Riforma della prescrizione dal 1 gennaio, rinviata la legge sulle intercettazioni

Il ministro Bonafede ha annunciato i risultati del vertice di maggioranza sulla giustizia. Tra le novità gli audio irrilevanti per un'inchiesta non saranno più messi per iscritto.

La legge sulla prescrizione entrerà in vigore il 1 gennaio. L’annuncio è del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. «Dal 7 ci metteremo al lavoro per ridurre i tempi dei processi», ha spiegato al termine del vertice di governos sulla giustizia, aggiungendo che sul tema le posizione nella maggioranza «sono diverse».

GLI AUDIO IRRILEVANTI NON SARANNO MESSI PER ISCRITTO

La legge Orlando sulle intercettazioni sarà modificata in due punti: «il pubblico ministero (e non più la polizia giudiziaria, ndr) torna ad avere la supervisione nella scelta tra intercettazioni rilevanti e non rilevanti; per il difensore ci sarà la possibilità di richiedere una copia solo delle intercettazioni rilevanti. Quelle irrilevanti le potrà ascoltare e se c’è divergenza sulla rilevanza o meno di queste si andrà dal pm», ha dichiarato il guardasigilli.

RINVIATA LA NORMA SULLE INTERCETTAZIONI

Inoltre, ha spiegato Bonafede, nel milleproroghe verrà inserito invece il rinvio dell’entrata in vigore al 2 marzo 2020: «C’è stato un accordo di massimo per rinviare l’entrata in vigore della legge sulle intercettazioni al 2 marzo e per una norma che modifichi il provvedimento. Domani tutte le forze avranno modo di vedere la norma nero su bianco che potrebbe entrare, come decreto, nel Cdm di sabato».

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La Popolare di Bari e quelle azioni vendute senza contratto

La storia di un socio che dal 2009 al 2013 ha investito tutti i suoi risparmi in titoli dell'istituto. Un'operazione da 105 mila euro. Per cui è stato risarcito cinque mesi prima del commissariamento della banca.

Obbligazioni ed azioni vendute senza nemmeno che esistesse un contratto. È uno dei casi, ma non il solo, per cui l’arbitro per le controversie finanziarie ha dato ragione a uno dei soci della Banca Popolare di Bari in uno dei tanti ricorsi – sono 200 i fascicoli nelle mani solo di Confconsumatori Puglia, e 26 mila su 70 mila il numero dei soci il cui profilo di rischio presenta delle irregolarità – presentati contro l’istituto di credito gestito per 40 anni da Marco Jacobini e appena commissariato. La decisione del collegio, di cui Lettera43.it ha preso visione, è stata adottata il 16 luglio di quest’anno, e cioè cinque mesi prima del commissariamento dalla banca, e mostra bene le pratiche sanzionate dalla Consob con le multe comminate a tutti i vertici dell’istituto nell’ottobre del 2018.

UNA BANCA «SANA» AL LIVELLO DI LEHMAN BROTHERS

Il signor V. N. L. che si è rivolto ai giudici è un socio di lungo corso, di quelli che per 10 anni hanno riposto fiducia in quello che si presentava come il «primo istituto del Mezzogiorno», o una «banca sana», come ostentava l’attuale ministro per le Politiche regionali Francesco Boccia in una intervista del 2017 ancora presente sul suo sito. E che invece già un anno fa, nel 2018, aveva un rapporto tra i crediti deteriorati e gli attivi pari a quelli della Lehman Brothers del 2008, come ha commentato in questi giorni in cui tutto è stato portato agli onori delle cronache il professore Francesco Daveri dell’Università Bocconi. Dunque, mentre un ministro difendeva di fronte alla stampa la solidità di un istituto incapace di risollevarsi dalle perdite, un socio si fidava di chi gli aveva offerto un investimento.

TUTTO IL CAPITALE INVESTITO IN TITOLI ILLIQUIDI

Peccato che l’investimento offerto al signor V. N. L. fosse tutto nell’interesse della banca. A partire dal fatto che lui, con una consorte invalida civile al 100%, non avesse «una situazione finanziaria idonea a sostenere l’acquisto» degli strumenti finanziari offerti dall’istituto, e cioè azioni e obbligazioni convertibili per un valore di circa 105 mila euro. E che gli acquisti compiuti tra 2009 e 2013 fossero stati giustificati dalla banca con un questionario del 2016 che mostrava un profilo di rischio basato sugli acquisti precedenti e che l’arbitro ha rigettato perché appunto posteriore alle compravendite, prendendo in considerazione i questionari degli anni precedenti. Per di più, le operazioni iniziate nel 2009 non poggiavano nemmeno su un contratto, erano state raccomandate dalla banca, comportamento vietato perché in conflitto di interessi. E soprattutto rappresentavano il solo investimento del cliente.

In sostanza, la banca aveva suggerito la concentrazione di tutto il capitale da investire nei suoi titoli, un comportamento che di per sé suggerisce che l’operazione sia stata raccomandata

In sostanza, la banca aveva suggerito la concentrazione di tutto il capitale da investire nei suoi titoli, un comportamento che di per sé suggerisce che l’operazione sia stata raccomandata. Alla fine V. N. L ha visto accolto il suo ricorso e riconosciuto il risarcimento danni, ma quanti altri come lui sono stati truffati lo si scoprirà solo quando la magistratura farà luce sul buco nero di Popolare di Bari.

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La bulimia di like può inghiottire i creativi

Travolti dalla fretta e dalla fame di seguito, rischiano di diventare vittime di Instagram. Perdendo innovazione ed estro. Qualche consiglio da tenere a mente.

Che i social media abbiano rivoluzionato e complicato la nostra vita è, oramai, cosa nota. Come abbiamo raccontato insieme ad altri autori nel mio nuovo libro Comunicazione integrata e reputation management, dal 1997, anno del lancio del primo social media nella storia, Sixdegrees.com, le “reti sociali” hanno fatto molta strada. Attualmente, la classifica mondiale dei social media, secondo quanto redatto dal sito Statista, vede al primo posto Facebook con oltre 2 miliardi di utenti. A seguire, Youtube (1,9 miliardi), WeChat (1,1 miliardi) e Instagram (1 miliardo). Sopra il miliardo di utenti si trovano anche i servizi di messaggistica, oramai indispensabili anche per la comunicazione lavorativa, come WhatsApp (1,5 miliardi) e Facebook Messenger (1,3 miliardi).

OLTRE AL NUMERO DI UTENTI C’È DI PIÙ

Il numero degli utenti è certamente un indicatore cruciale per comprendere il peso dei social network, ma non è l’unico elemento da tenere in considerazione per comprenderne il funzionamento e il ruolo all’interno del mondo virtuale. Infatti, è essenziale tenere a mente che, ad ogni social, corrisponde un preciso pubblico di riferimento. La diversificazione rappresenta la forza di queste piattaforme e ne garantisce la sopravvivenza e la coesistenza.

Instagram non solo ha rivoluzionato il nostro modo di comunicare, ma ha anche sfidato, a colpi di foto, stories e like, modelli consolidati, quali il ruolo delle figure professionali esistenti

In particolare, Instagram non solo ha rivoluzionato il nostro modo di comunicare, ma ha anche sfidato, a colpi di foto, stories e like, modelli consolidati, quali il ruolo delle figure professionali esistenti. Il social ha infatti permesso il consolidamento del ruolo e della figura dell’influencer. Questa è una persona in grado di influenzare le scelte degli altri attraverso la condivisione e la sponsorizzazione di prodotti e idee. Spesso gli influencer sono scelti da agenzie che coordinano le loro attività e dicono loro come e quando postare i contenuti sponsorizzati. Infatti, brand famosi si rivolgono a queste figure del web per chiedere di fare spazio ai loro prodotti nei post su Instagram. L’influencer sta diventando, dunque, un vero e proprio lavoro. Non a caso, come abbiamo avuto modo di analizzare negli articoli precedenti, è stato predisposto un programma universitario dedicato alla preparazione di queste figure in grado di esercitare la propria attività in maniera professionale. Incrementando notevolmente l’ambizione di piacere agli altri, gli influencer devono trovare ogni giorno un modo di raccontare la vita in modo personale, rendendo intorno a sé tutto perfetto e, appunto, “instagrammabile”. Dalla cucina, al design, al marketing, gli influencer hanno cambiato il modo di esercitare alcune professioni, tra cui quelle del designer e del creativo.

