmaci.

LA LICENZA DI EASTWOOD CON LA VERITÀ STORICA

Come in molti docudrammi, anche l’ultimo Eastwood si prende licenze con la verità storica, usando tra l’altro il vero nome della giornalista e un nome inventato per l’agente dell’Fbi. Questa settimana l’Atlanta-Constitution, con l’aiuto di un avvocato, Martin Singer noto come «il cane da guardia delle star», ha scritto a Eastwood, allo sceneggiatore Billy Ray e a Warner Bros minacciando una causa per diffamazione se la reputazione della Scruggs non sarà restaurata nei titoli di testa. Quanto alla scena del bar nel film, per molti è l’ultimo esempio di un approccio sessista di Hollywood alle giornaliste: reporter donne che vanno a letto con le loro fonti per ottenere notizie sono apparse tra l’altro nelle serie House of Cards di Netflix, Sharp Objects di HBO e nel film Thank You for Smoking.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Una hard Brexit anche per la Consob

Savona impegnato a preparare un tavolo di crisi in vista dell'uscita del Regno Unito dall'Ue? Forse perché il colosso dei dati Refinitiv è stato acquisito dal London Stock Exchange di cui dal 2007 fa parte anche Borsa Italiana...

I dipendenti della Consob sono ancora in attesa dell’invito del presidente per il tradizionale brindisi natalizio con tanto di panettone. Forse Paolo Savona è troppo impegnato a preparare un comitato di crisi in vista della Brexit che si preannuncia più hard che soft. Lo scossone avverrà in una fase chiave dell’acquisizione del colosso dei dati Refinitiv da parte del London Stock Exchange di cui dal 2007 fa parte anche Borsa Italiana. Il capogruppo della Lega in Commissione Finanze, Giulio Centemero, lancia l’allarme: «So che Consob ci sta lavorando con un tavolo ad hoc ma so anche che la partita è politica e che il governo non può lasciare i tecnici soli. L’acquisizione di Refinitiv, colosso dei dati e spin-off di Reuters, pone un ulteriore interrogativo rispetto al destino della nostra piazza finanziaria perché è evidente che il core business del Lse potrebbe spostarsi da quello della gestione dei mercati borsistici a quello della gestione dati». Nel frattempo, a fine novembre la capitalizzazione complessiva di Borsa ha raggiunto i 642 miliardi di euro, con una variazione rispetto a fine anno del 18%.

LA DIGISTART (AND STOP) DI RENZI

«Ho aperto una piccola realtà per lavorare all’estero, nel momento in cui nessuno immaginava che avrei dovuto tornare a occuparmi di politica. Appena c’è stata la crisi del mojito ho detto al commercialista di chiudere la società, avendo fatturato zero. Visto che c’è chi ha scritto che io l’ho fatta per non pagare le tasse, ho fatto una bella denuncia per recuperare le spese Io ho fatto un accordo con M5s e sono buono, fessacchiotto no». Matteo Renzi aveva usato queste parole, il 2 ottobre a Otto e mezzo, su La7 a proposito della società Digistart. Una piccola srl creata appunto l’11 maggio (quindi quando c’era ancora il governo Conte 1) versando un capitale di 10 mila euro con due assegni emessi da Cariparma e Bnl. Oggetto sociale: “analisi dei processi comunicativi che collegano cittadini e imprese, anche mediante l’organizzazione e/o partecipazione a convegni, seminari, incontri sia in Italia che all’estero” e di “consulenza aziendale e di marketing strategico”. Ma come Renzi aveva detto a Lilli Gruber a ottobre, la Digistart è stata chiusa. Per la precisione, si legge nell’atto depositato nella banca dati della Camera di Commercio, è stata sciolta anticipatamente e messa in liquidazione il 23 novembre 2019. Come liquidatore è stato nominato lo stesso Renzi , unico socio dell’srl, che a settembre si era fatto sostituire temporaneamente nel ruolo di amministratore unico dall’amico Marco Carrai, per poi riprendersi l’incarico dopo aver lanciato Italia viva. «La società è stata aperta e poi chiusa per le polemiche mediatiche, Carrai avrebbe dovuto gestire la società ma alla luce delle polemiche e dell’annuncio della chiusura ha subito lasciato la carica», aveva spiegato Renzi sottolineando che la Digistart non ha fatturato niente.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Il presidente della Valle d’Aosta Fosson indagato per voto di scambio mafioso

Inchiesta della Dda di Torino sul condizionamento delle elezioni del 2018 da parte della 'ndrangheta. E c'è anche un incontro tra l'ex governatore e un boss.

Il presidente della Regione Valle d’Aosta, Antonio Fosson, è indagato per scambio elettorale politico mafioso nell’ambito di un’inchiesta condotta dalla Dda di Torino sul condizionamento delle elezioni regionali 2018 in Valle d’Aosta da parte della ‘ndrangheta. Oltre a Fosson sono indagati, per lo stesso reato, anche alcuni assessori e consiglieri regionali. L’indagine è stata svolta dai carabinieri di Aosta.

SENATORE, ASSESSORE ALLA SANITÀ E POI PRESIDENTE

Sessantotto anni, medico chirurgo in pensione dal 2011 e noto anche come Sentinella in piedi, Fosson è stato senatore per il movimento autonomista di maggioranza Union valdotaine dal 2008 al 2013. Sposato e padre di quattro figli, è punto di riferimento per Comunione e liberazione. È stato assessore regionale alla Sanità dal 2003 al 2008 e dal 2013 al 2016. Dopo la fine di questa esperienza ha fondato il gruppo Pour Notre Vallée confluito, nel 2017, in Area Civica-Stella Alpina-Pour Notre Vallée. Lista autonomista di centro con cui è stato rieletto in Consiglio regionale il 20 maggio 2018, ottenendo 1.437 voti.

TRA LE SENTINELLI IN PIEDI

Presidente del Consiglio regionale per i primi sei mesi di legislatura con la giunta a trazione leghista guidata da Nicoletta Spelgatti, è arrivato al vertice dell’esecutivo un anno fa, il 10 dicembre 2018, quando le forze autonomiste sono tornate insieme al governo, relegando il Carroccio all‘opposizione. In Parlamento è stato, tra l’altro, segretario del gruppo Udc-Svp-Autonomie e segretario della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Risale inoltre al luglio del 2014 la sua comparsa tra le 80 Sentinelle in piedi che in piazza Chanoux, il ‘salotto buono’ di Aosta, manifestavano contro il Ddl Scalfarotto sull’omofobia. In veste di presidente della Regione, oggi ha anche ha presenziato alla cerimonia di posa di una stele in ricordo del pretore Giovanni Selis, che 37 anni fa sopravvisse al primo attentato nella storia d’Italia contro un magistrato. E sull’inchiesta non ha voluto rilasciare dichiarazioni.

