Parma 2020, i tesori e i primati dell’Emilia sotto i riflettori

Il prossimo anno la città raccoglierà il testimone di Palermo, Capitale 2018. Un'occasione per riscoprire e fare scoprire i gioielli dell'intera regione: dall'enogastronomia ai motori e l'arte.

È l’unica regione italiana che prende il nome da una strada, la Via Emilia, antica strada romana fatta costruire nel 187 a.C. dal console Marco Emilio Lepido per collegare Piacenza a Rimini.

L’antica via è poi diventata arteria fondamentale di ogni attraversamento dell’Italia, e intorno a essa è nata l’Emilia-Romagna, una delle aree più fiorenti della Penisola.

Stefano Bonaccini, governatore uscente e si spera presto rientrante, alla presentazione di Parma Capitale italiana della Cultura 2020, ha voluto inquadrare così l’essenza di questa terra che non ha un unico centro a forte attrazione, come Roma o Napoli, Firenze, Venezia o Milano, ma genera il proprio valore dalla disseminazione di eccellenze su tutto il territorio in molti campi diversi, dai motori alla meccanica di precisione, dalla gastronomia al fashion, dall’arte alla musica. 

PARMA 2020 ACCENDE I FARI SUI GIOIELLI EMILIANI

Così, l’incoronazione di Parma a Capitale della Cultura è soprattutto un faro che si accende su uno dei gioielli emiliani, per riverberarne lo splendore su tutti gli altri. Infatti, ha calamitato da subito Piacenza e Reggio Emilia, costituendo il distretto Emilia occidentale quale protagonista dell’operazione. Che poi Parma, tutti lo dicono en passant durante la presentazione ufficiale, Capitale lo è stata davvero (per ben 300 anni). Ma si sa, in un Paese frazionato per secoli in regni, principati, granducati e signorie, quasi ogni città italiana è stata a suo modo Capitale. Se si legge l’Europa come un continente-museo che preserva i fasti e la storia della civiltà occidentale, l’Italia è certamente il museo con più sale, più capolavori, più cimeli preziosi. 

Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna (Ansa).

L’ARTE DI ERIK SPIEKERMANN

Parma ne custodisce molti, uniti da un filo rosso che è lo spirito stesso della città, il suo entusiasmo nel mettersi in mostra, confermato dalla folla presente a Palazzo della Borsa, a Milano (sede della conferenza stampa), in cui domina quella parlata dolce e un po’ strascicata che ricorda tanto Bernardo Bertolucci, celebrato ad hoc con un video-montaggio di clip sonore tratte dai suoi film, brani di monologhi e dialoghi che fanno emozionare tutti. Sarà che tra i deus ex machina di Parma 2020 c’è il giovanissimo assessore alla Cultura Michele Guerra, docente proprio di Teoria del Cinema nell’università cittadina, colui che ha pensato e coordinato la “messa in scena” della città, brandizzata dal designer tedesco Erik Spiekermann con una grande P, che significa Parma, ma anche prosciutto, pasta, pomodori, Pilotta, Po, Parmigiano Reggiano, nonché Parmigianino, il pittore rinascimentale della Madonna dal collo lungo. «Ho 73 anni», ha detto Spiekermann, «sono in pensione. Ma quando mi hanno chiesto di lavorare a questo progetto, mi sono detto: le persone sono squisite, la città affascinante, il cibo ottimo. Perché no?».

TUTTI I PRIMATI DELLA REGIONE

Così, è partito dal giallo-Parma, colore identificativo della città, e ha disegnato una grafica che sarà declinata nelle mille iniziative previste dal fittissimo programma. I parmigiani sono pronti a ospitare con calore, gentilezza e prelibatezze alimentari, «milioni di visitatori da tutto il mondo», dicono gli organizzatori, forti del contributo delle fiorenti imprese locali, tutte coinvolte fin dal principio nella progettazione e nella realizzazione dell’evento.

nFederico Pizzarotti, sindaco di Parma. (Ansa).

Bonaccini non manca, in chiusura, di sciorinare i primati della regione che vanta: il maggior numero (44) di prodotti Igp e Dop d’Europa, per un valore di circa 3 miliardi di euro; 11 siti Unesco (Parma è Città Creativa della Gastronomia per l’Unesco). Non solo, è la prima regione italiana per export pro-capite (più di Lombardia e Veneto); vanta uno tra i migliori chef del mondo: Massimo Bottura, modenese; sono stati triplicati i fondi per la cultura in cinque anni e a breve sarà pubblicata una Lonely Planet dedicata, consacrazione internazionale che vale come ciliegina su una torta già ricca di tanti sapori. «E pensare», ha ricordato Bonaccini, «che nel Dopoguerra l’Emilia era una delle regioni più povere del Paese». Intanto, Parma si proietta già oltre, con il piano Parma 2030 per la sostenibilità. Il sindaco Federico Pizzarotti sorride e viene da pensare che proprio il sorriso sia l’arma segreta di questa città, piccola ma grande, che mentre affetta prosciutto crudo, a suo modo progetta il futuro.

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L’allarme Ocse sulla capacità di lettura degli studenti italiani

Secondo l'ultimo rapporto Pisa, solo un 15enne su 20 è in grado di comprendere un testo complesso. Si confermano il divario Nord-Sud e quello licei-istituti tecnici.

Se le competenze in lettura dei 15enni italiani restano stabili nel lungo periodo, diminuiscono rispetto ad alcuni cicli Pisa (Programma per la valutazione internazionale dello studente): il punteggio in lettura del 2018 non si discosta in modo significativo da quello dell’ultima rilevazione Pisa, mentre peggiora rispetto al ciclo del 2000 (-11 punti) e al 2009 (-10 punti), ma anche rispetto al ciclo del 2012 (-13 punti). Rispetto al 2000, la performance degli studenti del Nord Est diminuisce di 26 punti e di 19 punti quella degli studenti del Nord Ovest, che nel 2018 conseguono un punteggio inferiore anche a quello del 2012 (-15 punti). Per gli studenti del Sud il peggioramento rispetto al 2009 è -16 punti e rispetto al 2012 -23 punti. Resta costante nei vari cicli Pisa la competenza in lettura degli studenti del Centro e di quelli del Sud Isole. È quanto emerge dall’ultimo Rapporto Ocse-Pisa, presentato oggi. In tutte le tipologie di istruzione, ad eccezione della Formazione professionale, si osserva un decremento delle competenze in lettura rispetto al ciclo del 2000 (in media -26 punti) e rispetto al 2009 (in media -20).

L’ITALIA SOTTO LA MEDIA OCSE

Gli studenti italiani in lettura ottengono un punteggio di 476, inferiore alla media Ocse (487), collocandosi tra il 23° e il 29° posto tra i Paesi Ocse. Il punteggio non si differenzia da quello di Svizzera, Lettonia, Ungheria, Lituania, Islanda e Israele. Le province cinesi di Beijing, Shanghai, Jiangsu, Zhejiang e Singapore ottengono un punteggio medio superiore a quello di tutti i Paesi che hanno partecipato a Pisa. Hanno partecipato alla prova Pisa 11.785 studenti quindicenni italiani, divisi in 550 scuole totali. Pisa è un’indagine internazionale promossa dall’Ocse, con cadenza triennale. Il primo ciclo dell’indagine si è svolto nel 2000; il 2018 è stato il settimo ciclo. L’Italia partecipa fin dal primo ciclo. Alla rilevazione Pisa 2018 hanno partecipato 79 Paesi di cui 37 Paesi Ocse.

SI CONFERMA IL DIVARIO NORD-SUD

In Italia i divari territoriali sono molto ampi e si conferma il divario Nord-Sud: gli studenti delle aree del Nord in lettura ottengono i risultati migliori (Nord Ovest 498 e Nord Est 501), mentre i loro coetanei delle aree del Sud sono quelli che presentano le maggiori difficoltà (Sud 453 e Sud Isole 439). I quindicenni del Centro conseguono un punteggio medio di 484, superiore a quello degli studenti del Sud e Sud Isole, inferiore a quello dei ragazzi del Nord Est, ma non diverso da quello dei quindicenni del Nord Ovest. Forti anche le differenze anche fra tipologie di scuola frequentate dagli studenti: i ragazzi dei Licei ottengono i risultati migliori (521), seguono quelli degli Istituti tecnici (458) e, infine, quelli degli Istituti professionali (395) e della Formazione professionale (404). Queste ultime due tipologie di istruzione presentano punteggi in lettura che non si differenziano tra loro. A livello medio Ocse, circa il 77% degli studenti raggiunge almeno il livello 2, considerato il livello minimo di competenza in lettura. L’Italia presenta una percentuale di studenti che raggiunge almeno il livello minimo di competenza in lettura analoga alla percentuale media internazionale.

LA DIFFERENZA TRA LICEI E ISTITUTI TECNICI

Divari ancora più ampi si osservano tra le diverse tipologie di istruzione. Nei Licei troviamo la percentuale più elevata di studenti top performer (9%) e, al tempo stesso, quella più bassa di low performer (8%). Negli Istituti tecnici la percentuale di top performer scende al 2%, mentre il 27% degli studenti non raggiunge il livello 2; livello non raggiunto da almeno il 50% degli studenti degli Istituti professionali e della Formazione professionale. In generale, il Report diffuso oggi, per quanto riguarda la lettura, dimostra che gli studenti italiani sono più bravi nei processi di comprensione (478) e di valutazione e riflessione (482) piuttosto che nell’individuare informazioni (470). Per quanto riguarda invece le sotto-scale relative alla fonte, gli studenti italiani ottengono risultati più elevati nei testi multipli (481) piuttosto che in quelli singoli (474).

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L’Uomo Vitruviano di Leonardo è un algoritmo

Per cinque secoli il disegno ha nascosto un inganno: è stato realizzato per dare forma in modo criptato alla formula aritmetica e geometrica della divina proporzione, che le botteghe tramandavano solo fra di loro. La scoperta di Roberto Concas.

Trent’anni di riflessione, sette di ricerche per capire che l’Uomo Vitruviano di Leonardo è l’immagine dell’algoritmo segreto che gli artisti hanno usato dal IV al XVIII Secolo per ”certificare” le proprie opere come ispirate dalla divina proporzione.

In altre parole, per cinque secoli il celebre disegno ha nascosto un inganno. È stato realizzato per dare forma in modo criptato alla formula aritmetica e geometrica che le botteghe usavano e tramandavano solo fra di loro, in osservanza dei parametri imposti dalla Chiesa.

Sono queste le conclusioni cui è giunta la ricerca di Roberto Concas, storico dell’arte già direttore dei Musei Nazionali di Cagliari. Il suo lavoro, anticipato in esclusiva all’agenzia di stampa Ansa, sarà oggetto di due volumi editi da Giunti e di una grande mostra che avrà luogo a Cagliari a maggio del 2020, organizzata dal Polo Museale Statale della Sardegna. Tutto con il titolo ”L’inganno dell’Uomo Vitruviano. L’algoritmo della divina proporzione”.

IL DISEGNO VA GUARDATO ALLO SPECCHIO

Ma non finisce qui. Concas si è infatti accorto che il disegno realizzato da Leonardo nel 1490 in realtà contiene due uomini in due diverse età della vita – forse addirittura tre – e va guardato allo specchio per riportare alla luce l’immagine vera del disegno e dare un senso a quelli che finora erano considerati dei semplici errori.

LA GENESI DELLA SCOPERTA DI CONCAS

Concas ha spiegato così la genesi della sua scoperta: «Tutto è iniziato dalle domande che mi sono posto sui Retabli della Sardegna, le caratteristiche pale d’altare. “Perché, mi chiedevo, hanno questa forma particolare a tre?”. Non c’erano risposte. Ho cercato per 30 anni. Poi a un certo punto trovo l’algoritmo che mi fa capire quale sia la parte centrale e quale quella laterale. Ma era solo l’inizio. Nel 2012, guardando il disegno dell’Uomo Vitruviano, noto una proporzione simile nella riga sotto: due parti più piccole, una centrale più grande. È faticoso spiegarlo, ma è stato come aprire una scatola dopo l’altra, ogni soluzione me ne apriva tre insieme, una casistica. Ho iniziato a capire che il disegno contiene due volti. L’occhio destro è di un uomo maturo, quello a sinistra di un volto più giovane. Mi è venuta un’intuizione. Leonardo ha sempre scritto a sinistra e ha imparato usando lo specchio. Anche qui usa lo specchio per ricostruire la figura completa. E le misure mi hanno dato ragione».

PERCHÉ LE MISURE DELLE BRACCIA SONO DIVERSE

Quindi due uomini, e con lo specchio si vede bene, di età diversa, ma disegnati per rappresentare quella che il frate matematico Luca Pacioli definiva come la scienza segretissima della divina proporzione. Un sistema d’insieme «rilevabile con misure micrometriche, regole della geometria piana, calcoli aritmetici e infine con l’uso di una banalissimo specchio», prosegue Concas. ⁣Ad esempio «le misure delle braccia, che sono diverse, vengono dal concetto di un numero generatore, 225,5 e 180,5. Facendo sottrazioni o divisioni si ottengono tutte le misure esatte delle due braccia»⁣.

LA REGOLA CHE NON DOVEVA ANDARE PERDUTA

Leonardo «temeva che potesse perdersi per strada quella regola che era stata usata da architetti, artisti, letterati e poeti. Usata per la prima volta nell’Arco di Costantino, nel 315-325 dopo Cristo. Ma anche nella Pietà di Michelangelo e ovviamente nella Gioconda. Erano regole semplici in fondo, come quelle del gioco del calcio, 17 regole semplici. Così anche Raffaello faceva capolavori stando nelle regole. L’algoritmo, dal IV secolo fino al XVIII, serviva a diffondere e difendere le corporazioni. Per essere riconoscibili e certificarsi non bastava disegnare una Madonna, andava fatto secondo le regole segrete, che in modo semplificato si potrebbero definire della doppia spirale, che ha un significato filosofico molto antico». Se Leonardo avesse svelato che L’Uomo Vitruviano conteneva questo segreto, racconta ancora Concas, «lo avrebbero messo al rogo». Un mistero smarrito «quando con l’Illuminismo ha avuto termine il potere della Chiesa e il laicismo ha preso spazio. Ma se ci guardiamo intorno ne troviamo tracce, finora a noi incomprensibili, ovunque».