LA “VETRINIZZAZIONE” DEI CREATIVI

La pratica della “vetrinizzazione”, che Instagram ha portato ai suoi massimi livelli, può essere sfruttata dai creativi. Infatti, se da un lato l’influencer si rivolge al personal trainer, al chirurgo plastico o all’esperto di Photoshop per migliorare il proprio aspetto e aumentare la propria visibilità, dall’altro il designer può progettare senza avere necessariamente bisogno di creare. Secondo Vanni Codeluppi, sociologo italiano studioso dei fenomeni comunicativi, il cui pensiero è stato riportato in un articolo di Exibart, con l’avvento delle piattaforme relazionali, nelle alte sfere della creatività e della progettazione, si può esibire soprattutto quello che non c’è. Al giorno d’oggi, non è più necessario produrre per esibire e fare profitto: nell’età di Instagram, tecniche avanzate come il rendering permettono di creare un progetto la cui essenza risiede nell’esistenza sul social.

INGHIOTTITI DALLA FAME DI LIKE

In conclusione, la bulimia di like e di esibizionismo degli influencer su Instagram ha colpito anche designer e creativi. Inghiottiti dalla fretta e dalla fame di like e seguito, anche i creativi possono diventare vittime del sistema social. Infatti, se da un lato le piattaforme online hanno permesso ai progettisti di confrontarsi e di collaborare, dall’altro la continua creazione di contenuti ha dato vita alla creazione di progetti non effettivamente applicabili che rischiano di risultare banali, piatti e poco innovativi. È necessario, dunque, fare attenzione. Se gli influencer, veicolati dalle agenzie, possono fare affidamento sulla sponsorizzazione di prodotti e servizi sempre più innovativi, i creativi dovrebbero ricordarsi che la comunicazione su Instagram è fittizia e strizzare meno l’occhio al successo per valorizzare contenuti, fattibilità e innovazione, alla base del loro processo comunicativo.

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Cosa sappiamo sull’attacco alla sede dei servizi segreti a Mosca

Uno o più uomini avrebbero iniziato a sparare nelle immediate vicinanze del palazzo della Lubjanka, quartier generale del Fsb (ex Kgb). Ci sarebbe almeno un morto.

Gli autori dell’assalto alla sede dei servizi di sicurezza interni russi (Fsb) erano tre. Lo conferma l’Fsb stesso, chiarendo che la sparatoria è iniziata nella sala d’ingresso al pubblico del palazzo di Lubyanka. Due assalitori sono stati neutralizzati mentre il terzo è riuscito a fuggire ed è stato ucciso in seguito. Un vigile urbano, in servizio di fronte all’entrata, è rimasto ucciso nel corso della sparatoria. L’Fsb ha classificato l’incidente come un attacco terroristico. Lo riporta l’agenzia Moskva.

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Uno o più uomini avrebbero iniziato a sparare nelle immediate vicinanze del palazzo della Lubjanka, quartier generale del Fsb (ex Kgb). Ci sarebbe almeno un morto.

Gli autori dell’assalto alla sede dei servizi di sicurezza interni russi (Fsb) erano tre. Lo conferma l’Fsb stesso, chiarendo che la sparatoria è iniziata nella sala d’ingresso al pubblico del palazzo di Lubyanka. Due assalitori sono stati neutralizzati mentre il terzo è riuscito a fuggire ed è stato ucciso in seguito. Un vigile urbano, in servizio di fronte all’entrata, è rimasto ucciso nel corso della sparatoria. L’Fsb ha classificato l’incidente come un attacco terroristico. Lo riporta l’agenzia Moskva.

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Come funziona il processo di impeachment al Senato

La messa in stato d'accusa di Trump si configura come un vero e proprio dibattimento con accusa e difesa, prove e testimonianze. Ecco come si svolge, passaggio per passaggio.

Ora che la Camera ha deciso per l’impeachment di Donald Trump la palla passerà al Senato, dove la maggioranza repubblicana – a scanso di sorprese decisamente improbabili – salverà il presidente.

Al di là dell’esito finale, è utile capire come il Senato affronterà quello che si sviluppa come un vero e proprio processo e soprattutto chi tra i repubblicani e i democratici si avvantaggerà maggiormente in vista delle elezioni presidenziali di novembre 2020. Ecco quali sono i passaggi previsti:

1. La Camera nomina un team di giuristi, che rappresenterà l’accusa nel processo, e passa la palla al Senato (la data prevista è il 6 gennaio).

2. Il giudice capo della Corte suprema Usa, John G. Roberts Jr, presta giuramento e diventa ufficialmente il giudice del processo.

3. Il Senato cita in giudizio il presidente, chiedendogli di rispondere alle accuse fissate dagli articoli dell’impeachment votati alla Camera (in questo caso, abuso di potere e ostruzione). Il presidente o il suo avvocato (il legale della Camera, Pat Cipollone) risponde alle accuse. Una mancata risposta viene considerata come dichiarazione di non colpevolezza.

4. Il Senato può decidere di votare subito per far finire il processo, in questo caso basta una maggioranza semplice. Non è detto, tuttavia, che i repubblicani vogliano intraprendere questa strada: un processo lungo potrebbe mettere in difficoltà per primi i democratici, con Trump convinto di poter avvantaggiarsi di uno show al Senato e i sondaggi che rivelano che il 51% degli americani è contro l’impeachment, un incremento del 5% da quando la speaker della Camera Nancy Pelosi ha annunciato l’avvio dell’inchiesta. Se nessun senatore chiede di andare subito al voto il processo procede regolarmente.

5. L’accusa e gli avvocati del presidente espongono i loro punti di vista sul caso.

6. Vengono presentate le prove e sentiti i testimoni di accusa e difesa. Anche i senatori possono fare domande ai testimoni, ma devono prima sottoporle al giudice.

7. I pubblici ministeri della Camera e i difensori del presidente discutono la loro arringa finale.

8. Il Senato vota: per una condanna sono necessari due terzi dei voti per uno o più articoli. Se la maggioranza qualificata vota per la condanna, il presidente Trump viene rimosso dall’incarico.

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Come funziona il processo di impeachment al Senato

La messa in stato d'accusa di Trump si configura come un vero e proprio dibattimento con accusa e difesa, prove e testimonianze. Ecco come si svolge, passaggio per passaggio.

Ora che la Camera ha deciso per l’impeachment di Donald Trump la palla passerà al Senato, dove la maggioranza repubblicana – a scanso di sorprese decisamente improbabili – salverà il presidente.

Al di là dell’esito finale, è utile capire come il Senato affronterà quello che si sviluppa come un vero e proprio processo e soprattutto chi tra i repubblicani e i democratici si avvantaggerà maggiormente in vista delle elezioni presidenziali di novembre 2020. Ecco quali sono i passaggi previsti:

1. La Camera nomina un team di giuristi, che rappresenterà l’accusa nel processo, e passa la palla al Senato (la data prevista è il 6 gennaio).

2. Il giudice capo della Corte suprema Usa, John G. Roberts Jr, presta giuramento e diventa ufficialmente il giudice del processo.

3. Il Senato cita in giudizio il presidente, chiedendogli di rispondere alle accuse fissate dagli articoli dell’impeachment votati alla Camera (in questo caso, abuso di potere e ostruzione). Il presidente o il suo avvocato (il legale della Camera, Pat Cipollone) risponde alle accuse. Una mancata risposta viene considerata come dichiarazione di non colpevolezza.