L’INCONTRO (FOTOGRAFATO) TRA L’EX PRESIDENTE E IL BOSS

I carabinieri del Reparto operativo del Gruppo Aosta nell’annotazione dell’inchiesta sulle elezioni regionali del 2018 hanno anche documentato con fotografie un incontro a fini elettorali con un boss, durato un’ora circa. Il 4 maggio 2018 l’allora «presidente della Regione autonoma Valle d’Aosta» Laurent Viérin «nonché prefetto in carica, ha incontrato uno degli esponenti di vertice del ‘locale’ di Aosta», Roberto Di Donato, «presso l’abitazione di Alessandro Giachino» ad Aymavilles.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Quali sono le tappe per la procedura di impeachment di Trump

Dopo l'ok della commissione Giustizia, settimana prossima la Camera (a maggioranza dem) dovrebbe mettere il presidente in stato d'accusa. A gennaio il processo in Senato, dove è previsto che la maggioranza repubblicana lo scagioni.

Dopo l’ok della commissione Giustizia al voto sull’impeachment, sarà l’aula della Camera la settimana prima di Natale a decidere se mettere o meno Donald Trump in stato di accusa. Alla House of Representatives è necessario il 50% più uno di voti favorevoli per far proseguire la procedura. Considerato che i dem hanno la maggioranza alla camera bassa, il via libera è quasi scontato.

AL SENATO UN VERO E PROPRIO PROCESSO

A quel punto la palla passa al Senato, dove l’impeachment si configura come un vero e proprio processo al presidente in parlamento. Alla fine del dibattimento, con tanto di testimonianze e arringhe, si avrà il voto finale. Per far decadere il capo di Stato sono necessari due terzi dei voti, ma visto che il Senato è a maggioranza repubblicana è altamente improbabile che Trump perda la battaglia finale. Il processo si terrà a gennaio, un mese prima dell’inizio delle primarie.

La Casa Bianca ha fatto sapere che non parteciperà ad un procedimento che ritiene «infondato e illegittimo». La strategia di Trump e del suo partito sembra chiara: negare ogni accusa e trasformare il processo in una zuffa politica montando un ring da pugilato al Senato per un contro processo ai Biden. Il presidente sta già preparando il terreno insieme al suo avvocato personale Rudy Giuliani, che è andato in Ucraina per raccogliere informazioni sull’ex vicepresidente e su suo figlio nonostante sia emerso nell’indagine di impeachment come l’uomo chiave incaricato dal tycoon della campagna di pressione su Kiev.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Intesa tra Usa e Cina per una rimozione graduale dei dazi

Trump annuncia l'accordo con la Cina su Twitter. Bloccate le tariffe che dovevano entrare in vigore il 15 dicembre. Il vice ministro del Commercio Wang: rimozione per «fasi graduali». Wall street prima brinda, poi ci ripensa.

Il dazio, infine, è tratto. Donald Trump ha annunciato come di consueto via twitter il raggiungimento di un accordo tra Usa e Cina sulle tariffe commerciali. «Abbiamo raggiunto un’intesa sulla fase uno dell’accordo con la Cina», che ha dato il suo via libera «a molti cambi strutturali e ad acquisti massicci di prodotti agricoli, energetici e manifatturieri», ha sottolineato Trump, evidenziando che non scatteranno i dazi che dovevano entrare in vigore il 15 dicembre.

«Rimarranno come sono i dazi del 25%», ha aggiunto il presidente Usa. Più tardi, il vice ministro del Commercio cinese, Wang Shouwen ha spiegato: l’accordo prevede la rimozione dei dazi per «fasi graduali».

Forniture di prodotti chimici stanno per essere caricate nel porto di Zhangjiagang nella provincia orientale dello Jiangsu ( JOHANNES EISELE/AFP via Getty Images)

RAFFORZATO IL COPYRIGHT E MERCATO CINESE PIÙ APERTO

Wang, uno dei negoziatori di punta del team cinese per il ruolo di vice rappresentante per il Commercio internazionale, ha spiegato che l’accordo include il rafforzamento della tutela dei diritti sulla proprietà intellettuale, l’espansione dell’accesso al mercato domestico e la salvaguardia dei diritti delle compagnie estere in Cina, tra le questioni più contestate dalla parte americana a Pechino.

Merci in fase di carico nel porto di Zhangjiagang nella provincia orientale dello Jiangsu (JOHANNES EISELE/AFP via Getty Images)

NOVE PUNTI PER L’INTESA

Il comunicato diffuso dalla Cina menziona nove punti sul raggiungimento dell’accordo: preambolo, proprietà intellettuale, trasferimento di tecnologia, prodotti alimentari e agricoli, servizi finanziari, tassi di cambio, l’espansione del commercio, risoluzione delle controversie e clausole finali. I media Usa hanno menzionato impegni di spesa cinesi per 50 miliardi di beni agricoli Usa, ma nel corso della conferenza i numerosi sono stati accuratamente evitati. Wang ha parlato di «molto lavoro da fare», tra la revisione legale e la traduzione del testo nelle due lingue «da completare il prima possibile». Le parti dovranno «negoziare gli specifici accordi per la firma formale» in modo da dare attuazione alla ‘fase uno’.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Matera 2019 e chiusura ciclo lezioni materane di Radio 3

Esiste ancora una questione meridionale? E come ridurre il freno della burocrazia nel pieno rispetto delle norme in vigore? E c’è ancora una possibilità per ridurre il divario fra le due aree del Paese? Insomma, il Sud ce la può ancora fare? A queste domande cercherà di rispondere Sabino Cassese, uno dei più autorevoli giuristi del nostro tempo e che per anni si è dedicato alla semplificazione amministrativa.
Martedì 17 dicembre, alle ore 19, nella Casa Cava, ultimo appuntamento – si legge in una nota della Fondazione Matera-Basilicta 2019 - con le Lezioni materane di Rai Radio 3 dedicate ai Sud nell’ambito del progetto di Matera Capitale Europea della Cultura 2019 “Future Digs”. Nel corso della serata, condotta da Marino Sinibaldi, direttore di Rai Radio3, Cassese terrà una lezione dal titolo “Le questioni Meridionali. Sud, industria, burocrazia”. Cassese ha seguito negli anni la storia del Mezzogiorno e della “questione meridionale” cogliendo le sue trasformazioni, passando dai governi della destra e della sinistra storica, al fascismo e alla democrazia del dopoguerra. Nella scorsa primavera aveva evidenziato in un’intervista il successo di Matera, Capitale europea della cultura. Nel corso del tempo “il Mezzogiorno ha nutrito una letteratura piagnona e di denuncia, talora di protesta. Poche volte di proposta. Sono mancate capacità realizzative, costanza, impegno continuo. Sono abbondate ribellismo, sogni, inerzia. Mentre la trasformazione di Matera, da città della miseria del dopoguerra a capitale europea della cultura, è una lezione doppia per l’Italia. Perché mostra che il riscatto è possibile. Perché premia la concentrazione degli sforzi e il “pensiero lungo”. Chiarezza d’idee, perseveranza, capacità realizzative”. Con Matera “si è sconfitto un sud piagnone e inutilmente ribelle”. Gli intermezzi musicali vedranno sul palco i cantanti mezzosoprano, Gianna Racamato, basso, Gianvito Ribba e Loredana Paolicelli al pianoforte.
  

