Il 21 novembre 2013 a Kyiv scoppiava la protesta di Maidan: cosa è rimasto di quelle rivolte di piazza
Chissà cosa sarebbe successo se l’Unione Europea non avesse posto a Viktor Yanukovich l’ultimatum di liberare Yulia Tymoshenko per poter firmare l’Accordo di associazione (Aa)? Correva l’autunno del 2013, la parte economica dell’Aa tra Bruxelles e Kyiv era stata parafata un anno prima, ma il caso dell’eroina della rivoluzione arancione del 2004 finita in carcere per abuso d’ufficio aveva sbarrato l’intesa politica, con l’Ue impuntata sullo stato di diritto. Tutti in Ucraina sapevano che Yanukovich non avrebbe graziato la storica rivale, mentre la Russia stava aumentando la pressione sul presidente, e tutti già intuivano che il vertice di Vilnius, con la storica firma, sarebbe sfociato in un disastro. Le proteste europeiste di Maidan, cominciate il 21 novembre, non furono quindi certo una sorpresa.
L’Ucraina si ritrovò politicamente e geograficamente spaccata in due
L’Ucraina era politicamente e geograficamente spaccata: da un parte un presidente e un governo, eletti in maniera democratica nel 2010, rappresentanti in larga parte delle regioni dell’Est e del Sud, dei clan oligarchici del Donbass più vicini alla Russia; dall’altra l’opposizione variegata, fatta dai soliti equilibristi del potere, cioè gli oligarchi che negli anni precedenti erano già saltati da una fazione all’altra e dalle élite politiche ed economiche sostenute da Stati Uniti ed Europa. E proprio per questo le manifestazioni di fine novembre, che avevano portato in Piazza dell’indipendenza a Kyiv decine di migliaia di persone e coinvolto i centri delle regioni occidentali lasciando indifferente mezzo Paese, dall’Est al Sud passando naturalmente dalla Crimea, divennero non solo una questione di politica estera, ma si trasformarono, prevedibilmente, in una rivoluzione interna.
Le proteste spontanee europeiste divennero azioni coordinate e antirusse
Le proteste genuine e spontanee europeiste divennero ben presto coordinate e antirusse, con l’obiettivo di defenestrare Yanukovich, a ogni costo. Maidan diventò il ritrovo per tutto lo spettro dell’opposizione, da quello politico moderato a quello estremista e pronto alle armi, passando per i tifosi interessati inviati dalle cancellerie occidentali. A dicembre 2013 erano già arrivati ad arringare la gigantesca folla, oltre ai tre leader dell’opposizione – il filo Nato Arseni Yatseniuk, il filo tedesco Vitaly Klitschko e l’estremista di destra Oleg Tiahnibok – anche l’oligarca Petro Poroshenko, vari ministri degli Esteri dell’Ue, il senatore statunitense John MacCain e il falco di Obama, Victoria Nuland. Facevano da contorno i vari gruppi paramilitari neonazisti guidati da Pravy Sektor, Trizyb, C14 e affini. Dopo la stasi natalizia, l’escalation cominciò nel gennaio del 2014 e terminò nel bagno di sangue di febbraio, con Yanukovich costretto a fuggire dopo che il compromesso siglato tra lui e l’opposizione della troika, ratificato per di più dai tre ministri degli Esteri di Polonia, Germania e Francia, era stato dichiarato nullo dall’ala estremista guidata proprio da Pravy Sektor. Il resto si può riassumere con i nomi noti, quello di Yatseniuk, che Nuland aveva definito «il nostro uomo» nella famosa intercettazione del «fuck Europe» a fare il primo ministro del nuovo governo filoccidentale; quello di Poroshenko andato a prendere un paio di mesi più tardi il posto di Yanukovich, e quello di Tymoshenko, uscita dalle patrie galere, ma ormai ininfluente. Poi arrivarono l’annessione della Crimea, la guerra nel Donbass e tutto il resto.
Ora è Zelensky a temere una Maidan 3
Dopo 10 anni è Volodymyr Zelensky a temere una “Maidan 3”, un piano di disinformazione orchestrato però da Mosca per destituirlo. «La nostra intelligence ha raccolto informazioni su questo piano», ha spiegato recentemente alla stampa il presidente ucraino, «e ne arrivano anche dai partner. È un’operazione comprensibile, per loro Maidan fu un colpo di Stato». Resta il fatto che le proteste di Maidan del 2013 hanno due facce: quella della spontaneità europeista e della voglia di parte della società ucraina di cambiare sistema e scollarsi dalla Russia, e quella dello script statunitense ed europeo, adottato per cambiare regime. Si tratta di due dimensioni coesistenti: non solo una o l’altra, come viene ripetuto da 10 anni dalla Russia e dall’Occidente per avvalorare la propria narrazione e giustificare ciò che è arrivato dopo. Non stupisce che dal Cremlino, dove Vladimir Putin ha instaurato nel frattempo un sistema altamente autoritario, la propaganda faccia il suo lavoro; d’altro canto che le democrazie occidentali adottino la stessa visione manichea è sintomo della stessa malattia. E a ben vedere nemmeno cosa nuova.