4. Il Senato può decidere di votare subito per far finire il processo, in questo caso basta una maggioranza semplice. Non è detto, tuttavia, che i repubblicani vogliano intraprendere questa strada: un processo lungo potrebbe mettere in difficoltà per primi i democratici, con Trump convinto di poter avvantaggiarsi di uno show al Senato e i sondaggi che rivelano che il 51% degli americani è contro l’impeachment, un incremento del 5% da quando la speaker della Camera Nancy Pelosi ha annunciato l’avvio dell’inchiesta. Se nessun senatore chiede di andare subito al voto il processo procede regolarmente.

5. L’accusa e gli avvocati del presidente espongono i loro punti di vista sul caso.

6. Vengono presentate le prove e sentiti i testimoni di accusa e difesa. Anche i senatori possono fare domande ai testimoni, ma devono prima sottoporle al giudice.

7. I pubblici ministeri della Camera e i difensori del presidente discutono la loro arringa finale.

8. Il Senato vota: per una condanna sono necessari due terzi dei voti per uno o più articoli. Se la maggioranza qualificata vota per la condanna, il presidente Trump viene rimosso dall’incarico.

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Quel giorno di 20 anni fa in cui Macao tornò in mano alla Cina

Il 20 dicembre 1999 il Portogallo restituiva alla Cina Macao. Agli antipodi della ribelle Hong Kong per identità e rapporti con Pechino. Il ricordo di un momento storico.

A Macao l’orologio della storia si è resettato esattamente 20 anni fa, la notte del 20 dicembre 1999. Due anni dopo Hong Kong, anche quell’ultimo avamposto d’Occidente in Asia, dopo più di quattro secoli di dominio portoghese, tornava «nell’abbraccio della Madrepatria cinese», come dicevano e tuttora dicono pomposamente a Pechino. Secondo gli accordi firmati tra Cina e Portogallo circa 10 anni prima di quella data, nel 1987, questo piccolissimo territorio, prima colonia e poi, ufficialmente, “Territorio cinese sotto amministrazione portoghese”, passava alla Cina seguendo gli stessi criteri della ex colonia britannica, comprese (in teoria) tutte le libertà fondamentali esistenti sotto il Portogallo.

UN RIFUGIO CONTRO LA NOSTALGIA

Nei tanti anni vissuti a Hong Kong il mio rifugio contro la nostalgia si chiamava proprio Macao. Quando l’Occidente cristiano nel quale comunque sono nato mi riafferrava, e la nostalgia mi prendeva alle spalle, saltavo sul primo aliscafo da Central e mi mettevo in viaggio per quella che allora era ancora una enclave portoghese in Cina. Per un giorno, o anche solo un pomeriggio, staccavo da tutto e da tutti e mi sottoponevo alla mia personale terapia contro la nostalgia. Mi sorprendevo a girare per le vie del centro, a sfiorare con le mani le antiche pietre degli edifici coloniali, a intenerirmi leggendo le targhe con i nomi delle strade in portoghese (e sotto in cinese, ovviamente, ma era meglio di niente). Uno dei miei angoli preferiti era il vecchio cimitero degli stranieri, con le sue tombe consumate dal tempo, sprofondate nel terreno, con sopra incise le storie di mercanti portoghesi, marinai olandesi e capitani inglesi morti per il colera o la febbre gialla, all’epoca dei bastimenti a vela o a vapore. La nostalgia si poteva toccare con mano a Macao. E poi, i portoghesi di saudade se ne intendono forse più di chiunque altro.

Fu una libera scelta del Portogallo, una piccola nazione, a quei tempi una delle più povere in Europa

A Macao ci andavo quasi sempre da solo. Erano momenti tutti miei quelli, di cui avevo bisogno come di una personale e intima ricarica dal caos, dalla volgarità e dall’orgia perenne di cemento e acciaio di Hong Kong. Ma in quel fine anno del 1999 il tempo stava per scadere anche per questo fazzoletto di terra portoghese in Cina. Dopo più di 400 anni, Lisbona l’avrebbe restituita a Pechino. Non si trattava questa volta, come quasi tre anni prima per Hong Kong, della scadenza di un contratto. Fu una libera scelta del Portogallo, una piccola nazione, a quei tempi una delle più povere in Europa e che non aveva ancora visto la ripresa odierna, ben lontana da quella potenza economica globale che possedeva un impero coloniale in grado di rivaleggiare con quelli di Spagna o Inghilterra.

I fuochi d’artificio a Macao in occasione dell’anniversario del ritorno alla Cina.

I portoghesi avevano già abbastanza preoccupazioni a sbarcare il lunario ogni giorno a casa loro per potersi permettere di mantenere un presidio coloniale dall’altra parte della terra, che gli costava uno sproposito. Per questo quando Pechino gli chiese se volessero ridargliela, si decise per un ritorno “soft” di Macao, firmando qualche anno prima un accordo articolato con i cinesi. Quel giorno di 20 anni fa, salendo sull’aliscafo, cercai di prepararmi a dire addio alla Macao portoghese che avevo conosciuto, e profondamente amato: dovevo scrivere un articolo di cronaca sul giorno del ritorno alla Cina. Ne venne fuori una vera e propria dichiarazione d’amore. Quasi postuma, oramai.

UNA ENCLAVE NATA E SVILUPPATASI SUL COMMERCIO

Nata e sviluppatasi sul commercio, Macao, a 70 chilometri di mare dalla modernissima Hong Kong, ebbe origine per un reciproco tornaconto. I portoghesi, all’apice del loro potere e della loro espansione sui mari del mondo, volevano un punto d’appoggio sulla costa cinese per le navi che da Goa, in India, facevano rotta verso il Giappone. I cinesi cercavano qualcuno che li liberasse dalle bande di feroci pirati che imperversavano su quelle coste. Era l’anno 1557: Lisbona, con i suoi cannoni, distrusse i pirati, e Pechino le concesse il permesso di installarsi a Macao. Da allora la storia dei rapporti sino-portoghesi fu una storia pressoché unica nel suo genere, di serene e idilliache cortesie reciproche. E prosegue così ancora oggi, perché Pechino resta molto orgogliosa di questa sua “figlia prediletta e fedele”, contrapponendola con forza alla “ribelle Hong Kong”. Ma in una sorta di provocazione tardiva, proprio in quel giorno fatidico di 20 anni fa, a Macao si erano dati appuntamento tutti i principali protagonisti del dissenso anti-cinese del tempo.

GLI INTELLETTUALI ESILIATI DALLA CINA

Incontrandoli mi sembrò di trovarmi di colpo catapultato sul set di un film sulla Cina di inizio secolo, quando gli intellettuali, esiliati dal Dragone come lo sono ancora oggi, cospiravano per rovesciare l’impero in stanzette buie immerse nel fumo. A Macao quel giorno erano in 60: 60 tra i maggiori dissidenti che da anni stavano cercando di far sentire all’estero una voce ormai da tempo messa a tacere in patria. C’era Yan Jiaqi, il sociologo consigliere dell’ex segretario generale del Partito Zhao Ziyang. E c’era Wang Xizhe, l’autore dell’unico manifesto democratico dell’era di Mao Zedong di cui si sia avuta notizia. Non c’era invece Wei Jingsheng, il più famoso di tutti. Invitato, mi dissero gli organizzatori, «si è rifiutato perché non vuole associarsi. Ci sono diversità tra noi, ma non dovremmo accentuarle», mi spiegò Yan Jiaqi. «Abbiamo scelto Macao, perché e il posto più vicino alla nostra terra, dove tutti vogliamo tornare. L’anno prossimo, dopo che anche Macao sarà tornata alla Cina, non sapremo più dove andare», concluse sconsolato Yan, a cui pochi giorni prima era stato proibito anche l’ingresso a Hong Kong.