Matera 2019 e chiusura ciclo lezioni materane di Radio 3

Esiste ancora una questione meridionale? E come ridurre il freno della burocrazia nel pieno rispetto delle norme in vigore? E c’è ancora una possibilità per ridurre il divario fra le due aree del Paese? Insomma, il Sud ce la può ancora fare? A queste domande cercherà di rispondere Sabino Cassese, uno dei più autorevoli giuristi del nostro tempo e che per anni si è dedicato alla semplificazione amministrativa.
Martedì 17 dicembre, alle ore 19, nella Casa Cava, ultimo appuntamento – si legge in una nota della Fondazione Matera-Basilicta 2019 - con le Lezioni materane di Rai Radio 3 dedicate ai Sud nell’ambito del progetto di Matera Capitale Europea della Cultura 2019 “Future Digs”. Nel corso della serata, condotta da Marino Sinibaldi, direttore di Rai Radio3, Cassese terrà una lezione dal titolo “Le questioni Meridionali. Sud, industria, burocrazia”. Cassese ha seguito negli anni la storia del Mezzogiorno e della “questione meridionale” cogliendo le sue trasformazioni, passando dai governi della destra e della sinistra storica, al fascismo e alla democrazia del dopoguerra. Nella scorsa primavera aveva evidenziato in un’intervista il successo di Matera, Capitale europea della cultura. Nel corso del tempo “il Mezzogiorno ha nutrito una letteratura piagnona e di denuncia, talora di protesta. Poche volte di proposta. Sono mancate capacità realizzative, costanza, impegno continuo. Sono abbondate ribellismo, sogni, inerzia. Mentre la trasformazione di Matera, da città della miseria del dopoguerra a capitale europea della cultura, è una lezione doppia per l’Italia. Perché mostra che il riscatto è possibile. Perché premia la concentrazione degli sforzi e il “pensiero lungo”. Chiarezza d’idee, perseveranza, capacità realizzative”. Con Matera “si è sconfitto un sud piagnone e inutilmente ribelle”. Gli intermezzi musicali vedranno sul palco i cantanti mezzosoprano, Gianna Racamato, basso, Gianvito Ribba e Loredana Paolicelli al pianoforte.
  

Come cambiano i tempi della Brexit dopo la vittoria di Johnson

BoJo promette il divorzio da Bruxelles il prima possibile. Voto a Westminster forse già prima di Natale. Dal primo febbraio via al periodo di transizione, con l'obiettivo di raggiungere un'intesa commerciale entro giugno. A quel punto l'uscita diventerebbe effettiva da gennaio 2021.

Con la schiacciante e difficilmente prevedibile, almeno nelle proporzioni, vittoria del partito conservatore alla elezioni nel Regno Unito, il processo verso la Brexit è destinato a subire un’inevitabile accelerazione. Boris Johnson intende presentare al voto di Westminster l’accordo sul divorzio da Bruxelles il prima possibile, forse già entro Natale, vale a dire sabato 21 dicembre. Il via libera definitivo, in ogni caso, arriverebbe solo a gennaio. «Dalle urne è emerso un mandato per la Brexit, che noi onoreremo entro il 31 gennaio» ha detto Johnson di fronte a Downing Street nel discorso della vittoria, ringraziando gli elettori e impegnandosi a «lavorare senza risparmio» anche per una programma di politica interna su temi come sanità, sicurezza e «fine dell’austerità».

IL PERIODO DI TRANSIZIONE A PARTIRE DAL PRIMO FEBBRAIO

Dato per scontato che, avendo i Tory la maggioranza assoluta, l’intesa questa volta passerà, proprio il 31 gennaio, come promesso ripetutamente dal premier in campagna elettorale, sarà il Brexit day. Dal giorno dopo, infatti, inizierà il periodo di transizione che si protrarrà, con tutta probabilità, fino alla fine del 2020.

LA NUOVA INTESA COMMERCIALE GIÀ ENTRO LA FINE DI GIUGNO?

In questo lasso di tempo la situazione resterà identica all’attuale, rimarranno in vigore leggi e accordi tra l’Ue e il Regno Unito fino a quando non ne saranno negoziati altri. In particolare quelli commerciali. Secondo la Bbc, la nuova intesa commerciale tra Bruxelles e Londra dovrebbe essere pronta entro il 30 giugno 2020 e portata in parlamento entro dicembre dello stesso anno.

L’IPOTESI DI UN’ESTENSIONE DEL PERIODO DI TRANSIZIONE

Se sarà ratificata, dal primo gennaio 2021 la Brexit sarà davvero effettiva e tra Unione europea e Regno Unito sarà in vigore un nuovo accordo commerciale (e non solo). Se dovesse essere bocciata, il Regno Unito dovrà chiedere un’estensione del periodo di transizione oppure a gennaio 2021 lascerà del tutto l’Unione senza alcuna intesa. Con un largo sostegno alle spalle, in ogn caso, per Boris sarebbe più semplice perseguire una “hard Brexit” basata su un vago accordo di libero scambio, sull’esempio del modello canadese: una soluzione che allontanerebbe decisamente Londra dall’Europa e la spingerebbe verso l’anglosfera dominata dagli Stati Uniti.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Arpab, Rosa: al via riforma per un’Agenzia più snella

Un’Agenzia regionale per l’ambiente più snella ma soprattutto più operativa. Va in questa direzione il disegno di legge di riforma dell’Arpab approvato oggi dalla giunta regionale, su proposta dell’assessore all’Ambiente ed Energia, Gianni Rosa.
La nuova normativa, che passa ora all’esame del Consiglio regionale per la definitiva approvazione, prevede tra i vari punti l’abolizione del direttore amministrativo e dei dipartimenti provinciali, dando maggiore spazio alla possibilità di avere più sedi di laboratori sul territorio. Scompare anche la Conferenza permanente, che, a quanto risulta, negli ultimi quattro anni non si è mai riunita. Con il ddl, inoltre, attraverso la partecipazione delle associazioni ecologiste maggiormente rappresentative sul territorio regionale viene rafforzato il Comitato tecnico che diventa così un vero e proprio organo di supporto nella gestione delle politiche ambientali.
“Dopo anni di attesa finalmente abbiamo messo mano ad un’Agenzia - commenta l’assessore Rosa - che per la sua struttura e per la complessità delle funzioni non sempre ha saputo essere all’altezza del suo ruolo. Intendiamo modificare l’attuale legge regionale, laddove la pratica ha dimostrato carenze o inefficienze, reinterpretando le funzioni dell’Arpab alla luce delle sempre più pressanti attenzioni alle tematiche ambientali scaturite dal mutato contesto socio-economico della Basilicata”. 
La nuova normativa, inoltre, risponde all’obbligo previsto dalla legge nazionale sul sistema a rete per la protezione dell’ambiente di adeguare le normative regionali entro il 14 giugno 2017. Cosa che finora non è stata realizzata. E’ prevista, dunque, una programmazione in armonia con il dettato normativo nazionale e scadenzata in modo tale da consentire un adeguamento costante e continuativo delle attività dell’Agenzia nel triennio e nell’anno. Nel campo dei controlli e della vigilanza viene, infine, attribuito un potere specifico del Dipartimento Ambiente e del suo direttore genale per le inadempienze collegate all’attuazione dei Piani triennale e attuale.

Chi è Dominic Cummings, lo spin doctor dietro la vittoria di Johnson

No euro da sempre, ex assistente di Gove, è l'uomo che ha inventato gli slogan Take Control e Get Brexit Done e che ha trasformato la campagna tory in perfetti meme.