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La Genesi di Tosca, capolavoro di sangue e poesia

Dal dramma francese di Sardou al canovaccio di Illica e le liriche di Giacosa. La storia dell'opera di Puccini che apre la stagione della Scala. E che è una delle cinque più rappresentate al mondo.

È la prima volta che Tosca di Giacomo Puccini inaugura la stagione della Scala, il 7 dicembre. Sul podio Riccardo Chailly, regia di Davide Livermore, protagonisti il soprano Anna Netrebko (Floria Tosca), il tenore Francesco Meli (Cavaradossi) e il baritono Luca Salsi (Scarpia).

Il caso è singolare, perché si parla di una delle opere più applaudite di sempre, che infatti ha nel teatro del Piermarini una storia importante, scandita attraverso i grandi interpreti del XX secolo. E in fondo anche perché nelle intenzioni del compositore l’opera era destinata proprio alla Scala e al suo fido Arturo Toscanini che aveva allora poco più di 30 anni.

LA FORTUNA PLANETARIA DI UN’OPERA SENZA TEMPO

La prima assoluta si ebbe in realtà e non per caso al Teatro Costanzi di Roma (oggi Teatro dell’Opera), il 14 gennaio 1900: così volle l’editore Ricordi in considerazione della “romanità” del soggetto. E anche per ragioni promozionali. A Milano Tosca approdò due mesi più tardi, il 17 marzo, sull’onda di un grande successo. Nel giro di pochi anni sarebbe dilagata in Europa, quindi nelle Americhe e in Oriente. Era l’inizio di una fortuna planetaria, che non accenna a tramontare.

Negli ultimi 15 anni (dati di Operabase.com) è al quinto posto assoluto fra le opere più rappresentate, con 1.428 produzioni e 6.869 rappresentazioni. Vuol dire che dal 2004 in media è andata in scena un po’ più di una volta al giorno. E poi dicono che il melodramma è al tramonto. Dipende dal titolo, e dall’autore.

IL DRAMMA DI VICTORIEN SARDOU

L’idea di Tosca era venuta a Puccini nel 1889, dopo avere assistito a Milano alla rappresentazione dell’omonimo dramma di Victorien Sardou (scritto nel 1887) con la “mattatrice” Sarah Bernhardt nel ruolo principale. L’interesse del compositore fu immediato, la causa di questo interesse resta misteriosa, a meno di non voler fare ricorso a categorie poco estetiche e molto psicologiche (e spesso anche molto banalizzate) come l’intuito o l’istinto creativo.

Il compositore Giacomo Puccini (1858 – 1924) (Getty Images).

Lo spettacolo si teneva infatti in lingua originale francese e il musicista non capì granché del dialogo, anche se è vero che l’arte di Bernhardt era largamente affidata alle sfumature della voce e al gesto. Ma soprattutto, la pièce di Sardou era (ed è) un drammone di cornice storica, improntato dal gusto per il coup de théâtre sanguinoso, che si dipana per cinque lunghi atti fra innumerevoli divagazioni in molteplici ambientazioni sceniche, popolato da una folla di 23 personaggi. Qualcosa di sideralmente lontano dalla tagliente concentrazione drammatica che è carattere fondante dell’opera.

L’EFFICACE ADATTAMENTO DI ILLICA

Dato atto della rabdomantica capacità di Puccini di “sentire” le potenzialità melodrammatiche del testo di Sardou, bisogna aggiungere che all’iniziale clic scattato nella mente del compositore seguì una lunga fase di dubbi e d’incertezza, anch’essa del resto caratteristica dei suoi complessi percorsi creativi. Intanto, la Casa Ricordi – su richiesta del musicista – aveva acquisito i diritti del testo e Luigi Illica ne aveva realizzato rapidamente una straordinaria sintesi, una “tela” efficacissima (oggi potremmo dire un adattamento) che riduceva gli atti da cinque a tre, lasciando Tosca, Scarpia e Cavaradossi praticamente soli a delineare il plot, con solamente due altri personaggi di qualche significato nel contorno (il sagrestano e lo sbirro Spoletta). Il resto delle invenzioni di Sardou svaniva, salvo il grand-guignol (morti ammazzati o suicidi) e l’ambientazione romana che diventava però elemento ben diversamente caratteristico nella sua specificità anche topografica.

La chiesa di Sant’Andrea della Valle, Palazzo Farnese e Castel Sant’Angelo: tutto si svolge in un triangolo di poche centinaia di metri nel cuore della Capitale. In questi luoghi, uno per atto, la storia inizia all’ora dell’Angelus (mezzogiorno) per concludersi all’alba successiva, fra il 17 e il 18 giugno 1800. I papisti credono che Napoleone sia stato sconfitto a Marengo e invece è accaduto il contrario; il feroce capo della polizia va a caccia di prigionieri politici evasi e cerca intanto di soddisfare la sua “foia libertina” nei confronti di una cantatrice famosa, con il condimento sadico di torture a un pittore volterriano, che di lei è l’amante

L’AFFIDAMENTO DELL’OPERA A PUCCINI

Tornando alla genesi dell’opera, mentre Puccini si dedicava ad altro (e che altro: Manon Lescaut e Bohème), Tosca – soggetto che lo stesso Verdi apprezzava, avendolo conosciuto durante un incontro con Illica e Sardou a Parigi – fu affidata dall’editore Ricordi a un bravo compositore della sua scuderia, Alberto Franchetti. La prassi all’epoca non era infrequente. Semmai, era decisamente raro che poi un soggetto “tornasse a casa” come avvenne con Tosca, riaffidata dopo la spontanea (o forse “spintanea”) rinuncia di Franchetti a un Puccini stavolta entusiasta dell’impresa. Era l’estate del 1895, di lì a pochi mesi avrebbe debuttato La Bohème. A Illica venne affiancato Giuseppe Giacosa, per la rifinitura poetica di un libretto che è quasi tutto in versi. Il famoso letterato e drammaturgo doveva risultare uno dei più accesi critici del soggetto, ma i suoi tentativi di sfilarsi dall’impresa vennero sempre respinti, segno che la sua polemica collaborazione era ritenuta fondamentale.

Una foto di scena di Tosca a La Scala con la direzione di Lorin Mazel e la regia di Luca Ronconi (2006).

I DUBBI DI GIUSEPPE GIACOSA

Giacosa imputava alla trama di contenere troppi fatti e pochi sentimenti e di essere per questo inadatta a diventare melodramma. Contestava non senza qualche motivo il fatto che il finale del primo atto e l’inizio del secondo fossero entrambi caratterizzati da un monologo di Scarpia. Pensava che la successione di duetti mettesse a rischio l’equilibrio del melodramma. Cercava luoghi dove fare poesia e stimolare la musa lirica pucciniana, com’era avvenuto con risultati memorabili in Bohème. Non capiva la diversità di Tosca, né poteva immaginare che Puccini stesse preparando una virata radicale rispetto allo stile e al clima dell’opera ambientata a Parigi, ma alla fine si adattò. E facendolo ha consegnato alla letteratura italiana alcuni dei più seducenti versi per musica scritti fra Otto e Novecento.

Luciano Pavarotti nella Tosca (1979-1980).

Il libretto di Tosca è infatti un capolavoro per il capolavoro: nitido e tagliente, lirico e brutale, funzionale come meglio non si potrebbe alla drammaturgia musicale pucciniana. Una miniera di versi memorabili fra i quali il musicologo Mario Bortolotto amava spesso citare quello di Cavaradossi nel primo atto, nel quale proclamava esserci la più brillante avversativa della letteratura italiana: «È buona la mia Tosca, MA credente». 

LA PASSIONE DI MONTALE PER TOSCA

Oltre la boutade colta, questo è però anche un libretto insospettabilmente denso proprio sul piano della poesia. Non a caso, è stato una sorta di riferimento non solo ideale ma molto pratico e preciso per uno dei maggiori poeti italiani del XX secolo, Eugenio Montale.

Il trionfo di Maria Callas nella Tosca al Covent Garden di Londra. Accanto a lei Tito Gobbi e Renato Cioni (LaPresse).

In numerosi passai dell’opera del Nobel per la Letteratura, soprattutto nella sua prima fase, gli studiosi hanno trovato agganci e vere e proprie citazioni del testo di Giacosa. Montale fu anche critico musicale, come è ben noto, e in gioventù aveva accarezzato l’idea di una carriera da cantante lirico. «Come baritono», raccontò una volta il poeta al suo biografo Giulio Nascimbeni, «mi attraeva la figura di Scarpia nella Tosca. Vedo che in genere lo fanno tutti male. Non gli danno il tono del gran signore, lo trasformano in una specie di sceriffo austriaco…». Ancora qualche giorno, e si potrà capire se questa Tosca sarebbe stata nelle corde di Eugenio Montale.

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Mi si nota di più se scompaio? Parla Margiela, il Banksy della moda

Al tempo della civiltà dell'immagine ha deciso di sparire, lasciando la sua casa di moda. Ora un documentario dà voce al più concettuale degli stilisti. E a noi offre una lezione.

Mentre aspettavamo di conoscere i risultati economici del Black Friday europeo 2019, una giornata di saldi natalizi anticipati senza che si sia speso nemmeno un euro per il tacchino di Thanksgiving, abbiamo avuto modo di apprezzare il secondo documentario prodotto su Martin Margiela, «il Banksy della moda» come ormai viene chiamato, dopo l’affascinante short movie che Alison Charnick girò nel 2015 con il sostegno di Yoox, cioè di uno dei protagonisti assoluti della corsa agli acquisti ribassati.

Una delle creazioni di Martin Margiela per la mostra “Margiela: The Hermes Years” allestita al museo delle aerti decorative di Parigi dalla primavera all’autunno 2018. (PHILIPPE LOPEZ/AFP via Getty Images)

DELL’UOMO CHE RIVOLUZIONÒ LO STILE CI RESTA SOLO LA VOCE

Se il filmato di quattro anni fa si intitolava The artist is absent, richiamo speculare alla celebre performance di Marina Abramovic, ed era affidato alle testimonianze dei giornalisti, dei critici e degli artisti che hanno collaborato a vario titolo con lo stilista che un’intera generazione di giovani conosce solo per nome, questo nuovo film diretto da Reiner Holzemer permette di ascoltare almeno la voce dell’uomo che, dopo aver rivoluzionato la moda al pari di Rei Kawakubo, nel 2009 ha lasciato la propria azienda nelle mani di Renzo Rosso ed è letteralmente sparito nel nulla.

La modella Leon Dame sulla passarella della Parigi Fashion week per la collezione Primavera – Estate 2020 di Maison Margiela (Thierry Chesnot/Getty Images)

Già lo si vedeva pochissimo prima e bisognava appostarsi fuori dai suoi uffici di Parigi per giornate intere per coglierne lo sguardo; dopo la cessione a OtB e, si dice, mesi di contrasto con mr Diesel, Margiela è diventato l’equivalente di J. Salinger, anzi peggio perché dell’autore del Giovane Holden almeno si conosceva l’indirizzo di casa, benché nessuno sia mai riuscito a varcarne il cancello. Martin Margiela in his own words è stato presentato pochi giorni fa al festival del documentario a New York (sì, insieme con Unposted, starring Chiara Ferragni, preferiremmo evitare i paragoni), e non si sa ancora se e quando farà la sua comparsa in Italia.

«L’ANONIMATO È MOLTO IMPORTANTE, MI DÀ EQUILIBRIO»

Due affermazioni del grande stilista belga, però, possono diventare oggetto di riflessione e spunti di conversazione interessanti in questi nostri tempi di social mania, di autoscatti reiterati e di caccia ai like, di questi nostri continui e festosi “Instagram al tramonto”, come da titolo del nuovo, interessantissimo saggio di Paolo Landi sull’ascesa del media più vanitoso ed esibizionista che sia mai stato inventato. Se uno degli uomini più interessanti della moda degli ultimi trent’anni dice che per lui «l’anonimato è molto importante» e che di «essere una celebrità gli è sempre importato zero», vale la pena di capire il perché. Lo spiega lui stesso, voce off di se stesso: «Mi aiuta, essere uguale a tutti gli altri, mi dà equilibrio. A me interessa che la gente ami quel che faccio, non la mia faccia».

MICHELE, PRADA, ARMANI: I POCHI CHE DICONO NO ALL’APPARIRE

Se vi sembra poco, common knowledge, provate a pensare all’evoluzione che la moda e i suoi stilisti hanno subito negli ultimi centocinquant’anni, da Charles Frederick Worth a oggi, e agli altri due documentari presentati a New York fra i tanti realizzati in questi anni: Ferragni, appunto, e Ralph Lauren. Nessuno è sfuggito, anche post mortem come Yves Saint Laurent; qualcuno ha esagerato, autocelebrandosi prima del tempo e rimettendoci le penne professionali come Frida Giannini. Tutti trascorrono il tempo fra feste, eventi, presentazioni e selfie. Fra i pochi che mantengano il basso profilo, nonostante la ricchezza della moda che costruisce, c’è Alessandro Michele. Sul suo account Instagram, Lallo25, è davvero difficile trovare selfie, ed è noto che non ami rilasciare interviste. Idem Miuccia Prada, che da sempre esce al termine delle sue sfilate quasi a mezza figura: una gamba, un braccio, la testa e via. Giorgio Armani si concede con parsimonia, pur essendo garbato e disponibilissimo con gli sconosciuti che lo fermano per strada. Per quasi tutti gli altri, la presenza sui social, gestita da account manager, oppure agli eventi del brand, proprio o di appartenenza, è diventata una parte integrante della professione e dello speciale “culto dello stilista” che va costruendosi e sviluppandosi dal giorno in cui il baffuto inglese decise che le signore della buona società parigina avrebbero dovuto indossare quello che diceva lui, e a carissimo prezzo.