I porto-macaensi si riuniscono ancora oggi ogni sera nell’antico e solenne palazzo rosa del Club militar in Avenida da Praja Grande, dove li incontrai

Ma chi non poteva e soprattutto non voleva scappare, invece, erano quel manipolo di “mezzosangue”, i porto-macaensi che si riuniscono ancora oggi ogni sera nell’antico e solenne palazzo rosa del Club militar in Avenida da Praja Grande, dove li incontrai. Per loro non esiste altra patria che Macao. «Possiamo sopravvivere soltanto qui, sulle acque basse e torbide di questa baia», mi disse melanconico l’avvocato Manuel Oporto Fernandez. «Siamo nati tutti da una vecchia storia d’amore tra Oriente e Occidente. Quando l’Europa se ne sarà andata cosa ne sarà di noi?». L’avvocato Oporto si ritrovava, ogni mese, in una vecchia villa dell’isola di Coloane, con molti di quegli “esuli della storia”, per ricordare il passato e la magia di questo posto straordinario «dove gli uomini potevano discutere in pace, e i poeti sognare».

TESTIMONI DI UNA STORIA CHE STAVA PER COMPIERSI

Poi venne la sera di quel giorno fatidico, e io andai con una moltitudine di gente, di colleghi della stampa internazionale, di fotografi e cineoperatori, fino al vicino confine con la Cina dove, esattamente allo scoccare della mezzanotte del 20 dicembre 1999, vedemmo il Pla, l’Esercito Popolare di Liberazione cinese, entrare a Macao. La gente li osservava sfilare in silenzio. Nessuno applaudì. La storia si era compiuta, e noi ne eravamo stati testimoni. Dopo più di quattro secoli, il vecchio Portogallo, e con lui, così ci sembrò, l’intero Occidente, si ritirava in buon ordine e quella che – già allora lo intuivamo – sarebbe stata la nuova Cina protagonista del nuovo millennio che stava per cominciare si faceva largo. Prepotentemente.

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Ritrovato lo scudo di Garibaldi

Era sparito dal museo del Risorgimento di Roma, era nella casa di un architetto.

Era sparito dal Museo del Risorgimento ed è stato ritrovato a casa di un architetto. I carabinieri del Reparto Tutela Patrimonio Culturale e della Stazione di Roma Gianicolense hanno recuperato lo scudo di Garibaldi, dono del popolo siciliano nel maggio del 1878, dopo lo sbarco a Marsala. Dalle indagini, coordinate dalla Procura della Repubblica di Roma, risulta il trafugamento dell’opera sia avvenuto nei primi anni del 2000. Non è ancora chiaro però come lo scudo possa essere sparito dal Museo Nazionale del Risorgimento, per finire poi presso l’abitazione di un architetto romano dove è stata trovato. Lo scudo è un’opera unica nel suo genere: una scultura bronzea policroma di forma circolare, del diametro di 118 cm e del peso di circa 50 chilogrammi, realizzata da Antonio Ximenes, padre del più noto scultore Ettore Ximenes.

DONO ALLA CITTÀ DI ROMA

Nel centro dello scudo, al posto dell’antico brocchetto che serviva per colpire il nemico, sporge da una conchiglia, per l’appunto Caprera, sormontata dalla testa di Giuseppe Garibaldi. Fa da cornice una corona di quercia cinta da un nastro: sulle foglie sono incise le principali battaglie combattute da Garibaldi, da Montevideo e Digione. Lo scudo è diviso in otto raggi, in ognuno dei quali sono incisi gruppi allegorici che riportano gli stemmi delle principali città italiane, oltre ad icone simboliche che rappresentano la Carità, la Giustizia, la Gloria e la Scienza strategica. L’intero scudo è cinto da una corona d’alloro dove sono incisi i nomi di tutti i “Mille” di Marsala. Lo scudo fu donato da Garibaldi alla città di Roma, che lo custodì nel Museo Capitolino, per poi essere trasferito presso il Museo Nazionale del Risorgimento nel Palazzo del Vittoriano, come documentato in vari cataloghi di esposizioni dell’opera, per ultimo nel 1982, in occasione del centenario della scomparsa dell‘Eroe.

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Come l’impeachment mette il turbo alla campagna elettorale di Trump

O con lui o contro di lui: la contrapposizione aiuta i repubblicani nella corsa alle Presidenziali 2020. The Donald pronto alla grande battaglia mediatica. Mentre i dem restano senza leader carismatici. E quattro di loro si sfilano dall'incriminazione.

«L’assalto all’America». «Una vergogna e una disgrazia per il Paese». Anzi di più, un «colpo di Stato» della «sinistra radicale dei democratici nullafacenti». Nei 45 tweet scaricati a caratteri cubitali sul web al via libera all’impeachment della Camera, a Donald Trump è bastato scrivere «pregate per me» perché il repubblicano Barry Loudermilk, deputato per lo Stato della Georgia, lo paragonasse a Gesù: «Nel processo farsa di Ponzio Pilato gli furono concessi più diritti di quanti i democratici non ne abbiano lasciati al presidente americano», ha commentato. La potenza di fuoco del tycoon contro la «messinscena» e la «follia politica assoluta» contro di lui – terzo presidente degli Stati Uniti con l’onta del processo al Senato – è l’arma migliore dei repubblicani per le Presidenziali del 2020.

THE DONALD FISSO AL CENTRO DELL’ATTENZIONE

Si può dire che la corsa di Trump al secondo mandato sia scattata con i 230 sì dei deputati democratici «consumati dall’odio» all’incriminazione per abuso di potere del presidente della (197 i no). Dal 19 dicembre tutta la campagna elettorale del 2020 per la Casa Bianca sarà incentrata sulla «minaccia costante per la sicurezza nazionale», come ha definito Trump la presidente della Camera Nancy Pelosi. Per la controparte, il presidente è il più perseguitato dai nemici democratici. L’inquilino della Casa Bianca più eccentrico della storia degli Usa sarà in ogni caso al centro dell’attenzione, e tutto il resto in secondo piano. Anche come presidente, dal 2017 Trump ha brillato solo per pressapochismo e megalomania: se c’è una cosa che sa far bene, l’unica, è insomma mettersi in mostra.

FARLO MARTIRE È STATO UN REGALO

Anche nella campagna del 2016 il tycoon dell’Apprentice vinse grazie alla spregiudicatezza nella comunicazione: la competizione è il suo ambiente ideale. Farlo martire dell’impeachment è, anche per alcuni democratici, il regalo più grande che gli si potesse fare. Non a caso i repubblicani puntano ad aprire e chiudere il processo al Senato (a maggioranza repubblicana) prima possibile, tra gennaio e febbraio 2020, in modo da procedere come vincitori nella corsa contro il «partito dell’odio». Mentre Trump, che quando ne vale la pena rilancia sempre la posta, vorrebbe trascinare l’impeachment di alcuni mesi, citando in Senato come testimoni proprio Hunter Biden e il padre Joe. Cioè lo sfidante dem alle Presidenziali e la famiglia cuore delle accuse dell’impeachment

Alla Camera i dem si sono dimostrati compatti in larghissima maggioranza, ma non granitici. Al contrario dei repubblicani

LO SCONTRO AIUTA I REPUBBLICANI

Imbastire una campagna mediatica e svergognare i democratici è il programma elettorale di Trump. Un terreno molto scivoloso per i democratici: la stessa ex first lady di Barack Obama, Michelle, è parecchio scettica sulla scelta di Pelosi – pressata dalla maggioranza dei democratici alla Camera – di avviare l’impeachment. Alla votazione, i deputati dem si sono dimostrati compatti in larghissima maggioranza, ma non granitici. Al contrario dei repubblicani che, seppur da sempre in diversi perplessi verso il loro ultimo presidente, hanno fatto tutti quadrato su Trump: un altro vantaggio del clima di contrapposizione creato. Tre deputati democratici si sono invece sfilati dal sì alla prima accusa di abuso di potere, due di loro anche dalla seconda per ostruzionismo al Congresso; un terzo dem dalla seconda accusa.