Stratega e esperto social, inventore di slogan, ma anche di traiettorie politiche, creatore di video tormentoni e di nuovi consensi. Se c’è un uomo dietro al trionfo di Boris Johnson alle elezioni britanniche è lui: lo sconosciuto Dominic Cummings. Con cinque parole, Take control’ e ‘Get Brexit done‘, ha consacrato nel 2016 Johnson come leader della campagna pro-Leave e oggi ne ha fatto il vincitore assoluto della politica del Regno Unito. Cummings, è la mente dei nuovi Tory, inviso ai politici conservatori paludati che ha saputo parlare alla pancia della Gran Bretagna con messaggi semplici ma evidentemente efficaci.

PRIMO OBIETTIVO: ELIMINARE FARAGE

Ex consulente dei Tory, classe 1972, l’uomo con lo zainetto che stamani alle sette è stato ripreso dalla telecamere di mezzo mondo mentre bussava al numero 10 di Downing street come un cittadino qualsiasi ha puntato la sua strategia comunicativa, oggi come tre anni fa, su un uso massiccio dei social e un linguaggio aggressivo e non convenzionale. Aver sostituito Get changecon ‘Take control’ nello slogan per il referendum sulla Brexit impresse una virata netta alla campagna anti-Ue, mettendo in ombra persino il re dei brexiteer Nigel Farage che, non è un caso, è uscito da questa tornata elettorale senza neanche un seggio. Gli addetti ai lavori raccontano che uno degli obiettivi di Cummings era proprio silurare Farage e il suo Brexit Party. «Se vogliamo marginalizzare quel partito dobbiamo fare campagna elettorale sul concetto niente più ritardi, realizziamo la Brexit», scrisse Cummings ai suoi in un sms ad ottobre, svelando per la prima volta l’ormai storico ‘Get Brexit done‘.

DA SEMPRE ANTI EURO, IN COPPIA PERFETTA CON BOJO

Che fosse un tipo tosto a Westminster lo avevano capito già nel 2003, quando cominciò la sua crociata contro l‘euro. I suo avversari lo deridevano chiamandolo «adolescente brufoloso», nonostante avesse 31 anni. Lui tirava dritto e sentenziava: «Avere l’euro significherebbe perdere il controllo della nostra economia». Brexit ante-litteram. Nel 2010 diventò assistente di Michael Gove al ministero dell’Istruzione e la sua carriera nel partito conservatore iniziò a decollare fino a diventare il guru elettorale di Johnson. A «match made in heaven», una coppia perfetta che, almeno per quanto riguarda la comunicazione politica, ha dato il meglio di sé nelle ultime settimane prima del voto.

LA STRATEGIA CHE GENERA MEME HA FUNZIONATO

La parodia del popolarissimo film di Natale ‘Love Actually’ (‘Brexit Actually‘), che gli avversari hanno deriso e bollato come un becero tentativo di distrarre l’opinione pubblica dai temi veri, è stato un colpo da maestro. Ed effettivamente ha distolto l’attenzione dall’ultimo scivolone di Johnson, pescato ad ignorare la foto di un bambino malato di polmonite che dormiva sul pavimento di un ospedale. Una strategia che per i Tory più snob e tradizionalisti è roba da meme (‘meme-generating behaviour‘, l’ha definita il Guardian) ma che forse proprio per questo ha regalato il Regno a Boris Johnson con numeri che per i conservatori non si vedevano dai tempi di Margaret Thatcher.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Il mito silenzioso di Gigi Riva protagonista di #SkyBuffaRacconta

Il simbolo del Cagliari nell'anno del centenario protagonista della mini docu-serie in onda su Sky. Una storia di resistenza e riservatezza. Che restituisce un'immagine inedita di uno dei più grandi bomber della storia.

Raccontare Gigi Riva non è cosa semplice. Di lui, del suo sinistro potentissimo, dei 35 gol in 42 presenze con la Nazionale, di quello scudetto assurdo conquistato 49 anni e mezzo fa col Cagliari, si è detto e scritto di tutto. Per farlo bisogna lavorare di cesello, andare per sottrazione, scavare in profondità, trovare una chiave originale. Federico Buffa lo ha fatto, partendo dai luoghi della sua vita e dai rapporti interpersonali, dai volti di chi gli è stato vicino e di chi, invece, con la sua assenza, ha saputo avere un peso enorme sulla sua formazione.

IL VUOTO MAI COLMATO DELLA SCOMPARSA DEI GENITORI

#SkyBuffaRacconta Gigi Riva, la mini docu-serie in due parti il cui primo episodio va in onda il 13 dicembre alle 21, approccia la vita di un campione partendo dal legame con la madre persa a 16 anni, da una mancanza che si è sommata a un’altra, quella del padre morto quando di anni Riva ne aveva solo nove, lasciando spazio a un vuoto mai del tutto colmato. Riva, il fioeu che alla fine dell’estate scappa sul fico per non tornare al collegio di Viggiù in cui è costretto per tre anni dopo la morte del padre, influenza l’evoluzione di Riva, il fuoriclasse che ha scritto il suo nome nella storia del calcio italiano.

UN SAGGIO DI RESISTENZA ATTRAVERSO LE GENERAZIONI

E se raccontare Riva è un’impresa, farlo rivolgendosi a un pubblico di 15enni-20enni lo è ancora di più. Che cosa può dire, ai giovani di oggi, una storia in bianco e nero di mezzo secolo fa? Cosa può raccontare un campione così distante dai modelli attuali, dalle ribalte social, dai divismi contemporanei? «Credo che ci siano dei valori eterni nella storia del genere umano», spiega Buffa, «come la capacità di reagire al destino, e la storia di Gigi Riva vale in eterno per la capacità che ha avuto di reagire alle situazioni negative come quelle che gli veniva proposte dalla sua vita». Valori di «un’Italia diversa e che si aiutava di più».

DALLA VOGLIA DI SCAPPARE ALLA SCELTA DI RESTARE PER SEMPRE

Cose come perdere due genitori, perdere il proprio paese e il proprio lago, ritrovarsi all’improvviso in una terra sconosciuta e temuta, in un’isola per gran parte senza illuminazione artificiale, in un aeroporto collegato alla città più importante e vicina da una strada ancora in gran parte sterrata. Cose come pensare di voler scappare e poi, quasi all’improvviso, decidere di restare per non andare più via, dopo essersi reso conto che quel mare non è poi così distante dal lago sulle sponde del quale si è cresciuti.

Gigi Riva protagonista nel racconto di Federico Buffa in onda su Sky.

IL PALLONE PER DESCRIVERE CIÒ CHE LE PAROLE NON DICONO

In mezzo c’è il pallone, sì, ma appare solo un accessorio attraverso cui raccontare tutto ciò che le parole non dicono, ma che può essere espresso con un’alzata di spalle o una smorfia dell’estremità sinistra delle labbra. Riva è un uomo di poco parole, lo è sempre stato, per questo quelle poche che vengono inserite dentro al racconto di Buffa hanno un peso specifico particolare e suonano preziose come l’oro. Uno storytelling costruito di «ciò che si fa, non di ciò che si dice».