DAL PRIMO BOOM DEI NOVANTA ALL’ESAURIMENTO

Dalla metà degli Anni Ottanta fino al suo primo boom, nei Novanta, e ancora oggi, il belga Margiela, di cui tanti ignorano perfino la pronuncia corretta del cognome (volendo, su Youtube trovate un divertentissimo duo che si esercita), è amatissimo nel mondo della moda per il concettualismo delle sue creazioni, che si materializza in proporzioni oversize, decostruzione, riciclo e uso totalizzante dei tessuti (fu fra i primi a mettere le cimase a vista), linee e capi “piatti”, quasi bidimensionali, oltre che per i suoi iconici stivali tabi, ispirati all’estetica giapponese. Non è un caso, infatti, che in Giappone Margiela funzioni meglio che in Italia, dove la maggior parte delle donne ama ancora presentarsi scollata-strizzata-popputa, quasi fosse un marchio di origine doc della merce, e non è affatto per caso che, dopo la sua uscita dalla Maison eponima, Rosso abbia chiamato alla direzione creativa John Galliano, un altro visionario delle proporzioni. L’etichetta bianca, senza nome, dei suoi capi, un logo-no logo fermato da quattro punti in cotone bianco, è diventata un simbolo della moda colta, raffinata, intellettuale. Da cui, però, il suo stesso interprete ha preferito staccarsi: «Sentivo troppa pressione attorno a me, ero stanco del sistema, di dover creare così tante collezioni all’anno. Mi sono ammalato. Ho avuto bisogno di un anno solo per recuperare dallo stress», dice nel documentario. Per tornare a volersi occupare di moda ne ha messi altri nove. Anche questo lo lega a Galliano: l’esaurimento.

«Senti di aver detto tutto quello che hai da dire nella moda», gli chiede il regista. «No». «Non credo che tornerò mai come direttore creativo di una maison o di un marchio, ma credo che se una grande società volesse una linea firmata da me, ecco, questo potrebbe accadere». Potrebbe essere una bella notizia, ma resta da vedere che cosa questo mondo iper connesso possa ancora volere dall’uomo scomparso. Jean Paul Gaultier, il suo boss nei primi anni di carriera, dice che «la sua capacità di sottrarsi, di non apparire, è molto potente». Ma monsieur Gaultier è un quasi settantenne che, a dispetto del proprio spirito iconoclasta, ha inevitabilmente la mentalità di un signore nato poco dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma che cosa possono pensare, i ventenni, di un uomo che produce moda concretamente astratta, rifiutandosi di spiegarla? Giocare fra assenza e presenza è l’esercizio più difficile che attende l’essere umano o, meglio, l’animale sociale, dalla nascita fino alla morte, come emerge chiaramente anche dall’ultimo saggio di Lorenza Foschini attorno al carteggio fra Marcel Proust e il musicista Reynaldo Hahn, «Il vento attraversa le nostre anime», da cui capiamo quanto fosse difficile per un presenzialista per mestiere e per passione come l’autore della Recherche saper assecondare l’esigenza di intimità e gli spazi intimi dell’amico e, per qualche anno, amante (il libro, già di successo, verrà presentato il 3 dicembre alla Società Dante Alighieri di Roma, in caso vi trovaste in città non perdetelo). Saper scomparire nella civiltà dell’immagine è un’arte ancora più sottile. E l’anonimato assoluto un lusso davvero per pochi. Adesso Margiela vuole tornare. Ma non sa come farlo senza abbattere il proprio mito.

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Torna Studio in Triennale: il programma dell’edizione 2019

La due giorni di dibattiti e interviste organizzata da Rivista Studio va in scena sabato 30 novembre e domenica 1 dicembre. Moda, design, mobilità sostenibile, sport e tanto altro ancora.

Studio in Triennale, il festival organizzato da Rivista Studio in collaborazione con Triennale Milano, torna per l’ottava edizione in programma sabato 30 novembre e domenica 1 dicembre 2019. Teatro dell’evento il Palazzo dell’Arte in viale Alemagna.

Il filo rosso della due giorni di dibattiti e interviste dedicati a media, cultura, innovazione, design, stili di vita, sport e ambiente sarà il superamento di ogni codice, genere, limite e barriera. Tutti gli incontri sono a ingresso libero. Ecco il programma completo.

SABATO 30 NOVEMBRE

Ore 14.00
No Code!
Moda, design, arte, stili di vita: la rottura dei codici
Con: Yong Bae Seok (designer), Lorenza Baroncelli (direttrice artistica Triennale Milano), Michele Lupi (Tod’s), Angela Rui (curatrice).
Modera: Federico Sarica (direttore Rivista Studio)

Ore 15.15
Come ci muoveremo
Dallo skateboard all’elettrico, ragionamenti attorno alla mobilità sostenibile
Con: Pablo Baruffo (skatepark designer, CTRL+Z), Paolo Gagliardo (Ad Qooder), Michele Lupi (Tod’s), Diana Manfredi (regista).
Modera: Serena Scarpello (Rivista Studio)

Ore 16.30
I nuovi femminili
Le donne, i media e le community, fra social e giornali tradizionali
Con: Imen Boulahrajane (esperta di economia e influencer), Francesca Delogu (direttrice Cosmopolitan), Cristina Fogazzi (Estetista Cinica), Annalisa Monfreda (direttrice Donna Moderna).
Modera: Silvia Schirinzi (Rivista Studio)

Ore 17.45
Incontro con David Szalay, scrittore (Turbolenza, Adelphi)
Intervengono: Veronica Raimo, Marco Rossari (autori di Le Bambinacce, Feltrinelli).

Ore 18.45
Incontro con Lawrence Wright, scrittore (Dio salvi il Texas, NR Edizioni)
Intervengono: Giuseppe De Bellis (direttore Sky Tg24), Paola Peduzzi (Il Foglio)

DOMENICA 1 DICEMBRE

Ore 11.00
Fabbrica Futuro
Dalle nuove professioni alla formazione continua, ragionamenti sul futuro del lavoro
Con: Riccardo Barberis (AD ManpowerGroup Italia), Davide Oldani (chef)
Modera: Giuseppe De Bellis (direttore SkyTg24)
Case history: Barbara Cominelli (Microsoft Italia), Giampaolo Grossi (Starbucks Italy) 

Ore 12.00
Il calcio è donna (finalmente!)
La rottura dei codici tradizionali nello sport maschile per eccellenza
Con: Regina Baresi (Inter FC), Carolina Morace (Sky), Francesca Vitale (AC Milan)
Modera: Alessia Tarquinio (Sky Sport)

A seguire
Il tennis come istigazione al racconto
Un monologo breve
di Matteo Codignola (Adelphi)

Ore 14.30
Incontro con Marracash, musicista
Interviene: Giovanni Robertini (autore tv e giornalista)

Ore 15.30
Il caso Fitzcarraldo
Come un editore indipendente può arrivare, in cinque anni, a pubblicare due premi Nobel (e delle copertine bellissime)
Con: Jacques Testard (direttore Fitzcarraldo Editions)
Modera: Cristiano de Majo (Rivista Studio)

Ore 16.45
Contro Milano. Viva Milano
Una riflessione aperta sulla città e il suo rapporto col resto del Paese
Con: Michele Masneri (Il Foglio), Francesco Caldarola (autore tv), Mattia Carzaniga (giornalista), Irene Graziosi (autrice Venti), Virginia Valsecchi (produttrice).
Modera: Federico Sarica (direttore Rivista Studio)

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Francesca Cavallo spiega perché disobbedire è necessario

Da Greta ai ragazzi di Hong Kong fino alle Sardine, si respira nelle nuove generazioni la voglia di modificare il sistema. E di mettere in discussione il pregiudizio. Una chiacchierata con la co-autrice di Bambine ribelli ora in libreria con Elfi al quinto piano.

Nel 2017 era salita agli onori delle cronache per aver scritto insieme a Elena Favilli Storie della buonanotte per bambine ribelli, un libro per ragazzi da 470 mila copie, una vera rarità in tempi in cui un italiano su quattro afferma di non leggere.

Lei è Francesca Cavallo, nata in Italia, a Taranto, ma da anni residente negli Stati Uniti, con una vita dedicata alla scrittura. Oggi in libreria arriva il suo nuovo libro, Elfi al quinto piano, per i tipi Feltrinelli.

«A gennaio», racconta Francesca a Lettera43.it, «si è conclusa la mia avventura con le Bambine ribelli e così ho deciso di passare un periodo in Italia. Ho dovuto capire cosa volessi da me stessa».

La scrittrice Francesca Cavallo.

DOMANDA. Come è nato Elfi al quinto piano?
RISPOSTA. Un po’ per caso, a Roma, durante la scorsa primavera. Dopo aver fatto ritorno in Italia, ho deciso di prendere in affitto un appartamento a Trastevere e si trattava effettivamente di una casa al quinto piano, senza ascensore, in cima a 104 gradini. A dire il vero non avevo in mente di scrivere questa storia e menchemeno di scriverne una di finzione o di argomento natalizio. Ma la primavera non ne voleva proprio sapere di arrivare, anzi, era maggio ma era grigio e freddo. E così mi sono ritrovata in questa mansarda e sono stata ‘visitata’ da questa storia.

Un racconto natalizio un po’ atipico però…
Sì. Mi sono voluta confrontare con un genere classico, inserendo molti dei miei temi dentro un genere letterario decisamente tradizionale: protagonisti della storia sono i componenti di una famiglia omosessuale e birazziale. Ma il motore della storia non è questo…

Qual è?
La leadership morale dei bambini. In quest’ultimo periodo sta infatti accadendo un qualcosa di impensabile fino a pochissimo tempo fa: dei ragazzini riescono a far sentire la propria voce influenzando l’agenda dei governi. Penso per esempio a Greta Thunberg.

A parte Greta, che a 16 anni ha parlato addirittura alle Nazioni Unite, in questo momento si respira un certo fermento tra giovani e giovanissimi. Cosa sta accadendo?
C’è una enorme pressione a livello globale legata alla profonda insoddisfazione nei confronti delle risposte del sistema in cui viviamo: il capitalismo patriarcale. Credo che sia Greta sia i vari movimenti, dai Gilet gialli alle Sardine nate in questi giorni, al movimento di Hong-Kong premano per la ricerca e l’identificazione di una alternativa, per mettere sul campo un modo diverso di pensare il sistema in cui viviamo.

Nel suo libro si assiste a una ribellione da parte dei bambini. Cosa significa ribellarsi, disobbidire?
Disobbidienza è non dare per scontate le lezioni che ci vengono passate dai genitori, dai media, dal sistema in generale: problematizzarle, essere svegli, essere attivi e non ricettori passivi. Riflettere su quello che ascoltiamo. Problematizzare, non avere paura di fare domande. Questo significa essere disobbedienti.

Eppure Greta è stata aspramente criticata – se non sminuita – per il suo impegno. Diversi politici, giornalisti e analisti hanno contestato il presunto business di immagine nato attorno a lei.
Se non generassero questo desiderio compulsivo di riportarle alla regola, la disobbidienza e la protesta – quella profonda – non avrebbero il valore dirompente che hanno. Quando mette in crisi lo status quo la disobbidienza stimola una serie di riflessi che il sistema mette in campo per difendersi. Se una rivoluzione non incontra alcuna risposta è una rivoluzione inutile.

L’ultimo libro di Francesca Cavallo, già co-autrice di “Storie della buonanotte per bambine ribelli”.

Come disobbidiscono e come si ribellano i bambini di Elfi al quinto piano?
La storia è ambientata in una città immaginaria dove convivono famiglie di ogni tipo e dove, per tutelare la dimensione ottimale di un quieto vivere, gli abitanti si impegnano perché non succeda mai niente: hanno smesso di parlare agli estranei, le persone stanno per conto loro e questa è la ricetta per la pace sociale. In questa città si trasferisce la famiglia di Isabella e Dominic, tre giorni prima di Natale. Scelgono questa città ma quando arrivano sono stranieri, nessuno rivolge loro la parola. Eppure proprio qui incontrano una bambina disobbidiente, Olivia, una piccola inventrice che fa loro capire come sia in atto una vera e propria ribellione da parte dei bambini nei confronti del sistema. Dato che nessuno tra gli adulti comunica con il prossimo, loro aprono una radio clandestina con la quale si parlano.

Sembra una metafora dei tempi che stiamo vivendo.
Spero che il libro venga accolto non come una provocazione ma come un tentativo di raccontare a bambini e nuove generazioni una storia come un’altra che ha come protagonista una famiglia birazziale e omosessuale. Credo sia fondamentale che i più piccoli inizino a essere esposti a storie con protagonisti il più diversi possibile, anche per contrastare un domani quella retorica intrisa di odio che oggi porta molte persone in piazza. 

Insomma di strada ne resta molta da fare…
Oggi si ha paura dell’omosessualità perché è qualcosa che non si conosce: spesso le persone non essendo state esposte a storie e a vicende di questo tipo, creano e vedono nel prossimo mostri senza alcuna correlazione con la realtà.

Lei è nata a Taranto che in questo periodo è tornata sotto i riflettori per il caso Ilva. Come vede il futuro della sua città?
Taranto sarà il centro del mio tour, farò diverse presentazioni in città. È un simbolo a livello nazionale ed europeo di un modo di pensare allo sviluppo che deve essere definitvamente archiviato: qualsiasi forma di sviluppo fondato sullo sfruttamento deve essere relegata nel passato. E purtroppo nel dibattito attuale non vedo soluzioni capaci di cambiare questo stato di cose. Al centro c’è ancora il ricatto: la salute o il lavoro. Taranto è uno scandalo a livello europeo. 