PER QUALCHE DEM È UN’ESAGERAZIONE

I dissidenti si contano sulle dita: non abbastanza per intaccare la maggioranza semplice che bastava per l’impeachment, ma niente affatto edificanti. Jeff Van Drew, dem per il New Jersey, è stato molto franco: «Così le chance di Trump alle Presidenziali del 2020 si alzano ancora». E dirlo da democratico proprio non aiuta. Un altro campanello d’allarme è il no di Collin Peterson, moderato, rappresentante del Minnesota nel 2016 andato a Trump, sconfitto in passato dai repubblicani: ebbene per Peterson «Trump non ha commesso alcun crimine». Quanti la pensano come lui nel Minnesota, e prima del voto il 3 novembre 2020 oscilleranno tra democratici e repubblicani? L’ex soldato d’élite Jared Golden, deputato per il Maine, ritiene per esempio esagerata l’accusa di ostruzionismo, e non quella di abuso di potere.

Impeachment Trump Usa Presidenziali 2020
Tulsi Gabbard, democratica filorussa, con Bernie Sanders alla campagna presidenziale del 2016. (Getty).

GABBARD, LA DEMOCRATICA PIÙ AMATA DAL CREMLINO

Un’astensione molto imbarazzante, per i democratici privi di un leader carismatico, è arrivata (su entrambi e capi di accusa) dalla giovane deputata e militare Tulsi Gabbard, eletta alle Hawaii. Figlia di un repubblicano, ex soldatessa in Iraq, per welfare e istruzione universali, prima super delegata donna a sostenere Bernie Sanders nel 2016, Gabbard è considerata una stalinista tra i dem: pro Bashar al Assad in Siria, filorussa in politica estera, ora isolata anche nella sinistra radicale per l’impeachment, il soldato Gabbard corre da solo. Ma soprattutto, come ha annunciato, correrà per una nomination alle Presidenziali del 2020. Di lei Hillary Clinton aveva detto che la Russia sta facendo tra i dem quello che fece con Trump tra i repubblicani, aprendo una lite prima con l’interessata poi con Sanders.

PELOSI LEADER SOLO PERCHÉ È L’ANTI-TRUMP

Tutte queste divisioni indeboliscono i democratici. Mentre il Gran old party (Gop) si stringe attorno al corpo estraneo di Trump. È significativo che tra i dem emerga come leader solo la 79enne speaker della Camera: non perché prima donna e prima italo-americana a presiedere l’assemblea legislativa degli Usa, non perché deputata democratica di più alto grado mai ammessa nei Comitati di intelligence, non perché tra le donne dem – insieme a Clinton e Michelle Obama – con più accesso alle informazioni sulla Difesa e sulla Sicurezza nazionale – e tanto meno perché sfidante alle Presidenziali. Pelosi non è candidata alla Casa Bianca né lo è mai stata, è leader perché ha mosso l’impeachment a Trump. Una retorica che, finora, negli States non ha spostato consensi dai repubblicani ai democratici.

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Rifiuti, Rosa: tre milioni e mezzo di euro a Comuni e Province

Tre milioni e mezzo di euro ai Comuni e alle Province per la gestione dei rifiuti. Lo prevede un avviso pubblico, approvato dalla giunta regionale nell’ultima riunione.
“Il nostro intento – commenta l’assessore all’Ambiente ed Energia, Gianni Rosa, che ha proposto la delibera – è quello di supportare il Comune a reprimere i comportamenti incivili di chi abbandona i rifiuti per strada o in aree non idonee. Sono finanziabili, infatti, progetti che incentivano il senso di responsabilità dei cittadini e la vigilanza degli enti preposti”.
Oltre ai sistemi di controllo, il bando assegna contributo agli enti pubblici anche per rimuovere i rifiuti abbandonati e bonificare le aree pubbliche o di interesse pubblico, ripristinando lo stato dei luoghi.
“Questo avviso – aggiunge Rosa – si inserisce nelle azioni che il Dipartimento sta promuovendo non solo per incoraggiare il corretto conferimento dei rifiuti urbani ma anche per realizzare centri di raccolta comunali e intercomunali e sviluppare le pratiche di compostaggio. Si tratta di misure importanti perché la gestione dei rifiuti è giudicata da tempo prioritaria nelle politiche ambientali e per la tutela del territorio”.
Il bando sarà pubblicato sul Bollettino ufficiale della Regione Basilicata.

Matera 2019, ecco il “manifesto artistico poetico partecipato”

“I desideri dei cittadini disegnano il futuro! Dopo Matera 2019” è il titolo del manifesto artistico poetico partecipato, scritto e concertato collettivamente con la guida di Giorgio Barberio Corsetti, Massimo Sigillò Massara e Virgilio Sieni, che sarà presentato questa sera, giovedì 19 dicembre (dalle ore 19.30 alle ore 20.30), in piazza Vittorio Veneto e in piazza San Francesco a Matera.

“I cittadini – si legge in una nota diffusa dalla Fondazione Matera Basilicata 2019 - si racconteranno alla città attraverso un Manifesto artistico poetico partecipato, un testo politico e democratico che diventa un atto collettivo in cui gli stessi cittadini si rendono promotori d’arte e auspicano di continuare a fare cultura e a parteciparla, anche dopo l’esperienza di Matera 2019. Il Manifesto è, infatti, il frutto del lavoro di coloro, cittadini e artisti, che sono stati direttamente coinvolti in alcuni dei progetti e che vogliono immaginare insieme e attivamente nuove pratiche e percorsi di creazione per realizzare una comunità consapevole d’arte partecipata. Il documento è scritto e concertato collettivamente con la guida dei maestri Giorgio Barberio Corsetti e Massimo Sigillò Massara, che hanno lavorato con la comunità per la creazione del Prologo sui Sassi e la Cavalleria Rusticana, andate in scena a Matera a inizio agosto nell’ambito del progetto Abitare l’Opera, e il coreografo Virgilio Sieni, che con i cittadini ha costruito il percorso Thauma. Atlante del gesto nell’ambito del progetto I-DEA dedicato agli archivi”.

Si tratta di “un Manifesto della Partecipazione da restituire alla città di Matera – conclude la nota diffusa dalla Fondazione - recitato, cantato, danzato, declamato attraverso un corteo che avrà inizio da Piazza Vittorio Veneto e terminerà a Piazza San Francesco. Una processione laica di cittadini e artisti che attraverserà la città, cantando le musiche e i cori del Prologo, dal progetto itinerante e immersivo di Giorgio Barberio Corsetti, per culminare con la declamazione pubblica del Manifesto e terminare con le danze collettive di Virgilio Sieni”. 

Putin pronto a cambiare la costituzione per regnare fino al 2030

Il presidente ha detto nella sua tradizionale conferenza stampa fiume di fine anno che è sufficiente un emendamento per togliere il limite di massimo due mandati consecutivi. Secondo la legge in vigore dovrebbe lasciare nel 2024.

La Russia non ha bisogno di una «nuova costituzione» ma alcuni emendamenti sono «possibili», benché non alle «disposizioni fondamentali», ha detto Vladimir Putin nel corso della sua usuale conferenza stampa di fine anno (durata 4 ore e 19 minunti) sottolineando che il termine «consecutivo» riferito ai mandati presidenziali potrebbe però «essere rimosso».

AL POTERE DAL 2000 GRAZIE A DIVERSI ESCAMOTAGE

Putin è stato presidente per due mandati, dal 2000 al 2008; ha poi lasciato la poltrona al fedelissimo Dmitry Medvedev, dal 2008 al 2012 (rimanendo come primo ministro a capo de facto del Paese), facendo intanto passare una legge per allungare il mandato presidenziale da quattro a sei anni; tornato alla presidenza nel 2012, è stato rieletto nel 2018. Il suo attuale incarico terminerà nel 2024, ma come è evidente Putin sta già mettendo le mani avanti.

LA CLAUSOLA DA RIMUOVERE

Il termine «consecutivo» potrebbe essere rimosso dalla disposizione costituzionale che limita il periodo durante il quale la stessa persona può servire come presidente con «due termini consecutivi».