L’EMOZIONE NEL RACCONTO DI BUFFA

C’è un’emozione diversa, stavolta nella voce di Buffa: «Racconto solo storie che vorrei raccontare, non quelle che non mi piacciono. Ci metto sempre una componente personale, in questo caso anche troppa, forse». Perché il piccolo Federico, cresciuto a qualche centinaia di metri di distanza dalla casa di Leggiuno di Riva, ogni pomeriggio d’estate scappava con la bicicletta per recarsi sotto il suo balcone, aspettando che uscisse a fumare per avere il privilegio di osservarlo soltanto, quell’uomo che un gol dopo l’altro, un silenzio dopo l’altro, scriveva la sua leggenda.

GLI ANEDDOTI INEDITI RIVELATI DALLA SORELLA E DAL FIGLIO

Lo guardava senza parlarci mai. e ancora oggi, nonostante tutto, non l’ha mai incontrato ed è felice di non averlo fatto perché «diversamente mi avrebbe intimidito con la sua presenza». A fornirgli il materiale per aneddoti inediti e aspetti ancora inesplorati della vita di Rombo di Tuono sono stati gli amici e i parenti più stretti, la sorella Fausta o il figlio Nicola, presente all’anteprima per poter dire alla fine: «Pensavo di conoscere la vita di mio padre e invece non la conoscevo ancora tutta».

PRESIDENTE ONORARIO NELL’ANNO DEL CENTENARIO

Ed è la sensazione che si ha pur essendoci cresciuti dentro a quel mito, in un’isola e una città in cui uno scudetto di 50 anni fa è tramandato oralmente come l’epica di un tempo e l’uomo che l’ha portato è venerato come una semidivinità pagana vivente, presente eppure allo stesso tempo distante, come un dio dell’Olimpo che sempre più di rado scende tra la gente. Una mistica alimentata da una vita pubblica ormai quasi inesistente, perché «papà», racconta il figlio Nicola, «è tornato sul fico». Eppure ne scenderà ancora, almeno una volta, per diventare presidente onorario del Cagliari il 18 dicembre e coronare così l’anno del centenario del club e del cinquantenario dello scudetto. Una storia che ha scritto in prima persona e che non può certamente esimersi dal suggellare.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Il nuovo presidente dell’Algeria Tebboune stretto tra militari e proteste

Ex primo ministro di Bouteflika e leale al capo delle Forze armate Salah, è stato eletto in una votazione boicottata dal popolo. Ora si trova tra l'incudine dell'esercito e il martello delle manifestazioni.

Dal febbraio del 2019 l’Algeria ha visto il susseguirsi settimanale di una lunga teoria di manifestazioni di protesta contro Abdelaziz Bouteflika, il suo “cerchio magico” diremmo noi, e l’intero sistema politico, militare, ed economico che è andato impossessandosi delle leve del potere del Paese dal 1962, ingabbiandolo in una camicia di forza che la crisi degli ultimi anni ha reso intollerabile. Crisi politica dunque ma anche economico-sociale, l’una e l’altra strettamente intrecciate in una soffocante corruzione e spartizione della rendita energetica.

LA PROFONDA CRISI SOCIO-ECONOMICA DELL’ALGERIA

Non si può non sottolineare come l’Algeria si collochi tra i primi 10 produttori mondiali di gas e terzo produttore africano di petrolio; che gli idrocarburi rappresentano ancora oggi il 95% delle entrate dell’export e il 65% del bilancio dello Stato e soffre chiaramente di una monocultura industriale, quasi esclusivamente votata allo sfruttamento energetico e di conseguenza dipendente dall’andamento del prezzo di quelle risorse nel mondo con ricadute di forte criticità sociali come in questi ultimi tempi. Non stupisce certo che in questa dinamica sia andato fermentando un diffuso scontento soprattutto nel segmento più giovane del Paese nel quale il 55% del totale ha meno di 30 anni.

LE DIMISSIONI DI BOUTEFLIKA

Serviva solo una scintilla perché si producesse l’incendio e l’entourage di Bouteflika lo ha offerto su un piatto d’argento con la presentazione della ri-candidatura di Bouteflika per un quinto mandato. Inesorabile l’onda delle proteste la cui parola d’ordine spiegava chiaramente quale fosse il bersaglio cui si puntava e se dunque era del tutto prevedibile che le dimissioni di Bouteflika rassegnate all’inizio di aprile non sarebbero bastate a fermare la protesta popolare, si doveva ad una robusta miopia del regime di cogliere la profondità strutturale della protesta (Hirak).

Proteste ad Algeri nel giorno delle elezioni, boicottate dalla maggior parte della popolazione (GettyImages).

Ancor meno di riuscire a “leggere” il suo carattere anomalo, mai scaduto in violenza neppure al momento in cui la data delle elezioni, rinviate ben due volte sotto la pressione del Hirak, sono state fissate al 12 dicembre. Pacifico dunque ma fortemente determinato a denunciarne l’inaccettabilità e dunque a promuoverne il boicottaggio contro una consultazione giudicata al servizio esclusivo del potere costituito.

IL POTERE NELLE MANI DEL CAPO DELL’ESERCITO

E ben poco ascolto è stato dato alle rassicurazioni del Comandante delle forze armate, il generale Ahmed Gaid Salah, considerato l’uomo forte del sistema assieme al Presidente ad interim Abdelkarem Bensalah, che poteva vantare a suo merito l’aver convinto/costretto Bouteflika alle dimissioni. Lo stesso Gaid Salah che aveva da ultimo smentito con forza la notizia che le forze armate stessero sponsorizzando uno dei candidati alla presidenza, bollandola come «propaganda» propalata per delegittimare le elezioni. Lo stesso Gaid Salah che aveva definito «giusta punizione inflitta a certi elementi della gang in sintonia con l’urgente e legittima attesa del popolo» la condanna a 15 anni di prigione inflitta a Said Bouteflika, il fratello del deposto presidente, e altri due alti ufficiali dello spionaggio algerino per complotto contro lo Stato. La ragione? Il diffuso convincimento che si trattasse di prese di posizione finalizzate a lucidare la propria immagine, renderla più accettabile e con ciò posizionarsi meglio anche all’interno del «sistema Bouteflika», e non di veri convincimenti riformistici.

I CANDIDATI TUTTI LEGATI A BOUTEFLIKA

La lista dei cinque candidati alla presidenza, del resto, ne era specchio fedele dato che ben quattro di loro (Abdelmajid Tebboune, Ali Benflis, Azzedine Mihoubi e Abdelaziz Belaïd) erano già stati parte di governi del ventennio di presidenza di Bouteflika, il quinto, Abdelkader Bengrina, essendo un outsider di stampo islamista impegnato in particolare in una personale battaglia contro il celibato femminile.

LE ELEZIONI BOICOTTATE

Con queste premesse, non ha stupito la modesta affluenza alle urne al 41%, più bassa di dieci punti di quella del 2014 e comunque la più bassa di sempre.

Non ha stupito che la giornata fosse scandita da una dimostrazione di massa che chiedeva a gran voce di non andare a votare

Ancor meno ha stupito che la giornata fosse scandita da una dimostrazione di massa da parte del movimento protestatario che chiedeva a gran voce di non andare a votare e represso spesso in modo brutale dalla polizia che, a sua giustificazione ha potuto stigmatizzare alcuni tentativi di blocco dei seggi elettorali.