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Francesca Cavallo spiega perché disobbedire è necessario

Da Greta ai ragazzi di Hong Kong fino alle Sardine, si respira nelle nuove generazioni la voglia di modificare il sistema. E di mettere in discussione il pregiudizio. Una chiacchierata con la co-autrice di Bambine ribelli ora in libreria con Elfi al quinto piano.

Nel 2017 era salita agli onori delle cronache per aver scritto insieme a Elena Favilli Storie della buonanotte per bambine ribelli, un libro per ragazzi da 470 mila copie, una vera rarità in tempi in cui un italiano su quattro afferma di non leggere.

Lei è Francesca Cavallo, nata in Italia, a Taranto, ma da anni residente negli Stati Uniti, con una vita dedicata alla scrittura. Oggi in libreria arriva il suo nuovo libro, Elfi al quinto piano, per i tipi Feltrinelli.

«A gennaio», racconta Francesca a Lettera43.it, «si è conclusa la mia avventura con le Bambine ribelli e così ho deciso di passare un periodo in Italia. Ho dovuto capire cosa volessi da me stessa».

La scrittrice Francesca Cavallo.

DOMANDA. Come è nato Elfi al quinto piano?
RISPOSTA. Un po’ per caso, a Roma, durante la scorsa primavera. Dopo aver fatto ritorno in Italia, ho deciso di prendere in affitto un appartamento a Trastevere e si trattava effettivamente di una casa al quinto piano, senza ascensore, in cima a 104 gradini. A dire il vero non avevo in mente di scrivere questa storia e menchemeno di scriverne una di finzione o di argomento natalizio. Ma la primavera non ne voleva proprio sapere di arrivare, anzi, era maggio ma era grigio e freddo. E così mi sono ritrovata in questa mansarda e sono stata ‘visitata’ da questa storia.

Un racconto natalizio un po’ atipico però…
Sì. Mi sono voluta confrontare con un genere classico, inserendo molti dei miei temi dentro un genere letterario decisamente tradizionale: protagonisti della storia sono i componenti di una famiglia omosessuale e birazziale. Ma il motore della storia non è questo…

Qual è?
La leadership morale dei bambini. In quest’ultimo periodo sta infatti accadendo un qualcosa di impensabile fino a pochissimo tempo fa: dei ragazzini riescono a far sentire la propria voce influenzando l’agenda dei governi. Penso per esempio a Greta Thunberg.

A parte Greta, che a 16 anni ha parlato addirittura alle Nazioni Unite, in questo momento si respira un certo fermento tra giovani e giovanissimi. Cosa sta accadendo?
C’è una enorme pressione a livello globale legata alla profonda insoddisfazione nei confronti delle risposte del sistema in cui viviamo: il capitalismo patriarcale. Credo che sia Greta sia i vari movimenti, dai Gilet gialli alle Sardine nate in questi giorni, al movimento di Hong-Kong premano per la ricerca e l’identificazione di una alternativa, per mettere sul campo un modo diverso di pensare il sistema in cui viviamo.

Nel suo libro si assiste a una ribellione da parte dei bambini. Cosa significa ribellarsi, disobbidire?
Disobbidienza è non dare per scontate le lezioni che ci vengono passate dai genitori, dai media, dal sistema in generale: problematizzarle, essere svegli, essere attivi e non ricettori passivi. Riflettere su quello che ascoltiamo. Problematizzare, non avere paura di fare domande. Questo significa essere disobbedienti.

Eppure Greta è stata aspramente criticata – se non sminuita – per il suo impegno. Diversi politici, giornalisti e analisti hanno contestato il presunto business di immagine nato attorno a lei.
Se non generassero questo desiderio compulsivo di riportarle alla regola, la disobbidienza e la protesta – quella profonda – non avrebbero il valore dirompente che hanno. Quando mette in crisi lo status quo la disobbidienza stimola una serie di riflessi che il sistema mette in campo per difendersi. Se una rivoluzione non incontra alcuna risposta è una rivoluzione inutile.

L’ultimo libro di Francesca Cavallo, già co-autrice di “Storie della buonanotte per bambine ribelli”.

Come disobbidiscono e come si ribellano i bambini di Elfi al quinto piano?
La storia è ambientata in una città immaginaria dove convivono famiglie di ogni tipo e dove, per tutelare la dimensione ottimale di un quieto vivere, gli abitanti si impegnano perché non succeda mai niente: hanno smesso di parlare agli estranei, le persone stanno per conto loro e questa è la ricetta per la pace sociale. In questa città si trasferisce la famiglia di Isabella e Dominic, tre giorni prima di Natale. Scelgono questa città ma quando arrivano sono stranieri, nessuno rivolge loro la parola. Eppure proprio qui incontrano una bambina disobbidiente, Olivia, una piccola inventrice che fa loro capire come sia in atto una vera e propria ribellione da parte dei bambini nei confronti del sistema. Dato che nessuno tra gli adulti comunica con il prossimo, loro aprono una radio clandestina con la quale si parlano.

Sembra una metafora dei tempi che stiamo vivendo.
Spero che il libro venga accolto non come una provocazione ma come un tentativo di raccontare a bambini e nuove generazioni una storia come un’altra che ha come protagonista una famiglia birazziale e omosessuale. Credo sia fondamentale che i più piccoli inizino a essere esposti a storie con protagonisti il più diversi possibile, anche per contrastare un domani quella retorica intrisa di odio che oggi porta molte persone in piazza. 

Insomma di strada ne resta molta da fare…
Oggi si ha paura dell’omosessualità perché è qualcosa che non si conosce: spesso le persone non essendo state esposte a storie e a vicende di questo tipo, creano e vedono nel prossimo mostri senza alcuna correlazione con la realtà.

Lei è nata a Taranto che in questo periodo è tornata sotto i riflettori per il caso Ilva. Come vede il futuro della sua città?
Taranto sarà il centro del mio tour, farò diverse presentazioni in città. È un simbolo a livello nazionale ed europeo di un modo di pensare allo sviluppo che deve essere definitvamente archiviato: qualsiasi forma di sviluppo fondato sullo sfruttamento deve essere relegata nel passato. E purtroppo nel dibattito attuale non vedo soluzioni capaci di cambiare questo stato di cose. Al centro c’è ancora il ricatto: la salute o il lavoro. Taranto è uno scandalo a livello europeo. 


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Bella ciao, la nuova vita dell’inno partigiano

Alcune versioni house e pop l'oltraggiano. Ma grazie alla moda della Casa di carta la canzone è tornata il leitmotiv delle rivolte. Mai così politica come dagli Anni 70.

Nell’arco di una stagione il Professore più famoso di Netflix ha portato Bella ciao nelle piazze in rivolta. Un revival così non si vedeva dagli Anni 70. La canzone dei partigiani è diventata il leitmotiv delle proteste popolari riesplose in Medio Oriente contro i governi inefficienti e corrotti. Si canta a squarciagola anche nei cortei che attraversano l’America latina, dal Cile all’Ecuador alla Bolivia in sommossa. E naturalmente nelle piazze europee, incluse quelle delle sardine in Emilia-Romagna, si spera per altre e antiche ragioni ma non è detto. Anche le sardine, attenzione, sono un fenomeno dilagato dalla Rete, strette tra loro potrebbero stare delle tute rosse a volto coperto (dalla maschera di Salvator Dalì) che scandiscono il canto della Resistenza come migliaia di altre tute rosse nel mondo. Il Professore è il loro capo nella Casa di carta, la serie televisiva spagnola che gira su Netflix, e, con Internet, è l’ultimo sdoganatore di Bella ciao.

Azza Zarour, Bella ciao.

L’INNO DELLA CASA DI CARTA

Il contagio del 2019 si deve al successo degli ingredienti della trama ideata da Alex Pina: Bella ciao viene cantata in italiano nelle scene più salienti, dai protagonisti che irrompono nel Palazzo della zecca spagnola (la casa di carta) per stampare miliardi di euro e fuggire col malloppo, e poi nella Banca centrale per rubare l’oro. Bella ciao, spiegano al pubblico i protagonisti, era le canzone cantata dal nonno del Professore mentre da partigiano combatteva i fascisti, «tutta la vita del Professore girava intorno a un’unica idea: Resistenza». Nella serie accade anche che i rapinatori, tutti scelti con precedenti penali, non torcano un capello ai sequestrati; e che di questi tempi per le loro imprese trovino la solidarietà della popolazione. La gente in strada protesta e parteggia per i loro colpi, Bella ciao è il collante che ha reso i rapinatori Robin Hood in guerra con lo Stato. Con quest’ultima moda e la sua carica rivoluzionaria Bella ciao è sbarcata nelle rivolte vere.

Bella ciao saudita, Gedda.

In versione house Bella ciao ha oltre 30 milioni di visualizzazioni

DAI CURDI ALLA DISCO MUSIC

Ancora chi protesta in Asia magari non conosce bene la storia e non capisce il testo in italiano, ma il senso della canzone è chiaro a tutti. Un gap che si sta colmando: traduzioni in arabo e in altre lingue e servizi dei media locali ripercorrono la genesi e il significato di Bella ciao. Che in Medio Oriente è cantata dai curdi dagli Anni 70, e dal 2011 è tornata popolare nella lotta armata per scacciare l’Isis e per costruire regione autonoma socialista del Rojava. Tra la Siria e l’Iraq, insieme ai volontari stranieri uniti alla causa curda, si era ricreata una comunità partigiana che naturalmente cantava Bella ciao. Ma finché la melodia nel 2018 non è apparsa nelle puntata della Casa di carta non aveva attecchito nelle piazze, tra gli arabi. Con la serie della piattaforma online, la più vista tra quelle non di lingua inglese, Bella ciao ha avuto una eco planetaria. In versione house, Bella ciao ha più di 30 milioni di visualizzazioni, un altro adattamento disco brasiliano più di 170 milioni.

Blaya chara, Iraq.

UNA MODA ANCHE OFFENSIVA

L’autore Pina sostiene che Bella ciao sia un «inno alla resistenza come la serie» e che nel mondo finché ci «sarà resistenza ci sarà speranza», sottinteso anche con la Casa di carta. La verità è meno nobile: con la serie sono nate cover anche oltraggiose dell’inno dei partigiani. Una versione saudita è in circolazione, grazie a un accordo tra Netflix e gli studi di Gedda del cantante Amine el Berjawi: la nota dittatura conta milioni di fan della serie spagnola. In Turchia, se non altro con più coerenza, la Casa di carta è invece censurata per il sospetto di messaggi contro Recep Tayyip Erdogan; e lo è ancora di più la Bella ciao di piazza Taksim e del Pkk curdo. Diverse versioni modaiole di Bella ciao sono in compenso diventate virali in Medio Oriente: a settembre la sex symbol libanese Shiraz ha lanciato anche un clip per il karaoke, in Palestina ci ha pensato la bella cantante e attrice Azza Zarour, seguitissima in tivù e sui social. Anche in tuta rossa.

Un Bella ciao rave, Tripoli (Libano).

In Libano la Bella ciao araba è diventata la canzone più ballata a Beirut e Tripoli

POI DI NUOVO CANZONE POLITICA

Solo poi si sono propagate le contestazioni tra il Libano, l’Iraq, il Kuwait, infine l’Iran. Sempre grazie al tam tam anche spurio della Rete. Ma ne è comunque valsa la pena. Le Belle ciao rivisitate dagli attivisti e dai dimostranti in Iraq e in Libano toccherebbero i cuori dei partigiani. A Mosul un gruppo di 20enni ha confezionato un video ispirato alla serie di Netflix, ma con la versione politica Blaya chara («nessuna via d’uscita)» di Bella ciao, «in solidarietà ai manifestanti». In Libano la Bella ciao araba è diventata la canzone più ballata delle contestazioni a Beirut e Tripoli che hanno fatto dimettere il premier Saad Hariri e assediano il parlamento. Come in Cile, dove assieme al Pueblo unido  la canzone italiana è il tormentone dei cortei di Santiago, la intonano i professori e gli studenti cileni in rivolta. Alla fine la Casa di carta non ha snaturato Bella ciao, semmai è vero il contrario. È la Casa di carta a sfruttare – anche – la fortuna di Bella ciao e a farla, questo sì, di rivivere di vita propria.

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Bach non brancola nel buio

Dall’amore per Sebastian, a cui si deve il linguaggio di tutta la musica che conosciamo, ai segreti dei suoi famosi dark concert. L’estroso maestro Cesare Picco si racconta a Roma InConTra.

La musica al buio. Quello vero, profondo, in cui neanche uno spiraglio di luce è concesso, dove le tenebre avvolgono tutto e tutti lasciando spazio solo al suono sprigionato dalle sapienti mani del maestro Cesare Picco.

È una dimensione affascinante quella che si vive nei Blind date – Concert in the Dark, che il compositore e improvvisatore classico porta in giro nei teatri di tutta Italia, valorizzando la melodia con il fascino imperscrutabile del buio. Tutto parte da regole precise, a cui il pubblico è conscio di doversi attenere: i primi minuti con una luce fioca che pian piano si spegne, fino a diventare per circa una mezz’ora buio assoluto, quello visibile – si fa per dire – solo nelle caverne o nelle profondità estreme del mare.

Ecco, è quello lo stadio in cui la musica viene espressa nella sua purezza, quasi viscerale, in cui lo spettatore viene calato in un’esperienza sensoriale autentica. Non per tutti, sia chiaro, sconsigliata agli apprensivi o chi soffre di attacchi di panico, ma adatta certamente a coloro che intendono affrontare attraverso il buio le proprie paure vivendo la musica per la musica, senza bisogno di altro.