«Ciò che si potrebbe fare per quanto riguarda i mandati in carica è la rimozione della clausola ‘consecutiva’», ha detto Putin quando gli è stato chiesto degli emendamenti che ritiene possano essere fatti alla Costituzione russa.

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Salvini ha violato il suo stesso decreto

L'ex ministro indagato per sequestro e abuso di potere perché ha superato i limiti della norma che lui stesso ha pensato: «Su una nave militare, non trovano applicazione le norme contenute nel cosiddetto Decreto sicurezza bis».

Salvini ha violato il decreto Salvini, o meglio il decreto sicurezza bis. L’ex ministro dell’Interno è indagato per il caso del blocco della nave Gregoretti dal tribunale dei ministri perché ne ha esteso l’applicazione alle navi militari, sconfinando dai suoi poteri ed entrando in quelli dell’apparato della Difesa.

L’articolo 1 del decreto sicurezza bis, che riguarda l’ambito di autorità del ministro dell’Interno.

«ALLE NAVI MILITARI LE NORME NON SI APPLICANO»

«Nel caso in esame, poiché i fatti hanno coinvolto una nave della Guardia Costiera Italiana, e quindi, una nave militare, non trovano applicazione le norme contenute nel cosiddetto Decreto sicurezza bis», ha scritto il Tribunale dei ministri di Catania nella richiesta di autorizzazione a procedere al Senato per Salvini. Il ministro dell’Interno non può infatti vietare l’ingresso, il transito o la sosta a «naviglio militare» o a «navi in servizio governativo non commerciale».

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Salvini ha violato il suo stesso decreto

L'ex ministro indagato per sequestro e abuso di potere perché ha superato i limiti della norma che lui stesso ha pensato: «Su una nave militare, non trovano applicazione le norme contenute nel cosiddetto Decreto sicurezza bis».

Salvini ha violato il decreto Salvini, o meglio il decreto sicurezza bis. L’ex ministro dell’Interno è indagato per il caso del blocco della nave Gregoretti dal tribunale dei ministri perché ne ha esteso l’applicazione alle navi militari, sconfinando dai suoi poteri ed entrando in quelli dell’apparato della Difesa.

L’articolo 1 del decreto sicurezza bis, che riguarda l’ambito di autorità del ministro dell’Interno.

«ALLE NAVI MILITARI LE NORME NON SI APPLICANO»

«Nel caso in esame, poiché i fatti hanno coinvolto una nave della Guardia Costiera Italiana, e quindi, una nave militare, non trovano applicazione le norme contenute nel cosiddetto Decreto sicurezza bis», ha scritto il Tribunale dei ministri di Catania nella richiesta di autorizzazione a procedere al Senato per Salvini. Il ministro dell’Interno non può infatti vietare l’ingresso, il transito o la sosta a «naviglio militare» o a «navi in servizio governativo non commerciale».

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Grave incidente stradale per Lapo Elkann in Israele

L'erede di casa Agnelli ricoverato in reparto emergenze in coma per uno scontro avvenuto una decina di giorni fa. Ora sta meglio: «Adesso voglio impegnarmi a fare del bene».

Lapo Elkann ha avuto un grave incidente d’auto una decina di giorni fa a Tel Aviv, tappa di un viaggio in Israele. È stato ricoverato in reparto emergenze in coma. Ora è ritornato in Europa ed è in convalescenza. «Ringrazio Dio e i medici», ha commentato Lapo.

SOLO IN AUTO, LA DINAMICA NON CHIARA

Lapo stava tornando a Tel Aviv da Gerusalemme, dove aveva visitato il Muro del Pianto. Al momento dell’incidente, di cui non è chiara la dinamica, era solo in auto. Non sarebbero rimaste coinvolte altre persone. Il nipote dell’Avvocato Agnelli, fratello del presidente di Fca e Exor John Elkann, è ora convalescente in un ospedale della Svizzera.

«DEDICHERÒ IL MIO TEMPO A FARE DEL BENE»

«Voglio innanzitutto ringraziare Dio, e poi i medici israeliani e quelli europei. Voglio pregare per i ragazzi giovani che ho visto morire in Israele accanto a me nei letti delle emergenze dell’ospedale, gli amici che mi sono stati vicini, la mia famiglia», ha detto Lapo in una videochiamata al Corriere della Sera, «voglio ringraziare Dio di avermi dato la possibilità di ridarmi la vita. Voglio dedicare il mio tempo, il mio cuore e risorse economiche a fare del bene occupandomi della mia Onlus, che non è un capriccio da bambino viziato. Umanamente Lapo Elkann non è come lo descrivono gli altri ma un uomo con il cuore aperto e che ha voglia di fare del bene. Con l’incidente ho capito che è questo il mio nuovo motto di vita».

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Grave incidente stradale per Lapo Elkann in Israele

L'erede di casa Agnelli ricoverato in reparto emergenze in coma per uno scontro avvenuto una decina di giorni fa. Ora sta meglio: «Adesso voglio impegnarmi a fare del bene».

Lapo Elkann ha avuto un grave incidente d’auto una decina di giorni fa a Tel Aviv, tappa di un viaggio in Israele. È stato ricoverato in reparto emergenze in coma. Ora è ritornato in Europa ed è in convalescenza. «Ringrazio Dio e i medici», ha commentato Lapo.

SOLO IN AUTO, LA DINAMICA NON CHIARA

Lapo stava tornando a Tel Aviv da Gerusalemme, dove aveva visitato il Muro del Pianto. Al momento dell’incidente, di cui non è chiara la dinamica, era solo in auto. Non sarebbero rimaste coinvolte altre persone. Il nipote dell’Avvocato Agnelli, fratello del presidente di Fca e Exor John Elkann, è ora convalescente in un ospedale della Svizzera.

«DEDICHERÒ IL MIO TEMPO A FARE DEL BENE»

«Voglio innanzitutto ringraziare Dio, e poi i medici israeliani e quelli europei. Voglio pregare per i ragazzi giovani che ho visto morire in Israele accanto a me nei letti delle emergenze dell’ospedale, gli amici che mi sono stati vicini, la mia famiglia», ha detto Lapo in una videochiamata al Corriere della Sera, «voglio ringraziare Dio di avermi dato la possibilità di ridarmi la vita. Voglio dedicare il mio tempo, il mio cuore e risorse economiche a fare del bene occupandomi della mia Onlus, che non è un capriccio da bambino viziato. Umanamente Lapo Elkann non è come lo descrivono gli altri ma un uomo con il cuore aperto e che ha voglia di fare del bene. Con l’incidente ho capito che è questo il mio nuovo motto di vita».

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Il disastro di Conte e Di Maio all’ombra della crisi libica

Il premier e il suo ministro non si sono accorti che il quadro nel Paese è radicalmente cambiato. E lasciando strada a Russia e Turchia condannano l'Italia all'irrilevanza.

In una guerra combattuta solo chi combatte armi alla mano può trovare una soluzione politica. Purtroppo né il dilettante Luigi di Maio, né “l’avvocato del popolo” Giuseppe Conte se ne rendono minimamente conto e continuano a cercare una “soluzione politica” per il caos libico, sostanzialmente parlando d’altro, senza neanche accorgersi che il quadro libico è radicalmente cambiato. Pure, Fayez al Serraj il 17 dicembre a Tripoli è stato molto chiaro e a un Di Maio che continuava a fantasticare di una soluzione politica ha bruscamente ricordato che il suo governo ormai è in guerra –guerra vera- che non ha nessuna intenzione di soccombere. E siccome abbisogna di armi le chiede a chi gliele vuol dare: la Turchia.