TEBBOUNE ELETTO PRESIDENTE

Da segnalare che nell’attesa dei risultati vi è stata una prima rivendicazione di vittoria da parte di Tebboune, già primo ministro di Bouteflika nel 2017, che come era facile ipotizzare ha fatto subito scattare la risposta di Hirak improntata al rifiuto dell’esito elettorale e alla promessa di un nuovo ciclo di manifestazioni di protesta settimanale. Si è trattato di una rivendicazione che aveva una solida base di riferimento visto che è proprio questo 74enne dirigente e politico algerino a risultare il nuovo presidente dell’Algeria con un consistente 58% dei voti. Nessuna necessità di ballottaggio dunque e una mera formalità l’attesa dei risultati che saranno comunicati dal Consiglio costituzionale entro una decina di giorni.

IL NUOVO CAPO DI STATO STRETTO TRA MILITARI E PROTESTE

Amicizie trasversali, nessuna tessera di partito, aveva iniziato la sua campagna affermando di essere stato un precursore del movimento Hirak in quanto convinto sostenitore della necessità di un processo di riforma del sistema e dalla lotta alla corruzione. Un figlio in carcere con l’accusa di traffico di stupefacenti. Si trova tra l’incudine del potentato militare che certo cercherà di salvaguardare il suo ruolo, sostanzialmente decisorio, e il martello di una diffusa sfiducia popolare di cui il vero Hirak è portabandiera e di cui si attendono le reazioni, ciò che lo pone in una posizione complicata e per di più appesantita dalla crisi economico-sociale che sta attraversando il Paese, nonché dall’incombente minaccia del terrorismo. I suoi primi giorni daranno il termometro della sua capacità di imprimere una rotta costruttiva al suo mandato. Intanto si è saputo che il primo personaggio che gli ha fatto visita è stato l’ambasciatore statunitense; un segnale tutt’altro che trascurabile a livello politico-economico.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Altro che continuità con Draghi, così Lagarde rivoluziona la Bce

Né falco né colomba: il gufo (simbolo di saggezza) Christine cambia la stategia della Banca centrale europea: in agenda i cambiamenti climatici, nuovi target per la stabilità dei prezzi, pagamenti digitali. Una svolta che non si vedeva da 16 anni.

Era attesa da tutti come la versione color pastello di Mario Draghi. Il suo ruolo doveva essere solo di prosecuzione e continuità con quanto fatto dal governatore celebre per il «Whatever it takes», ma Christine Lagarde ha stupito tutti.

UN DEBUTTO ALLA MOURINHO

Un piglio degno del primo José Mourinho interista (quello del «non sono un pirla») e un polso, nel tenere la conferenza stampa, che ha lasciato molti osservatori positivamente impressionati: dopo la consueta fase di resoconto del meeting direttivo alla stampa, la neo presidente – prima di procedere con il consueto giro di domande – ha voluto riservarsi uno spazio di libere considerazioni.

NON I SOLITI NUMERI SU CRESCITA E INFLAZIONE

Ma oltre al cipiglio c’erano contenuti inattesi. No, non i soliti numeri su crescita (rivista lievemente al ribasso) o inflazione (lievemente al rialzo), né annunci di politica monetaria (invariata), Lagarde ha sparato ben più alto, annunciando una strategic review della Banca centrale europea come non si vedeva da 16 anni.

SVOLTA DA GENNAIO 2020

La Bce ripenserà se stessa, il suo ruolo e le modalità con cui perseguire il suo mandato. Lo farà dal gennaio 2020 per arrivare a una conclusione entro la fine dell’anno. I punti salienti di questa revisione di strategia sono l’inclusione di tematiche inerenti il cambiamento climatico e la ridefinizione del target per la stabilità dei prezzi (oggi posto ad «appena inferiore a 2%»).

CONTESTO TOLLERANTE SULL’INFLAZIONE

Per la stabilità dei prezzi probabilmente l’intenzione è di predisporre un contesto tollerante per l’eventualità di un’inflazione che dovesse superare il 2%, valutando un livello medio pluriennale: dopo anni di livelli inflattivi molto lontani dall’obiettivo, consentire per qualche tempo all’inflazione di galleggiare sopra la soglia del 2% servirà ad avere un livello medio più vicino a 2.

ANCHE L’IMMOBILIARE NELLA DEFINIZIONE DEI PREZZI

La Bce valuterà, inoltre, se considerare anche il comparto immobiliare nella definizione dei prezzi e si premunirà di considerare anche le aspettative di inflazione dei consumatori oltre che quelle di mercato.

CRESCENTE SENSIBILITÀ AMBIENTALE

Le allusioni al surriscaldamento globale lasciano immaginare che la spinta fiscale auspicata potrà avvenire in scia a una crescente sensibilità ambientale: verrà infatti cercato un accordo con la Commissione europea sulla cosiddetta tassonomia, ossia di un sistema di regole di classificazione di criteri per arrivare a definire cosa debba intendersi per attività sostenibile.

BCE PRONTA A DIALOGARE CON LE ALTRE ISTITUZIONI

Un gioco dialettico a tutto campo che crea aspettative, ma che tratteggia già una Bce diversa, ancora tenacemente indipendente, ma pronta a scendere dalla “torre d’avorio” e dialogare con le altre istituzioni perché «non c’è niente di sbagliato nel concordare le azioni per i rispettivi obiettivi».

Le armi che la Bce continuerà a usare saranno:

  • Tassi d’interesse, per la parte più breve della curva.
  • Forward guidance, per dettare un calendario chiaro e “correggere” l’orizzonte di medio termine.
  • Quantitative easing e acquisti di asset, per condizionare la parte più lunga della curva dei rendimenti.

Messa alle strette sulle preferenze fra i tre strumenti, la neo presidente ha fatto intendere di preferire la forward guidance. Non c’era da avere molti dubbi in proposito: la scelta è caduta sullo strumento più basato sulla dialettica, vuoi per confidare sulla principale competenza di Christine (la comunicazione), vuoi perché la capacità di condizionamento residua della Banca centrale è ormai molto esigua, dopo aver già portato i tassi prima a zero, poi sottozero, e aver lanciato più piani di Qe.

POLITICA FISCALE DIVERSA E PIÙ ESPANSIVA

Nonostante le politiche monetarie ultra-accomodanti di questi anni, infatti, i consumi non crescono e i salari nemmeno, per questa ragione una diversa e più espansiva politica fiscale «sarebbe benvenuta».

MA CHI HA IL DEBITO ALTO (COME NOI) SI PREOCCUPI DI QUELLO

Selettivamente, però. I Paesi che hanno spazio di manovra dovrebbero introdurre politiche fiscali più accomodanti, mentre i Paesi ad alto debito dovrebbero preoccuparsi di tornare su un sentiero più virtuoso. Un messaggio esplicito ai governi che non mancherà di mostrare i suoi effetti. Inflazione e crescita (stimate ripettivamente a +1,6% e +1,4% nel 2022) sono ancora troppo modeste, anche se il segno positivo va visto come un buon segnale.