CESARE PICCO, ARTISTA FUORI DAGLI SCHEMI

Una scelta originale, che rende Picco un artista fuori dagli schemi, oltre che un improvvisatore vero, con la barba da dandy, folta ma armonica, e la voce piena, corposa, forse modellata sulla qualità della musica che suona. A partire da quella di Joan Sebastian Bach, o solo Sebastian, come è intitolato il suo libro scritto per Rizzoli, presentato da Enrico Cisnetto a Roma InConTra. Bach per Picco è un riferimento imprescindibile, un genio, un supereroe, un’autentica rockstar, a cui l’intera musica, non solo quella classica, deve praticamente tutto.

Da sinistra, Enrico Cisnetto e Cesare Picco.

DOPO BACH TUTTA LA CONCEZIONE DELLA MUSICA È CAMBIATA

Bach, infatti, è il padre della codificazione del linguaggio del suono come lo conosciamo ora, su cui si basa la scrittura della musica. Un linguaggio quasi matematico, certamente frutto di uno sforzo sovraumano, realizzato in tempi in cui la musica veniva scritta per 18-20 ore al giorno, a orecchio, senza poter mettere le mani sullo strumento, senza l’ausilio di nessuna tecnologia e, nel caso di Bach, con la perdita graduale della vista, che lo rese cieco sin dalla giovane età. Eppure non esiste alcuna musica arrivata dopo Sebastian che non abbia fatto i conti con i codici da lui inventati, una sorta di dizionario di regole grammaticali che permettono di affrontare qualunque tipo di musica: dal blues al jazz, passando per il pop e per quella dei Beatles.

Cesare Picco.

UN CONCERTO AL BUIO CHE FA VIAGGIARE AD OCCHI APERTI

Ma l’omaggio che Picco rende al genio tedesco non è affatto la solita biografia tecnico-celebrativa, bensì un vero romanzo, che conduce il lettore, non per forza musicista, alla scoperta del giovane Bach, negli anni della scintilla che lo porterà a diventare uno dei riferimenti della storia della musica classica. Un viaggio a occhi aperti, questo sì, magari da alternare con le melodie che lo stesso Picco consiglia. Musica scritta, messa nero su bianco, da eseguire con minuziosa precisione, tutt’altra cosa rispetto al flusso imprevedibile generato sul momento nei suoi dark concert. Quello è pura creazione di suono in tempo reale, ogni sera diversa, espressa in un percorso che dalla luce va verso il buio, per poi ritornare alla luce. Un’esperienza coinvolgente. Persino illuminante.

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Quali sono i cibi che hanno il maggior impatto ambientale

Nutrirsi ha un costo. Che ricade anche sull'ecosistema. Dall'avocado alle mandorle, un elenco degli alimenti che hanno forti ripercussioni sull'equilibrio del nostro pianeta.

Deforestazione, lavoro minorile, inquinamento, spreco d’acqua. Conoscere i retroscena della produzione alimentare ha riempito di dubbi la nostra tavola. Le numerose informazioni su come vengono allevati gli animali o sull’impatto che hanno certi nostri vizi alimentari ha reso ogni boccone un po’ più controverso. E visto che separare la realtà dalle fake news non è sempre immediato, il Guardian ha stilato un elenco dei prodotti più “problematici” che oggi il mercato propone.

LO SPRECO D’ACQUA PER L’AVOCADO SICILIANO

Il Messico è il principale esportatore di avocado al mondo. Ma il consumo del frutto che va tanto di moda causa ogni anno la perdita di 700 ettari di foresta. Per rispondere alla crescente domanda gli agricoltori piantano sempre più alberi, sacrificando lo spazio dei pini secolari. Il surriscaldamento climatico, tuttavia, sta allargando le possibilità di acquistare il frutto tropicale a chilometro zero. L’aumento delle temperature ha, infatti, trasformato il Sud d’Italia in un habitat ideale per la produzione di avocado. In Sicilia esistono 100 ettari in cui è coltivato il frutto esotico. L’aspetto controverso? Per coltivare anche solo due o tre frutti sono richiesti oltre 272 litri di acqua.

LE EMISSIONI LEGATE AL CONSUMO DI CARNE

Lasciando da parte il tema etico sollevato dall’uccisione di animali, la discussione sul consumo della carne bovina ruota anche attorno ai gas serra. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), i bovini (allevati sia per la carne che per il latte) sono la specie animale maggiormente responsabile per le emissioni. Secondo i dati forniti dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) l’inquinamento prodotto dagli allevamenti intensivi in Italia è passato dal 10,2% (nel 2000) al 15,1% (nel 2016), diventando così la seconda fonte di inquinamento totale da polveri.

L’IMPATTO DELL’OLIO DI PALMA E DELLA FRUTTA SECCA

Le grandi piantagioni di olio di palma hanno trovato posto a discapito di ampie regioni in Indonesia (maggiore produttore di olio di palma) e in Malesia. Queste aree del mondo sono state coinvolte in pesanti operazioni di disboscamento. Per mantenere il mercato sono state rase al suolo migliaia di chilometri di foresta tropicale, anche attraverso dei roghi, che hanno liberato nell’atmosfera diversi gas serra. Anche le mandorle e la frutta secca hanno un pesante impatto ambientale, per via di tutta l’acqua che la loro coltivazione richiede. Una mandorla per maturare richiede più di tre litri di acqua, una noce 19 litri .

GIAGUARO E ARMADILLO MESSI IN PERICOLO DALLA SOIA

L’impennata che ha coinvolto la soia destinata all’alimentazione animale è una delle cause della scomparsa di significative porzioni di foreste, savane e praterie, tra cui l’Amazzonia, il Cerrado, la foresta Atlantica, la foresta Chaco e Chiquitano che caratterizzano gran parte del territorio di Brasile, Argentina, Bolivia e Paraguay e le praterie del nord America. La soia è uno dei vegetali più coltivati al mondo, anche se la sua produzione sta mettendo a repentaglio l’esistenza di specie come il giaguaro, il formichiere gigante, l’armadillo e l’ara macao.

IL POLPO MINACCIATO DALLA PESCA INTENSIVA

La popolazione globale di polpo è minacciata dalla pesca intensiva. Il Marocco è stato uno dei più grossi produttori di polpo al mondo, con quasi 100 mila tonnellate annue nel 2000, più del doppio della quantità pescata dal secondo Paese nella classifica, il Giappone (in Italia ogni anno se ne pescano 3 mila tonnellate). Ma, a prescindere dalla quantità, la scoperta dell’elevata sensibilità del polpo mette il popolo di consumatori davanti a un dilemma etico: il polpo rappresenta infatti un modello di invertebrato complesso, sensibile e dotato della capacità di risolvere problemi.

LE FORESTE DELLA COSTA D’AVORIO IN PERICOLO PER IL CIOCCOLATO

Più del 70% del cacao mondiale viene prodotto in Costa d’Avorio e in Ghana. La pianta arriva dalla foresta pluviale che, nella Costa d’Avorio è caratterizzata da una scomparsa più rapida rispetto a qualsiasi altro Paese africano. Sul suo territorio, infatti, si è ridotta di oltre l’80% negli ultimi 60 anni. Ma di questo passo, la crescente domanda di cioccolato potrebbe portare alla totale scomparsa della foresta.

LE MANGROVIE A RISCHIO A CAUSA DEI GAMBERI

I gamberi di grandi dimensioni – tigre e reale – sono allevati nelle acque calde dei Paesi come la Thailandia, lo Sri Lanka e il Madagascar, dove la produzione è spesso fortemente coinvolta nella distruzione delle paludi di mangrovie. Secondo la Fondazione per la giustizia smbientale, il 38% circa del disboscamento globale di queste piante è collegato alla crescita delle aziende per l’allevamento dei gamberi.

LA PRODUZIONE DI LATTE A RISCHIO PER GLI OGM

L’Italia ha una posizione di rilievo nel settore caseario europeo, rappresenta il maggior produttore di formaggi a denominazione di origine protetta. Ogni anno, nel Paese, si producono 11 milioni di tonnellate di latte vaccino, 500 mila tonnellate di latte di pecora, oltre 200 mila di latte di bufala e 60 mila di latte caprino. Ma, anche se queste cifre sono alte, il consumo sta calando. Una diminuzione che va rintracciata soprattutto nel calo della natalità. Ma anche nella diffusione di fake news sul cosiddetto “oro bianco“. Una delle più radicate è che nel latte ci siano sostanze inquinanti. Ma tutte le fasi di produzione sono sottoposte a controllo. L’uso di ormoni, inoltre, è vietato in Italia e in tutta Europa. La qualità del latte dipende molto dalla derivazione: diventa poco sicura per l’organismo se arriva da un allevamento intensivo e se gli animali vengono nutriti con Ogm.

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E ora Greta Thunberg viaggerebbe pure nel tempo

Una fotografia del 1898 ritrae una ragazzina molto simile alla 16enne svedese. Lo scatto ha generato teorie cospirazioniste sull'attivista. Che, in realtà, arriverebbe dal passato.

Dopo la versione «Greta finanziata da Soros» e quella «Greta bambina manovrata dai potenti» è arrivato l’ultimo complotto che vede protagonista l’attivista ecologista impegnata a scuotere le coscienze ambientaliste a suon di Fridays For Future. È quella di «Greta viaggiatrice nel tempo».

Alla base della teoria cospirazionista su Greta Thunberg, secondo il Daily Mail, è una fotografia sbucata dagli archivi dell’University of Washington Libraries in cui è immortalata una bambina di 121 anni fa intenta a lavorare in una miniera d’oro, nello Yukon, in Canada. Gli occhietti vispi e due lunghe trecce a fare da contorno hanno subito rimandato al volto che da mesi è divenuto il simbolo della lotta a difesa del Pianeta. Un viso che, a settembre 2019, è arrivato fino al summit sul clima di New York. E che, si scopre ora, potrebbe addirittura appartenere a un’altra epoca.

SUI SOCIAL C’È CHI LANCIA LA TEORIA DI GRETA GIUNTA DAL PASSATO

«Questa foto non può che convincervi. Greta Thunberg viaggia nel tempo!», ha commentato qualche utente su Twitter, postando l’immagine in bianco e nero dove la sosia dell’attivista svedese appare in un campo, in compagnia di altri due ragazzini. E ancora. «Greta è arrivata dal passato fino a noi per salvarci». Tra il serio e il faceto, la teoria cospirazionista sta rimbalzando sui social, tratteggiando un’attivista svedese addirittura in grado di riavvolgere il nastro del tempo. Per curare l’emergenza climatica del caso (e del secolo).

L’ATTIVISTA IN VIAGGIO VERSO IL VERTICE SUL CLIMA DI MADRID

Sono in tanti gli animi rimasti affascinati dalla fotografia, scattata da Eric A. Hegg. Ma, per il momento, ancora nessuna replica da parte dell’attivista svedese. Per qualcuno, chissà, potrebbe essere troppo impegnata a fare le valigie per cavalcare i secoli e raggiungere la prossima crisi climatica. Più verosimilmente, però, Greta è diretta a Madrid, dove spera di prendere parte alla Cop25, la conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici del 2019 che si tiene nella capitale spagnola dal 2 al 13 dicembre. Sta attraversando l’Atlantico insieme con due YouTuber australiani Riley Whitelum e Alayna Carausu, che le hanno dato uno strappo a bordo del loro catamarano di nome Le Vagabonde. A emissioni zero, ça va sans dire.

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E ora Greta Thunberg viaggerebbe pure nel tempo

Una fotografia del 1898 ritrae una ragazzina molto simile alla 16enne svedese. Lo scatto ha generato teorie cospirazioniste sull'attivista. Che, in realtà, arriverebbe dal passato.

Dopo la versione «Greta finanziata da Soros» e quella «Greta bambina manovrata dai potenti» è arrivato l’ultimo complotto che vede protagonista l’attivista ecologista impegnata a scuotere le coscienze ambientaliste a suon di Fridays For Future. È quella di «Greta viaggiatrice nel tempo».

Alla base della teoria cospirazionista su Greta Thunberg, secondo il Daily Mail, è una fotografia sbucata dagli archivi dell’University of Washington Libraries in cui è immortalata una bambina di 121 anni fa intenta a lavorare in una miniera d’oro, nello Yukon, in Canada. Gli occhietti vispi e due lunghe trecce a fare da contorno hanno subito rimandato al volto che da mesi è divenuto il simbolo della lotta a difesa del Pianeta. Un viso che, a settembre 2019, è arrivato fino al summit sul clima di New York. E che, si scopre ora, potrebbe addirittura appartenere a un’altra epoca.

SUI SOCIAL C’È CHI LANCIA LA TEORIA DI GRETA GIUNTA DAL PASSATO

«Questa foto non può che convincervi. Greta Thunberg viaggia nel tempo!», ha commentato qualche utente su Twitter, postando l’immagine in bianco e nero dove la sosia dell’attivista svedese appare in un campo, in compagnia di altri due ragazzini. E ancora. «Greta è arrivata dal passato fino a noi per salvarci». Tra il serio e il faceto, la teoria cospirazionista sta rimbalzando sui social, tratteggiando un’attivista svedese addirittura in grado di riavvolgere il nastro del tempo. Per curare l’emergenza climatica del caso (e del secolo).

L’ATTIVISTA IN VIAGGIO VERSO IL VERTICE SUL CLIMA DI MADRID

Sono in tanti gli animi rimasti affascinati dalla fotografia, scattata da Eric A. Hegg. Ma, per il momento, ancora nessuna replica da parte dell’attivista svedese. Per qualcuno, chissà, potrebbe essere troppo impegnata a fare le valigie per cavalcare i secoli e raggiungere la prossima crisi climatica. Più verosimilmente, però, Greta è diretta a Madrid, dove spera di prendere parte alla Cop25, la conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici del 2019 che si tiene nella capitale spagnola dal 2 al 13 dicembre. Sta attraversando l’Atlantico insieme con due YouTuber australiani Riley Whitelum e Alayna Carausu, che le hanno dato uno strappo a bordo del loro catamarano di nome Le Vagabonde. A emissioni zero, ça va sans dire.