PRIMA LA BATTAGLIA DI TRIPOLI, POI LA SOLUZIONE POLITICA

La “soluzione politica” verrà solo quando e se la battaglia di Tripoli sarà vinta e Khalifa Haftar se ne tornerà sconfitto a Bengasi. Non prima. E di Maio è affogato nelle sue frasi vuote. Di Maio e Conte hanno una sola scusante: la diafana inconsistenza di un’Unione europea che continua a convocare vertici inutili lasciando tutto lo spazio reale di intervento ai due nuovi “domini” della Libia: la Russia e la Turchia. Approfittando del lassismo europeo e del disinteresse europeo e italiano (Conte si occupò direttamente di Libia nel lontano dicembre 2018, poi più nulla, Di Maio se ne occupa solo ora, con quattro mesi di ritardo), Vladimir Putin e Tayyip Erdogan hanno modificato radicalmente lo scenario libico. Hanno inviato forze militari rispettivamente a Bengasi e a Tripoli che hanno chiuso la lunga fase durata otto anni che vedeva gli avversari, le etnie e le tribù libiche schierate con Bengasi o con Tripoli, in un sostanziale equilibrio. Si è aperta una fase di guerra guerreggiata con escalation da tutte le due parti garantite dai due padrini esterni: Mosca e Ankara, i veri, nuovi, protagonisti della crisi libica.

LE MOSSE DI MOSCA E ANKARA

I finanziamenti russi ad Haftar che gli permettono di assoldare 18 mila miliziani subsahariani e le centinaia di contractor russi della agenzia Wagner dell’amico personale di Putin Evgheni Prighozin –straordinari combattenti- gli hanno finalmente consentito di penetrare dentro Tripoli, dopo che la sua offensiva iniziata ad aprile si era incagliata. Di contro, il governo di Tripoli di al Sarraj ha contrastato questa escalation militare e siglato il 27 novembre un patto sulle acque territoriali con Erdogan, a seguito del quale la Turchia ha inviato efficienti droni di combattimento e un nutrito drappello di militari, comandati dal generale turco Irfan Tur Ozsert e inviato gli efficienti droni-bombardieri Bayraktar (prodotti dal genero di Erdogan).

L’escalation russo-turca si sviluppa con forza, pur senza strappi, ma a tutto vantaggio di Haftar

L’escalation russo-turca si sviluppa con forza, pur senza strappi, ma a tutto vantaggio di Haftar, che è penetrato dentro Tripoli, a soli nove chilometri dalla piazza dei Martiri, e che avanza lentamente solo perché non ha uomini sufficienti per presidiare stabilmente i quartieri conquistati. Al Sarraj per ora non ha richiesto a Erdogan l’invio dei promessi 5 mila militari turchi, ma non è escluso affatto che non lo faccia un domani prossimo a fronte di una sconfitta oggi probabile. Con tutta evidenza è in atto una trattativa politica, che però esclude drasticamente sia l’Italia che l’Europa, ed è quella in corso esclusivamente tra Putin ed Erdogan, che si parlano quasi quotidianamente e si accingono a decidere le sorti del conflitto, forse dopo una ulteriore e definitiva escalation, quella sanguinosa “battaglia per Tripoli” che lo stesso inviato dell’Onu Ghassan Salamè ha annunciato come più che possibile e imminente.

IL DISASTRO DELL’ITALIA (E DELL’EUROPA)

Insomma, vi sono tutti i segni del fatto disastroso che ormai l’Italia non conta più nulla in Libia –per responsabilità diretta di Conte e anche di Di Maio- che sempre più i giochi verranno decisi solo ed esclusivamente tra Mosca e Ankara. Con buona pace dell’imbelle Europa. Un disastro epocale che matura peraltro nel tombale silenzio complice di un Pd che pure solo due anni fa aveva in Marco Minniti il “dominus” della crisi libica.

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Il disastro di Conte e Di Maio all’ombra della crisi libica

Il premier e il suo ministro non si sono accorti che il quadro nel Paese è radicalmente cambiato. E lasciando strada a Russia e Turchia condannano l'Italia all'irrilevanza.

In una guerra combattuta solo chi combatte armi alla mano può trovare una soluzione politica. Purtroppo né il dilettante Luigi di Maio, né “l’avvocato del popolo” Giuseppe Conte se ne rendono minimamente conto e continuano a cercare una “soluzione politica” per il caos libico, sostanzialmente parlando d’altro, senza neanche accorgersi che il quadro libico è radicalmente cambiato. Pure, Fayez al Serraj il 17 dicembre a Tripoli è stato molto chiaro e a un Di Maio che continuava a fantasticare di una soluzione politica ha bruscamente ricordato che il suo governo ormai è in guerra –guerra vera- che non ha nessuna intenzione di soccombere. E siccome abbisogna di armi le chiede a chi gliele vuol dare: la Turchia.

PRIMA LA BATTAGLIA DI TRIPOLI, POI LA SOLUZIONE POLITICA

La “soluzione politica” verrà solo quando e se la battaglia di Tripoli sarà vinta e Khalifa Haftar se ne tornerà sconfitto a Bengasi. Non prima. E di Maio è affogato nelle sue frasi vuote. Di Maio e Conte hanno una sola scusante: la diafana inconsistenza di un’Unione europea che continua a convocare vertici inutili lasciando tutto lo spazio reale di intervento ai due nuovi “domini” della Libia: la Russia e la Turchia. Approfittando del lassismo europeo e del disinteresse europeo e italiano (Conte si occupò direttamente di Libia nel lontano dicembre 2018, poi più nulla, Di Maio se ne occupa solo ora, con quattro mesi di ritardo), Vladimir Putin e Tayyip Erdogan hanno modificato radicalmente lo scenario libico. Hanno inviato forze militari rispettivamente a Bengasi e a Tripoli che hanno chiuso la lunga fase durata otto anni che vedeva gli avversari, le etnie e le tribù libiche schierate con Bengasi o con Tripoli, in un sostanziale equilibrio. Si è aperta una fase di guerra guerreggiata con escalation da tutte le due parti garantite dai due padrini esterni: Mosca e Ankara, i veri, nuovi, protagonisti della crisi libica.

LE MOSSE DI MOSCA E ANKARA

I finanziamenti russi ad Haftar che gli permettono di assoldare 18 mila miliziani subsahariani e le centinaia di contractor russi della agenzia Wagner dell’amico personale di Putin Evgheni Prighozin –straordinari combattenti- gli hanno finalmente consentito di penetrare dentro Tripoli, dopo che la sua offensiva iniziata ad aprile si era incagliata. Di contro, il governo di Tripoli di al Sarraj ha contrastato questa escalation militare e siglato il 27 novembre un patto sulle acque territoriali con Erdogan, a seguito del quale la Turchia ha inviato efficienti droni di combattimento e un nutrito drappello di militari, comandati dal generale turco Irfan Tur Ozsert e inviato gli efficienti droni-bombardieri Bayraktar (prodotti dal genero di Erdogan).

L’escalation russo-turca si sviluppa con forza, pur senza strappi, ma a tutto vantaggio di Haftar

L’escalation russo-turca si sviluppa con forza, pur senza strappi, ma a tutto vantaggio di Haftar, che è penetrato dentro Tripoli, a soli nove chilometri dalla piazza dei Martiri, e che avanza lentamente solo perché non ha uomini sufficienti per presidiare stabilmente i quartieri conquistati. Al Sarraj per ora non ha richiesto a Erdogan l’invio dei promessi 5 mila militari turchi, ma non è escluso affatto che non lo faccia un domani prossimo a fronte di una sconfitta oggi probabile. Con tutta evidenza è in atto una trattativa politica, che però esclude drasticamente sia l’Italia che l’Europa, ed è quella in corso esclusivamente tra Putin ed Erdogan, che si parlano quasi quotidianamente e si accingono a decidere le sorti del conflitto, forse dopo una ulteriore e definitiva escalation, quella sanguinosa “battaglia per Tripoli” che lo stesso inviato dell’Onu Ghassan Salamè ha annunciato come più che possibile e imminente.