IL GUFO COME SIMBOLO DI SAGGEZZA

La presidente ha prima chiarito un «io sono io» che non ha niente a che fare con la famosa citazione de Il marchese del Grillo di Alberto Sordi, ma che è solo un ammonimento verso la naturale tentazione a fare confronti con il predecessore Draghi. Dopodiché ha respinto ogni classica etichetta definendosi né colomba né falco, semmai un gufo, animale simbolo di saggezza (anche se in Italia ha tutt’altra simbologia).

PURE UN SISTEMA DI PAGAMENTI DITIGALI

Come se tutto ciò non bastasse, in una conferenza stampa di debutto, La Lagarde ha inoltre fatto riferimento alla creazione di una task force che entro metà 2020 porti a termine i lavori per la definzione di una digital currency sotto l’egida della Bce stessa, cioè di un sistema di pagamenti digitali (ma – ha chiarito – non sarà né uno stable coin né il bitcoin). Né falco né colomba: Christine Lagarde sembra una macchina infernale.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Greta Thunberg a Torino con i ragazzi dei Fridays for future

La giovane attivista svedese arrivata in Italia da Madrid a bordo di un'auto elettrica. Con lei in piazza in 5 mila. Ad accoglierla striscioni e tanto entusiasmo.

Quasi 5 mila persone hanno accolto a Torino la visita di Greta Thunberg, sbarcata in città in occasione del presidio cittadino dei Fridays for future. Prima di scendere in piazza l’attivista svedese ha incontrato una delegazione di cinque ragazzi del movimento al Teatro Regio. «Torino è una città stupenda», sono state le sue prime parole davanti a uno stuolo di giornalisti e fotografi, «sono molto felice di essere qui, anche se non ho avuto molto tempo per visitarla».

UNO STRISCIONE PER ACCOGLIERLA IN CITTÀ

Sul balcone d’onore di Palazzo Civico è stato affisso uno striscione per darle il benvenuto. Sfondo verde e con un mondo libero dall’inquinamento, lo striscione reca la scritta ‘Welcome to Turin, Greta’. Greta è arrivata da Madrid in auto elettrica, accompagnata dal padre e dal suo staff, compresi alcuni documentaristi che seguono la giovane attivista in giro per il mondo.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Federico Lovadina nuovo presidente di Sia

Il cda ha nominato per cooptazione anche cinque consiglieri designati da CDP. Confermati l'ad Cordone e il vicepresidente Sarmi.

Il Consiglio di Amministrazione di SIA, riunitosi ieri sotto la Presidenza dell’ing. Giuliano Asperti , ha nominato per cooptazione cinque nuovi consiglieri della società, designati da Cassa Depositi e Prestiti (CDP): Federico Lovadina, Andrea Cardamone, Fabio Massoli, Andrea Pellegrini e Carmine Viola.

Nel corso della medesima riunione, il CdA ha inoltre provveduto a nominare nuovo Presidente di SIA, Federico Lovadina, in sostituzione del dimissionario Giuliano Asperti.

Federico Lovadina

Il Consiglio di Amministrazione ha espresso gratitudine ed apprezzamento per il lavoro svolto con competenza e professionalità in questi anni dall’ing. Asperti e dai consiglieri uscenti, nonché un caloroso benvenuto ai nuovi consiglieri.

SIA è una società hi-tech, leader in Europa nel settore dei servizi e delle infrastrutture di pagamento, controllata da CDP Equity all’83,09%.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Quelle opportunità nascoste dietro un crollo della Borsa

Come (e perché) sfruttare il calo di titoli prestigiosi. Gettando lo sguardo oltre i dubbi di breve periodo. Rapida introduzione al "mix in caduta".

Nel processo di controllo dei propri investimenti, anche il risparmiatore alle prime armi deve approfittare del “mix in caduta”. Di cosa si tratta? Il monitoraggio dei portafogli va fatto cogliendo le opportunità che il mercato offre lungo il percorso di investimento. Se applicate il constant mix in automatico a determinate scadenze (almeno ogni 12 mesi, come già visto la settimana scorsa), il mix in caduta si attiva ogni qualvolta un vostro asset subisce un calo importante (nel caso dell’azionario, superiore al 30%; nel caso dell’obbligazionario, superiore al 10%). Riequilibrando il portafoglio secondo la regola del constant mix di cui sopra, o in alternativa investendo nuove risorse (nel rispetto dei vostri obiettivi e del profilo di rischio, naturalmente). Spieghiamo il perché.

UNA QUESTIONE DI PROSPETTIVA

Abbiamo detto a più riprese che l’economia globale cresce sempre e che noi, investendo in strumenti efficienti, siamo in grado di incorporare questa crescita. Ma abbiamo anche sottolineato che i mercati finanziari non crescono in modo costante e lineare, perché nel breve periodo sono condizionati da fattori emotivi e speculativi che generano oscillazioni incontrollabili. Pertanto, ogni volta che il mercato crolla abbiamo un’opportunità unica di acquisto. È un po’ come durante i saldi, ma su prodotti di lusso: chi si farebbe sfuggire l’occasione di acquistare a metà prezzo una Mercedes, un iPhone, una borsa di Louis Vuitton o un Rolex? Ebbene sì: quando crolla la Borsa abbiamo l’occasione unica di comprare a metà prezzo le azioni di tutte queste aziende, quindi perché non farlo? Se non lo fate è perché il vostro sguardo non è rivolto lontano, all’orizzonte temporale giusto, ma è concentrato sul breve periodo, sulla piccola tragedia che state vivendo in quel momento. Vi impantanate a rimuginare che state momentaneamente perdendo il 30-40%. È solo questione di prospettiva.

Se per almeno una settimana sentite al telegiornale commenti del tipo «La Borsa sta crollando», allora è il momento di sedersi al tavolo con il vostro consulente

Mi direte: «E come faccio a seguire i mercati in caduta? Non ho tempo e competenze per poterlo fare!» Non lo accetto più. Si tratta dei vostri soldi e un minimo di attenzione dovere averlo. Ma la soluzione smart c’è. In questo i media contribuiscono parecchio a spaventarvi. Se per almeno una settimana sentite al telegiornale o nei talk televisivi o leggete sul giornale commenti del tipo: «La Borsa sta crollando», «I mercati non reagiscono» e altre frasi a effetto negativo, allora è il momento di sedersi al tavolo con il vostro consulente e verificare se è il caso di approfittare del mix in caduta. E comunque è venuto il momento di non fare l’italiano figlio di Guicciardini perché dietro quelle notizie ci potrebbe essere anche l’opportunità per il vostro investimento.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

X Factor 2019, le pagelle della finale

La puntata migliore. Perché è stata l'ultima. E così è finito questo talent che ha perso appeal e spettatori. O si fa un lifting o si chiude. Inadeguati i giudici, bene solo Davide e Sofia. Ma la vincitrice dovrà crescere.