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L’Italia e quell’eccellenza nascosta nella filiera del libro

Carte, font e rilegature tra le più raffinate. Nel confezionare un oggetto che torna ad affascinare anche i più giovani siamo tra i migliori al mondo. Eppure sono in pochi a rivendicarlo.

Lo scorso 14 novembre, mentre presentava le novità e le (molte) partecipazioni dell’edizione di gennaio 2020, il direttore generale di Pitti Immagine, Agostino Poletto, ha annunciato, semi-ufficialmente perché il primo comunicato uscirà il 17, il lancio di “Testo. Come si diventa libro”, primo salone dedicato alla filiera di quel magico oggetto a cui, complice il progressivo e ormai irreversibile spostamento della lettura dei giornali su tablet e in generale il calo della stampa periodica, stanno lentamente tornando, affascinati, anche i giovani.

TRE GIORNI DI APPUNTAMENTI ALLA LEOPOLDA

Carte, inchiostri, penne, caratteri di stampa, soluzioni di alta tecnologia e di altissima manualità, lastre e ogni altra meraviglia di composizione: tre giorni dal 22 marzo, presumibilmente alla Leopolda. Non stiamo nella pelle, fosse pure il cuoio marocchino delle belle rilegature, quelle con le filettature e le incisioni in oro che certi cafoni comprano ancora al metro per adornarne la libreria e non aprono mai. Malissimo per loro perché il libro, come da radice etimologica, rende liberi (sia noi latini sia gli anglosassoni abbiamo alle origini dei sostantivi che indicano il libro la corteccia degli alberi su cui è presumibile venissero tracciati i primi segni e le prime comunicazioni scritte: la radice germanica è bok, faggio. Noi abbiamo esteso il concetto di liber alla libertà e ci piace molto) e in genere anche molto creativi.

IN ITALIA UNA TRADIZIONE SECOLARE NEL CONFEZIONAMENTO DEI LIBRI

Poche ore fa ci siamo trovati fra le mani il nuovo diario dell’anno realizzato da Christian Lacroix con inserti 3D, figure pop up, passaggi diversi di colore metallizzato sulle pagine e non lo avremmo mai riposto sullo scaffale se il costo (70 euro) non ci fosse sembrato davvero proibitivo per l’uso zero che ne avremmo fatto. Al nostro posto l’ha preso una ragazzina e ci siamo rallegrate per lei, che avrà tutte quelle pagine libere per scrivere e sognare. Noi italiani, sull’oggetto libro, siamo davvero bravissimi: quando possiamo, insistiamo sempre con la casa editrice che va pubblicandoci perché usi carte italiane, trattate come si conviene e senza sbiancatori o additivi inquinanti come avviene in Oriente, in principal modo la Cina, da dove giungono certe carte bianchissime e a grammatura 250 che alcune maison di moda – loro massima colpa – prediligono per i propri volumi perché le fotografie vi risaltano come non avverrebbe mai senza tutti quegli sbiancamenti e quelle lacche. Ormai sappiamo pochissimo sulla nostra abilità nella confezione di un libro, eppure siamo da secoli fra i migliori, insieme con i cinesi.

ALL’ORIGINE DEI FONT E DELLE STAMPE PIÙ RAFFINATE

Bibbia di Gutenberg a parte, l’Italia del Nord e del Centro (principalmente le Marche) hanno sviluppato l’oggetto-libro e la sua infinita seduzione come nessuno mai. Siamo all’origine dei font e delle stampe più raffinate, per oltre tre secoli patrimonio quasi esclusivo di Venezia, meravigliosa città martoriata dall’insipienza corrotta e il pensiero ci corre a quella meravigliosa prima edizione del Book of Snobs di William Thackeray che abbiamo sfogliato qualche settimana fa prendendolo dalla piccola biblioteca del Gritti e che speriamo non sia finito sott’acqua insieme con gli arredi e con mezza città.

IL LIBRO NON CORRE IL RISCHIO DELLA “STAMPA SESSUALIZZATA”

Venezia, città cosmopolita, dunque e ancora libera, colta e trasversale, ha dato i natali ad alcuni fra i grandissimi editori e stampatori, come Aldo Manuzio si intende, ma anche alle prime grandi scrittrici e alle prime giornaliste-direttrici di femminili, e qui arriviamo al secondo punto di queste riflessioni sulla carta stampata. Dicono le ultime classifiche sulla vendita dei magazine patinati che le testate femminili vecchia maniera, con gli argomenti “da femmine” piacciano sempre di meno. Siamo alla fine della “stampa sessualizzata”, titolava l’altro giorno la più rilevante delle testate business to business della moda, The Business of Fashion, e a guardare gli ultimi numeri di GQ Us o di testate come Vice sembra proprio che sia così. A restare attaccati al concetto del calendario maschile con la femmina nuda in allegato al numero di novembre sono rimasti solo certi personaggi residuali e un po’ macchiettistici, mentre la stragrande maggioranza delle donne cerca anche su riviste ufficialmente femminili argomenti trasversali. Noi stesse abbiamo faticato a definirci autrici, o per un lungo periodo direttrici, di testate femminili: ci sembrava, già 10 anni fa, che sessualizzare una testata fosse riduttivo, che il tal servizio di cucina potesse apparire su una rivista maschile (conosciamo un numero più elevato di bravi cuochi anche fra i nostri amici che di cuoche eccellenti) o che l’inchiesta sul razzismo potesse interessare un pubblico generale. Adesso, dicono gli osservatori che le società di ricerca di mercato stiano rivedendo i propri criteri di valutazione sull’efficacia o meno di una testata. Questo, in generale ed escludendo certi romanzetti, con il libro non succede mai.  Il libro nasce genderless. Basta che sia scritto bene.

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Perché investire nelle biblioteche è un vero atto rivoluzionario

Questi luoghi sono da sempre infrastrutture sociali fondamentali. Ma sono le prime vittime dei cronici e bipartisan tagli alla Cultura. Eppure formare cittadini consapevoli non dovrebbe avere prezzo.

Cinque miliardi in più ci vorrebbero. Ma si accontenterebbe di 3, il ministro dell’Istruzione e Università Lorenzo Fioramonti. Finirà, dopo il confronto parlamentare sulla legge di Bilancio, per avere niente. Se gli andrà bene, anzi di lusso, manterrà il bilancio che ha. Senza tagli.

L’ALLERGIA BIPARTISAN PER GLI INVESTIMENTI IN CULTURA

È da 20 anni, infatti, da quando l’allora governo Berlusconi lanciò il famoso proclama «non metteremo le mani in tasca agli italiani» che le vittime sacrificali del malgoverno nazionale, di destra, sinistra e centro più o meno allo stesso modo, sono la scuola, l’università e la cultura. L’unica differenza è che i governi di sinistra lo hanno fatto con un po’ di magone e leggero atto di contrizione, mentre quelli di destra con una dichiarata soddisfazione e un malcelato senso di liberazione.

LEGGI ANCHE: La scomparsa dell’intellettuale collettivo e il disprezzo della cultura

Se infatti Paolo Gentiloni, come premier dichiarò timidamente, fra il disappunto dell’editore Giuseppe Laterza, di essere troppo impegnato per leggere libri, Lucia Borgonzoni, allora sottosegretaria leghista ai Beni culturali del governo gialloverde, ammise candidamente di non avere letto un libro negli ultimi tre anni. In linea, peraltro, con il suo elettorato e il suo leader. Se è vero che Matteo Salvini ha fatto selfie ovunque, si è esibito sulla ruspa e più recentemente alla Fiera dei cavalli di Verona e al November Porc di Polesine Parmense, non lo si è mai visto in una biblioteca, in un museo e con un libro in mano.

Le biblioteche sono infatti infrastrutture sociali, ovvero luoghi e occasioni di incontro, fra persone di diversa estrazione sociale, ma anche di sesso, età, orientamenti ideali e convinzioni politiche

Ma aggiunto che Borgonzoni è ora candidata per la prossima sfida elettorale in Emilia-Romagna, segnaleremo che in questa regione c’è un’efficiente rete di biblioteche pubbliche. Arriviamo così al tema di oggi: le biblioteche, appunto, una delle espressioni delle istituzioni culturali più importanti, anche dal punto di vista sociale, ma fra le più colpite dai tagli economici. Perché, evidentemente fra le meno considerate come fattore essenziale di formazione della persona, del cittadino e per estensione di una comunità aperta, consapevole, solidale.

La nuova biblioteca di Helsinki costata 98 milioni.

UN DEGRADO DIMENTICATO

Le biblioteche sono infatti “infrastrutture sociali”, ovvero luoghi e occasioni di incontro, fra persone di diversa estrazione sociale, ma anche di sesso, età, orientamenti ideali e convinzioni politiche. Che per ragioni contingenti entrano in relazione, dunque imparano a conoscersi, dovendo condividere uno spazio comune secondo precise regole: minime e banali, ma da tutti rispettate. Come stare in silenzio e concentrarsi, aspettare che si liberi un posto di lettura o una postazione internet, mettersi in fila per richiedere un libro. Ce lo ricorda uno splendido articolo del sociologo Eric Klinenberg della New York University, recentemente riproposto dall’aggregatore civico City Lab: «Preoccupati di meno delle buche nelle strade e di più del degrado delle biblioteche». 

VIVERE SENZA LIBRI: I NUMERI DELL’ITALIA

Certo il titolo è paradossale nel momento in cui Venezia va sott’acqua, a Napoli s’aprono voragini nelle strade e le buche di Roma continuano a fare notizia. Ma che nulla toglie, anzi sottolinea i danni sociali generati dalla trascuratezza dei luoghi fisici deputati alla formazione culturale e allo sviluppo di legami e relazioni sociali. Certo il degrado di ponti, viadotti e scuole pubbliche è visibile, i danni cognitivi e formativi di chi vive in assenza di libri no. Solo in apparenza però e se lo sguardo è distratto. Perché la povertà educativa, che è effetto ma anche causa della povertà economica e lavorativa, è figlia diretta di chi non legge e di chi, pur essendo gratuite, non frequenta biblioteche. Nel 2016, il 52,8% dei ragazzi italiani non aveva letto nemmeno un libro nell’anno precedente. Solo il 15% delle persone con più di 6 anni ne ha frequentata una nell’ultimo anno.

La povertà educativa, effetto ma anche causa della povertà economica e lavorativa, è figlia diretta di chi non legge e di chi, pur essendo gratuite, non frequenta biblioteche

La riflessione di Klinenberg ci sollecita a riconsiderare il ruolo fondamentale che hanno avuto e che non hanno più da 20-30 anni le biblioteche. Negli Usa come nel nostro Paese e un po’ in tutt’Europa si è addirittura disinvestito lasciando deperire la rete e le strutture bibliotecarie. E forse non è casuale che questo abbandono si sia accompagnato al crollo delle vendite di libri e giornali, di contro all’ascesa del consumo televisivo e di una programmazione sempre più commerciale. Con esito ulteriore di un ancor più drammatico ridursi della partecipazione politica e civica e del contatto, anche fisico, fra persone di età, condizione sociale e professionale diverse.

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Le biblioteche sono infrastrutture sociali allo stesso modo di numerosi altri luoghi in cui avviene questo fondamentale scambio relazionale. Come scuole e campi da gioco e sportivi. Anche le chiese e le associazioni culturali fungono da infrastruttura sociale, quando sono aperte. Allo stesso modo dei mercati e degli esercizi commerciali (caffè e bar) che però consentano alle persone di stare insieme indipendentemente da ciò che devono comperare o consumare. Sono cioè “spazi terzi”, secondo la definizione del sociologo Ray Oldenburg, che favoriscono i legami sociali, offrono spazio di interazioni, incoraggiano relazioni più durature.  Innumerevoli amicizie strette tra genitori, e poi intere famiglie, iniziano perché due bambini usano la stessa altalena… Praticare regolarmente uno sport di squadra favorisce, scrive Klinenberg, «l’amicizia fra persone con diverse preferenze politiche o diverso status etnico, religioso o di classe, esponendole a idee che probabilmente non incontrerebbero fuori dal campo».

LE LIBRERIE ITINERANTI E L’ALFABETIZZAZIONE

Tuttavia le biblioteche hanno un di più, un valore aggiunto, rispetto alle altre infrastrutture sociali. Promuovono la voglia di sapere, conoscere e dunque comprendere altri mondi, altre vite, altre storie. E questo è ciò che le rende cruciali per la formazione di cittadini consapevoli e responsabili. Sono strumenti di promozione ma anche sistemi di sicurezza.

Questi luoghi promuovono la voglia di sapere, conoscere, comprendere altri mondi, altre vite, altre storie. E questo è ciò che le rende cruciali per la formazione di cittadini consapevoli e responsabili

Eppure un gran numero di cittadini, con in testa politici e governanti, non ne ha consapevolezza. Ignari e ignoranti, ignorano che la democrazia, l’emancipazione delle classi lavoratrici, lo sviluppo dei partiti di massa hanno avuto nelle biblioteche e nelle librerie popolari itineranti uno strumento fondamentale di alfabetizzazione culturale e consapevolezza politica.

SEGUIAMO L’ESEMPIO DI HELSINKI

È quasi incredibile – ma vero – che ci sia stato un tempo, fra 800 e 900 in Inghilterra, dove capi sindacali ed educatori della working class, nel momento in cui promuovevano scuole domenicali e cattedre ambulanti, auspicavano la lettura dei classici per le masse. Ma ancor più incredibile però altrettanto vero è che ci sia oggi un città europea, Helsinki, dove è stata inaugurata l’anno scorso una biblioteca costata 98 milioni di euro. Un paradiso del libro, ma anche una “fabbrica di cittadinanza”, perché nei suoi tre piani e in un contesto di raffinato design, oltre a 100 mila libri, ci sono caffè, teatro, sale per la musica e i videogiochi, postazioni internet e stampanti 3D, laboratori e spazi per riunioni ed eventi. Un luogo come ha detto il suo direttore Tommi Laitio, rispondendo anche alle critiche sul costo eccessivo della struttura, dove «puoi essere la tua persona migliore…e costruire il tuo futuro». E questo è impagabile.