IL DISASTRO DELL’ITALIA (E DELL’EUROPA)

Insomma, vi sono tutti i segni del fatto disastroso che ormai l’Italia non conta più nulla in Libia –per responsabilità diretta di Conte e anche di Di Maio- che sempre più i giochi verranno decisi solo ed esclusivamente tra Mosca e Ankara. Con buona pace dell’imbelle Europa. Un disastro epocale che matura peraltro nel tombale silenzio complice di un Pd che pure solo due anni fa aveva in Marco Minniti il “dominus” della crisi libica.

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L’Italia nell’eterno gran ballo della legge elettorale da riformare

Maggioranza e opposizioni al tavolo per trovare un'intesa. Sarebbe il quinto nuovo sistema per votare dal 1994 a oggi. L'Italicum entrato in vigore senza mai essere applicato, il Rosatellum che non vuole più nessuno e il confronto con gli altri Paesi europei: storia di una giostra caotica tutta nostrana.

Per alcuni è una questione tecnica, che «non interessa agli italiani», per altri ha il potere di far cadere governi. Fatto sta che la legge elettorale è un grande classico nel dibattito politico. A ogni legislatura c’è l’estenuante confronto per riformarla. Dal 1994 in poi si sono susseguiti quattro diversi sistemi, in attesa del quinto dato in arrivo nel 2020. Addirittura uno di questi, l’Italicum, è entrato in vigore senza mai essere applicato. Una giostra in continuo movimento, che rappresenta un caso pressoché unico tra i grandi Paesi europei.

IL ROSATELLUM: MISTO FRA UNINOMINALE E PROPORZIONALE

Per cercare una soluzione definitiva è scattato l’ennesimo confronto alle Camere, spinto in particolare dall’approvazione del taglio del numero di parlamentari (che ora però deve passare per il vaglio del referendum confermativo). Il motivo? Serve un sistema in grado di garantire rappresentanza. Le elezioni 2018 si sono svolte con la legge Rosato, meglio nota come Rosatellum, sistema misto tra collegi uninominali, che elegge il 37% dei parlamentari, collegati alla parte proporzionale, che elegge l’altro 61%, a cui si somma il 2% di eletti all’estero. Ma su questa norma pende il giudizio della Corte costituzionale, che deve pronunciarsi sui quesiti referendari promossi dalla Lega per cancellare la parte proporzionale. E rendere la legge un maggioritario puro. Quindi, si gioca su un doppio fronte: quello parlamentare e l’altro referendario.

VERTICE MAGGIORANZA-OPPOSIZIONI: SOGLIA DI SBARRAMENTO AL 4%?

Giovedì 19 dicembre maggioranza e opposizioni si sono sedute al tavolo per cercare un’intesa ampia. La proposta in campo è quella di un proporzionale corretto. Una cornice generale in cui vanno inseriti gli elementi fondamentali, a cominciare dalla soglia di sbarramento: Pd e M5s vorrebbero fissarla al 5%, mentre gli alleati preferirebbero che fosse più bassa, meglio se al 3%. «L’accordo si troverà sul 4%», è la previosione “matematica” di una fonte parlamentare della maggioranza. Il leghista Roberto Calderoli, dopo aver partecipato al vertice nello studio del presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera Giuseppe Brescia, ha spiegato: «Noi non siamo aprioristicamente contrari a nulla, l’importante è che si faccia una legge e si torni presto alle urne». Mentre Pier Luigi Bersani (oggi Articolo uno) in un’intervista a Il Fatto Quotidiano si è detto addirittura disposto a qualiasi «inciucione» pur di non votare col Rosatellum.

SPAGNA: RIPARTIZIONE PER CIRCOSCRIZIONI

Il nodo da sciogliere è la modalità per l’elezione dei parlamentari: la spinta va verso il sistema spagnolo, ossia la ripartizione dei seggi sulla base della circoscrizione. In questo ogni circoscrizione (in Spagna corrispondono alle province) è una competizione a sé. La soglia di sbarramento è fissata al 3% su base circoscrizionale, ma tende a formarsi uno sbarramento implicito in base all’ampiezza delle stesse circoscrizioni (meno sono i seggi da ripartire, meno sono le liste che li ottengono). In questo senso vengono premiate le forze con maggiore radicamento in determinate regioni: perfetto per un Paese come la Spagna.

GERMANIA: SOGLIA AL 5% E MECCANISMO MISTO

Il sistema tedesco, più volte citato nel dibattito politico italiano, prevede invece una soglia di sbarramento al 5% al livello nazionale con un meccanismo misto tra collegi uninominali e proporzionale.

REGNO UNITO: MAGGIORITARIO SECCO ALLA MATTARELLUM

L’esperienza britannica è quella che in Italia è stata in parte sperimentata con il Mattarellum: c’è un maggioritario secco, chi consegue più voti nel collegio entra in parlamento.

FRANCIA: DOPPIO TURNO PER CHI SUPERA IL 12,5%

Anche in Francia c’è un sistema maggioritario, ma a doppio turno: i candidati che superano il 12,5% al primo turno possono partecipare al secondo. Una lieve differenza rispetto alle elezioni presidenziali che mandano al ballottaggio i due candidati più votati. Insomma un quadro vario tra i vari Paesi, che però hanno un punto in comune e mettono l’Italia dietro la lavagna: le leggi elettorali non cambiano a distanza di pochi anni. E nemmeno a ridosso del voto.

DALLA SECONDA REPUBBLICA UNA GIOSTRA CONTINUA

L’alternanza di leggi elettorali è infatti da capogiro: dalla Seconda Repubblica in poi è un ballo continuo; con un sensibile peggioramento negli ultimi cinque anni. Nella Prima Repubblica l’Italia ha avuto un sistema elettorale proporzionale, con i seggi ripartiti in base alle percentuali di voto. Per quasi 50 anni è stato una certezza, anche se va conteggiata la parentesi della “legge truffa” del 1953, che istituiva un premio di maggioranza alla lista in grado di superare il 50%.

VECCHIE ACCUSE: ECCESSO DI FRAMMENTAZIONE

Dopo quelle elezioni, però, è tornata la vecchia legge, che negli Anni 90 è finita sotto accusa per eccesso di frammentazione. La rumba delle continue modifiche è iniziata nel 1994, con l’entrata in vigore del Mattarellum (l’estensore è stato Sergio Mattarella, 20 anni prima dell’ascesa al Quirinale), assecondando l’esito di un referendum del 1993. Il sistema era principalmente maggioritario con il 75% dei seggi assegnati in collegi uninominali e il restante su base proporzionale.

LA PORCATA DI CALDEROLI: USATA PER TRE ELEZIONI

La riforma ha regolato tre tornare elettorali (1994, 1996, 2001), ma dopo aver superato i 10 anni è stata cancellata. La maggioranza di centrodestra, nel 2005, ha varato il Porcellum, chiamato così perché il leghista ideatore della legge, Calderoli, aveva usato la definizione di «porcata» per descriverla. Nonostante l’etichetta tutt’altro che nobile, si sono svolte altre tre elezioni politiche (2006, 2008, 2013) con questo meccanismo che prevedeva un proporzionale con premio di maggioranza alla coalizione più votata alla Camera (mentre al Senato la ripartizione, anche dei premi, avveniva su base regionale).

LA LEGGE RENZIANA DECAPITATA DALLA CONSULTA

Dopo un ricorso alla Consulta, che ha dichiarato illegittimi alcuni punti del Porcellum, il tritacarne di sistemi elettorali ha aumentato i giri. L’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha spinto per l’approvazione dell’Italicum, una legge su base proporzionale con premio di maggioranza alla lista (ed eventuale ballottaggio in caso di mancato raggiungimento del 40% al primo turno). La riforma è entrata in vigore, ma gli italiani non hanno mai votato con questo sistema: un nuovo pronunciamento della Corte costituzionale ha di fatto decapitato l’Italicum. Così, a pochi mesi delle Politiche del 2018, il vuoto normativo è stato riempito con il Rosatellum. In attesa dell’ennesima riforma, la quinta in 25 anni. Salvo sorprese.

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