Ma quella lì sarebbe la piccola Luna? Dio mio come si è trasformata in appena un anno, sembra una influencer, sembra già rifatta a 17. Questo sarebbe il magico mondo dello spettacolo oggi? Qualcosa che ti cancella l’anima più che rubartela? Persa ogni freschezza, nell’AnteFactor invita il pubblico a fare «un grande casino» per la finale che sta per partire. E la finale è la puntata migliore. Perché bene o male sforna un vincitore (cui verrà rimossa l’anima), ed è la vincitrice annunciata, almeno da noi, se un vanto è concesso, ed è, in fondo, la più meritevole. E così, in extremis, capisci che X Factor no, non è Canzonissima, non è La Corrida. È Miss Italia, che dopo 12 mesi non la riconosci più, la ragazzina di tremule ambizioni non esiste più e c’è una donna, donna, donna dimmi: cosa vuol dir, sei una popstar ormai? C’è da tremare pensando a cosa diventerà la tenera, ingenua Sofia, che già ci cambia sotto gli occhi.

L’IMMARCESCIBILE CATTELAN RESISTE COMUNQUE

E l’ultimo taglio è più più profondo: tutto si dissolve nel presente già passato ed è già tempo di spingere sull’acceleratore del successo. Mentre tutto si sbaracca a Milano, il Forum di Assago si svuota e il pubblico lento sfila via, i giudici spariscono sulle loro auto nere e difficilmente verranno confermati in una 14esima edizione già annunciata dall’immarcescibile Alessandro Cattelan che ci sarà sempre, stagionerà qui a Xf, ormai è parte del processo, ha legato il suo nome a questo talent, chissà se a gioco lungo gli converrà. Ma forse ha ragione lui, forse la sua dimensione è questa.

TALENTI CHE NON SARANNO MAI TALI

Si smorzano i clamori di X Factor, che quest’anno ha rotolato respirando male come non mai, ha perso appeal e spettatori, formula vecchia: fare un lifting o chiudere proprio? Formula risaputa e cervellotica, estenuante, puntate che non finivano mai, inzuppate nella noia, eliminazioni con ballottaggi difficili da capire, da seguire, e su tutto quell’aria di posticcio, di talenti che non saranno mai tali, che balleranno, forse, un anno solamente.

QUANTE CRISALIDI NON SBOCCIATE IN FARFALLE

Magari non tutti, magari Sofia o Davide ce la faranno, ma la strada di X Factor è costellata di crisalidi mai sbocciate in farfalle. Che rimane di questi tre mesi? Poco, una gran fatica, un profondo senso di stanchezza, la sensazione di una impotenza insormontabile. L’ultima puntata è stata la migliore. Perché è stata l’ultima, perché è finita.

ALESSANDRO CATTELAN 6

Ammazza, ma suona pure il piano. Molto andante. Era meglio il vecchio Pippo. Anche in questo. Arrivederci all’anno prossimo, tu sei l’unico che non ha bisogno di bootcamp, sei l’inesorabilità del talent.

MARA MAIONCHI 4

Quest’anno li ha persi tutti, i suoi, e fa numero, fa tappezzeria. Che mestizia. Sarò cattivo, sarò pazzo, ma a me ha ricordato Peo Pericoli, il personaggio di Teocoli. Triste, solitaria y final.

MALIKA AYANE 4

Da questa esperienza esce conclamata nell’antipatia, nell’affettazione sciocca, una della quale ci si chiede: sì, ma questa che ha mai fatto, dopotutto, in carriera? E la risposta, amici, soffia nel vento.

SFERA EBBASTA 4

Alzi la mano chi l’ha trovato preparato, o carismatico, o adeguato. Va bene, ha vinto anche lui con Sofia, ma in realtà Sofia ha vinto da sola. Una faccia da schiaffi, ma lo sapevano, e tutto il resto… non c’è. Svegliatevi ragazzi, vi stanno prendendo per il coso.

SAMUEL 4

Il nostro “Umarell” torinese, con ragionieristico piglio, ne porta due in finalissima, scandalosamente, ma è la legge del menga: chi più vende (si spera), il pubblico se lo tenga. Come giudice, come personaggio, latitante. Lo truccano, lo pitturano, ma finisce per somigliare curiosamente a Gilberto Govi. Morale: una band finita, i Subsonica, genera una band che mai comincerà, i Booda. Corsi e ricorsi sonici…

BOODA 4

(Heart Beat, Nneka; 212, Azealia Banks; Hey Mama, David Guetta ft Nicky Minaj). La scandalosa finalissima di questa cosa strampalata fin dal nome induce domande esistenziali: che sono questi? Che vogliono? Che fanno? Una band no, giovani no, il pestone ai tamburi ha 40 anni, la cantante pare Cristina d’Avena che canta la canzone dell’Orangutang, quella degli scout. Sembrano più tre tipi che un giorno si dicono: dài, proviamoci; e se poi ci va dritta? Per chi scrive restano una Boodanada, ma forse proprio per questo restano l’ideale di Xf.

SIERRA 4

(Le acciughe fanno il pallone, Fabrizio de Andrè; 7 Rings, Ariana Feande; Dark House, Katy Perry). Terzi, arrivano. Terzi. Su decine e decine di aspiranti. Questi di strada ne faranno, perché il piccolo provinciale music business all’amatriciana ha un bisogno disperato di sempre nuovi coatti da lanciare: una rapperia tappetara, che prima o poi finirà, ma non domani. Auguri.

DAVIDE ROSSI 7

(How Long Has This Time Going On, George Gershwin). Vergogna su di voi, chiunque voi siate: il più talentuoso in assoluto, lo segano in finale; e umilia anche il bolso Robbie Williams. L’ex bambino grasso della Clerici resta l’incognita più grande, un talento che non sapranno assolutamente come gestire. Sarebbe da dirgli: fallo da solo, fatti da solo, ma come si fa? Non sono più i tempi, oggi a 20 anni Satisfaction non la scrive più nessuno e anche col talento di un Davide non esci; non c’è nessuno che te lo riconosce. Auguri, con una stretta al cuore, perché meriti il meglio.

SOFIA TORNAMBENE 7

(Fix You, Coldplay; Papaoutai, Stromae; C’est la Vie, Achille Lauro). Adesso che ha vinto, possiamo pure farle un po’ di pulci. Brava, sì, in tutto: ma dovrà perdere quel non so che di caramelloso, dolciastro, trasognato di provincia. Insomma dovrà crescere, in fretta. Il punto è come: non lo sappiamo, c’è da rabbrividire, creta in ciniche mani, sorde mani che non rispettano la musica, che corrono dietro al soldo facile… La aspettiamo tra un anno, senza illusioni.

ROBBIE WILLIAMS 4

(The Christmas Present: Time for change/Let it snow). Ammazza quant’è scoppiato, pare il fratello anziano di Eros Ramazzotti. In apertura riesce a cantare peggio di tutti, perfino di Cattelan. Uno dei tanti bluff di questi tempi buffi.

ULTIMO 5-

(Tutto questo sei tu). Un po’ Tiziano, un po’ Antonello, un po’ di questo, un po’ di quello. Dicono che è un genietto, un fuoriclasse; lo dicono, e intanto il nuovo singolo, Tutto questo sei tu, clona Gente di mare di Tozzi/Raf (1988). E se invece fosse la costruzione di un atomo?

LOUS AND THE YAKUZA 5

(Gore: Dilemme) Si leggono meraviglie di costei, principalmente per «la sua storia difficile», ci crediamo per carità, solo che questa lagna super patinata e facile facile non va oltre la milionesima variazione, poco variata, sul solito tema world…

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it