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Una mostra celebra i palchi della Scala di Milano

Al museo del Teatro un'esposizione racconta le storie dei proprietari di quei piccoli salotti che hanno accolto anche la regina Elisabetta e Lady D.

«Piove, nevica fuori dalla Scala? Che importa/Tutta la buona compagnia è riunita in centottanta palchi del teatro», scrive Henri Beyle, Stendhal, in quel 1816 del suo viaggio più glorioso e felice in Italia, ricco di soste e ritorni nella città che preferiva a Parigi, e cioè Milano. Ogni sera, correva al Teatro alla Scala, il palcoscenico nel palcoscenico in cui vedeva rappresentata non solo tutta la buona società locale, ma la messa in scena quotidiana della vita della città, dei suoi amori e dei suoi affari. La storia dell’industriale Ziliani che si innamora della bella dama Gina, fedifraga patentata, è da leggere; un romanzo in nuce, se mai avrete tempo di scorrere quelle note, ma il motivo per cui ne scriviamo oggi è che questo breve aforisma inaugura, come un viatico, anche la mostra Nei palchi della Scala. Storie milanesi aperta l’8 novembre 2019 nel Ridotto della Scala curata da Pier Luigi Pizzi con l’intima grandeur che gli è propria (e non sembri un ossimoro, perché non lo è).

PREVISTO ANCHE UN DATABASE ONLINE

L’esposizione si inserisce in un lungo progetto di ricerca che ha unito il Teatro al Conservatorio G.Verdi e alla Biblioteca Braidense nella realizzazione di uno studio sui palchi e i palchettisti dal 1778, anno di apertura della sala che sostituiva il Regio bruciato poche stagioni prima fino al 1920, ultimo anno in cui quelle salette affacciate sul palcoscenico conservarono la proprietà privata (l’affitto non era uso, l’esproprio si rese necessario per dare nuovo ossigeno finanziario). Disponibili a chiunque sia interessato in un database online a partire dal 7 dicembre, i risultati della ricerca sono già ora visibili all’interno della mostra, ed è straordinario vedere come tutti, ma proprio tutti, cerchino nomi noti, documenti. E in un certo senso è come se stessimo insieme con i Trivulzio, i Litta, i Belgiojoso (straordinario il numero delle donne proprietarie di palchi: 308 su 1223 nomi finora censiti) i Visconti, le cui narrazioni personali si intrecciano con quelle dei patrioti italiani. E attenzione al palco numero 5, I ordine settore destro, più vicino al proscenio, detto appunto “il palco dei patrioti”: di proprietà di Vitaliano Bigli, uno dei tre cavalieri delegati a trattare a nome della Società dei Palchettisti con l’arciduca Ferdinando, il conte Firmian e il regio architetto Giuseppe Piermarini per la costruzione della Scala e della Cannobbiana, venne occupato dal pronipote Federico Confalonieri, patriota del partito degli “Italici puri” coinvolto nei moti del 1820-21 e fondatore del “Conciliatore” con Giovanni Berchet, Silvio Pellico e Luigi Porro Lambertenghi). 

OMAGGI A CURIEL, MONTALE, FRACCI E TOSCANINI

Una mostra costruita per suggestioni che al primo piano si apre con la doppia rappresentazione fotografica dello spettacolare (è proprio il caso di dirlo) abito da sera dedicato qualche stagione fa da Raffaella Curiel alla Prima del 7 dicembre di cui la sua famiglia veste buona parte delle ospiti dagli Anni ’50. L’esposizione avvolge poi il visitatore con le molte “quinte fotografiche” bellissime di Giovanni Hanninen, vere catapulte visive ad effetto tridimensionale nell’atmosfera del teatro, spettacolo della vita prima della sua rappresentazione. Lo scopo è proprio questo: avvolgere. Proteggere. Rafforzare il senso di sicurezza e di orgoglio di chi ne varca le porte di ispirazione neoclassica con le pigne beneauguranti sui maniglioni: «Un forte legame di identificazione culturale e civile», come lo definisce il sindaco Giuseppe Sala. In un montaggio fotografico ideale e fantastico dei quattro ordini, curatori e fotografo hanno inserito i volti di Eugenio Montale, grande baritono mancato (Indro Montanelli ha lasciato traccia della prima esibizione a cui assistette, nella redazione del Corriere della Sera), di Carla Fracci e Valentina Cortese, Wally e Arturo Toscanini, Anna Crespi, Vittoria Crespi Morbio e Nandi Ostali, il Quartetto Cetra del “vecchio palco della Scala”. E c’è anche Liliana Segre, tesoro protetto dalla città e forse non abbastanza dal Paese. Nella mattina di pioggia in cui la direttrice del Museo Teatrale alla Scala, Donatella Brunazzi, ha evocato Stendhal con il senso di protezione e di ristoro, di oasi, che il teatro milanese offre ai suoi visitatori, era seduta in prima fila e le era appena stato assegnata la scorta per proteggerla, lei sopravvissuta ad Auschwitz, dagli insulti e dalle minacce di morte della feccia che, sarà pure minoritaria come dice qualcuno ma in questa Italia, in questo momento, ha trovato l’humus per crescere e l’atmosfera per spandere il proprio olezzo di marciume. La senatrice era serena e garbata come sempre. Ma noi ci siamo sentiti immensamente grati di trovarci lì, in quella mattina di pioggia, asciutti e al sicuro, in mezzo alla compagnia dove tornava sempre anche Stendhal, in attesa che Napoleone, il suo generale che non gli piaceva più da tempo, scomparisse per sempre.

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Una mostra celebra i palchi della Scala di Milano

Al museo del Teatro un'esposizione racconta le storie dei proprietari di quei piccoli salotti che hanno accolto anche la regina Elisabetta e Lady D.

«Piove, nevica fuori dalla Scala? Che importa/Tutta la buona compagnia è riunita in centottanta palchi del teatro», scrive Henri Beyle, Stendhal, in quel 1816 del suo viaggio più glorioso e felice in Italia, ricco di soste e ritorni nella città che preferiva a Parigi, e cioè Milano. Ogni sera, correva al Teatro alla Scala, il palcoscenico nel palcoscenico in cui vedeva rappresentata non solo tutta la buona società locale, ma la messa in scena quotidiana della vita della città, dei suoi amori e dei suoi affari. La storia dell’industriale Ziliani che si innamora della bella dama Gina, fedifraga patentata, è da leggere; un romanzo in nuce, se mai avrete tempo di scorrere quelle note, ma il motivo per cui ne scriviamo oggi è che questo breve aforisma inaugura, come un viatico, anche la mostra Nei palchi della Scala. Storie milanesi aperta l’8 novembre 2019 nel Ridotto della Scala curata da Pier Luigi Pizzi con l’intima grandeur che gli è propria (e non sembri un ossimoro, perché non lo è).

PREVISTO ANCHE UN DATABASE ONLINE

L’esposizione si inserisce in un lungo progetto di ricerca che ha unito il Teatro al Conservatorio G.Verdi e alla Biblioteca Braidense nella realizzazione di uno studio sui palchi e i palchettisti dal 1778, anno di apertura della sala che sostituiva il Regio bruciato poche stagioni prima fino al 1920, ultimo anno in cui quelle salette affacciate sul palcoscenico conservarono la proprietà privata (l’affitto non era uso, l’esproprio si rese necessario per dare nuovo ossigeno finanziario). Disponibili a chiunque sia interessato in un database online a partire dal 7 dicembre, i risultati della ricerca sono già ora visibili all’interno della mostra, ed è straordinario vedere come tutti, ma proprio tutti, cerchino nomi noti, documenti. E in un certo senso è come se stessimo insieme con i Trivulzio, i Litta, i Belgiojoso (straordinario il numero delle donne proprietarie di palchi: 308 su 1223 nomi finora censiti) i Visconti, le cui narrazioni personali si intrecciano con quelle dei patrioti italiani. E attenzione al palco numero 5, I ordine settore destro, più vicino al proscenio, detto appunto “il palco dei patrioti”: di proprietà di Vitaliano Bigli, uno dei tre cavalieri delegati a trattare a nome della Società dei Palchettisti con l’arciduca Ferdinando, il conte Firmian e il regio architetto Giuseppe Piermarini per la costruzione della Scala e della Cannobbiana, venne occupato dal pronipote Federico Confalonieri, patriota del partito degli “Italici puri” coinvolto nei moti del 1820-21 e fondatore del “Conciliatore” con Giovanni Berchet, Silvio Pellico e Luigi Porro Lambertenghi). 

OMAGGI A CURIEL, MONTALE, FRACCI E TOSCANINI

Una mostra costruita per suggestioni che al primo piano si apre con la doppia rappresentazione fotografica dello spettacolare (è proprio il caso di dirlo) abito da sera dedicato qualche stagione fa da Raffaella Curiel alla Prima del 7 dicembre di cui la sua famiglia veste buona parte delle ospiti dagli Anni ’50. L’esposizione avvolge poi il visitatore con le molte “quinte fotografiche” bellissime di Giovanni Hanninen, vere catapulte visive ad effetto tridimensionale nell’atmosfera del teatro, spettacolo della vita prima della sua rappresentazione. Lo scopo è proprio questo: avvolgere. Proteggere. Rafforzare il senso di sicurezza e di orgoglio di chi ne varca le porte di ispirazione neoclassica con le pigne beneauguranti sui maniglioni: «Un forte legame di identificazione culturale e civile», come lo definisce il sindaco Giuseppe Sala. In un montaggio fotografico ideale e fantastico dei quattro ordini, curatori e fotografo hanno inserito i volti di Eugenio Montale, grande baritono mancato (Indro Montanelli ha lasciato traccia della prima esibizione a cui assistette, nella redazione del Corriere della Sera), di Carla Fracci e Valentina Cortese, Wally e Arturo Toscanini, Anna Crespi, Vittoria Crespi Morbio e Nandi Ostali, il Quartetto Cetra del “vecchio palco della Scala”. E c’è anche Liliana Segre, tesoro protetto dalla città e forse non abbastanza dal Paese. Nella mattina di pioggia in cui la direttrice del Museo Teatrale alla Scala, Donatella Brunazzi, ha evocato Stendhal con il senso di protezione e di ristoro, di oasi, che il teatro milanese offre ai suoi visitatori, era seduta in prima fila e le era appena stato assegnata la scorta per proteggerla, lei sopravvissuta ad Auschwitz, dagli insulti e dalle minacce di morte della feccia che, sarà pure minoritaria come dice qualcuno ma in questa Italia, in questo momento, ha trovato l’humus per crescere e l’atmosfera per spandere il proprio olezzo di marciume. La senatrice era serena e garbata come sempre. Ma noi ci siamo sentiti immensamente grati di trovarci lì, in quella mattina di pioggia, asciutti e al sicuro, in mezzo alla compagnia dove tornava sempre anche Stendhal, in attesa che Napoleone, il suo generale che non gli piaceva più da tempo, scomparisse per sempre.

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Perché il bacio tra Breznev e Honecker ha segnato per sempre il Muro di Berlino

Il leader socialista sovietico e quello tedesco furono immortalati il 5 ottobre del 1979 durante le celebrazioni del trentennale della Ddr. Una foto diventata prima murale nel 1990 e poi icona del Novecento. La storia.

Era il 5 ottobre del 1979 e si celebravano i 30 anni dalla nascita della Repubblica democratica tedesca. Leonid Breznev, segretario del Partito comunista sovietico, aveva appena concluso il suo discorso pubblico. Ed Erich Honecker, segretario del Partito socialista della Germania, gli si avvicinò a braccia spalancate per congratularsi con lui. Si trovarono uno di fronte all’altro. E non si opposero allo scambio di quel “bacio fraterno socialista“. Una particolare forma di saluto in voga tra i leader dei Paesi marxisti-leninisti, che serviva a dimostrare il feeling esistente tra i capi politici fedeli all’area Est, in un mondo tenuto sotto scacco dalla Guerra fredda.

FOTO STORICA DIVENTATA MURALE NEL 1990

Quando quelle due bocche maschili si appoggiarono piano l’una sull’altra, la folla di presenti se ne stava tutta intorno, a festeggiare e a testimoniare quel rito figlio della tradizione di sinistra. Tra chi osservava c’erano decine di fotografi. Ma, tra tutti, soltanto il francese Regis Bossu riuscì a immortalare lo schiocco di labbra diventato un’icona del Novecento. Quello scatto ha fatto il giro del mondo. E la sua fortuna non è finita lì. Ha raccolto nuova linfa vitale trasformandosi in un murale nel 1990, grazie al talento creativo dell’artista russo Dmitri Vrubel. Il titolo è My God, Help Me to Survive This Deadly Love (Dio, aiutami a sopravvivere a questo amore letale). Ancora oggi è il più fotografato dai turisti su quel che resta oggi del Muro di Berlino.

UN RITO MOLTO… COMUNISTA

Il bacio fraterno socialista è un rituale che consiste in un abbraccio e in una serie di tre baci reciproci sulle guance o, più raramente, sulla bocca. La tradizione, che proviene dalla Chiesa ortodossa, è stato adottata dai leader politici comunisti. Per questo motivo, quando Honecker andò ad abbracciare Breznev e poi si passò alla bocca, non ci fu nulla di così eclatante. Ma ciò che porta alla fama qualcosa e qualcuno, spesso, ha una logica insondabile.

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Il muro di Berlino in 10 film

Il 9 novembre del 1989 la Germania tornava a essere un Paese unito. Per celebrare la riunificazione, ecco le pellicole che raccontano i drammi e i controsensi di un blocco di cemento che ha segnato la storia.

Il 9 novembre di 30 anni fa la Germania tornava a essere un Paese unito. Spariva l’ufficiale suddivisione tra Est e Ovest, almeno sulla carta e nelle intenzioni. Ma quella spartizione territoriale che per circa 28 anni aveva scavato un solco tra due mondi irriducibili si è affievolita solo molti anni dopo, e forse mai del tutto. È infatti sopravvissuta nei ricordi di chi ne subì le conseguenze più dure. E nelle quotidianità stravolte dei tedeschi che, da un giorno all’altro, si sentirono stranieri in un Paese che era sempre stato il loro. Ma il faccia a faccia tra Repubblica democratica e Repubblica federale si è impresso anche nelle pellicole degli artisti e dei registi, che tradussero in linguaggio cinematografico la realtà di una nazione divisa a metà dalla logica bipolare.

GOODBYE LENIN

È il 1989 quando Christiane, una fervente comunista che vive nella Germania dell’Est va in coma, dopo aver visto il figlio Alex picchiato e arrestato dalla polizia durante una delle sempre più frequenti manifestazioni di piazza. Mancano ormai pochi giorni alla caduta del muro di Berlino. La donna esce dal coma soltanto otto mesi dopo, quando il mondo attorno è ormai cambiato. I suoi figli, però, fanno di tutto per difendere i suoi nervi deboli. Come? Nascondendole la caduta del muro e convincendola che la realtà è rimasta identica a come lei l’aveva lasciata. La pellicola ha vinto numerosi riconoscimenti, tra cui il premio César nel 2004 come miglior film dell’Unione europea e, nello stesso anno, il premio Goya come miglior film europeo. Anno di uscita: 2003. Regia di Wolfgang Becker. Principali interpreti: Daniel Brühl e Katrin Sass.

Un frame del film Goodbye Lenin
Un frame del film Goodbye Lenin

IL CIELO SOPRA BERLINO

Negli Anni Ottanta due angeli vagano per Berlino. Si mettono in ascolto dei pensieri dei passanti. In particolare, si interessano ai pensieri formulati da una donna incinta, da un pittore, da un uomo che pensa alla sua ex fidanzata. Il loro compito è preservare per sempre la realtà, memorizzare in che modo Berlino cambia e attraversa il costante flusso della storia. Presentato nel 1987 al 40esimo Festival di Cannes, ha vinto il premio per la migliore regia. Anno di uscita: 1987. Regia di Wim Wenders. Interpreti principali: Bruno Ganz e Otto Sander.

LE VITE DEGLI ALTRI

Nel 1984 il capitano della Stasi Gerd Wiesler ha il compito di spiare Georg Dreyman, scrittore teatrale e intellettuale ritenuto un pericoloso dissidente e un potenziale traditore del governo comunista. In molti spingono Wiesler, che svolge ogni suo compito in modo impeccabile, a trovare delle prove per accusare Dreyman. L’operazione di spionaggio ha un risvolto sentimentale. È fortemente sostenuta dal ministro della cultura Bruno Hempf, che vuole Dreymann fuori dai piedi per avere la sua compagna, l’attrice Christa-Maria Sieland. La spia Wiesler entra così nella vita dello scrittore e della sua compagna. Ma il suicidio di un amico della coppia gli restituisce un’immagine nuova della Germania Est e del suo stesso ruolo. Nel 2007 la pellicola ha vinto l’Oscar come miglior film straniero. Anno di uscita: 2006. Regia di Florian Henckel von Donnersmarck. Interpreti principali: Ulrich Mühe, Martina Gedeck, Sebastian Koch e Ulrich Tukur.

SONNENALLEE

Micha e Mario sono due cari amici e vivono nella Sonnenallee, la strada del sole. Sono due giovani in attesa del diploma, che si chiedono se intraprendere la carriera universitaria o meno. La loro quotidianità è fatta dei primi amori adolescenziali, di ore passate ad ascoltare i Rolling Stones (vietati dal regime) e di lotte contro gli abusi della Ddr. Anno di uscita: 1999. Regia di Leander Haussmann. Interpreti principali: Alexander Scheer e Alexander Beyer.

Un frame del film Sonnenallee

FUNERALE A BERLINO

Harry Palmer è un agente del servizio segreto inglese che ha il compito di far attraversare il muro di Berlino a Stock, un colonnello dell’Urss che vuole abbandonare la causa comunista e passare a Ovest. Dietro il consiglio dell’esperto di fughe Kreuzmann, Palmer decide di far nascondere il colonnello nella bara di un criminale nazista, sostituendo Stock con la salma. Ma a confine attraversato, si scopre che dentro la bara giace il corpo senza vita di Kreuzmann. E a Palmer resta il compito di scoprire chi sia stato il traditore. Anno di uscita: 1966. Regia di Guy Hamilton. Interpreti principali: Michael Caine, Paul Hubschmid, Oskar Homolka ed Eva Renzi.

Una scena del film “Funerale a Berlino”

IL TUNNEL

Già finito nei guai per le sue attività eversive nella Germania dell’Est, il nuotatore professionista Harry Melchior riesce finalmente a fuggire nella repubblica federale tedesca. Ma, una volta in salvo, decide di costruire un tunnel sotterraneo per permettere anche alla sua famiglia di passare alla zona Ovest. Il progetto però incontra diverse difficoltà, tra cui il tradimento dei suoi stessi amici. Anno di uscita: 1987. Regia di Antonio Drove. Interpreti principali: Jane Seymour, Peter Weller, Manuel de Blas e Fernando Rey.

Una scena del film “Il Tunnel” di una fuga finita male

IL SILENZIO DOPO LO SPARO

La ribelle Rita è una donna che, dopo un passato da terrorista nella Raf, gruppo di estrema sinistra, fugge nella Repubblica democratica tedesca. Qui incontra Tatjana, l’amica cara che invece sogna una vita nella zona Ovest. Con la caduta del muro, i nodi vengono però al pettine: Rita deve fare i conti con la legge e con il suo passato e tutta la sua vita ne sarà stravolta. Anno di uscita: 2000. Regia di Volker Schlöndorff. Interpreti principali: Bibiana Beglau, Nadja Uhl e Martin Wuttke.

IL SIPARIO STRAPPATO

Un rinomato fisico statunitense sceglie di mettersi a collaborare con gli scienziati sovietici, dimostrando di voler sposare la causa comunista. I colleghi e la stessa fidanzata restano attoniti quando l’uomo si stabilisce nella Germania Est per continuare le sue ricerche scientifiche. C’è però chi sospetta, e forse a ragione, che la sua nuova scelta di campo non sia poi così cristallina come lo studioso vuole far credere. Anno di uscita: 1966. Regia di Alfred Hitchcock. Interpreti principali: Paul Newman, Julie Andrews e Lila Kedrova.

LA SPIA CHE VENNE DAL FREDDO

Tratto dall’omonimo romanzo di John Le Carrè, la pellicola vede protagonista una spia inglese. Il suo compito è eliminare il capo dello spionaggio tedesco orientale. Per entrare nel giro si lega a una ragazza iscritta al Partito comunista britannico. Il suo sistema di valori, però, crolla quando la ragazza muore e lui comprende di essere solo una pedina in un gioco molto più grande di lui. Nel 1967 la pellicola ha vinto ai Bafta come miglior film britannico, miglior attore britannico a Richard Burton, migliore fotografia e migliore scenografia. Anno di uscita: 1965. Regia di Martin Ritt. Interprete principale: Richard Burton.

Il protagonista de “La spia che venne dal freddo”

UNO, DUE, TRE

Il protagonista di questa commedia è un direttore della filiale della Coca Cola a Berlino Ovest, col sogno di esportare la celebre bibita scura e gasata anche nei Paesi che ruotano attorno all’orbita sovietica. Ma le sue ambizioni sono messe in secondo piano da un altro e più urgente problema: il matrimonio della figlia del suo capo con un comunista nella Berlino Est. Il film ha ricevuto una nomination ai Premi Oscar 1962 (miglior fotografia) e due nomination ai Golden Globe 1962. Anno di uscita: 1961. Regia di Billy Wilder. Interprete principale: James Cagney.

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Il muro di Berlino in dieci canzoni

Il simbolo per eccellenza della Germania divisa ha ispirato artisti da tutto il mondo. Per celebrare i 30 anni dalla riunificazione tedesca avvenuta il 9 novembre del 1989, ecco le colonne sonore che raccontano il crollo del blocco di cemento.

Ce ne sono alcune che parlano di libertà, di amore, di voglia di resistere contro tutti e tutto. Altre che sono un inno al cambiamento e al bisogno di ribellarsi per non soccombere. In occasione della caduta del muro di Berlino, avvenuta il 9 novembre del 1989, ecco dieci canzoni per ricordare un evento che ha segnato la storia. E ha influenzato il modo in cui oggi leggiamo il nostro stesso mondo.

SCORPIONS – WIND OF CHANGE

Il “vento del cambiamento” ha ispirato una delle più celebri canzoni degli Scorpions. Il leader della band tedesca, Klaus Meine, ha composto Wind of change nel settembre 1989, per narrare dei cambiamenti politici che stavano sconvolgendo l’ordine bipolare. Era proprio in quei mesi che Berlino si preparava alla «magia del momento in una notte gloriosa».

NEIL YOUNG – AFTER BERLIN

«Won’t you help me make my way on home, after Berlin?». Non vorrai aiutarmi a costruire la via di casa, dopo Berlino? Questa è la domanda che si pone Neil Young in After Berlin, la canzone scritta nel 1982. Quando mancavano ancora sette anni alla caduta del Muro che spezzava la Germania, la star canadese mise in note una Berlino in cui «o ti rinchiudono fuori o ti rinchiudono dentro».

LUCIO DALLA – FUTURA

Scritta da Lucio Dalla nel 1979, Futura racconta di un uomo e di una donna qualunque, il cui amore è ostacolato dal muro di Berlino. Il cantautore bolognese ha steso il testo proprio mentre si trovava nella città divisa, traendo ispirazione dalla vista dell’imponente costruzione di cemento, che sarebbe stata abbattuta solo dieci anni dopo.

ARCADE FIRE – SURF CITY EASTERN BLOC

I blocchi stradali e la paura di essere arrestato sono al centro di Surf City Eastern Bloc, la canzone del 2009 degli Arcade Fire che vede protagonista un ragazzo in fuga da Berlino Est e diretto a Berlino Ovest. Il regime e le minacce nulla possono contro la voglia di libertà che anima un giovane uomo.

DAVID HASSELHOFF – LOOKING FOR FREEDOM

È rimasta in cima alle classifiche tedesche per otto settimane, quell’estate del 1989. Looking for freedom, la hit di David Hasselhoff, (il beniamino di Baywatch e Supercar), ha conquistato il pubblico della Germania poco prima che il Muro fosse abbattuto. Merito del suo testo dedicato alla «ricerca della libertà, una ricerca che ancora va avanti, da quando ho lasciato la mia città natale».

YANN TIERSEN – GOODBYE, LENIN (SUMMER 78)

Goodbye, Lenin (Summer 78) di Yann Tiersen è il sottofondo che accompagna le immagini dell’omonimo film uscito nel 2003. Ma la scia strumentale partorita dal genio creativo del compositore francese ha finito per diventare essa stessa una delle colonne sonore che, più naturalmente, vengono collegate al muro di Berlino.

EDOARDO BENNATO – FRANZ È IL MIO NOME

Franz è il mio nome di Edoardo Bennato, datata 1976, racconta di un uomo che «vende la libertà, a chi vuol passare dall’altra parte della città». «West Berlino» diventa, nella voce del cantautore napoletano, un luogo aperto ai desideri, e ai sogni «proibiti fino a ieri». Una distinzione che con la caduta del Muro diventerà sempre più sfumata.

DAVID BOWIE – HEROES

Heroes è tra le canzoni più belle di sempre e David Bowie la compose nel 1977, proprio a Berlino, un luogo che aveva significato per lui rinascita artistica e personale. Quando un giorno fu preso dall’ispirazione e i suoi occhi si posarono su una coppia concentrata nel proprio amore, i versi che fecero la storia della musica gli uscirono di getto: «Stavamo vicino al Muro, e i fucili spararono sopra le nostre teste. E noi ci baciammo, come se niente potesse cadere, e la vergogna stava dall’altra parte. Oh, noi possiamo batterli, sempre e per sempre».

PINK FLOYD – A GREAT DAY FOR FREEDOM

«Nel giorno in cui cadde il muro, gettarono a terra i lucchetti. E coi bicchieri alzati ci fu un urlo poiché la libertà era arrivata». Con queste parole inizia la canzone dei Pink Floyd del 1994, dedicata al crollo del muro di Berlino. Il testo, scritto cinque anni dopo la caduta, sottolinea in realtà la delusione seguita alle tante speranze disattese dopo lo storico evento.

SEX PISTOLS – HOLIDAYS IN THE SUN

Composta dai Sex Pistols nel 1977, Holidays in the sun vide la genesi grazie a una vacanza sull’isola di Jersey finita male. Sbattuta fuori da lì, infatti, la band britannica ripiegò su Berlino. Una città dove i musicisti riuscirono a trovare riparo dalla difficile quotidianità di Londra, come ha ricordato il leader John Lydon, alias Johnny Rotten: «Essere a Londra in quel periodo ci faceva sentire come prigionieri in un campo di concentramento. La cosa migliore che potevamo fare era quella di cambiare campo di prigionia. Berlino e la sua decadenza furono una buona idea. La canzone nacque così. Amo Berlino. Amavo il muro e la pazzia del posto. I comunisti guardavano all’atmosfera da circo di Berlino ovest, che non dormiva mai, e quella sarebbe rimasta la loro immagine dell’occidente».

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